finanza – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La finanza è guerra https://www.carmillaonline.com/2023/12/03/la-finanza-e-guerra/ Sun, 03 Dec 2023 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80208 di Silvano Cacciari

[La finanza è guerra (La Casa Usher, 2023) di Silvano Cacciari, nasce all’inizio del 2012 come progetto Underworld, su un piano di ricerca eloquente -tribalismo e guerra finanziaria senza limiti- in piena crisi del debito sovrano europeo che, all’epoca, altro non era che uno degli effetti collaterali del grande crack di Lehman Brothers. L’intenzione con Lorenzo Giudici, il responsabile della collana “il balzo di tigre” della casa Usher, era di dare vita ad un testo che portasse alla luce la natura non certo tecnica ma antropologica dei conflitti finanziari che, nelle nostre società’, sorgono con la nascita dello [...]]]> di Silvano Cacciari

[La finanza è guerra (La Casa Usher, 2023) di Silvano Cacciari, nasce all’inizio del 2012 come progetto Underworld, su un piano di ricerca eloquente -tribalismo e guerra finanziaria senza limiti- in piena crisi del debito sovrano europeo che, all’epoca, altro non era che uno degli effetti collaterali del grande crack di Lehman Brothers. L’intenzione con Lorenzo Giudici, il responsabile della collana “il balzo di tigre” della casa Usher, era di dare vita ad un testo che portasse alla luce la natura non certo tecnica ma antropologica dei conflitti finanziari che, nelle nostre società’, sorgono con la nascita dello stato moderno.
Da allora un lavoro di ricerca incessante – su fonti storiche, digitali, di mercato, legate alle strategie di borsa come sui classici dell’antropologia – che è sfociato in questo testo, uscito pochi giorni fa. E’ un lavoro che si divide in tre sezioni: la prima è dedicata all’antropologia dei conflitti finanziari senza fine; la seconda all’intreccio di tattiche e tecnologie tra guerra a finanza; la terza al terremoto che questa dimensione del dominio provoca.
L’anticipazione che qui pubblichiamo – ringraziando l’editore per la gentile concessione – riguarda l’inizio del quarto capitolo, seconda sezione, dedicata all’ibridazione tra finanza e guerra, che definisce il piano antropologico, e tecnologico, nel quale si gioca la guerra finanziaria senza limiti, quella finora sfuggita sia alla teoria politica che a molta analisi tecnica di mercato. – p.l.]

Capitolo 4. La guerra finanziaria senza limiti: verso lo spazio non naturale

“Ormai esistono operazioni di guerra non militari che ampliano la nostra percezione di ciò che, esattamente, costituisce uno stato di guerra esteso a tutti i campi dell’attività umana” , Qiao Liang, Wang Xiansui, colonnelli dell’Esercito Popolare Cinese, “Guerra senza limiti”.

Lo sguardo antropologico ci ha permesso di definire le pratiche, il simbolico e la materialità della guerra finanziaria permanente operata dal tribalismo di borsa. Dobbiamo ora rivolgerci al piano di ibridazione di tecnologie, tattiche, guerra e finanza che identifica la nuova realtà nella quale vengono dominati politica, economia e società, cioè lo spazio non naturale col quale si comprende come la tradizionale geografia politica sia costretta a guardare ad uno spazio tecnologico assente in natura per conoscere il proprio destino.
Il campo di forza detto guerra finanziaria è la superficie sulla quale evolve il tribalismo di borsa: un terreno di dominio senza limiti entro uno spazio non naturale senza limiti se non quelli dell’evoluzione tecnologica.
Ecco la vera novità materiale e teorica per la politica dei primi decenni del XXI secolo, qualcosa di più potente del semplice fenomeno sociale da regolare e di più complesso della naturale evoluzione tecnologica al servizio della finanza e dei mercati.

Si tratta di un campo e di uno spazio nei quali si gioca una guerra anch’essa senza limiti, in una dimensione nella quale tattiche di guerra sul campo e di guerra finanziaria finiscono per ibridarsi. E qui non si sa se c’è più da stupirsi per la complessità nella quale finanza, guerra e tecnologia si sono sovrapposte che per la velocità con la quale tutto questo è avvenuto e in un modo che ricorda la pirateria ma, mentre questa si presentava come atto aggressivo attraverso l’abbordaggio, oggi un comportamento apparentemente pacifico e civile come la vendita di azioni può essere il fatto ostile che prelude all’abbordaggio di una azienda o di uno stato.

C’è una scena del Crollo dei giganti di Curtis Hanson (2011) – la riduzione cinematografica di un instant book sulle trattative che hanno preceduto il crollo di Lehman Brothers – davvero esemplare in proposito. Siamo a Wall Street nei giorni che precedono la dichiarazione di fallimento di Lehman e due trader di alto rango scendono dalla loro limousine con i vetri oscurati. Entrambi sono inquadrati quasi di spalle, ma mentre si intuisce che il primo ha un aspetto tranquillo, come si può essere in un giorno qualsiasi di lavoro di borsa, l’altro è visibilmente turbato. Il primo trader dice all’altro “Che cos’hai? Non siamo in Iraq, questa è Wall Street, New York”, ricordando al collega che non stanno piovendo bombe e che quindi le strade, i grattacieli e i ristoranti di lusso alla fine della giornata di lavoro ci saranno ancora.
L’altro trader, quello scosso e turbato, lo guarda e annuisce senza convinzione. La scena è interessante perché associa due piani teoricamente separati che tendono invece a somigliarsi terribilmente. Nel film di Hanson, infatti, la finanza non è più un contesto al quale applicare metafore di guerra e nemmeno più solo un fenomeno che provoca eventi bellici, ma diviene un piano di realtà che si avvicina in modo tale alla guerra da non poterla più definire una metafora del mondo finanziario, ma piuttosto il terreno in cui si evidenzia la loro comune natura. Il disorientamento del trader davanti a Wall Street è comprensibile: nel suo ordine mentale, la guerra era sempre stata una metafora dalla quale estrarre suggerimenti, tattiche, aggettivazioni, ispirazioni per leggere i comportamenti finanziari.

Improvvisamente i confini si confondono: nausea, disorientamento, vertigini sono il registro soggettivo dell’ordine collettivo, cognitivo e simbolico di una partizione di realtà venuta meno. Una partizione saltata che significa che la finanza non è più protetta dagli effetti della guerra, che anche a Wall Street si distrugge, che crollano i giganti e non solo i risparmi delle casalinghe o dei taxisti sacrificati di norma in queste crisi.
Certo, era già accaduto nell’800, nel 1906-7, nel ’29, nell’87, nel ’98, nel 2001 e in molti altri crolli “minori”, ma il pianeta è cambiato e il mondo che emerge dal 2008 di Lehman Brothers è quello di una guerra finanziaria senza limiti, dotata di potenza distruttiva della morfologia di intere società, sia attraverso le mutazioni della sfera della guerra che di quelle della finanza.

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Note di carattere militare sulla disfatta occidentale in Afghanistan https://www.carmillaonline.com/2021/09/02/su-alcuni-aspetti-militari-della-disfatta-occidentale-in-afghanistan/ Thu, 02 Sep 2021 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67937 di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un [...]]]> di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un bambino afghano pochi giorni prima di rimanere uccisa nell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto. Ma ciò che si vuole fare qui non è la solita cronaca, pietistica e inutilmente retorica, cui ci ha abituato la narrazione mediatica degli ultimi eventi afghani.

Quella foto e quella notizia devono farci riflettere, invece e soprattutto, sul piano storico e militare, poiché la soldatessa americana, a conti fatti, doveva avere all’incirca 3 anni quando gli USA invasero l’Afghanistan con la scusa di colpire gli organizzatori dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.
Vent’anni dopo, Nicole Gee è morta nella stessa guerra, non a caso indicata come quella più lunga combattuta dagli Stati Uniti nel corso della loro storia.

Se si esclude la guerra dei Trent’anni, scatenatasi in Europa tra il 1618 e il 1648, forse in nessun’altra guerra degli ultimi quattrocento anni è capitato che chi fosse nato durante o all’inizio della stessa facesse in tempo a farsi ammazzare nel corso della medesima. Si intenda: come militare poiché, è chiaro, i civili di ogni genere ed età fanno sempre in tempo a cadere come vittime in qualunque istante di qualsiasi conflitto.

Un conflitto, quello afghano, che sembra essere stato vissuto in modi discordanti sui due fronti, come spesso capita nelle guerre in cui si fronteggiano i rappresentanti dell’occupazione coloniale straniera da un lato e i partigiani della resistenza dall’altro, poiché il tempo gioca quasi sempre a favore dei secondi, nonostante le maggiori sofferenza e distruzioni subite dal popolo invaso. Soprattutto là dove la differenza culturale ed economica crea percezioni del tempo estremamente diverse, in cui la “fretta” partorita da una modernità sempre più digitalizzata si scontra con i “tempi lunghi” di società ritenute arcaiche. Che, però, proprio per questo motivo, possono affidarsi a intense campagne di primavera per poi sparire nel nulla in autunno, in una ciclicità che è più vicina ai tempi della Natura, dell’agricoltura e della pastorizia che a quelli dell’obiettivo immediato di carattere industriale e capitalistico.

Anche per tale motivo la moria di giovani soldati americani, che erano da poco nati oppure ancora neonati quando ebbe inizio la cosiddetta “guerra al terrore”, ci parla di qualcos’altro. Ci racconta la storia di una sconfitta annunciata, fin dalle prime battute recitate dagli attori di un dramma in cui, complessivamente, sono stati due milioni i soldati americani mandati a combattere, in Iraq e in Afghanistan. Si calcola, inoltre, che di questi due milioni una percentuale tra il 20 e il 30 per cento sia rientrata con un disturbo da stress post-traumatico, cioè un problema mentale provocato dall’aver vissuto situazioni belliche particolarmente intense o drammatiche, una ferita psicologica anziché fisica. E le conseguenze sono depressione, ansia, insonnia, incubi, disturbi della memoria, cambiamenti di personalità, pensieri suicidi. Ovvero: esistenze spezzate, relazioni in frantumi. Cinquecentomila veterani mentalmente feriti, un numero impressionante, una percentuale più alta rispetto ai conflitti precedenti1.

Quasi sicuramente, tra i più di 2.300 caduti e 12.500 feriti americani in Afghanistan, anche altri devono aver subito lo stesso destino di Nicole Gee2, anche se le perdite americane nello stesso conflitto, escluse quelle del 26 agosto 2021, erano decisamente diminuite dopo il 2013. Ma ciò che ci segnala simbolicamente questa morte è l’eccessiva e inutile durata di un conflitto che, nonostante le almeno 35.000 vittime civili3 (mentre il «Corriere della sera» del 31 agosto ne riporta 47mila), non ha dato risultati politici concreti e nemmeno economici, se non sul piano della spesa militare interna statunitense, tutta a vantaggio delle complesso industriale legato alla produzione di armi e tecnologia fornite all’esercito, all’aviazione e alla marina degli Stati Uniti (e ai suoi fornitori esteri) oppure ai grandi speculatorii della finanza internazionale.

La guerra che non si poteva vincere, come ora la definiscono in tanti, è costata agli Stati Uniti, dall’invasione del 7 ottobre 2001 a oggi, 2.313 miliardi di dollari: una cifra che si fa fatica anche ad immaginare.
[…] Nella maggior parte delle ricostruzioni il «prezzo» del conflitto si ferma a 815,7 miliardi di dollari, perché quello è l’ultimo report del 2020 del dipartimento della Difesa. Una cifra che copre le spese operative, dal cibo per i soldati al carburante per i mezzi, dalle armi alle munizioni, dai carri armati agi aerei. Ma non conta gli interessi già pagati sugli ingenti prestiti che Washington ha contratto per finanziare le operazioni, l’assistenza ai reduci – costi che continueranno a crescere negli anni a venire – i miliardi di aiuti umanitari e soprattutto per il nation building. Dall’addestramento delle truppe alla costruzione delle strade, scuole e altre infrastrutture, questa parte ha richiesto 143 miliardi dal 2002 ad oggi, secondo lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar).
Proprio il rapporto dell’ispettore generale spiega come tanti di quei soldi siano andati in fumo – scuole e ospedali vuoti, autostrade e dighe in rovina – per l’incapacità del governo americano di affrontare la piaga della corruzione degli alleati afghani, da Hamid Karzai all’ultimo presidente Ashraf Ghani (che non a caso è scappato con un gigantesco malloppo appena Kabul è caduta4.

Tutto senza tenere conto delle spese nel confinante Pakistan, utilizzato come base logistica e militare per le operazioni, e del fatto che i progetti di aiuto hanno visto come beneficiari organizzazioni internazionali e istituzioni afghane con base nelle città più importanti, soprattutto Kabul, dimenticando che la stragrande maggioranza della popolazione afghana vive, lontana dalle città, di agricoltura e pastorizia, settori cui è stata riservata invece una percentuale insignificante del totale. Scelta che ha contribuito ad una ancor più rapida urbanizzazione della capitale, portandola ad essere la settantacinquesima città più popolosa al mondo (con circa 5 milioni di abitanti), con un territorio di 1.023 km² e una densità di circa 4.200 abitanti per km², nonostante la popolazione afghana sia di 38 milioni di abitanti su un territorio grande più del doppio dell’Italia (652.864 km²) e con una densità media abitativa di un quarto circa di quella italiana.

Questi dati ci dicono due cose: la prima è che gran parte del territorio afghano è troppo poco abitato per far sì che le moderne tecnologie belliche abbiano effetto duraturo. Non si può bombardare il nulla e il poco, al massimo si possono uccidere e terrorizzare momentaneamente villaggi, famiglie, aree ristrette, dopo di che la resistenza riprenderà più ostinata.

Non per nulla l’Afghanistan è stato definito la tomba degli imperi e, tralasciando le disastrose esperienze già toccate agli inglesi e ai russi nel corso dell’Ottocento e del Novecento, può essere utile ricordare che anche Alessandro Magno, nel corso della sua marcia verso i confini dell’India e del mondo conosciuto, dovette condurre per tre anni una feroce e non risolutiva lotta contro la resistenza incontrata nella Battriana (corrispondente in gran parte all’attuale Afghanistan settentrionale), allora compresa nei confini dell’impero persiano che il giovane condottiero andava rivendicando per sé dopo aver sconfitto e costretto alla fuga Dario.

Soprattutto tra le steppe desertiche e le catene montuose dell’Hindu Kush, che ancora tagliano in due il paese, saldandosi verso nord-est con i massicci del Pamir e del Karakorum, mentre a sud-est si congiungono con i monti Sulaiman, la guerra americana si è caratterizzata principalmente, fin dai primi anni, per le truppe rinchiuse nei fortini sparsi per il paese e le città, da cui uscire per brevi e comunque pericolose missioni di perlustrazione oppure per gli assassini mirati messi in atto con elicotteri, droni e missili sparati e diretti da basi poste spesso fuori dallo stesso Afghanistan. Una guerra snervante fatta di perlustrazioni e posti di blocco, in cui troppe volte la paura ha portato i soldati americani a ritorsioni violente su civili disarmati o su intere famiglie, spesso sterminate senza motivo. Una guerra in cui anche gli elicotteri hanno mostrato tutta la loro fragilità durante le azioni diurne, costringendo i comandi ad utilizzare i grandi Black Hawk esclusivamente per uscite notturne affinché non costituissero un facile obiettivo per gli RPG (Rocket Propelled Grenade) della guerriglia.

Una guerra contro un nemico fantasma e invisibile, mostrata in tutta la sua assurdità dal documentario Restrepo, realizzato nel 2010 dal fotoreporter Tim Hetherington e dal giornalista Sebastian Junger, in cui si narrano le vicende di un plotone delle forze armate statunitensi durante un anno di permanenza tra le montagne afghane. Oppure dal libro, di David Finkel, I bravi soldati (Mondadori 2011) che documenta le traversie dei soldati americani in Iraq, di cui dobbiamo qui ricordare il lungo ritiro che si concluderà esattamente come quello afghano: dopo quasi vent’anni e senza aver ottenuto null’altro che la distruzione di un paese (in cui si sarebbe poi formato l’Isis).

La seconda cosa da tener presente, per qualsiasi tipo di valutazione, è che Kabul è una città troppo grande e abitata per poter essere controllata, soprattutto durante una ritirata rapida e affannosa come quella avvenuta in questi giorni.
Dal punto di vista militare, infatti, il combattimento nelle aree urbane, abitate da una popolazione ostile o insorgente, costituisce il vero incubo dei comandi militari: da Stalingrado all’insurrezione di Varsavia del 1944, fino alla striscia di Gaza e alla battaglia per la presa della città di Falluja, insorta contro l’occupazione americana in Iraq nel novembre del 2004, oppure alla grave sconfitta subita dall’esercito russo a Grozny durante la guerra cecena5.

Anche se le truppe americane e NATO si addestrano ormai da anni al combattimento urbano (qui), mentre gli interventi israeliani a Gaza costituiscono il banco di prova effettivo per migliorare la resistenza dei mezzi corazzati, di cui il carro armato Merkava continua ad essere uno dei prototipi più avanzati proprio per operare in tali condizioni (ancora qui), non può esservi dubbio che, anche in previsione della guerra civile globale di cui andiamo parlando da anni6, la battaglia o il semplice controllo militare all’interno delle aree urbane7 può rivelarsi impossibile da condurre se non al prezzo di perdite numerose e un’enorme distruzione di vite umane, fatto quest’ultimo che quasi mai gioca a favore della favola mediatica della “difesa della democrazia” o della sua “esportazione”.

L’attentato all’aeroporto di Kabul, in cui una buona parte delle vittime è stata causata dal fuoco amico dei soldati americani che hanno letteralmente perso la testa nella confusione, come attestano ormai le testimonianze raccolte dai reporter occidentali ancora presenti sul luogo, oppure le vittime “collaterali” (almeno 6 bambini e 4 adulti) del raid americano nei confronti di una presunta autobomba, diretta verso l’aeroporto della stessa città, non hanno fatto che dimostrare, fino alla fine, ciò che è stato sotto gli occhi di tutti fin dal 2001 e che il generale Carlo Jean, esperto di geo-politica e strategia militare, ha confermato negli ultimi giorni: Gli Stati Uniti non hanno mai voluto portare la democrazia in Afghanistan8.

Kabul oggi non può essere controllata del tutto dai Talebani e non poteva altrettanto esserlo dai marines o dai soldati occidentali presenti fino a pochi giorni or sono. Droni e satelliti spia, coadiuvati da informatori a terra possono svolgere una funzione importante, ma il bello viene sempre quando si tratta di mettere the boots on the ground.

Infatti non si tratta qui di parteggiare per la causa talebana o per l’intervento “umanitario”9, ma soltanto di cogliere l’inevitabile sconfitta di un progetto politico-militare che, rivolgendosi contro un intero e storicamente combattivo popolo10, non poteva che essere destinato alla sconfitta fin dall’inizio.
Come ha sostenuto chi scrive fin dal 200111 e come ha confermato la recente testimonianza di un veterano ed ufficiale dei marines, Lucas Kunce, che ha svolto più turni in quell’area.

Quello che stiamo vedendo in Afghanistan in questo momento non dovrebbe scioccarvi. Sembra così solo perché le nostre istituzioni sono intrise di disonestà sistematica. Non richiede una tesi per spiegare cosa stai vedendo. Solo due frasi.
Prima: per 20 anni, politici, élite e leader militari ci hanno mentito sull’Afghanistan.
Seconda: quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo.
Lo so perché ero lì. Due volte. Nelle task force per operazioni speciali. Ho imparato il Pashto come capitano dei Marines degli Stati Uniti e ho parlato con tutti quelli che potevo lì: gente comune, élite, alleati e sì, anche i talebani.
La verità è che le forze di sicurezza nazionali afghane erano un programma di lavoro per gli afghani, sostenuto dai dollari dei contribuenti statunitensi – un programma di lavoro militare popolato da persone non militari o forze “di carta” (che in realtà non esistevano) e uno stuolo di élite che afferravano ciò che potevano quando potevano.
E non era solo in Afghanistan. Hanno anche mentito sull’Iraq.
[…] Quindi, quando la gente mi chiede se abbiamo scelto il momento giusto per uscire dall’Afghanistan nel 2021, rispondo sinceramente: assolutamente no. La scelta giusta sarebbe stata quella di uscire nel 2002 o 2003. Ogni anno in cui non uscivamo era un altro anno che i talebani usavano per affinare le loro abilità e tattiche contro di noi – la migliore forza combattente del mondo. Dopo due decenni, 2 trilioni di dollari e quasi 2.500 vite americane perse, il 2021 era troppo tardi per fare la cosa giusta.
[…] Le bugie sull’Afghanistan contano non solo per i soldi spesi o per le vite perse, ma perché sono rappresentative di una disonestà sistematica che sta distruggendo il nostro paese dall’interno verso l’interno.
Ricordate quando ci hanno detto che l’economia era tornata? Un’altra bugia.
[…] Quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo12.

Proprio per questo motivo tutte le “anime candide” che continuano ad affermare che non vi è più alcuna guerra “mondiale” possibile o sono in malafede oppure prive di strumenti di analisi adatti a comprendere seriamente le conseguenze di quanto sta avvenendo in un quadro internazionale in cui l’indebolimento dell’impero americano (e occidentale in genere) non potrà che portare ad altre ancor più tragiche convulsioni e catastrofi. In casa e all’estero. Considerata anche l’attenzione che gli Stati Uniti e il Pentagono sembrano sempre più rivolgere alla Cina e al suo operato economico e strategico13.

Non bisogna infatti dimenticare che esattamente come per la precipitosa ritirata militare dal Vietnam, che ha costituito per molti osservatori attuali una catastrofe politica e militare minore di quella odierna che, a differenza di allora, coinvolge tutto l’Occidente, uno dei motivi del ritiro (già annunciato da Obama nel 2011)14 dal quadrante centro-asiatico delle truppe statunitensi è legato anche ad una sempre maggior insofferenza dell’elettorato americano, povero o appartenente ad una middle class oggi tartassata come mai prima, nei confronti di una guerra di cui scarsamente ha compreso utilità e significato. Senza contare che, probabilmente, già al dicembre 2006 almeno diecimila soldati statunitensi avevano disertato il campo di battaglia iracheno15.

Ma se in Vietnam occorsero 70.000 morti e centinaia di migliaia di feriti, oltre alle rivolte studentesche, degli afro-americani, dei gruppi etnici minoritari, non appartenenti a quello WASP, e dei soldati stessi, oggi, con un numero molto inferiore di morti e feriti, il carico per la società americana impoverita e ferita dalle crisi successive e sempre più gravi, è diventato insopportabile e costituisce uno di quegli elementi che fondano la possibilità di una nuova guerra civile americana di cui si è già parlato su Carmilla.
Senza dimenticare, poi, che già nel 1993/94 (qui) bastarono all’allora presidente Bill Clinton una ventina di morti durante la cosiddetta battaglia di Mogadiscio del 3 e 4 ottobre del 199316 per ritirare precipitosamente le truppe dall’operazione Restore Hope (nomen omen) in cui era stata coinvolta anche l’Italia attraverso l’ONU. Battaglia che era costata il più alto numero di morti americani, fino ad allora, dalla fine della guerra in Vietnam.

Ma come ha affermato in una recente intervista Lucio Caracciolo, analista geo-politico e giornalista di rilievo:

Gli americani non sono usciti mentalmente dalla guerra al terrorismo, cioè da un meccanismo che possiamo definire nevrotico, per il quale da un attacco terroristico si genera una reazione militare da cui scaturisce un nuovo attacco terroristico e così via in un gioco infinito. Questa, però, non è una guerra contro un nemico, perché il terrorismo è un metodo che chiunque può adottare, non è identificabile, è mutante e infatti muta in continuazione. E’ però anche una guerra contro noi stessi.
Perché il modo di approcciare il tema crea un meccanismo negativo, costringendoci in un circuito infernale nel quale non abbiamo possibilità di vittoria ma di sicura sconfitta. Non nel senso strategico, ma di un progressivo logoramento, in particolare della reputazione americana e occidentale. E questo riguarda anche noi europei, in particolare noi italiani nella misura in cui, per certificare la nostra esistenza in vita, partecipiamo a missioni in cui non abbiamo nessun interesse da difendere se non dimostrare che esistiamo. Senza avere nessuna idea su quale tipo di scambio ottenere.
[Sugli Usa e la loro politica] E’ impossibile dare giudizi definitivi e tranchant. Mi pare evidente che esista una crisi identitaria e culturale che da diversi anni sta colpendo gli Stati Uniti. Il suo punto di inizio può essere rintracciato nella vittoria della”guerra fredda” che ha privato gli USA di un nemico perfetto, che tra l’altro risparmiava loro la metà del lavoro ( ad esempio in Afghanistan quando c’erano i sovietici)e la cui scomparsa ha fatto perdere la bussola strategica.
Tutte le strategie dopo l’89 sono state degli adattamenti. E così gli Stati Uniti pensano fino all’11 settembre di essere in cima al mondo e si lanciano in un’avventura di cui non si vede l’obiettivo finale semplicemente perché non esiste. […] E questa crisi mette l’America in una situazione di stress come si è visto a Capitol Hill il 6 gennaio. Non è un problema di Trump o Biden, ma di America17.

Ciò, però, che maggiormente sembra indicare il reale senso della débâcle americana in Afghanistan non è tanto la fotografia in cui i talebani si prendono gioco della storica, ma falsa, fotografia, scattata a Jiwo Jima dopo lo sbarco dei marines18 e, ancor meno, l’enorme arsenale di armi, in gran parte sabotate prima della partenza, rimaste in mano ai talebani con la ritirata americana. Era già successo in Vietnam dove i vincitori si ritrovarono tra le mani giganteschi quantitativi di materiale bellico che andava dai mezzi corazzati e obici, in seguito venduti come ferraglia al miglior offerente che volesse farne uso per fonderlo e di cui approfittò soprattutto il Giappone per le sue acciaierie, alle lattine e bottiglie di Coca-Cola, e tutto ciò costituisce soltanto una dimostrazione di come ogni guerra moderna rappresenti un affare assoluto soltanto per la finanza e le industrie fornitrici degli eserciti. Che la guerra poi sia vinta o persa poco conta: la merce è già stata prodotta, venduta e pagata e i debiti sono stati contratti dagli stati. Un autentico paradiso per le grandi corporation e le banche, fin dal primo macello imperialista.

Invece lo è l’immagine che i media ci propinano, quasi senza rendersene conto, degli sciacalli europei o europeisti che, fingendosi umanitari, mostrano i muscoli accusando Biden e gli USA di non essere rimasti di più a difendere stabilità e democrazia. Un coro di nani che accusano il “poliziotto planetario”, senza il quale non avrebbero potuto sopravvivere un minuto, dalla guerra fredda all’Afghanistan e che agitano già lo spettro di altre guerre, con il feticcio di un esercito europeo eterodiretto19 che, senza la copertura dell’aviazione, dell’intelligence e dei satelliti spia americani non potrebbe sopravvivere, neppure per un istante, in nessuna delle disgraziate operazioni di cui ci ha parlato poco sopra Lucio Caracciolo. Ipotesi comunque che non ha mancato di suscitare immediatamente numerose e fondate critiche (qui), anche di là dell’Atlantico dove il Wall Street Journal del 30 agosto ha affermato che gli europei potranno contare qualcosa e dire la loro soltanto quando impiegheranno più risorse che retorica nella difesa comune20 e nella NATO, andando ben oltre il motto we play, you pay che sembra averne sempre caratterizzato la politica militare.

La nave affonda e, classicamente, i topi l’abbandonano, in gran spolvero di recriminazioni, rivendicazioni e vuote parole21. Se ne facciano una ragione però, anche tutti quegli intellettuali militanti che vedono in ogni aggressione ed operazione militare americana la capacità dell’imperialismo statunitense di raggiungere sempre i propri obiettivi programmati, dirigendo gli eventi e determinandone il corso. Dai complottisti dell’11 settembre, per i quali Bush e la CIA avrebbero creato ad hoc le condizioni favorevoli ad una guerra, fino ai sibillini piani di Trump per improbabili colpi di Stato.
Riprendetevi ragazzi e guardatevi intorno: l’età della guerra permanente è appena iniziata e il politically correct non servirà ad altro che a farla apparire giusta e democratica22.


  1. In proposito si veda David Finkel, Grazie per quello che avete fatto. Storia di militari e del loro ritorno a casa, Mondadori, Milano 2018  

  2. Dei tredici ultimi caduti americani, nell’attentato di Kabul, cinque avevano 20 anni mentre il più vecchio ne aveva 31  

  3. “Secondo le stime più attendibili, sono oltre 140 mila morti dall’inizio dell’intervento occidentale in Afghanistan, per metà combattenti talebani (o presunti tali), l’altra metà quasi equamente divisa tra giovani afgani delle forze di sicurezza e civili: almeno 26 mila — secondo uno studio condotto dalla Brown University — i civili uccisi nel corso della missione 14 ISAF (2001-2014), cui si aggiungono quasi 9 mila morti — secondo i dati pubblicati dalla missione ONU in Afghanistan (UNAMA) — dall’inizio della missione 15 RS (2015). A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati NATO (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri” – Fonte: Afghanistan. Sedici anni dopo, Rapporto MILEX 2017 (a cura dell’Osservatorio sulle spese militari italiane)  

  4. Marlisa Palumbo, Armi, morti, debiti. Così è lievitato il costo (economico e non) della guerra più lunga, «Corriere della sera», 31 agosto 2021  

  5. L’ attacco su vasta scala di Groznyj che l’esercito della Federazione Russa mise in atto fra la fine di dicembre del 1994 e gli inizi di marzo 1995, durante la Prima guerra cecena, aveva l’obiettivo di conquistare rapidamente la città e riportare la secessionista Repubblica cecena di Ichkeria sotto il controllo della federazione. Contrariamente a quanto previsto, l’assalto iniziale delle truppe federali si risolse in un disastro e impantanò le forze di Mosca in una logorante battaglia casa per casa durante la quale la popolazione civile soffrì enormi perdite. Ad oggi l’assedio di Groznyj è considerato come il più distruttivo dalla seconda guerra mondiale. L’occupazione di Groznyj ebbe breve durata, giacché nell’agosto del 1996 le milizie indipendentiste avrebbero ripreso il controllo della città, ponendo fine alla guerra. Groznyj si estende oggi su una superficie di 324 km² , ha 297.410 (2018) abitanti e una densità di 917,48 ab./km²  

  6. Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

  7. Non soltanto per tracciare un paragone, ma per dare anche un’idea, niente affatto esaustiva, di quello che potrebbe essere il problema a livello internazionale, è forse qui utile fornire i dati su popolazione, superficie e densità di popolazione di alcune grandi città e capitali italiane e occidentali: Milano, superficie 182 km² – abitanti 1.396.522 – densità 7.687,14 ab./km²; Napoli, sup. 117 km², ab. 938.507, den. 8.003 ab./km²; Roma, 1.287 km², 2.778.662, 2.158,42 ab./km²; Parigi, 105,4 km², 2.229.095 (2018), 21.149 ab./km²; Berlino, 891 km², 3.769.495 (2019), 4.230 ab./km²; Madrid, 604 km², 3.223.334 (2019), 5.334 ab./km²; Washington, 177 km², 709.265 (2021), 4.007,15 ab./km²; New York, 785 km², 8.522.698 (2017), 10.857 ab./km² (I dati qui forniti non tengono conto delle frazioni o dei sobborghi integrati nelle rispettive aree)  

  8. Huffington Post, Esteri, 31 agosto 2021  

  9. Termine che prelude sempre e soltanto a nuove guerre, come il recente intervento del presidente Mattarella in occasione dell’anniversario del Manifesto di Ventotene oppure, più in basso, quello sulla rinascita europea di Brunetta, hanno indirettamente dimostrato visto che entrambi erano sostanzialmente tesi a sollecitare la creazione di un esercito e unità di pronto intervento dell’Unione europea  

  10. Di cui l’etnia pashtun rappresenta circa il 40%. I pashtun parlano la lingua pashtu e seguono un codice religioso di onore e cultura indigeno e pre-islamico, il Pashtunwali, che dà preminenza alla vendetta, all’ospitalità e all’onore, integrato nella religione islamica e vivono per lo più in strutture tribali e acefale, caratterizzate da forme decisionali orizzontali, le jirga  

  11. Si veda Giganti dai piedi d’argilla citato in Chi vince e chi perde a Gaza in S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019, nota 3 pp. 46-47  

  12. Lucas Kunce, I served in Afghanistan as a US Marine, twice. Here’s the truth in two sentences, «The Kansas City Star», 23 agosto 2021- TdA  

  13. Come ha confermato ancora, nello stesso articolo citato poc’anzi, il generale Jean: “Gli occhi di Washington sono infatti rivolti per lo più sull’Indo-Pacifico e la conquista del potere dei talebani, che sono legati al Pakistan, potrebbe spingere l’India ancor più vicina agli Usa. Il Quad – Quadrilateral Security Dialogue, alleanza di cui fanno parte Australia, Giappone e, appunto, India e Stati Uniti – ha dato il suo pieno sostegno agli Usa e si è dimostrata più solida rispetto agli alleati in Europa, che ha scaricato sugli Usa l’intera responsabilità quando erano coinvolti a pieno nella vicenda afghana.”  

  14. Ancora Carlo Jean: “Riportare a casa i soldati americani è stato tema delle ultime tre campagne elettorali, con Barack Obama che rimproverava George W. Bush, seguito da Donald Trump che “ha ridotto le truppe da 13mila a 2.500” e ha siglato gli accordi di Doha, ed infine Joe Biden, con la sua promessa – realizzata – di anticipare il ritiro ancor prima di quell’11 settembre simbolico fissato dal suo predecessore. […] Gli strateghi da caffè non si pongono il problema di cosa avrebbe dovuto fare Biden. Rifiutare gli accordi di Doha inviando altri 100mila soldati, facendo così infuriare la popolazione?”  

  15. Patricia Lombroso, «In Iraq, diecimila soldati Usa hanno disertato». Parla Camillo Mejia, il primo soldato Usa nel 2003 a dire no a una guerra che, dice, non avrà fine. Lui fu condannato. Per tutti gli altri il Pentagono ha scelto il silenzio e il «congedo disonorevole», il Manifesto, 7 dicembre 2006  

  16. Eccellentemente descritta nel film di Ridley Scott Black Hawk Down del 2001  

  17. Intervista a Lucio Caracciolo in Salvatore Cannavò, “Il rischio adesso è un nuovo ciclo di guerra al terrorismo”, Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2021  

  18. Come ha raccontato chiaramente Clint Eastwoo nel film Flags of Our Fathers del 2006  

  19. Si veda l’intervento dell’alto rappresentante della commissione europea Josep Borrell sulla questione qui  

  20. Nancy A. Youssef, Gordon Lubold, America’s Longest War End, «The Wall Street Journal», 30 agosto 2021  

  21. La Frankfurter Allgemeine Zitung ha scritto, il 24 agosto, che quella di Kabul “è la più grave umiliazione subita dagli USA”. Tutto vero, ma non vale forse altrettanto per i loro alleati occidentali?  

  22. Adriano Sofri, per non smentirsi, già nel 2001 aveva sostenuto su Repubblica che quella afghana era una guerra “per le donne”. Oggi è tornato, sulle prime pagine del Foglio, a sventolare ancora idee simili. Complimenti!  

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Un divertissement (anti)complottista https://www.carmillaonline.com/2021/05/05/un-divertissement-anticomplottistico/ Wed, 05 May 2021 20:42:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65964 di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

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di Sandro Moiso

Per chiunque non abbia voglia di affrontare la lettura di un volume di quasi 600 pagine su QAnon e gli altri vari complottismi made in Usa recentemente edito in Italia, val la pena di ricordare che nel 1995 uscì un “romanzetto” sospeso tra il licenzioso, l’irriverente, il goliardico, il politico e il fantastico che, con un numero decisamente inferiore di pagine, riusciva a far piazza pulita di qualsiasi ipotesi complottistica relegandola ai territori dello sghignazzo e della burla, i soli che possano essere “seriamente” dediti a tali interpretazioni della realtà.

Il testo in questione è Pandemonium di Diego Gabutti, edito da Longanesi nella collana La Gaja scienza, da tempo dimenticato ma ancora facilmente reperibile nel mercato dei libri usati, e oggi, a detta dello stesso, neppure troppo amato dall’autore.
Eppure, come al solito, eppure…
Un testo che riesce a mettere insieme Aleister Crowley, la P2, i servizi segreti italiani “deviati”, Satana in persona (ma soltanto nei sogni dei personaggi principali), brigatisti pentiti, baroni siciliani cornuti, magia sexualis e ricerca dell’homunculus è ancora degno di un’occhiata, magari anche attenta.

Si era agli albori dell’uso delle reti, o rete qual dir si voglia, attraverso l’utilizzo di BBS (Bulletin Boatd System)1, in cui già l’autore individuava la sciagurata possibilità di produrre informazioni incontrollate e bufale a go-go (perché poi oggi si preferisca l’anglicizzante fake news all’italianissimo, e soprattutto evidentissimo nel significato, bufale, è una questione ancora tutta da chiarire).

Un autentico oceano in cui nuotano enormi cazzate mescolate a notizie vere, fasulle, presunte, controllate ed incontrollate (che, in fin dei conti possono reciprocamente rovesciarsi nelle une o nelle altre). Uno stagno per la pesca degli scemi (soggetti ideali sia come pescatori che come pesci), un mare in cui scatenare la fantasia degli agenti dei servizi per comunicare tra di loro oppure per creare eventi improbabili, ma parzialmente credibili oppure assolutamente incredibili, ma luccicanti come oro per i tordi di turno. Che spesso si accodano convinti di svolger un qualche ruolo significativo ai confini di un mondo sospeso in permanenza tra realtà, magia e politica: quello dell’eterno complotto.

Insomma il regno dell’impostura globalizzata in cui ogni impostore, cosciente o meno di esserlo, sogna e immagina di giocare un ruolo significativo nel gran ballo delle balle.
Una enorme commedia degli equivoci in cui, se non ci andassero di mezzo gli innocenti veri (nel caso di Pandemonium delle giovani prostitute uccise o, meglio, sacrificate, per fini oscuri e irrealizzabili, nella realtà le vittime di attentati e violenze indiscriminate giustificate spesso da visioni del mondo reazionarie e folli) ci sarebbe soltanto da sbellicarsi dalle risate (così come capita per gran parte delle lettura del libro).

Il big complotto in questo caso si vorrebbe cosmico, universale, capace di rifondare il mondo e sostituire il suo signore e creatore con un altro, magari dotato, quest’ultimo, di corna, zoccoli, attributi di ambigue dimensioni e demonietti irrispettosi e burloni di contorno. Esoterismo e magia si snodano tra la Sicilia, Milano e Torino. Città, quest’ultima, dove fino ad un decennio or sono era possibile trovare numerose librerie dedite esclusivamente all’argomento; tutte dai nomi improbabili e memori del mito della città magica per eccellenza al centro dei triangoli bianchi e neri (come la maglia della squadra foraggiata dalla ex-FIAT) che attraverserebbero ancora l’Europa tra Lione e Praga, l’est e l’ovest come un Treno ad Alta Velocità del potere e della Grande Bestia.

C’è da ridere, ma anche da piangere, come quasi sempre capita, nel pensare alla serietà con cui i media ufficiali, autentici produttori di fake news ad oltranza si dedicano oggi al disvelamento delle fake news non autorizzate dalle veline di Stato. Un’autentica caccia alle streghe messa in opera da stregoni che in questo modo rendono tutte le bufale degne di attenzione.

Così, dopo aver letto il romanzetto e riflettuto sull’oggi e le sue scie chimiche circondate da manovre per ridurre la popolazione bianca schiava di quelle di altri colori oppure sul negazionismo vero sprofondato in un uso fin troppo spregiudicato del termine per demonizzare qualsiasi avversario delle verità “di Stato”, sorge spontaneo un altro dubbio: il complottismo è davvero soltanto di destra? Oppure anche questa è soltanto un’altra fake news, sorta in un territorio in cui Giorgio Gaber (cos’è di destra, cos’è di sinistra) avrebbe sguazzato ridendo con Enzo Jannacci?

In un territorio dell’immaginario dove la cabala della finanza finge di saper quali sono le soluzioni migliori per il destino del mondo e la scienza si trasforma in esoterismo in nome del profitto; Il mattino dei maghi di Pauwels e Bergier (destra) si incrocia con i segreti cosmici di Peter Kolosimo (sinistra) e dove l’inossidabile Gianni Flamini (sinistra “democratica”), con i suoi eterni studi sull’abilità dei servizi “infedeli” di controllare quasi ogni evento della storia italiana recente, in particolare la lotta armata, e soprattutto senza mai prendere in considerazione il fatto che i servizi possano essere, in realtà, “fedelissimi” e proprio per questo motivo agiscano così come hanno fatto e continuano a fare, incrocia la penna in un duello infinito con i convinti assertori delle presenza dei Visitors (destra fantascientificamente “fessa”) nelle sfere del potere mondiale, non ci sarebbe forse soltanto da sbellicarsi dalle risate?

E invece no, poiché ancora troppo spesso coloro che si pensano investiti di un occulto dovere di informazione oltre che dotati di un’innata verbosità, ritengono necessario rendere tutto ciò noiosamente serio, quasi a voler rilanciare, più ancora che a soffocare, il discorso complottistico e la sua diffusione in rete e oltre, contribuendo così ulteriormente allo spostamento dell’attenzione dalla necessaria e radicale negazione della dominante narrazione tossica dell’esistente finalizzata alla difesa ad ogni costo (anche quello di cadere ripetutamente nel ridicolo, come accade in questi giorni di fallimenti presentati come trionfi della scienza e della politica) del modo di produzione attuale.

Allora meglio seguire le vicende di un romanzo che si snoda tra gli anni Venti e gli anni Novanta, tra orge nei cimiteri siciliani, esperimenti per la cattura dell’energia orgonica di reichiana memoria all’interno di bordelli più o meno di lusso, riti massonici celebrati da personaggi incappucciati ma privi di mutande, agenti segreti in combutta con brigatisti esoterici sulle cui tracce sono altri ex-prigionieri politici in cerca di vendetta, in una girandola narrativa in cui tutti coloro che risultano infoiati dal desiderio di potere politico, economico, magico e religioso vengono definitivamente messi alla berlina.
Poiché non potrà essere nient’altro che una risata a seppellirli tutti insieme e definitivamente.


  1. Si tratta di un sistema telematico che consentiva a computer remoti di accedere ad un elaboratore centrale per condividere o prelevare risorse. Il sistema era stato sviluppato negli anni settanta e ha costituito il fulcro delle prime comunicazioni telematiche amatoriali. Tra le novità consentite dai sistemi BBS, le principali furono la messaggistica e file sharing centralizzato  

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Economia di guerra / 2: ancora sulla centralità del lavoro e del necessario conflitto che l’accompagna https://www.carmillaonline.com/2020/04/20/economia-di-guerra-2-ancora-sulla-centralita-del-lavoro-e-del-necessario-conflitto-che-laccompagna/ Mon, 20 Apr 2020 21:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59487 di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara. Smaschera il mondo in maschera.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza. Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il [...]]]> di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara.
Smaschera il mondo in maschera
.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza.
Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il tramite di ingegnose acrobazie linguistiche, geomorfologiche e statistiche), dati di una autentica strage a livello sanitario che i partiti istituzionali si rimpallano, con minacce di inchieste e commissariamenti, tra Destra e Sinistra come in una partita di volley ball, noiosissima e già vista centinaia di volte. Una guerra tra rane, topi e scarafaggi che, se fosse ancora vivo Giacomo Leopardi, sarebbe degna soltanto di un nuova “Batracomiomachia”.

In questo autentico bailamme, che sembra soltanto peggiorare di giorno in giorno, sono però ancora troppi coloro che, pur animati dalle migliori intenzioni, affrontano le questioni legate all’attuale pandemia in ordine sparso. Rincorrendo il momento, chiedendosi quando si potrà ricominciare ad agire, senza chiedersi su cosa si potrebbe davvero incidere, scambiando un problema per il “problema”, anteponendo l’idea dell’azione allo studio delle azioni necessarie, contrapponendo l’individuale al sociale oppure scambiando per sociale ciò che in sostanza è individuale. In una girandola di iniziative che tutto fanno tranne che fornire prospettive concrete per un’uscita dall’attuale catastrofe che, occorre ancora una volta dirlo, non è né naturale né umanitaria, ma derivata direttamente dalle “leggi” di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Come afferma Frank M. Snowden, storico americano della medicina, nel suo Epidemics and Society: non è vero che le malattie infettive “siano eventi casuali che capricciosamente e senza avvertimento affliggono le società”. Piuttosto è vero che “ogni società produce le sue vulnerabilità specifiche. Studiarle significa capirne strutture sociali, standard di vita, priorità politiche”1

Gli elementi che potrebbero aiutare a definire il campo per un intervento immediato, concreto e condivisibile a livello di massa sono già molti. Sono compresi nelle parole, nelle promesse fasulle e nei provvedimenti che i governi e i loro padroni, nazionali e internazionali, stanno esplicitando, come si affermava all’inizio, sotto gli occhi di tutti. Una lunga sequenza di leggi, prevaricazioni, distruzioni e violenze che costituiscono la trama della più lunga crime story mai raccontata.
Ancora una volta è inutile, infatti, cercare l’ordito nascosto o segreto della realtà, basta saperla osservare e ascoltare, oppure semplicemente leggere, following the money.

Ad esempio, nella “Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020” concordata il 30 marzo 2020 a Roma, alla presenza del Ministro del lavoro e delle politiche sociali tra Associazione Bancaria Italiana (ABI), l’ Alleanza delle Cooperative Italiane, tutte le maggiori associazioni imprenditoriali e confederazioni sindacali.

Il tema è sostanzialmente quello della cassa integrazione ordinaria o in deroga. Provvedimenti da sempre destinati a ricadere economicamente sulle spalle dello Stato, degli imprenditori e dell’INPS, ma che grazie a questo accordo, in piena crisi economica (di cui la pandemia da coronavirus costituisce un’aggravante ma non l’unica origine), potrebbe ricadere direttamente sulle spalle dei lavoratori che la vorranno o dovranno richiederla.

Se già la cassa integrazione comporta sempre e comunque un costo per i lavoratori, consistendo mediamente in un 80% del salario, a partire da questo accordo la stessa si trasforma in una sorta di prestito che viene accordato ai lavoratori in attesa che sia l’INPS a ripianarlo e a provvedere ai successivi pagamenti, ma il cui costo iniziale ricadrà interamente sui dipendenti coinvolti, a differenza della cassa integrazione comunemente intesa che prevede, in caso di ritardo delle prestazioni dell’INPS, che il costo iniziale ricada sugli oneri delle imprese che, di fatto, sono costrette ad anticipare per qualche mese gli stipendi parziali pagati dall’ente previdenziale.
Come si può leggere nel testo della Convenzione, invece:

Al fine di fruire dell’anticipazione oggetto della presente Convenzione, i/le lavoratori/trici […] dovranno presentare la domanda ad una delle Banche che ne danno applicazione […]
Il/la lavoratore/trice e/o il datore di lavoro informeranno tempestivamente la Banca interessata circa l’esito della domanda di trattamento di integrazione salariale per l’emergenza Covid-19.
In caso di mancato accoglimento della richiesta di integrazione salariale […] qualora non sia intervenuto il pagamento da parte dell’INPS, la Banca potrà richiedere l’importo dell’intero debito relativo all’anticipazione al/la lavoratore/trice che provvederà ad estinguerlo entro trenta giorni dalla richiesta.
Nei casi della anticipazione del trattamento di integrazione salariale da parte della Banca, quest’ultima, in caso di inadempimento del lavoratore, […] comunicherà al datore di lavoro il saldo a debito del conto corrente dedicato.
In tal caso, a fronte dell’inadempimento del lavoratore, il datore di lavoro verserà su tale conto corrente gli emolumenti spettanti al lavoratore, anche a titolo di TFR o sue anticipazioni, fino alla concorrenza del debito. Il lavoratore darà preventiva autorizzazione al proprio datore di lavoro […] in via prioritaria rispetto a qualsiasi altro vincolo eventualmente già presente evitando che sia il datore di lavoro a dover regolare i criteri di prevalenza tra i diversi impegni presenti, nei limiti delle disposizioni di legge2.

La Convenzione con le banche non è un inedito, è già stata usata nel 2008/2009 e se la pratica di cassa non va in porto l’impresa è comunque obbligata a pagare le mensilità al lavoratore, che può così restituire gli anticipi versati dalla banca. La Convenzione è un accordo astratto, ma agli sportelli (persino di due filiali diverse dello stesso gruppo) possono nascere piccoli ricatti o fraintendimenti che il lavoratore, di solito inesperto, può non saper gestire – tipo l’obbligo di aprire una posizione permanente in quella banca, al di là del conto corrente e a termine della Convenzione. Inoltre:

“«L’accordo con l’Abi parla di un’istruttoria di merito creditizio nei confronti del lavoratore. Ma questa previsione rischia di essere un problema per chi ha un finanziamento in corso e magari non sia riuscito a pagare qualche rata di credito al consumo», spiega Roberto Cunsolo, consigliere dell’Ordine nazionale dei commercialisti. Tanto basta, infatti, per essere segnalati alla Centrale rischi finanziari (Crif) e di conseguenza vedersi rifiutare l’anticipo degli ammortizzatori.
L’argomento non è da poco visto che il governo nei provvedimenti adottati finora non ha previsto lo stop alle rate per i piccoli prestiti.” (qui)

Fermiamoci qui. E’ chiaro però che, in questo modo, la cassa integrazione ordinaria o in deroga si trasforma in nient’altro che in un prestito ai lavoratori/trici, che gli stessi sottoscriveranno con le banche, liberando quasi del tutto i datori di lavoro da qualsiasi responsabilità economica in merito. Un sistema perfetto di sfruttamento circolare del lavoro dipendente. Soprattutto nel caso della cassa in deroga per la quale viene del tutto esclusa la possibilità che questa possa essere anticipata dal datore di lavoro.
L’anticipo è sui conti dei lavoratori e, se qualcosa va storto, i padroni possono detrarre le cifre per il ripianamento del debito direttamente dai salari (senza neanche il limite del quinto dello stipendio). In questo modo il lavoratore diventa il garante ultimo della politica economica d’emergenza. Il lavoro è il fideiussore generale di riserva, la banca l’intermediario, l’impresa fa la ritenuta alla fonte per conto del sistema bancario di governo. L’accordo, inoltre, non prevede il vincolo di non licenziare, come indirettamente confermato dal silenzio sindacale in proposito. Così il salario è eventuale, ma se c’è, il padrone può versarlo ai suoi finanziatori.

In un contesto in cui si prevede che siano più di 11 milioni i lavoratori che dovranno far ricorso alla cassa integrazione (o ai bonus) e in un panorama in cui le imprese con meno di 10 dipendenti, ovvero quelle ritenute maggiormente a rischio, costituiscono l’82,4% (col 22,6% dei dipendenti complessivi) delle imprese manifatturiere, il 96,2% (con il 66% dei dipendenti) delle imprese edili e il 96,6% (con il 52,3%) di quelle legate ai servizi, commercio all’ingrosso e al dettaglio3 i tempi della Cig saranno già più lunghi di almeno 10-15 giorni. Mentre, per la complessità delle operazioni richieste in modalità diversa per ogni istituto bancario, i lavoratori meno esperti di strumenti informatici, considerato che le banche escludono la possibilità di una ‘consulenza’ sindacale a soccorso degli stessi, rischieranno di essere tra gli ultimi ad essere pagati, vista anche la precedenza che sia le banche che l’Inps accorderanno agli aiuti per le aziende.

Più che lo sdegno per lo strumento in questione, andrebbe rimarcato l’eterno ineliminabile ruolo delle banche. Dal Q.E., all’Ape, alla Cassa: tutto deve passare dalle banche, che tra l’altro in questa fase non hanno assolutamente uomini e mezzi per svolgere il ruolo “burocratico” che lo Stato gli appalta – oltre al costo economico e sociale che questo parassitismo bancario comporta. Questa pletora di ammortizzatori (Cigo, Cig, Naspi, Bonus autonomi, Reddito Gigino di Maio, contributi comunali) di cui alla fine non ci si capisce più nulla, costituisce però il risultato della mancanza di uno strumento di reddito generale e universale. Così, sia a livello sindacale che prefettizio, inizia a crescere l’allarme per il clima da insorgenza sociale ed economica che sembra nascere spontaneamente, soprattutto in città come Torino dove le code davanti al Monte dei pegni si allungano ormai di giorno in giorno (qui).

Ma occorre fare ancora qui alcune osservazioni di carattere generale.
La prima, naturalmente, è quella riguardante il fatto che tale provvedimento conferma la tendenza generale alla completa finanziarizzazione di ogni attività o provvedimento un tempo compresi in ciò che veniva definito welfare state. Che si tratti di sanità, di lavoro o di previdenza (con tutti gli addentellati del caso: cassa integrazione, pensioni, etc.) il costo oggi non solo non deve più essere sostenuto dalla finanza e dall’intervento pubblico, ma deve anche costituire motivo di realizzazione di interessi per chi si sostituisce, anche solo momentaneamente, allo Stato e alle sue agenzie in veste di ufficiale pagatore. Insomma, in soldoni le banche non muovono un dito se non ne ricavano una qualche forma di profitto.

La seconda, non meno importante, è che le casse dello Stato si avviano ad essere sostanzialmente vuote. Anni di ruberie, rapine politico-mafiose autorizzate, prebende, investimenti fantasma o in grandi opere inutili e dannose mai terminate (e interminabili), premi a consorterie politiche di ogni tendenza e genere, profitti e prestiti garantiti a imprese e banche too big to fail, tasse mai pagate e attività svolte in nero hanno letteralmente prosciugato la casse dello Stato e dell’INPS. La quale ultima, nata come Istituto di previdenza sociale per i lavoratori, ha dovuto sempre più farsi carico anche delle pensioni e dei trattamenti di fine servizio milionari di manager e dirigenti, privati e pubblici, oltre che diventare il tappabuchi per i periodi di sospensine dell’attività produttiva programmati dalle grandi aziende (come la Fiat).
Impressione generale confermata dallo slittamento in avanti continuo della data di presentazione dei provvedimenti economici governativi resi necessari dalla crisi.

Lo Stato sociale ha un costo sicuramente elevato che è andato crescendo nel tempo, ma non tutto è stato dissipato, come vorrebbe far credere una narrazione tossica e di parte, a causa delle pensioni un tempo calcolate su una età media più bassa e una vita lavorativa che veniva calcolata su un numero di anni inferiore a quelli attualmente necessari. Né si tratta soltanto di truffe rappresentate dai falsi invalidi, che pur ci sono state ma non tali da determinare l’attuale situazione di difficoltà.
Certo l’innalzamento dell’età media della vita ha comportato un prolungamento inaspettato dei pagamenti pensionistici e delle spese assistenziali per la terza età, ma troppo spesso ci si dimentica di sottolineare come proprio nel settore dell’assistenza alla stessa e in quello della Sanità non sia mai stato messo in pratica alcun tipo di controllo e di calmiere dei prezzi. Contribuendo così a fare dell’assistenza sanitaria e agli anziani un autentico Far West dove tutto è concesso, in termini di guadagno e profitto privato, e dove nessuna attività, o quasi, è svolta avendo come primo obiettivo quello della salute e del benessere dei cittadini.

Le tanto venerate privatizzazioni, concesse tanto da destra che da sinistra4, hanno dimostrato, proprio nel cuore dell”eccellenza’ sanitaria lombarda, la loro reale efficienza. Soprattutto nelle RSA, ovvero nelle residenze per anziani, sempre più costose (per lo Stato e per i cittadini) e meno protette dal punto di vista sanitario.
Residenze per anziani che sono diventate, in tutta Europa, uno dei settori più interessanti di investimento per le società finanziarie a caccia di nuovi territori in cui poter praticare le proprie scorrerie, garantendo profitti annui anche del 6-7% e trasformandosi, almeno fino all’esplodere della pandemia, in uno dei settori in cui si attendevano i maggiori investimenti nei prossimi anni. Fino a 15-20 miliardi di euro entro il 2035.
Basti pensare che in Lombardia l’84% delle RSA, che nel loro insieme rappresentano un affare da 1,4 miliardi di euro, è privato. Un affare che coinvolge 8.000 strutture e 262.000 persone censite dallo Spi-CGIL soltanto per il 2018 in tutt’Italia5.

«È un settore a metà tra l’immobiliare e l’infrastrutturale, che rappresenta un ottimo modo per diversificare e proteggere i portafogli, soprattutto nei momenti di ciclo economico debole», ha affermato in un recente convegno Giuseppe Oriani, ceo per l’Europa di Savills Investment Management. Ma che cosa attira gli investitori? In primo luogo, si tratta di un investimento a basso rischio, che si traduce in una sostenibilità dei canoni su un arco temporale medio lungo. «A questo, concorre il fatto che nel sistema italiano, così come in quello francese o tedesco, solo una parte delle rette di degenza è a libero mercato, ma una quota consistente è coperta dal pubblico, nel nostro caso dalle Regioni. Questo è un elemento di garanzia per chi investe», spiega Pio De Gregorio, responsabile Industry trend & benchmarking analysis di Ubi Banca, che ha redatto un accurato studio sul settore.
Naturalmente fanno gola i rendimenti medi lordi, stimati in un range compreso tra il 6% il 7,5%. La dinamica demografica è legata a doppio filo a questa classe di investimento. Infatti, a seconda degli scenari che si verificheranno, e dunque della necessità di posti letto in Rsa, si parla di investimenti in nuove strutture per 15 miliardi di euro entro il 2035, secondo l’ottica più conservativa, o fino a 23 miliardi secondo lo scenario più generoso. L’Italia ha ancora un forte gap da recuperare. In Germania ci sono oltre 12mila strutture per circa 876mila posti letto, in Francia 10.500 strutture e 720mila posti letto, in Spagna rispettivamente circa 5.400 e 373mila.6

Quello delle RSA, alla luce dei decessi ricollegabili alla mancata prevenzione sanitaria in occasione dell’attuale pandemia, sembra essere un esempio piuttosto efficace per dimostrare concretamente come salute, assistenza e finanza non possano collimare nei loro obiettivi ultimi7.
L’assalto finanziario ad ogni aspetto del sociale infatti non rappresenta soltanto una riduzione della spesa dello Stato nel settore dei servizi ai cittadini, ma un vero rovesciamento di questi ultimi che si trasformano in un autentico settore di investimento protetto per il capitale finanziario sempre più alla ricerca di aree garantite in cui essere “parcheggiato” con una resa maggiore di quella fornita dall’investimento produttivo.

La strategia messa in atto da anni nei confronti della spesa pubblica e del suo taglio, si rivela dunque sempre di più per quello che di fatto è: fornire la possibilità di continuare ad investire speculativamente senza rischiare che l’enorme bolla finanziaria che si è venuta a creare negli anni (con scarsa o nulla base nell’economia reale) finisca con l’esplodere.
Questo può tranquillamente farci affermare che proprio per tale motivo i paperoneschi fantastiliardi promessi dal governo di Totò e Peppino per fronteggiare la crisi non esistono. Non esistono nelle casse del governo e non esistono nemmeno nelle casse delle banche. Le quali ultime avendo investito cifre da capogiro in titoli gonfiati, se non in veri e propri junk bond, oppure in titoli di Stato per impedire l’aumento dello spread e degli interessi pagati oggi non hanno disponibile tutta la liquidità richiesta dal governo per finanziare le imprese in crisi.

Interessante, da questo punto di vista, può rivelarsi la posizione assunta dall’AD di Intesa San Paolo, Carlo Messina, che, nei giorni scorsi, ha dichiarato che se la banca farà la sua parte mettendo a disposizione 50 miliardi di crediti, anche gli imprenditori che hanno spostato i loro investimenti e le loro ricchezze all’estero dovrebbero fare altrettanto facendoli rientrare in Italia8. La globalizzazione si incrina quindi, proprio ai suoi vertici, di fronte a una crisi che, al di là delle vacue dichiarazioni di Conte e Gualtieri, non troverà nei finanziamenti europei la sponda troppo a lungo strombazzata. Né i 1500, né i 400 miliardi ma, per ora e al massimo, i 37 messi a disposizione dal ferreo fondo salva stati (MES).

Da qui due conseguenze immediate e tutte due da consumarsi sulla pelle dei lavoratori: la prima è la riapertura di tutte le aziende che ne hanno fatto richiesta in deroga9 in cambio del mancato aiuto promesso su così larga scala (certo qualcosa ci sarà, ma non nella misura attesa da gran parte del mondo imprenditoriale), mentre la seconda (che non sarà comunque l’ultima) è compresa nell’accordo di cui abbiamo parlato all’inizio di questo intervento.

Non vedere in questo accordo una forma di liberalizzazione dei contratti di lavoro destinata a durare ben oltre l’emergenza sarebbe da imbecilli e non denunciarlo semplicemente criminale.
Ecco allora serviti gli snodi su cui articolare la nuova protesta sociale, non sull’idealità o l’ideologia o su un solidarismo più di marca cattolica che rivoluzionaria, ma sulla salda concretezza costituita dall’impossibilità di far coincidere gli interessi dei lavoratori con quelli dello Stato e del capitale, soprattutto nei periodi di crisi. Si tratti dei lavoratori dell’industria, si tratti dei lavoratori e degli operatori della sanità, si tratti ancora dei lavoratori dei servizi pubblici e privati e della scuola, la crisi ha tolto la maschera alla controparte. E’ ora di smettere di considerare il lavoro dipendente un privilegio o una fortuna, anche là dove sembrava garantito. E’ venuta l’ora di riportarlo al centro del conflitto e dell’attenzione antagonista.

In questi giorni il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che siamo davanti ad una crisi peggiore di quella del 1929, dalla quale, occorre sempre ricordarlo, si uscì soltanto con il secondo macello imperialista mondiale; sorto ed esploso non per un insanabile conflitto tra democrazia e autoritarismo, ma soltanto per ridefinire i confini delle aree di influenza economica e politica nel e sul mercato mondiale. Il Financial Times si è spinto a dichiarare in prima pagina (15 aprile) che questa sarà la peggiore crisi economica degli ultimi 300 anni. Ma è stato il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, a giungere ad una sintesi storica più adeguata, dichiarando che:

Una volta che l’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia sarà sotto controllo, il rischio è che si apra una delle più grandi fasi di stagnazione economica degli ultimi secoli e con essa una ristrutturazione dei sitemi politici di riferimento. Il pericolo è di ritrovarsi in una nuova «grande crisi generale» paragonabile a quella che gli storici definiscono la «crisi generale del XVII secolo», quando la seconda ondata pandemica di peste fu accompagnata da un profondo cambiamento degli assetti politici ed economici […] La conseguenza è che dobbiamo attenderci non solo della povertà la più grave recessione economica degli ultimi secoli, con un crollo inimmaginabile della capacità produttiva e un aumento mai registrato e delle disuguaglianze a livello globale, ma anche lo stravolgimento dell’ordine esistente. Già all’indomani della grande crisi del 2008, infatti, l’ordine internazionale liberale ha cominciato a dare segni di cedimento strutturale.10

Mai come in quest’occasione la salvaguardia della salute e delle garanzie sul lavoro sono state coincidenti; mai come in questo momento lotta sindacale e lotta politica (intesa nel suo senso più ampio di ridefinizione delle necessità sociali e del modo di governarle) si sono avvicinate nelle loro finalità; mai come oggi la lotta per la ripartizione della ricchezza prodotta è stata tanto importante per ridefinire i modi della sua creazione, delle sue finalità e della difesa dell’ambiente. E della salvaguardia della specie umana.

Soprattutto in un contesto in cui la sostanziale confusione sui dati epidemiologici, la chiacchiera politica, la propaganda mediatica e le continue e contraddittorie illazioni di presunti esperti quali Roberto Burioni e Ilaria Capua (nomi che valgono soltanto come esempio considerato che l’elenco potrebbe continuare a lungo) non hanno fatto altro che coprire di parole inutili e pietose la sostanziale scelta dell’immunità di gregge come unica strategia da applicare nei confronti dell’epidemia, pur senza averlo mai dichiarato pubblicamente.

Lontani dalla memoria storica della Chiesa, che ha motivo di mantenerla non per ragioni di cambiamento e sovvertimento dell’ordine esistente, ma al contrario per la necessità di conservare i suoi apparati e la sua funzione11, i tecnici del dream team di Vittorio Colao già insistono per rendere obbligatorio lo smart working, il telelavoro, per le grandi aziende e ovunque sia possibile. Mentre alcuni lavoratori e alcune lavoratrici possono vedere in questa “modernizzazione” una forma di flessibilità che potrebbe andare incontro alle loro esigenze personali e famigliari, è inevitabile osservare come tale ristrutturazione del lavoro white collar sia destinata a promuovere un’ulteriore parcellizzazione dello stesso e un’atomizzazione dei suoi esecutori che, ben presto, dovranno fare i conti con una totale privatizzazione dei loro contratti e con una tendenza inarrestabile alla creazione di lavoratori “autonomi” (in realtà dipendenti) assolutamente non più garantiti sia sui tempi di lavoro che sulle retribuzioni. Come già ben sanno molti lavoratori precari.

Sarebbe poi da affrontare il tema della ristrutturazione del lavoro nel comparto sanità, dove è evidente che dietro agli untuosi elogi agli “eroi che ci difendono in prima linea” si cela una totale ristrutturazione peggiorativa delle condizioni di lavoro dei medici (qui) e di tutto il personale sanitario12, già da tempo iniziata con le privatizzazioni messe in atto nel settore. Non solo in Lombardia, caso più eclatante, ma in tutta Italia e da ogni governo nazionale o locale.

Nella scuola anche non ci sarà da scherzare. Anche qui il telelavoro di queste settimane, le lezioni a distanza e le riunioni fiume per via telematica, non costituiranno altro che un ulteriore aumento dei carichi di lavoro dei docenti, una riduzione delle risorse disponibili (che bisogno ci sarà di pagare i corsi di recupero, se gli insegnanti saranno obbligati a tenere delle lezioni da casa al pomeriggio?) e se le classi saranno ridotte di numero sarà solo per sdoppiarle su un lavoro che potrebbe svolgersi sia di mattina che pomeriggio, con un aumento dell’orario settimanale dei docenti non accompagnato da un’adeguata retribuzione. Non a caso già si parla di un nuovo contratto e di nuove assunzioni che certo non sarebbero minimamente adeguate a coprire un raddoppio delle cattedre.

Del lavoro in fabbrica, nei cantieri, nella distribuzione e nel commercio abbiamo già indirettamente parlato anche negli articoli precedenti. Ma se da un lato su ogni lavoratore di questi settori, come anche di quelli citati prima, graverà la spada di Damocle del licenziamento e della disoccupazione, è chiaro che su tutti i lavoratori e le lavoratrici peseranno fin da subito l’aumento dei ritmi, l’inasprimento delle turnazioni, la probabile riduzione delle retribuzioni per permettere alle aziende, grandi e piccole, di superare ‘insieme’ il difficile momento. Lo ha sintetizzato benissimo il presidente degli industriali vicentini, Luciano Vescovi, quando ha affermato: “Si tratta di trovare un percorso italiano per tamponare l’emergenza e aiutare il sistema, ma è molto complicato in uno Stato privo di soldi. Bisogna dirlo chiaramente: bisogna tornare a lavorare, e tirare la cinghia per un po’” (qui). Mentre lo stesso presidente del consiglio Conte ha già preannunciato che, con la prossima riapertura, si lavorerà sette giorni su sette.

D’altra parte l’elezione di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria e l’immediata proposta di anticipare ufficialmente la riapertura produttiva del settore auto (che significa, in realtà, praticamente tutta la metalmeccanica) e di quello della moda (tessile e non solo: cuoio. chimica, etc.) mostrano chiaramente come tutte le decisioni della politca siano completamente assuefatte, a Destra come a Sinistra, agli ordini provenienti dai “padroni del vapore” e dagli investitori. In fin dei conti, nella pletora di tecnici arruolati di giorno in giorno per svolgere le funzioni che dovrebbero essere specifiche del Governo e del Parlamento, i veri specialisti sono loro: gli imprenditori. Che, però, non ancora soddisfatti dagli omini di pezza posti al governo o nel parlamento, si spingono già a chiedere la presenza di un nuovo de Gaulle13.

Non tenere conto di ciò, chiudersi nello specifico o nel proprio orticello, scimmiottando gli orridi specialisti ed esperti come i 17 membri della super-commissione varata dal governo in questi giorni, sarebbe semplicemente perdente e conservatore.
In tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti i lavoratori di tutti i settori hanno capito che la lotta contro la crisi da coronavirus coincide con la lotta contro il virus del capitale (qui).
Ma ciò che fa paura, forse, è proprio il fatto che nelle crisi sistemiche tutti i nodi sono destinati a venire al pettine e non ci sia più spazio per le incertezze e i tentennamenti.
Stiamo dunque ben attenti a non perdere questa occasione, a partire proprio dalle assemblee, dalle discussioni e dalle eclatanti contraddizioni che si svilupperanno sui posti di lavoro. Non abbiamo bisogno di inventarci spazi, ma di riconquistare quelli che ci sono e conosciamo già.
In fin dei conti, se già gli “esperti”, i media e l’economia ci dicono che “fa brutto”, anche noi avremo prima o poi il diritto di sbroccare, no?14

N.B.
Questo lungo articolo, la cui responsabilità per i contenuti e gli eventuali errori ricade interamente sull’autore, non sarebbe stato possibile senza i consigli, le critiche e le considerazioni espresse da Luca B., Giovanni I., Maurizio P., Gioacchino T. e Cosetta F.


  1. F.M.Snowden, Epidemics and Society. From the Black Death to the Present, New Haven- London 2019, Yale University Press, p.7  

  2. Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020  

  3. Dati Istat riferiti al 2016  

  4. Resta qui da ricordare sempre il vademecum prodiano per la “proficua collaborazione “ tra Stato e mercato: Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino 1995  

  5. R. Galullo e A. Mincuzzi, Residenze per anziani, affare da 1,4 miliardi in Lombardia. L’84% delle Rsa è privato,il Sole 24ore, 8 aprile 2020  

  6. Adriano Lovera, Residenze per anziani, mercato in crescita costante, il Sole 24ore, 14 ottobre 2019  

  7. In Italia, Spagna, Francia, Belgio e Irlanda la metà dei decessi da Covid-19 è avvenuta nelle residenze pr anziani (qui)  

  8. A. Greco, Intervista a Carlo Messina, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  9. Facendo sì che il lockdown promesso e strombazzato non sia mai neppure lontanamente esistito per la maggioranza dei lavoratori, come si può osservare anche solo dai dati dell’ISTAT (qui); fatto evidente che soltanto da qualche giorno il Viminale e alcuni quotidiani fingono invece di scoprire 

  10. Raul Caruso, Dopo la pandemia si rischia una crisi degli assetti globali, Avvenire 14 aprile 2020  

  11. Anche quando per bocca di Papa Francesco avanza la richiesta di un salario universale per i lavoratori più poveri (qui)  

  12. Come spiega molto bene l’intervista ad un’infermiera contenuta qui  

  13. Carlo Andrea Finotto, Virus e rischio baratro. Perché all’Italia servirebbe un nuovo de Gaulle, il sole 24ore, 18 aprile 2020  

  14. Sia ‘far brutto’ che ‘sbroccare’ sono due possibili traduzioni in italiano dell’americano ‘breaking bad’  

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Sport e dintorni – I Mondiali di calcio nell’età della globalizzazione, della spettacolarizzazione e della finanziarizzazione dei club https://www.carmillaonline.com/2018/09/30/sport-e-dintorni-i-mondiali-di-calcio-nelleta-della-globalizzazione-della-spettacolarizzazione-e-della-finanziarizzazione-dei-club/ Sat, 29 Sep 2018 22:45:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48382 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Redazione di Info-Aut, Solo un gioco? Una contro-storia dei Mondiali di Calcio, ebook liberamente scaricabile (*)

A ridosso della recente edizione russa dei Campionati del mondo di calcio, la redazione di Info-Aut ha pubblicato in formato ebook una ricostruzione critica della storia dei Mondiali in cui vengono evidenziati gli interessi economici e politici ruotanti attorno all’organizzazione di una competizione che continua ad appassionare milioni di uomini e donne in tutto il mondo. L’ebook comprende anche due interviste, a Darwin Pastorin, giornalista sportivo sensibile alle [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Redazione di Info-Aut, Solo un gioco? Una contro-storia dei Mondiali di Calcio, ebook liberamente scaricabile (*)

A ridosso della recente edizione russa dei Campionati del mondo di calcio, la redazione di Info-Aut ha pubblicato in formato ebook una ricostruzione critica della storia dei Mondiali in cui vengono evidenziati gli interessi economici e politici ruotanti attorno all’organizzazione di una competizione che continua ad appassionare milioni di uomini e donne in tutto il mondo. L’ebook comprende anche due interviste, a Darwin Pastorin, giornalista sportivo sensibile alle tematiche politiche e sociali, e al collettivo che cura il blog Minuto Settantotto.
Partendo da un breve riferimento alle origini della letteratura critica sullo sport, in questa sede ci soffermiamo in particolare su alcune considerazioni della redazione di Info-Aut contenute nell’Introduzione.

Sulla scia della temperie del Sessantotto, nei primi anni Settanta escono le traduzioni italiane di alcuni saggi di taglio sociologico che sviluppano una critica radicale nei confronti del sistema, della mentalità e delle logiche dominanti in campo sportivo: il testo di Gerhard Vinnai Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista (Guaraldi, 1970), gli scritti di Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm raccolti in un volume intitolato Sport e repressione (Samonà e Savelli, 1971), il libro di Ulrike Prokop Olimpiadi dello spreco e dell’inganno (Guaraldi, 1972). Ricorrendo a categorie marxiste, all’approccio della scuola di Francoforte e alla psicoanalisi, gli autori si propongono in generale di demistificare la retorica sportiva, svelando come dietro all’esaltazione della neutralità dello sport si celi una volontà disciplinatrice e propagandistica, e di mostrare i nessi che legano i fenomeni sportivi e le dinamiche del sistema capitalistico.

Nella maggior parte degli ambienti sportivi e in particolare nel panorama giornalistico italiano dell’epoca questi interventi vengono ignorati o suscitano polemiche dai toni stizziti. Salvo qualche eccezione, di fronte a categorie e ragionamenti critici le reazioni sono volte a difendere ostinatamente la presunta apoliticità, neutralità e separatezza dello spazio sportivo. Al di là delle prevedibili prese di distanza politico-ideologiche, ciò che colpisce è lo spaesamento che sembra investire i giornalisti, costretti a misurarsi con prospettive che mettono in discussione i loro tradizionali e tranquillizzanti punti di riferimento.

I contributi dei sociologi francesi e tedeschi rappresentano i primi tentativi di suggerire piste di ricerca e interpretazioni non convenzionali dello sport, capaci di arricchire il dibattito su una molteplicità di temi: i nessi tra sport e logiche di mercato, la mercificazione e la spettacolarizzazione dell’attività sportiva, la cultura del corpo veicolata dalla ricerca ossessiva della performance, la strumentalizzazione delle manifestazioni sportive in chiave di propaganda politica.
Letti a distanza di anni, questi saggi appaiono però per diversi aspetti viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine unilaterale e riduttiva del fenomeno sportivo. Un limite del loro approccio consiste nell’avere trascurato il fatto che anche l’immaginario (sportivo in questo caso) è terreno di rinegoziazione e di conflitto e che dunque non si esaurisce nelle sole logiche impositive del potere. Un atteggiamento critico nei confronti del sistema sportivo non dovrebbe inoltre perdere di vista l’aspetto emozionale e le passioni ludiche che lo sport, esattamente come il cinema, la musica o qualsiasi forma d’arte, è in grado di trasmettere a prescindere dal sistema politico-economico che lo condiziona. Di questo sono consapevoli gli autori di Solo un gioco? che infatti scrivono: «Il calcio e lo sport, per quanto costretti nelle pastoie di un sistema capitalistico che li ha trasformati in macchine di profitti, hanno sempre in sé la tensione, in ogni partita, corsa, gara a ritornare all’originaria forma d’arte in cui consistono» (p. 10).

Su questo aspetto insiste Darwin Pastorin: «Non esiste confine tra calcio e arte. Tra sport e arte. D’altra parte, quando noi parliamo del football brasiliano sottolineiamo la bellezza e l’innocenza di un’emozione che ha, indubbiamente, a che fare con la musica e la letteratura. Jorge Amado mi disse, nel 1993, nel corso di una intervista per “Tuttosport”: “Sono realmente un appassionato di calcio. Il calcio è qualcosa di più che un semplice sport: è, allo stesso tempo, arte. Una buona partita di football rappresenta uno spettacolo straordinario di danza, con la caratteristica di trattarsi di una danza improvvisata in ogni suo momento da ventidue ballerini. Accade, a volte, che uno di questi ballerini abbia il virtuosismo di Pelé o di Garrincha, di Didi o di Nilton Santos, di Domingos da Guia o di suo figlio Ademir: e così lo spettacolo diventa incomparabile”» (p. 40).

Anche il collettivo Minuto Settantotto, in un’altra intervista riportata in Solo un gioco?, sottolinea la componente emotiva-passionale del calcio che prescinde dall’uso che di esso fanno i poteri economici e politici: «Il pallone è passione popolare e questo non ce lo potrà rubare nessuna pay tv, nessun presidente criminale, nessun Daspo. Possiamo criticare il calcio attuale quanto vogliamo, ma un gol allo scadere della nostra squadra del cuore ci farà esultare come pazzi sempre e comunque… c’è una scena meravigliosa nel film Il mio amico Eric di Ken Loach in cui un tifoso deluso del Manchester United, che ormai segue solo lo United of Manchester (la squadra fondata dai fan critici dei red devils) e non entra al pub con gli amici quando giocano “gli altri”, sente il rumore di un gol in una partita importante e non riesce a resistere. L’essenza del rapporto tra appassionato e calcio è tutta qui» (p. 79).

Nell’Introduzione a Solo un Gioco? gli autori dell’ebook sostengono che l’affermazione degli Stati-nazione dopo la fine delle grandi istituzioni sovranazionali, la risistemazione geopolitica globale al termine della Seconda guerra mondiale e i processi di decolonizzazione creano le condizioni per le grandi manifestazioni sportive internazionali moderne come la Coppa del mondo di calcio.
A partire dagli anni Sessanta, lo sviluppo della tecnologia televisiva, la crescente commercializzazione degli eventi sportivi e l’affermazione della Fédération Internationale de Football Association (FIFA) come “macchina da soldi” capace di svolgere un ruolo politico extrasportivo rilevante sullo scacchiere geopolitco (si pensi alle logiche sottese all’assegnazione delle kermesse sportive) determinano una trasformazione dei Mondiali che li porta a divenire quell’istituzione sportiva globale che conosciamo oggi.

Sul futuro della competizione rimangono aperti diversi interrogativi legati anzitutto alla polarità e al nesso nazionale/globale. Se, da un lato, il torneo mondiale rimane fondato sull’idea di rappresentanza nazionale e continua a suscitare pulsioni e sentimenti identitari, dall’altro la dimensione del calcio, sempre più globalizzata sul piano sportivo e politico-economico, si configura come una complessa rete di interessi e poteri che travalicano i confini degli Stati-nazione.
In una contemporaneità in cui i confini statali oscillano tra chiusure identitarie e protezionistiche e aperture dettate dai processi di globalizzazione e dai fenomeni migratori, mentre le squadre nazionali rimandano all’idea di Stato-nazione i maggiori club calcistici sono diventati vere e proprie imprese transnazionali al pari di quelle industriali e finanziarie e attorno a loro ruotano i principali giri d’affari del mondo del calcio. Nello stesso tempo gli organismi calcistici nazionali «cercano in tutti i modi di sfruttare a livello economico l’indotto che queste grandi squadre generano: non a caso l’amministrazione della Liga spagnola si è esposta numerose volte sulla questione indipendentista catalana affermando che al di là dell’esito del processo politico, il Barcellona senza la Liga e la Liga senza il Barcellona sono assolutamente impensabili. Questione di profitti, che scavalcano le contrapposizioni politiche» (p. 7).

In questo contesto maturano le contraddizioni tra la dimensione calcistica nazionale e le logiche dei grandi club-multinazionali, tali sia per capitali che per composizione delle squadre. Quando, ad esempio, un club è nelle mani di un fondo d’investimento internazionale si configura come una compagine che non è riducibile esclusivamente al campionato nazionale al quale partecipa. D’altra parte, da tempo si parla di una sorta di supercampionato europeo di calcio sostanzialmente riservato alle squadre-imprese che permettono il maggior ritorno economico; le partite di un campionato di tale tipo potrebbero essere giocate ovunque, anzi, per certi versi non è difficile immaginare che possano essere disputate in Asia, in India o in qualche Emirato arabo, come già avviene per diverse finali tra squadre europee e, presto, magari anche per partite di campionato particolarmente seguite (Barcellona-Real Madrid, Liverpool-Manchester United ecc.). È di questi giorni la notizia dell’interessamento della Liga spagnola per fare giocare il prossimo anno incontri di campionato del Real Madrid e del Barcellona negli Stati Uniti e in Cina con l’obbiettivo di aumentare gli introiti grazie ad un pubblico sempre più internazionale.

Gli autori di Solo un gioco? si propongono quindi di offrire motivi di riflessione per chi è impegnato, su vari fronti, a valorizzare il significato sociale e la passione per lo sport rispetto a chi invece è interessato esclusivamente a trarne profitto. In questa prospettiva, le critiche alla spettacolarizzazione televisiva del calcio, sempre più dipendente dalle pay tv e dal marketing, le proteste nei confronti delle derive del calcio moderno da parte di settori delle tifoserie e la crescita di «squadre di calcio popolare, palestre autorganizzate, esperienze di giornalismo e letteratura critica sui temi sportivi» (p. 9) possono contribuire alla trasformazione del discorso sullo sport e della pratica sportiva in una direzione auspicata anche da Pastorin: «Il calcio, e lo sport in generale, devono ritornare ad avere un valore pedagogico. Bisogna ripartire dalla scuola e dalla famiglia, da una “cultura della sconfitta”, dal gioco inteso in quanto tale, cioè “gioco” appunto, senza esasperazioni. Basta con i genitori manager, con il culto del dio denaro, e diamo, di nuovo, più importanza al dribbling che al marketing» (p. 43).

(*) ebook liberamente scaricabile fotocopiabile, condivisibile, con la solo richiesta di citare la fonte. Attribution ‐ NonCommercial ‐ NoDerivatives 4.0 International


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Isis: il gran ballo in maschera della modernità globale https://www.carmillaonline.com/2017/07/11/isis-gran-ballo-maschera-della-modernita-globale/ Mon, 10 Jul 2017 22:01:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39287 di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Mentre sta tramontando, tra le rovine di Mosul e Raqqa, la dimensione geografica e “statuale” del Califfato, è bene continuare ad indagare il senso e la traiettoria storica di questa presenza – che perdurerà ancora lungo, in forme mobili e deterritorializzate, a cavallo di almeno due continenti.

Da alcuni anni è aperto il dibattito sul rapporto complesso e ambivalente tra il fenomeno Isis e la modernità. Ci si è chiesto spesso: la comparsa del Califfato è l’ultimo culminante episodio dell’impatto critico e autodistruttivo del mondo islamico con le categorie del moderno, o piuttosto è il segnale di una insospettabile capacità di adattamento, alla modernità stessa? Certo bisognerebbe perimetrare due concetti inafferrabili e mutevoli: l’Islam (che come categoria astratta e meta-storica non esiste) e la Modernità (che è un cantiere concettuale sempre aperto e in perenne evoluzione). Ma l’argomento è affascinante e vale la pena entrarci, in una modalità che allarghi il discorso specialistico solitamente riservato agli storici, agli islamologi, agli antropologi.

Di solito, quando si parla dello Jhiadismo globale e del suo rapporto con la modernità, ci si sofferma sulla dimensione, morbosa ed efficacissima, della padronanza tecnologica dei media, che questa forza manifesta. Ci sorprende vedere tagliagole barbuti, fautori di arcaismi secolari, maneggiare la infosfera con tale efficacia hollywoodiana. I boia stringono in pugno il coltellaccio, ma in tasca hanno uno smartphone iperconnesso e rappresentano se stessi su riviste on line graficamente raffinate. Questo ci turba: perché associamo la tecnologia alla civiltà (o almeno a quel che supponiamo essa dovrebbe essere). Naturalmente basta volgere lo sguardo pochi decenni indietro, nel cuore della civilissima Europa infettata dal nazismo, per cogliere la medesima ambivalenza: un movimento propugnante valori parimenti arcaici, ma altrettanto disinvolto nel suo rapporto con la Tecnica, nell’epoca del pieno sviluppo della grande industria di massa e del capitalismo monopolistico di Stato. Anzi: in alcuni casi si può dire che più il campo valoriale è regressivo – e ostentatamente arcaico – più il rapporto con la tecnologia pare diventare ossessivo, quasi come se le due dimensioni si legittimassero a vicenda. Questo cortocircuito, rende confusi e circospetti: quello che ci viene raccontato come il nemico estremo, gioca nella nostra stessa metà campo, non è un alieno germinato nei deserti, condivide il nostro background e, quando può, il nostro stesso stile di vita sostanziale – essendo la comune dimensione bio-politica totalmente informata e forgiata da tempi e modi della tecnologia.

Ma il feeling di queste forme di radicalismo con la modernità è ancora più profondo ed evocativo, e va oltre le considerazioni circa l’uso dei media e del web.
L’Isis non è solo l’onda lunga di uno Jhiadismo globale che nasce 40 anni fa negli altipiani afghani con i dollari americani e i petroldollari sauditi. Rappresenta una evoluzione della specie, se così possiamo dire, di quel filone (da qui le rotture sanguinose con Al Qaeda e con i Talebani). L’approccio dell’Isis è inedito, più radicale e catartico, rispetto qualsiasi altra soggettività islamista mai apparsa nell’ultimo secolo: il progetto neo-califfale punta alla costruzione un “Homo Novus” islamico, provando a fare tabula rasa (non solo ideologicamente) di ogni passato, in una prassi di soppressione e cancellazione delle memorie pre-esistenti – comprese quelle islamiche locali. Dai complessi monumentali antichi – sopravvissuti per 1400 anni alle diverse autorità religiose succedutesi nel tempo -, fino alle tombe degli odiatissimi sufi, la furia distruttrice rivela qualcosa che va ben oltre l’iconoclastia. Si tratta di un’azione velleitaria e folle di “ricostruzione da zero” del Soggetto e della sua realtà: una qualche forma di titanica velleità prometeica, in cui un pugno di eletti, rifonda il corso storico e decreta, dal pulpito di una moschea, la nascita di un “musulmano nuovo” – che inevitabilmente richiama il mito dell’”uomo nuovo” che verrebbe partorito dalle macerie fumanti di ogni palingenesi, reale o presunta.

Questo schema, alle orecchie di noi occidentali, non suona propriamente inedito – è qualcosa che ha molto a che vedere con la Modernità (e con la Politica, sua figlia prediletta). Sono discorsi che evocano movenze e attriti che si sono già inverati, soprattutto nel corso del ventesimo secolo, e di cui siamo stati testimoni e protagonisti. L’idea della tabula rasa su cui ri-edificare, con la forza illuminata ( dalla Ragione o dalla Rivelazione, cambia poco) della volontà, un Mondo Nuovo e un Uomo Nuovo che lo abiti, è una suggestione profondamente radicata nella storia europea, nella NOSTRA storia, almeno dall’89 francese in poi. Il Mostro, l’estraneo, ha attinto largamente dal “nostro” armamentario ideologico, rovesciandone il segno e accelerandone, in una furia devastatrice, la fase del kathairo, dell’estirpazione, del fuoco purificatore.

La storia dell’Islam non conosceva questa ansia catartica.
Dopo il primo secolo di folgorante espansione, diventa a suo modo una storia di lentezza, di confini mobili e porosi, di perdite, riconquiste e sovrapposizioni di civiltà e culture che si succedono per secoli. Persino la predicazione profetica impiegò 26 anni a radicarsi. Le culture tradizionali (pre-moderne) avevano consapevolezza del tempo storico, dell’impossibilità di forzarlo.

Già nel corso del primo secolo, entrando in collisione con i residui degli imperi siriani e persiani, il baricentro del mondo islamico si sposta verso Damasco e Baghdad, assorbendone parte delle eredità millenarie. Si definisce il profilo storico di un islam “persiano” e metropolitano, lontano dai deserti e dalle rotte carovaniere della penisola arabica. E, proseguendo, nascerà un Islam mediterraneo, berbero-andaluso, poi afghano-indiano e quindi turco-caucasico.
Questi molti Islam plurali erano il prodotto di un meticciato profondo e di complesse stratificazioni. Il massiccio edificio coranico, apparentemente monolitico era in grado di fare i conti con la storia concreta dei popoli – dalla Spagna alla Cina – senza la pretesa di cancellarla e riscriverla in toto. Non c’erano modelli preconfezionati da importare o adottare: tutto – dalle forme di governo fino alla teologia – risultava essere il prodotto di infiniti processi di aggiustamento, conflitto e convivenza, che definivano assetti di volta in volta nuovi e diversi.

L’idea di un Islam immutato e immobile nei secoli è una scempiaggine moderna, che l’Occidente sbandiera come alibi e falsa coscienza: gli Islam sono sempre stati molti e diversi ed epoca dopo epoca, l’Occidente ha idealtipizzato uno di questi modelli, a seconda delle sue necessità politiche, di lotta, colonizzazione o cooptazione di settori di quel mondo.

La edificazione dello pseudo-Califfato dell’Isis, mostra una insospettabile consapevolezza, da parte dei gruppi dirigenti jhiadisti, delle tematiche della governance contemporanea. Non per niente, pezzi importanti del Bathismo (cioè dell’eredità pan-arabista, laica e modernista) vi hanno aderito con disinvoltura.
Lo stesso richiamo alla categoria di “Stato” che Daesh sbandiera nella sua denominazione, è una suggestione moderna e molto “occidentale”: l’Islam tradizionale, nel corso storico concreto, ha sempre prodotto la dimensione imperiale – che significa multietnicità, pluriconfessionalità, livelli diversi di potere che si equilibrano, tra Emirati, Città-Stato, comunità, confraternite. L’idea moderna di Stato, con un’architettura rigida, definita e non mediabile dei poteri, strumento di formidabile accelerazione dei processi storici, è un concetto estraneo alla tradizione islamica. L’Isis esalta il concetto di edificazione dello Stato proprio perché lo Stato è l’unico strumento possibile di governo della modernità – soprattutto nella sua razionale spietatezza. Tanto per capirci: il genocidio armeno è il biglietto da visita dei “giovani turchi” di Ataturk e uno degli atti di fondazione della moderna Turchia laica (il Sultanato, ostaggio impotente, sarebbe stato soppresso da lì a poco).
Il genocidio organizzato è il marchio di fabbrica dello Stato moderno e delle sue logiche di epurazione ed omogeneizzazione interna.

Questo è anche il filo conduttore della politica dell’autoproclamato Stato Islamico: ricostruire la Umma depurandola di tutti gli elementi spuri (quelli che disconoscono l’autorità califfale), dotare questo corpo finalmente omogeneo di confini ideologici e materiali insormontabili, costituirsi come fondazione di una storia nuova, dove tutto il tempo pregresso è jahillya, età dell’ignoranza da ripudiare.
È per legittimarsi modernamente come Stato, che l’Isis sbandiera le sue efferatezze (quelle che gli altri attori in campo di solito nascondono): il monopolio della violenza è l’unico elemento di “statualità” che possono giocarsi efficacemente davanti ai territori controllati e al mondo – mancando tutti gli altri, soprattutto quelli che possono avere un rapporto con una qualche idea di governo della polis. La legittimazione dell’Autorità politica e statuale, è direttamente proporzionale alla ferocia esibita. Il meccanismo di riconoscimento che vogliono stimolare nei popoli è in fondo semplice: se arrivano davvero a fare “questo” – decapitare, bruciare, squartare – ed hanno il coraggio di diffonderlo, vuol dire che incarnano davvero un Potere legittimo, perché solo un Potere legittimo può essere in grado di padroneggiare il Male e trasformarlo in virtù pubblica e Legge. Perché, altrimenti, i giacobini esibivano le teste mozzate davanti a tutta Europa – se non come fattore di auto-legittimazione, dentro il parto doloroso della modernità? E questo è stato il refrain di molte epopee rivoluzionarie: la nuova legalità ha bisogno della catarsi – ce lo chiede la storia…

La prassi e l’ideologia dell’Isis si mostrano quindi come prodotto ideologico di laboratorio (anche sofisticato) che, pur evocando le sacre radici della Tradizione, trova riscontro più che nella vicenda storica concreta dell’Islam, nelle convulsioni geopolitiche della tarda modernità, nelle sue accelerazioni, nella sue proteiche riconfigurazioni.

Oggi l’Isis viene raffigurato come l’emblema del Male e del Nemico Assoluto. Il nuovo feroce Saladino che legittima l’esistenza di formidabili apparati militari di contrasto, nonché la irreversibile militarizzazione della società e della metropoli.
Come paradossalmente spesso capita nella storia, però, cerchi il Nemico, cerchi l’Altro per eccellenza, il barbaro, il sub-umano, e trovi uno specchio che riflette una tua immagine distorta…

L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.

L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga.

Materialismo mercantile, immersione acritica nella Tecnica, utopie di rifondazione catartica dell’umano: più che una sopravvivenza anacronistica, queste forze sembrano una variante pienamente legittima della contemporaneità.

Del resto, è la la storia recente di questo universo pseudo-jhiadista , a rivelare se stesso. La Salafya – cioè l’insieme di scuole e tendenze che vorrebbero rifarsi esclusivamente ai costumi delle prime tre generazioni di musulmani – è una invenzione moderna, che ostenta tradizionalismi inventati. Rifiuta ed è rifiutata dalle quattro scuole legittime. Nasce e alligna dentro lo scontro geo-politico della fine del ventesimo secolo e per diffondersi ha avuto bisogno di decenni di enormi investimenti economici: masse di ulema-commissari politici, migliaia di moschee edificate ai quattro angoli del pianeta, la collaborazione logistica di molti apparati statali, compreso quello israeliano. I Salafiti “ufficiali” in larga parte rifiutano lo stragismo terrorista, ma molti musulmani dicono di loro che “sono un prodotto occidentale, come la Coca Cola”.

E se la Salafya è il frutto di un grande investimento geo-politico-strategico, stessa cosa vale per il suo fratello maggiore, il wahabismo – la dottrina ufficiale dell’Arabia saudita – che è parimenti il prodotto, moderno, del…. ciclo degli idrocarburi. Senza il petrolio, nessuno oggi conoscerebbe lo sciagurato estremismo di Abd al-Wahab, pazzo predicatore sconfitto e scacciato dalla penisola arabica tra la fine e l’inizio dei secoli diciottesimo e diciannovesimo. È solo la forza del mare di petrolio, su cui i discendenti dei Saud si ritroveranno seduti un secolo dopo, che ha consentito al wahabismo di diventare dottrina di Stato in buona parte delle monarchie del Golfo. E di produrre una sciagurata egemonia in territori e settori di mondo arabo, fino a pochi anni fa alieni a quella cultura. Lo Spirito, la predicazione, l’ortodossia e l’osservanza, c’entrano poco: la materialissima e modernissima forza del dio petrol-dollaro, disegna nel vuoto suggestioni iper tradizionaliste, gestisce fondazioni miliardarie, demolisce le tombe e le antiche vestigia del passato profetico e costruisce super alberghi a 5 stelle che fanno ombra alla Ka’ba. Materialismo, finanza, investimenti, guerre e posizionamenti sullo scacchiere internazionale – altro che sharia.

Insomma, cerchi i barbari alle porte e trovi che siamo tutti immersi nel medesimo imbarbarimento. E che esso riflette pienamente il presente e il futuro verso cui marciamo.

In conclusione, una domanda ritorna costantemente, con buona ragione: ma questo ciclo jhiadista, c’entra o non c’entra con la religione? È tutto politica, è tutto strumentalità, è tutto costruzione artificiale eterodiretta? La fede, sta all’inizio o alla fine, di questa catena di disastri che si squaderna davanti ai nostri occhi?
È difficile dare risposte semplici a problematiche tanto complesse, ma traslare la domanda su un altro piano, a noi più consueto, forse ci aiuta: le Crociate c’entravano o no con la religione?
Certo che c’entravano, sarebbe puerile negarlo. La croce e il mito della difesa dei Luoghi Sacri erano il fattore ideologico di mobilitazione per le masse e l’elemento di nobilitazione dell’impresa, mica una banale sovrastruttura. Però: le Crociate spontanee, quelle sollecitate dal fanatismo (le cosiddette Crociate dei pezzenti) non riuscirono mai neanche ad arrivare a Gerusalemme, vagarono senza mezzi per le contrade europee fino ai territori bizantini, si “limitarono” a saccheggi e pogrom antiebraici e poi furono disperse.
Le vere Crociate le organizzarono Papi, Imperatori, Re e Principi. Gli Stati.
Non qualche fanatico imbecille.

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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