Financial Times – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 10: il biglietto che è esploso https://www.carmillaonline.com/2022/03/30/il-nuovo-disordine-mondiale-10-il-biglietto-che-e-esploso/ Wed, 30 Mar 2022 20:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71203 di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 ) “Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022) “E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere. Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo [...]]]> di Sandro Moiso

“Draghi avvisa la Cina” («Il Giornale» – 24 marzo 2022 )
“Oltre 100 milioni di persone torneranno in stato di povertà estrema” (Ignazio Visco, governatore di Bankitalia – 26 marzo 2022)
“E’ un viaggio lungo. A bordo ci siamo solo noi.” (William S. Burroughs – Il biglietto che è esploso)

Se la situazione internazionale e interna italiana non fosse quella che è, ci sarebbe da ridere.
Da un lato un titolo trionfalistico che immagina l’inimmaginabile: un sorta di ultimatum dell’Italia alla prima o seconda, dipende soltanto dal tipo di calcolo eseguito per stabilirlo, potenza economica mondiale; dall’altro le considerazioni di un funzionario importante del governo dell’esistente che indica le più che probabili conseguenze della situazione venutasi a creare con la crisi pandemica, prima, e lo scoppio della guerra in Ucraina, poi.

Sintomo, al di là delle squallide diatribe politiche interne, non soltanto di un paese privo ormai di qualsiasi strategia governativa che non sia quella di approfittare delle occasioni, ma anche di un’Europa, mai stata realmente unita dal punto di vista politico ed economico, ormai entrata, nonostante le pompose e sussiegose dichiarazioni che ne accompagnano ogni riunione, più o meno straordinaria, dei propri maggiori rappresentanti e ministri, in una fase di vistoso declino del proprio peso politico su scala internazionale.

La stessa insignificanza dei suoi due maggiori rappresentanti, Ursula von der Leyen e Charles Michel, rende evidente come un’entità politica nata con aspirazioni planetarie (si pensi soltanto all’istituzione dell’euro come possibile sostituto del dollaro e poi ridotto a strumento di controllo della riduzione della spesa pubblica interna di ogni singola nazione), l’Unione Europea, stia sostanzialmente sfiorendo senza aver portato a termine nessuno degli obiettivi immaginati all’atto della sua fondazione.
In un percorso ormai sempre più evidentemente disastroso in cui gli incitamenti, nemmeno troppo mascherati, al far da sé e al si salvi chi può sembrano aver sostituito, finanche nella sostanza, i precedenti appelli all’unità di intenti e di propositi.

Se il capitalismo, come si è già ribadito in infiniti altri interventi, è il regno delle possibilità e delle opportunità da afferrare, in cui la prontezza di riflessi è più importante di qualsiasi tentativo di programmazione e in cui la forza e la capacità di appropriarsi, in qualsiasi frangente, di ciò che il caso o la necessità mettono a disposizione del predatore più rapido, risultano determinanti per il successo sia nelle iniziative economiche che politiche, la situazione creatasi dopo l’inizio delle ostilità in Ucraina ha visto i maggiori paesi europei perdere terreno rispetto alle iniziative diplomatiche, militari ed economiche non soltanto degli Stati Uniti, ma anche di paesi come l’India, la Turchia, Israele e vari altri diversamente collocati sullo scacchiere mondiale1.

La riunione del Consiglio europeo tenutasi a Bruxelles, in occasione della visita del presidente Biden in Europa, ha messo perfettamente a fuoco la situazione di divisioni e differenti interessi che ormai segnano i percorsi e le politiche dei membri fondatori.
Così mentre l’obiettivo della difesa europea, di cui si vagheggia da anni, si scontra con le scarse risorse che le sarebbero messe a disposizione e un numero di soldati (5.000) francamente inappropriato alla bisogna, si nota con sempre maggior evidenza uno smarcamento della Germania dallo stesso progetto nel momento in cui il governo tedesco ha deciso una spesa di 100 miliardi di euro per favorire il riarmo nazionale.
Un riarmo che, come afferma il quotidiano «Handelsblatt» nel numero del 29 marzo 2022, richiederà:

Più munizioni, nuovi carri armati, aerei e navi da guerra – e ora anche uno scudo missilistico da miliardi di dollari: dopo il cancelliere federale Olaf Scholz (SPD), anche il leader della CDU Friedrich Merz ha segnalato l’approvazione per un possibile appalto del sistema israeliano “Arrow 3”, noto anche come “Iron Dome”.
Nel 2020, la grande coalizione aveva fermato lo sviluppo di una difesa missilistica tedesco-americana. Ma l’attacco russo all’Ucraina e la mancanza di prontezza operativa della Bundeswehr stanno ora cambiando le priorità. Gli acquisti devono essere effettuati in tutto il mondo dove i sistemi d’arma completamente sviluppati possono essere consegnati rapidamente.

Ciò si rende necessario, perché le capacità di molte aziende tedesche produttrici di armamenti sono già pienamente utilizzate, poiché, secondo la volontà espressa dalla Nato e dai paesi dell’UE, l’Ucraina dovrebbe essere rifornita di armi aggiuntive il più rapidamente possibile deviando le esportazioni di armi tedesche verso l’Ucraina per conto di paesi terzi.

Questo però non toglie dall’orizzonte la possibilità di un altro smarcamento che, nonostante le parole spese dal presidente di turno Macron, contraddistingue anche l’operato francese in ambito militare. E’ infatti impossibile credere che la Francia rinunci di punto in bianco ai sogni di autonoma grandeur che hanno sempre contraddistinto la sua politica militare e diplomatica. Confermata dalla condanna espressa da Macron nei confronti degli epiteti rivolti da Biden a Putin, durante il discorso tenuto a Varsavia, in vista della continuazione dei funambolismi diplomatico-umanitari francesi nel conflitto ucraino. Mentre il Regno Unito, oggi separato dall’UE a seguito della Brexit, continua allo stesso tempo il suo gioco diplomatico e militare nella regione baltica che, di sicuro, non può vedere di buon occhio il riarmo tedesco, soprattutto navale.

All’interno di tutti questi “giochi di guerra”, occorre ricordare che l’attivismo italiano, che ha spinto molti a considerare l’attuale capo del governo Draghi come un falco filo-americano, non fa altro che confermare lo spirito di vassallaggio che anima le politiche italiane fin dall’avvento della seconda repubblica, nata priva di quella relativa libertà di azione economica e diplomatica che aveva caratterizzato le politiche democristiane in ambito mediterraneo.
Un vassallaggio che tenta di approfittare dell’attuale situazione di necessità bellica per rilanciare su grande scala la produzione e l’esportazione di armamenti che, nel corso degli anni, ha visto scivolare l’Italia al settimo e al nono o decimo posto nella classifica mondiale dei produttori ed esportatori di armi.

Proposito oggi ancora virtuale se si considera che la cosiddetta “cittadella dell’industria degli armamenti” prevista a Torino, con tanto di uffici di rappresentanza Nato, è ancora ampiamente da realizzare, mentre nel settore aeronautico, così spesso pubblicizzato per quanto riguarda l’”eccellenza” italiana, per ora l’industria della difesa nazionale deve accontentarsi di funzionare come un’autentica “maquilladora” per il montaggio degli F-35 a Cameri. Aerei cui gli stessi Stati Uniti stanno iniziando a rinunciare in favore di altri armamenti più evoluti e sofisticati.

Propositi, però, che richiedono per ora il pieno sostegno alle iniziative statunitensi in Europa orientale e l’accoglimento di ogni richiesta di Zelensky, compresa magari anche quella di fornire truppe e impegno per garantire domani, sul territorio ucraino, l’integrità nazionale e l’autonomia difensiva del paese oggi investito dalla guerra. Davvero una gran brutta gatta da pelare, in prospettiva, qualsiasi siano i risultati del conflitto in corso.

Se sul fronte militare l’unità europea è una chimera, ancora di più lo è sul piano dei rifornimenti strategici di materie prime, in primo luogo di gas e petrolio, compresa la diatriba sul loro eventuale pagamento in rubli, come richiesto da Putin.
E’ proprio in questo settore, oggi delicatissimo vista la dipendenza europea dal gas e dal petrolio russo, che si è assistito infatti ad un’autentica corsa a far profitto da parte degli stati europei che hanno a disposizione tali risorse, come ad esempio la Norvegia che ha ignorato gli appelli di altri al fine di contenere i prezzi, oppure il differente approccio alla proposta americana, tutt’altro che disinteressata, di sostituire il gas russo con quello di produzione statunitense e di rinunciare al petrolio in arrivo dalla Russia per sostituirlo con altro la cui provenienza è ancora in gran parte da definire (considerato anche l’interesse di Arabia Saudita ed Emirati del Golfo a far affari con la Cina, magari in yuan).
Cosicché anche il tentativo maldestro di Giggino Di Maio di avvicinamento alle risorse del Qatar, si è risolto di fatto in un fallimento, diplomatico ed economico.

Sempre la Germania, evidentemente alla ricerca di una più libera e autonoma politica diplomatica ed economica, si è apertamente dichiarata contraria alla rinuncia totale e quasi immediata al petrolio russo e, al recente G4 convocato da Biden, addirittura favorevole a una riduzione progressiva delle sanzioni adottate nei confronti di Mosca (qui); mentre nel settore del gas si presenta ormai in diretta competizione con l’Italia proprio sul tema della caccia ai rigassificatori, o meglio nella corsa all’acquisto di quelle poche navi già disponibili ed attrezzate per convertire il gnl americano in gas utilizzabile in Europa. Cosa che, va ricordato, aumenterebbe mediamente del 30% il costo del gas rispetto a quello trasportato dalle linee provenienti dalla Russia.

E’ anche alla luce di questi elementi che andrebbe interpretata la svolta politico-diplomatica e militare sottesa alla visita e al discorso di “Sleepy Joe” Biden in Polonia. Discorso di un presidente anziano che riflette simbolicamente, nella sua persona, la stanchezza e le difficoltà di una grande potenza in declino che può ancora minacciare, ma non più affascinare o convincere. Svolta che si potrebbe definire storica se non fosse per l’attenzione che i media embedded hanno rivolto più agli insulti di Biden al presidente russo che non ai fatti che quel discorso e quella comparsata rappresentavano di fatto, ovvero il radicale riposizionamento militare americano nell’Europa dell’Est.

Gli osservatori più attenti da tempo segnalavano che l’ingresso nella Nato dei paesi dell’Europa Orientale un tempo appartenenti al Patto di Varsavia e il loro progressivo inserimento dell’Unione Europea rappresentavano per la politica di Washington non soltanto la costruzione di un muro ostile nei confronti di qualsiasi manovra russa verso occidente, ma anche, e forse soprattutto, un modo per imbrogliare le carte dei giochi di un’Unione più strettamente federata, sotto l’egida tedesca e forse anche francese, per impedirle di assurgere a ruolo di potenza autonoma sul piano internazionale.

Già nel settembre del 2015, chi scrive aveva affermato, proprio su «Carmilla», a proposito delle diatribe sull’accoglienza e sulle quote dei migranti da distribuire tra i differenti paesi europei:

quello a cui stiamo assistendo, con buona pace delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III conflitto mondiale di cui da tempo vado scrivendo.
La gestione del problema migratorio di centinaia di migliaia di profughi, esattamente come quello del possibile default o meno della Grecia, non risponde infatti a categorie di ordine morale o umanitario e, tanto meno, a quelle di carattere sociale o del pubblico bene. Risponde però, nel precipitare di una crisi economica, geopolitica e militare sempre più vasta a livello mondiale, alla domanda su chi debba comandare in Europa ovvero in una delle aree del globo con la più alta concentrazione di ricchezza accumulata e su come tale ricchezza accumulata debba essere investita e ricollocata all’interno della competizione inter-imperialista mondiale.
Al centro di questa domanda, e delle risposte che ne conseguiranno, non vi è l’interesse dei “popoli”, ma lo scontro tra due modelli diversi di sviluppo capitalistico: da un lato quello anglo-americano e dall’altro quello germanico. Modello quest’ultimo che già ha guidato due volte la Germania, nel coso del XX secolo a cercare di istituire un vasto territorio “vitale” per i propri interessi economici ed industriali che si estendeva e si estende, idealmente, dall’Atlantico al Volga e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Un autentico lebensraum che, se nel corso del secolo passato ha assunto la forma dell’occupazione militare vera e propria, oggi cerca di manifestarsi principalmente attraverso il disciplinamento di ogni attività economica, finanziaria ed amministrativa, così come della forza lavoro, europea.
[…] l’attuale costruzione di muri e la susseguente chiusura delle frontiere, così come il braccio di ferro sulle quote, non possono preludere che ad altre guerre per ridefinire il comando capitalistico su economie, territori ed esseri umani, migranti e non. Anche qui, nel cuore dell’Europa. E il gran rifiuto opposto a Bruxelles dallo schieramento dei paesi dell’Europa dell’Est alle proposte di Jean Claude Juncker non costituisce soltanto un episodio di calcolo politico elettoralistico ispirato dal populismo e dal razzismo, ma un ulteriore passo in quella direzione (qui ).

Così, mentre nuove folle di migranti e profughi si accalcano alle frontiere d’Europa e gli amministratori dell’esistente si appellano, come Mario Draghi, al buon cuore dei propri cittadini per far dimenticare loro che in un prossimo futuro si potrebbero trovare in una situazione simile o peggiore, spostando l’attenzione mediatica da ciò che è essenziale a ciò che più facilmente colpisce le coscienze individuali, tutto quello che all’epoca si poteva già intuire, oggi si è trasformato in tragica realtà quotidiana.

Biden, a Varsavia, ha promosso, con parole comunque sempre calibrate sull’obiettivo, la Polonia a “nuova frontiera” della Nato e delle attenzioni americane per un’Europa non più a sola conduzione germanica; scegliendo di fatto un paese in cui l’orgoglio nazionale e nazionalista ha sempre determinato sia l’inimicizia con la Russia che una scarsa simpatia nei confronti della Germania. Nazioni viste entrambe come nemiche o, perlomeno, avverse per i propri interessi territoriali. Paese, la Polonia, che però non ha mai rinunciato a mire espansionistiche verso est, sia in nome dei territori da cui è stata separata dopo la prima e la seconda guerra mondiale, compensati con territori un tempo appartenenti alla Germania, che di altre ben più antiche aspirazioni, risalenti fino al periodo a cavallo tra tardo medioevo e prima età moderna, di cui è rimasta traccia anche nella cultura letteraria russa attraverso le pagine del Taras Bulba di Nikolaj Gogol’, ambientato per l’appunto nel XVI secolo.

Rispolverando, in sostanza, il progetto politico Intermarium, esposto fin dagli anni Venti dal polacco generale (e dittatore) Józef Piłsudski, «volto a creare un blocco di paesi che andava dal Mar Baltico al Mar Nero, nel tentativo di contenimento delle due forze imperialiste: tedesca a occidente e russa ad oriente»2. Strada già perseguita da Donald Trump che, nel luglio del 2017, partecipò al Vertice Trimarium di Varsavia.

Con il consenso degli apparati strategici statunitensi, dove alcuni immaginano di chiudere il cerchio del Mar Nero, includendo nel blocco deputato ad allargare la distanza fra Mosca e Berlino persino ciò che resta della Moldova, Ucraina e Georgia, così conferendo al Trimarium un retrosapore antiturco. […] Nei laboratori dell’intelligence statunitense circola il possente volume dello storico polacco-americano Marek Jan Chodakiewicz sull’Intermarium. Per l’autore, concezione di origini medievali, quando lo spazio dei Tre Mari3 «era solido difensore della civiltà occidentale» contro i mongoli. Oggi «culturalmente e ideologicamente più che compatibile con gli interessi nazionali americani». Non basta: Chodakiewicz designa la «cultura politica americana erede della libertà e dei diritti derivati dalla tradizione del Commonwealth Polacco-Lituano-Ruteno». E invita gli Stati Uniti a usare l’Intermarium/Trimarium da “trampolino” per trattare” tutti i paesi ex-sovietici, «Federazione Russa inclusa». L’«impero» polacco come devastante braccio regionale della potenza a stelle e strisce?4

Polonia, che potrebbe diventare sede di una prossima e potente base Nato, che a sua volta potrebbe esplicitare la posizione e la vicinanza delle forze armate statunitensi nei confronti sia dell’orso russo che di un’eventuale riottosità germanica (economica, diplomatica, militare e quindi geopolitica) futura. Raccogliendo attorno a sé tutte quelle aree in cui la Germania primeggia ancora
come primo partner commerciale5 e rafforzando la posizione polacca all’interno del Gruppo di Visegrád e nei confronti dell’Ungheria, fino ad ora contraria alle sanzioni verso la Russia e che ha fino ad ora impedito sul suo territorio il passaggio di armi occidentali destinate agli ucraini.

A questa scelta americana di sviluppare una maggiore influenza politica e presenza militare nei paesi dell’est europeo, a partire dalla Polonia letteralmente incoronata come genuina paladina dei diritti e delle libertà occidentali in quella stessa area, va affiancata la decisione della presidenza statunitense di incrementare ulteriormente la spesa militare per l’anno a venire, portandola alla cifra complessiva di 813,3 miliardi di dollari. Tale previsione di spesa, se promulgata, potrebbe essere la più grande di sempre nell’ambito della “difesa”.
Con una manovra che è stata definita, sia in patria che in Europa, come un’autentica manovra economica di guerra. «E’ un budget di guerra in tempi di pace – almeno sul suolo statunitense – quello che la Casa Bianca ha proposto ieri inviando numeri e tabelle, progetti e richieste al Congresso. La cifra totale del bilancio americano per l’anno fiscale 2023 è di 5800 miliardi di dollari. Ed è la voce sicurezza nazionale a prendersi la fetta più consistente dei fondi. Per la macchina della difesa Usa, la Casa Bianca chiede 813,3 miliardi di dollari, un incremento del 4% rispetto allo scorso anno: di questi 773 sono destinati al Pentagono»6.

Ma, com’è facile immaginare, non è soltanto la necessità di rispondere “energicamente” all’azione di Putin in Ucraina a giustificare l’aumentata richiesta di fondi.

La finanziaria, come ha detto Kathleen Hicks, numero due del Pentagono, «tiene a mente l’Ucraina», ma non si ferma nel cuore dell’Europa. Ha riassunto con efficacia la visione Usa, il capo della divisione finanziaria del Pentagono, Michael J. McCord: «La minaccia russa è molto acuta, ma la priorità è contrastare le ambizioni della Cina nel Pacifico».
Biden ha proposto «uno dei più grandi investimenti nella storia, con fondi necessari per garantire che l’esercito Usa resti il meglio preparato, addestrato ed equipaggiato al mondo». Non si tratta solo di conservare, ma di innovare: infatti una fetta record dei soldi – 131 miliardi- andrà alla ricerca e sviluppo per nuove armi. Al Pentagono sono rimasti impressionati dai passi in avanti che russi e cinesi hanno fatto sui missili ipersonici, mentre i test Usa recenti in tale settore non sono stati un successo.
[…] La lista delle priorità disegna il futuro delle forze armate Usa: detto dei maggiori investimenti in armi sofisticate e della rinuncia a 24 F-35, Washington ha individuato nella costruzione di nuove fregate e navi, nel sistema missilistico e nelle armi spaziali i mezzi per monitorare e intimidire la Cina. […] Washington allarga il campo di azione del futuro, ma già oggi resta impegnata su più fronti. Il contenimento russo ha nella missione iniziata in marzo 8000 uomini in Alaska uno dei capisaldi Usa, mentre sono iniziate le esercitazioni con l’esercito filippino nell’Estremo oriente: ci sono 9mila uomini, truppe anfibie, aviazione e mezzi navali. Avvertimento questo alle ambizioni cinesi su Taiwan7.

Se si osserva che per finanziare tale budget il presidente Biden si è dichiarato favorevole ad un aumento delle tasse sui patrimoni dei più ricchi (fino al 20% per quelli superiori ai 100 milioni di dollari) e, allo stesso tempo, ad una riduzione delle richieste a favore della spesa sociale8, si capirà che ci si trova davvero davanti ad un’autentica manovra “da guerra”.
Nel riportare tutto ciò, non vi è alcun narcisismo geopolitico o economicistico, quanto piuttosto la necessità, come già sottolineato altre volte, di segnalare l’imminenza di una guerra allargata cui il principale imperialismo si va preparando da tempo, soprattutto dopo il ritiro tutt’altro che elegante e vittorioso dallo scenario afghano.

Chi, oggi, si accontentasse ancora dei risultati che potrebbero essere conseguiti dalle trattative in corso tra russi e ucraini, oppure della fin troppo sbandierata data del 9 maggio per vedere un segnale di ritorno alla normalità e di scampato pericolo, commetterebbe un grave errore. Abbassando ancora una volta la guardia nei confronti degli avversari, che sono tanti ad Est come a Ovest.
La rapacità capitalistica e imperiale di cui le maggiori forze in campo sono espressione non darà più tregua, procedendo di vittoria in vittoria o di sconfitta in sconfitta verso la catastrofe finale destinata a ristabilire il vecchio ordine occidentale oppure uno nuovo9 su scala planetaria, ma che difficilmente potrebbe prevedere ancora l’attuale multipolarismo, dovuto più al processo di invecchiamento dell’ordine americano che ad una scelta ben precisa e ponderata.

Ad anticipare i disastri che verranno, soprattutto per i lavoratori e la gente comune di tutto il mondo, ci hanno pensato non soltanto le dichiarazioni del governatore della Banca d’Italia posta in esergo a questo intervento, ma anche il «Financial Times» del 29 marzo, con un editoriale intitolato I britannici affrontano uno “shock storico” per i loro redditi, avverte il governatore della BoE, in cui il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey, afferma che l’invasione russa dell’Ucraina esacerberà la crisi del costo della vita nel Regno Unito.

Bailey ha detto che i britannici stanno affrontando uno “shock molto grande per aggregare entrate e spese reali” dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni importati. E, a un evento organizzato dal think-tank Bruegel, a Bruxelles, ha ancor affermato: “Questo è davvero uno shock storico per i redditi reali”. Bailey ha detto che l’invasione russa dell’Ucraina ha esacerbato lo shock dell’approvvigionamento energetico, aggiungendo: “Lo shock dei prezzi dell’energia quest’anno sarà più grande di qualsiasi singolo anno dal 1970. L’avvertenza è che gli anni 1970 hanno avuto una successione di anni difficili e speriamo vivamente che non sia il caso ora. Ma come singolo anno, questo è uno shock molto, molto grande”. L’inflazione del Regno Unito è salita vertiginosamente durante gli anni 1970 dopo che i membri arabi dell’Opec, il cartello dei produttori di petrolio, hanno imposto un embargo sul greggio ai paesi che avevano sostenuto Israele nella guerra dello Yom Kippur. Bailey ha detto che il Regno Unito e l’eurozona stanno affrontando uno shock energetico simile, perché entrambi si affidano allo stesso mercato del gas, aggiungendo che è diverso per gli Stati Uniti a causa della loro maggiore offerta interna. […] La scorsa settimana, l’Office for Budget Responsibility, il cane da guardia fiscale della Gran Bretagna, ha previsto che il reddito reale delle famiglie britanniche quest’anno si contrarrà nel modo più grave da quando sono iniziate le registrazioni nel 1950. Bailey ha dichiarato: “Ci aspettiamo che causi la crescita e il rallentamento della domanda. Stiamo iniziando a vederne la prova sia nei sondaggi tra i consumatori che in quelli aziendali”.
[…] Nel frattempo il cancelliere Rishi Sunak ha detto al comitato ristretto del Tesoro della Camera dei Comuni di essere determinato a frenare l’indebitamento e la spesa pubblica, temendo che una politica fiscale più accomodante potesse alimentare ulteriormente l’inflazione. Sunak ha detto che un aumento di un punto percentuale dell’inflazione e dei tassi di interesse potrebbe “spazzare via” il margine di manovra che aveva incorporato nei suoi piani fiscali e di spesa in vista delle prossime elezioni10.

Facendo così pensare che i 100 milioni di nuovi poveri di cui ha parlato Visco, potrebbero essere non soltanto nei paesi “già” poveri ma anche, e forse soprattutto, qui, nel cuore dell’impero, fortemente provato dalla pandemia e dai suoi effetti economici, dove il biglietto che molti avevano creduto di acquistare per un viaggio in prima, o al massimo in seconda classe, è letteralmente esploso tra le mani degli acquirenti. Annullandolo insieme ai privilegi che si pensavano “acquisiti” e alla stessa destinazione immaginata. Trasformando la prevista trasferta verso una qualsiasi Disneyland dell’immaginario occidentale in un’autentica discesa negli inferi novecenteschi, tra i demoni che li abitano e che non sono mai del tutto scomparsi.

Mentre soltanto noi, se saremo conseguenti una volta acquisita la coscienza del fatto che ogni guerra ha anche sempre un suo fronte interno, che non segue linee verticali di divisione tra le nazioni ma soltanto orizzontali tra le classi, potremmo decidere come dirottare questo treno degli orrori verso una nuova e imprevista destinazione.

(10 – continua)


  1. Su questi ultimi si veda qui  

  2. Si veda in proposito: Le teorie geopolitiche di Pilsudsky per l’Europa centro-orientale: prometeismo e Intermarium, in Giorgio Cella, Storia e geopolitica della crisi ucraina. Dalla Rus’ di Kiev a oggi, Carocci editore, Roma 2021, pp. 210-217  

  3. Mediterraneo, Baltico e Mar Nero  

  4. Meglio un muro che la guerra, in Trimarium tra Russia e Germania, «Limes» n° 12/2017, p.23  

  5. Nell’ordine, la Germania rappresenta il 29,6% del commercio totale della Slovacchia; il 29,4% di quello della Repubblica Ceca; il 27,5% di quello polacco; il 27% dell’Ungheria; circa il 18% di quello sloveno e ancora il primo partner per la Croazia, la Bosnia Erzegovina e la Bulgaria  

  6. Alberto Simoni, Biden, manovra di guerra. “Per la difesa 813 miliardi”, «La Stampa», 29 marzo 2022  

  7. A. Simoni, cit.  

  8. Biden’s Budget Calls for Increase in Defense Spending, «Wall Street Journal», March 29, 2022  

  9. Come il recente incontro tra i rappresentanti di India e Cina, proprio nei giorni in cui Biden era in Europa, potrebbe far pensare, visti i gravi screzi che hanno caratterizzato da anni i rapporti tra le due potenze asiatiche  

  10. Valentina Romei-George Parker, Britons face ‘historic shock’ to their incomes, BoE governor warns, «Financial Times», 29 marzo 2022  

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Economia di guerra / 2: ancora sulla centralità del lavoro e del necessario conflitto che l’accompagna https://www.carmillaonline.com/2020/04/20/economia-di-guerra-2-ancora-sulla-centralita-del-lavoro-e-del-necessario-conflitto-che-laccompagna/ Mon, 20 Apr 2020 21:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59487 di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara. Smaschera il mondo in maschera.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza. Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il [...]]]> di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara.
Smaschera il mondo in maschera
.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza.
Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il tramite di ingegnose acrobazie linguistiche, geomorfologiche e statistiche), dati di una autentica strage a livello sanitario che i partiti istituzionali si rimpallano, con minacce di inchieste e commissariamenti, tra Destra e Sinistra come in una partita di volley ball, noiosissima e già vista centinaia di volte. Una guerra tra rane, topi e scarafaggi che, se fosse ancora vivo Giacomo Leopardi, sarebbe degna soltanto di un nuova “Batracomiomachia”.

In questo autentico bailamme, che sembra soltanto peggiorare di giorno in giorno, sono però ancora troppi coloro che, pur animati dalle migliori intenzioni, affrontano le questioni legate all’attuale pandemia in ordine sparso. Rincorrendo il momento, chiedendosi quando si potrà ricominciare ad agire, senza chiedersi su cosa si potrebbe davvero incidere, scambiando un problema per il “problema”, anteponendo l’idea dell’azione allo studio delle azioni necessarie, contrapponendo l’individuale al sociale oppure scambiando per sociale ciò che in sostanza è individuale. In una girandola di iniziative che tutto fanno tranne che fornire prospettive concrete per un’uscita dall’attuale catastrofe che, occorre ancora una volta dirlo, non è né naturale né umanitaria, ma derivata direttamente dalle “leggi” di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Come afferma Frank M. Snowden, storico americano della medicina, nel suo Epidemics and Society: non è vero che le malattie infettive “siano eventi casuali che capricciosamente e senza avvertimento affliggono le società”. Piuttosto è vero che “ogni società produce le sue vulnerabilità specifiche. Studiarle significa capirne strutture sociali, standard di vita, priorità politiche”1

Gli elementi che potrebbero aiutare a definire il campo per un intervento immediato, concreto e condivisibile a livello di massa sono già molti. Sono compresi nelle parole, nelle promesse fasulle e nei provvedimenti che i governi e i loro padroni, nazionali e internazionali, stanno esplicitando, come si affermava all’inizio, sotto gli occhi di tutti. Una lunga sequenza di leggi, prevaricazioni, distruzioni e violenze che costituiscono la trama della più lunga crime story mai raccontata.
Ancora una volta è inutile, infatti, cercare l’ordito nascosto o segreto della realtà, basta saperla osservare e ascoltare, oppure semplicemente leggere, following the money.

Ad esempio, nella “Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020” concordata il 30 marzo 2020 a Roma, alla presenza del Ministro del lavoro e delle politiche sociali tra Associazione Bancaria Italiana (ABI), l’ Alleanza delle Cooperative Italiane, tutte le maggiori associazioni imprenditoriali e confederazioni sindacali.

Il tema è sostanzialmente quello della cassa integrazione ordinaria o in deroga. Provvedimenti da sempre destinati a ricadere economicamente sulle spalle dello Stato, degli imprenditori e dell’INPS, ma che grazie a questo accordo, in piena crisi economica (di cui la pandemia da coronavirus costituisce un’aggravante ma non l’unica origine), potrebbe ricadere direttamente sulle spalle dei lavoratori che la vorranno o dovranno richiederla.

Se già la cassa integrazione comporta sempre e comunque un costo per i lavoratori, consistendo mediamente in un 80% del salario, a partire da questo accordo la stessa si trasforma in una sorta di prestito che viene accordato ai lavoratori in attesa che sia l’INPS a ripianarlo e a provvedere ai successivi pagamenti, ma il cui costo iniziale ricadrà interamente sui dipendenti coinvolti, a differenza della cassa integrazione comunemente intesa che prevede, in caso di ritardo delle prestazioni dell’INPS, che il costo iniziale ricada sugli oneri delle imprese che, di fatto, sono costrette ad anticipare per qualche mese gli stipendi parziali pagati dall’ente previdenziale.
Come si può leggere nel testo della Convenzione, invece:

Al fine di fruire dell’anticipazione oggetto della presente Convenzione, i/le lavoratori/trici […] dovranno presentare la domanda ad una delle Banche che ne danno applicazione […]
Il/la lavoratore/trice e/o il datore di lavoro informeranno tempestivamente la Banca interessata circa l’esito della domanda di trattamento di integrazione salariale per l’emergenza Covid-19.
In caso di mancato accoglimento della richiesta di integrazione salariale […] qualora non sia intervenuto il pagamento da parte dell’INPS, la Banca potrà richiedere l’importo dell’intero debito relativo all’anticipazione al/la lavoratore/trice che provvederà ad estinguerlo entro trenta giorni dalla richiesta.
Nei casi della anticipazione del trattamento di integrazione salariale da parte della Banca, quest’ultima, in caso di inadempimento del lavoratore, […] comunicherà al datore di lavoro il saldo a debito del conto corrente dedicato.
In tal caso, a fronte dell’inadempimento del lavoratore, il datore di lavoro verserà su tale conto corrente gli emolumenti spettanti al lavoratore, anche a titolo di TFR o sue anticipazioni, fino alla concorrenza del debito. Il lavoratore darà preventiva autorizzazione al proprio datore di lavoro […] in via prioritaria rispetto a qualsiasi altro vincolo eventualmente già presente evitando che sia il datore di lavoro a dover regolare i criteri di prevalenza tra i diversi impegni presenti, nei limiti delle disposizioni di legge2.

La Convenzione con le banche non è un inedito, è già stata usata nel 2008/2009 e se la pratica di cassa non va in porto l’impresa è comunque obbligata a pagare le mensilità al lavoratore, che può così restituire gli anticipi versati dalla banca. La Convenzione è un accordo astratto, ma agli sportelli (persino di due filiali diverse dello stesso gruppo) possono nascere piccoli ricatti o fraintendimenti che il lavoratore, di solito inesperto, può non saper gestire – tipo l’obbligo di aprire una posizione permanente in quella banca, al di là del conto corrente e a termine della Convenzione. Inoltre:

“«L’accordo con l’Abi parla di un’istruttoria di merito creditizio nei confronti del lavoratore. Ma questa previsione rischia di essere un problema per chi ha un finanziamento in corso e magari non sia riuscito a pagare qualche rata di credito al consumo», spiega Roberto Cunsolo, consigliere dell’Ordine nazionale dei commercialisti. Tanto basta, infatti, per essere segnalati alla Centrale rischi finanziari (Crif) e di conseguenza vedersi rifiutare l’anticipo degli ammortizzatori.
L’argomento non è da poco visto che il governo nei provvedimenti adottati finora non ha previsto lo stop alle rate per i piccoli prestiti.” (qui)

Fermiamoci qui. E’ chiaro però che, in questo modo, la cassa integrazione ordinaria o in deroga si trasforma in nient’altro che in un prestito ai lavoratori/trici, che gli stessi sottoscriveranno con le banche, liberando quasi del tutto i datori di lavoro da qualsiasi responsabilità economica in merito. Un sistema perfetto di sfruttamento circolare del lavoro dipendente. Soprattutto nel caso della cassa in deroga per la quale viene del tutto esclusa la possibilità che questa possa essere anticipata dal datore di lavoro.
L’anticipo è sui conti dei lavoratori e, se qualcosa va storto, i padroni possono detrarre le cifre per il ripianamento del debito direttamente dai salari (senza neanche il limite del quinto dello stipendio). In questo modo il lavoratore diventa il garante ultimo della politica economica d’emergenza. Il lavoro è il fideiussore generale di riserva, la banca l’intermediario, l’impresa fa la ritenuta alla fonte per conto del sistema bancario di governo. L’accordo, inoltre, non prevede il vincolo di non licenziare, come indirettamente confermato dal silenzio sindacale in proposito. Così il salario è eventuale, ma se c’è, il padrone può versarlo ai suoi finanziatori.

In un contesto in cui si prevede che siano più di 11 milioni i lavoratori che dovranno far ricorso alla cassa integrazione (o ai bonus) e in un panorama in cui le imprese con meno di 10 dipendenti, ovvero quelle ritenute maggiormente a rischio, costituiscono l’82,4% (col 22,6% dei dipendenti complessivi) delle imprese manifatturiere, il 96,2% (con il 66% dei dipendenti) delle imprese edili e il 96,6% (con il 52,3%) di quelle legate ai servizi, commercio all’ingrosso e al dettaglio3 i tempi della Cig saranno già più lunghi di almeno 10-15 giorni. Mentre, per la complessità delle operazioni richieste in modalità diversa per ogni istituto bancario, i lavoratori meno esperti di strumenti informatici, considerato che le banche escludono la possibilità di una ‘consulenza’ sindacale a soccorso degli stessi, rischieranno di essere tra gli ultimi ad essere pagati, vista anche la precedenza che sia le banche che l’Inps accorderanno agli aiuti per le aziende.

Più che lo sdegno per lo strumento in questione, andrebbe rimarcato l’eterno ineliminabile ruolo delle banche. Dal Q.E., all’Ape, alla Cassa: tutto deve passare dalle banche, che tra l’altro in questa fase non hanno assolutamente uomini e mezzi per svolgere il ruolo “burocratico” che lo Stato gli appalta – oltre al costo economico e sociale che questo parassitismo bancario comporta. Questa pletora di ammortizzatori (Cigo, Cig, Naspi, Bonus autonomi, Reddito Gigino di Maio, contributi comunali) di cui alla fine non ci si capisce più nulla, costituisce però il risultato della mancanza di uno strumento di reddito generale e universale. Così, sia a livello sindacale che prefettizio, inizia a crescere l’allarme per il clima da insorgenza sociale ed economica che sembra nascere spontaneamente, soprattutto in città come Torino dove le code davanti al Monte dei pegni si allungano ormai di giorno in giorno (qui).

Ma occorre fare ancora qui alcune osservazioni di carattere generale.
La prima, naturalmente, è quella riguardante il fatto che tale provvedimento conferma la tendenza generale alla completa finanziarizzazione di ogni attività o provvedimento un tempo compresi in ciò che veniva definito welfare state. Che si tratti di sanità, di lavoro o di previdenza (con tutti gli addentellati del caso: cassa integrazione, pensioni, etc.) il costo oggi non solo non deve più essere sostenuto dalla finanza e dall’intervento pubblico, ma deve anche costituire motivo di realizzazione di interessi per chi si sostituisce, anche solo momentaneamente, allo Stato e alle sue agenzie in veste di ufficiale pagatore. Insomma, in soldoni le banche non muovono un dito se non ne ricavano una qualche forma di profitto.

La seconda, non meno importante, è che le casse dello Stato si avviano ad essere sostanzialmente vuote. Anni di ruberie, rapine politico-mafiose autorizzate, prebende, investimenti fantasma o in grandi opere inutili e dannose mai terminate (e interminabili), premi a consorterie politiche di ogni tendenza e genere, profitti e prestiti garantiti a imprese e banche too big to fail, tasse mai pagate e attività svolte in nero hanno letteralmente prosciugato la casse dello Stato e dell’INPS. La quale ultima, nata come Istituto di previdenza sociale per i lavoratori, ha dovuto sempre più farsi carico anche delle pensioni e dei trattamenti di fine servizio milionari di manager e dirigenti, privati e pubblici, oltre che diventare il tappabuchi per i periodi di sospensine dell’attività produttiva programmati dalle grandi aziende (come la Fiat).
Impressione generale confermata dallo slittamento in avanti continuo della data di presentazione dei provvedimenti economici governativi resi necessari dalla crisi.

Lo Stato sociale ha un costo sicuramente elevato che è andato crescendo nel tempo, ma non tutto è stato dissipato, come vorrebbe far credere una narrazione tossica e di parte, a causa delle pensioni un tempo calcolate su una età media più bassa e una vita lavorativa che veniva calcolata su un numero di anni inferiore a quelli attualmente necessari. Né si tratta soltanto di truffe rappresentate dai falsi invalidi, che pur ci sono state ma non tali da determinare l’attuale situazione di difficoltà.
Certo l’innalzamento dell’età media della vita ha comportato un prolungamento inaspettato dei pagamenti pensionistici e delle spese assistenziali per la terza età, ma troppo spesso ci si dimentica di sottolineare come proprio nel settore dell’assistenza alla stessa e in quello della Sanità non sia mai stato messo in pratica alcun tipo di controllo e di calmiere dei prezzi. Contribuendo così a fare dell’assistenza sanitaria e agli anziani un autentico Far West dove tutto è concesso, in termini di guadagno e profitto privato, e dove nessuna attività, o quasi, è svolta avendo come primo obiettivo quello della salute e del benessere dei cittadini.

Le tanto venerate privatizzazioni, concesse tanto da destra che da sinistra4, hanno dimostrato, proprio nel cuore dell”eccellenza’ sanitaria lombarda, la loro reale efficienza. Soprattutto nelle RSA, ovvero nelle residenze per anziani, sempre più costose (per lo Stato e per i cittadini) e meno protette dal punto di vista sanitario.
Residenze per anziani che sono diventate, in tutta Europa, uno dei settori più interessanti di investimento per le società finanziarie a caccia di nuovi territori in cui poter praticare le proprie scorrerie, garantendo profitti annui anche del 6-7% e trasformandosi, almeno fino all’esplodere della pandemia, in uno dei settori in cui si attendevano i maggiori investimenti nei prossimi anni. Fino a 15-20 miliardi di euro entro il 2035.
Basti pensare che in Lombardia l’84% delle RSA, che nel loro insieme rappresentano un affare da 1,4 miliardi di euro, è privato. Un affare che coinvolge 8.000 strutture e 262.000 persone censite dallo Spi-CGIL soltanto per il 2018 in tutt’Italia5.

«È un settore a metà tra l’immobiliare e l’infrastrutturale, che rappresenta un ottimo modo per diversificare e proteggere i portafogli, soprattutto nei momenti di ciclo economico debole», ha affermato in un recente convegno Giuseppe Oriani, ceo per l’Europa di Savills Investment Management. Ma che cosa attira gli investitori? In primo luogo, si tratta di un investimento a basso rischio, che si traduce in una sostenibilità dei canoni su un arco temporale medio lungo. «A questo, concorre il fatto che nel sistema italiano, così come in quello francese o tedesco, solo una parte delle rette di degenza è a libero mercato, ma una quota consistente è coperta dal pubblico, nel nostro caso dalle Regioni. Questo è un elemento di garanzia per chi investe», spiega Pio De Gregorio, responsabile Industry trend & benchmarking analysis di Ubi Banca, che ha redatto un accurato studio sul settore.
Naturalmente fanno gola i rendimenti medi lordi, stimati in un range compreso tra il 6% il 7,5%. La dinamica demografica è legata a doppio filo a questa classe di investimento. Infatti, a seconda degli scenari che si verificheranno, e dunque della necessità di posti letto in Rsa, si parla di investimenti in nuove strutture per 15 miliardi di euro entro il 2035, secondo l’ottica più conservativa, o fino a 23 miliardi secondo lo scenario più generoso. L’Italia ha ancora un forte gap da recuperare. In Germania ci sono oltre 12mila strutture per circa 876mila posti letto, in Francia 10.500 strutture e 720mila posti letto, in Spagna rispettivamente circa 5.400 e 373mila.6

Quello delle RSA, alla luce dei decessi ricollegabili alla mancata prevenzione sanitaria in occasione dell’attuale pandemia, sembra essere un esempio piuttosto efficace per dimostrare concretamente come salute, assistenza e finanza non possano collimare nei loro obiettivi ultimi7.
L’assalto finanziario ad ogni aspetto del sociale infatti non rappresenta soltanto una riduzione della spesa dello Stato nel settore dei servizi ai cittadini, ma un vero rovesciamento di questi ultimi che si trasformano in un autentico settore di investimento protetto per il capitale finanziario sempre più alla ricerca di aree garantite in cui essere “parcheggiato” con una resa maggiore di quella fornita dall’investimento produttivo.

La strategia messa in atto da anni nei confronti della spesa pubblica e del suo taglio, si rivela dunque sempre di più per quello che di fatto è: fornire la possibilità di continuare ad investire speculativamente senza rischiare che l’enorme bolla finanziaria che si è venuta a creare negli anni (con scarsa o nulla base nell’economia reale) finisca con l’esplodere.
Questo può tranquillamente farci affermare che proprio per tale motivo i paperoneschi fantastiliardi promessi dal governo di Totò e Peppino per fronteggiare la crisi non esistono. Non esistono nelle casse del governo e non esistono nemmeno nelle casse delle banche. Le quali ultime avendo investito cifre da capogiro in titoli gonfiati, se non in veri e propri junk bond, oppure in titoli di Stato per impedire l’aumento dello spread e degli interessi pagati oggi non hanno disponibile tutta la liquidità richiesta dal governo per finanziare le imprese in crisi.

Interessante, da questo punto di vista, può rivelarsi la posizione assunta dall’AD di Intesa San Paolo, Carlo Messina, che, nei giorni scorsi, ha dichiarato che se la banca farà la sua parte mettendo a disposizione 50 miliardi di crediti, anche gli imprenditori che hanno spostato i loro investimenti e le loro ricchezze all’estero dovrebbero fare altrettanto facendoli rientrare in Italia8. La globalizzazione si incrina quindi, proprio ai suoi vertici, di fronte a una crisi che, al di là delle vacue dichiarazioni di Conte e Gualtieri, non troverà nei finanziamenti europei la sponda troppo a lungo strombazzata. Né i 1500, né i 400 miliardi ma, per ora e al massimo, i 37 messi a disposizione dal ferreo fondo salva stati (MES).

Da qui due conseguenze immediate e tutte due da consumarsi sulla pelle dei lavoratori: la prima è la riapertura di tutte le aziende che ne hanno fatto richiesta in deroga9 in cambio del mancato aiuto promesso su così larga scala (certo qualcosa ci sarà, ma non nella misura attesa da gran parte del mondo imprenditoriale), mentre la seconda (che non sarà comunque l’ultima) è compresa nell’accordo di cui abbiamo parlato all’inizio di questo intervento.

Non vedere in questo accordo una forma di liberalizzazione dei contratti di lavoro destinata a durare ben oltre l’emergenza sarebbe da imbecilli e non denunciarlo semplicemente criminale.
Ecco allora serviti gli snodi su cui articolare la nuova protesta sociale, non sull’idealità o l’ideologia o su un solidarismo più di marca cattolica che rivoluzionaria, ma sulla salda concretezza costituita dall’impossibilità di far coincidere gli interessi dei lavoratori con quelli dello Stato e del capitale, soprattutto nei periodi di crisi. Si tratti dei lavoratori dell’industria, si tratti dei lavoratori e degli operatori della sanità, si tratti ancora dei lavoratori dei servizi pubblici e privati e della scuola, la crisi ha tolto la maschera alla controparte. E’ ora di smettere di considerare il lavoro dipendente un privilegio o una fortuna, anche là dove sembrava garantito. E’ venuta l’ora di riportarlo al centro del conflitto e dell’attenzione antagonista.

In questi giorni il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che siamo davanti ad una crisi peggiore di quella del 1929, dalla quale, occorre sempre ricordarlo, si uscì soltanto con il secondo macello imperialista mondiale; sorto ed esploso non per un insanabile conflitto tra democrazia e autoritarismo, ma soltanto per ridefinire i confini delle aree di influenza economica e politica nel e sul mercato mondiale. Il Financial Times si è spinto a dichiarare in prima pagina (15 aprile) che questa sarà la peggiore crisi economica degli ultimi 300 anni. Ma è stato il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, a giungere ad una sintesi storica più adeguata, dichiarando che:

Una volta che l’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia sarà sotto controllo, il rischio è che si apra una delle più grandi fasi di stagnazione economica degli ultimi secoli e con essa una ristrutturazione dei sitemi politici di riferimento. Il pericolo è di ritrovarsi in una nuova «grande crisi generale» paragonabile a quella che gli storici definiscono la «crisi generale del XVII secolo», quando la seconda ondata pandemica di peste fu accompagnata da un profondo cambiamento degli assetti politici ed economici […] La conseguenza è che dobbiamo attenderci non solo della povertà la più grave recessione economica degli ultimi secoli, con un crollo inimmaginabile della capacità produttiva e un aumento mai registrato e delle disuguaglianze a livello globale, ma anche lo stravolgimento dell’ordine esistente. Già all’indomani della grande crisi del 2008, infatti, l’ordine internazionale liberale ha cominciato a dare segni di cedimento strutturale.10

Mai come in quest’occasione la salvaguardia della salute e delle garanzie sul lavoro sono state coincidenti; mai come in questo momento lotta sindacale e lotta politica (intesa nel suo senso più ampio di ridefinizione delle necessità sociali e del modo di governarle) si sono avvicinate nelle loro finalità; mai come oggi la lotta per la ripartizione della ricchezza prodotta è stata tanto importante per ridefinire i modi della sua creazione, delle sue finalità e della difesa dell’ambiente. E della salvaguardia della specie umana.

Soprattutto in un contesto in cui la sostanziale confusione sui dati epidemiologici, la chiacchiera politica, la propaganda mediatica e le continue e contraddittorie illazioni di presunti esperti quali Roberto Burioni e Ilaria Capua (nomi che valgono soltanto come esempio considerato che l’elenco potrebbe continuare a lungo) non hanno fatto altro che coprire di parole inutili e pietose la sostanziale scelta dell’immunità di gregge come unica strategia da applicare nei confronti dell’epidemia, pur senza averlo mai dichiarato pubblicamente.

Lontani dalla memoria storica della Chiesa, che ha motivo di mantenerla non per ragioni di cambiamento e sovvertimento dell’ordine esistente, ma al contrario per la necessità di conservare i suoi apparati e la sua funzione11, i tecnici del dream team di Vittorio Colao già insistono per rendere obbligatorio lo smart working, il telelavoro, per le grandi aziende e ovunque sia possibile. Mentre alcuni lavoratori e alcune lavoratrici possono vedere in questa “modernizzazione” una forma di flessibilità che potrebbe andare incontro alle loro esigenze personali e famigliari, è inevitabile osservare come tale ristrutturazione del lavoro white collar sia destinata a promuovere un’ulteriore parcellizzazione dello stesso e un’atomizzazione dei suoi esecutori che, ben presto, dovranno fare i conti con una totale privatizzazione dei loro contratti e con una tendenza inarrestabile alla creazione di lavoratori “autonomi” (in realtà dipendenti) assolutamente non più garantiti sia sui tempi di lavoro che sulle retribuzioni. Come già ben sanno molti lavoratori precari.

Sarebbe poi da affrontare il tema della ristrutturazione del lavoro nel comparto sanità, dove è evidente che dietro agli untuosi elogi agli “eroi che ci difendono in prima linea” si cela una totale ristrutturazione peggiorativa delle condizioni di lavoro dei medici (qui) e di tutto il personale sanitario12, già da tempo iniziata con le privatizzazioni messe in atto nel settore. Non solo in Lombardia, caso più eclatante, ma in tutta Italia e da ogni governo nazionale o locale.

Nella scuola anche non ci sarà da scherzare. Anche qui il telelavoro di queste settimane, le lezioni a distanza e le riunioni fiume per via telematica, non costituiranno altro che un ulteriore aumento dei carichi di lavoro dei docenti, una riduzione delle risorse disponibili (che bisogno ci sarà di pagare i corsi di recupero, se gli insegnanti saranno obbligati a tenere delle lezioni da casa al pomeriggio?) e se le classi saranno ridotte di numero sarà solo per sdoppiarle su un lavoro che potrebbe svolgersi sia di mattina che pomeriggio, con un aumento dell’orario settimanale dei docenti non accompagnato da un’adeguata retribuzione. Non a caso già si parla di un nuovo contratto e di nuove assunzioni che certo non sarebbero minimamente adeguate a coprire un raddoppio delle cattedre.

Del lavoro in fabbrica, nei cantieri, nella distribuzione e nel commercio abbiamo già indirettamente parlato anche negli articoli precedenti. Ma se da un lato su ogni lavoratore di questi settori, come anche di quelli citati prima, graverà la spada di Damocle del licenziamento e della disoccupazione, è chiaro che su tutti i lavoratori e le lavoratrici peseranno fin da subito l’aumento dei ritmi, l’inasprimento delle turnazioni, la probabile riduzione delle retribuzioni per permettere alle aziende, grandi e piccole, di superare ‘insieme’ il difficile momento. Lo ha sintetizzato benissimo il presidente degli industriali vicentini, Luciano Vescovi, quando ha affermato: “Si tratta di trovare un percorso italiano per tamponare l’emergenza e aiutare il sistema, ma è molto complicato in uno Stato privo di soldi. Bisogna dirlo chiaramente: bisogna tornare a lavorare, e tirare la cinghia per un po’” (qui). Mentre lo stesso presidente del consiglio Conte ha già preannunciato che, con la prossima riapertura, si lavorerà sette giorni su sette.

D’altra parte l’elezione di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria e l’immediata proposta di anticipare ufficialmente la riapertura produttiva del settore auto (che significa, in realtà, praticamente tutta la metalmeccanica) e di quello della moda (tessile e non solo: cuoio. chimica, etc.) mostrano chiaramente come tutte le decisioni della politca siano completamente assuefatte, a Destra come a Sinistra, agli ordini provenienti dai “padroni del vapore” e dagli investitori. In fin dei conti, nella pletora di tecnici arruolati di giorno in giorno per svolgere le funzioni che dovrebbero essere specifiche del Governo e del Parlamento, i veri specialisti sono loro: gli imprenditori. Che, però, non ancora soddisfatti dagli omini di pezza posti al governo o nel parlamento, si spingono già a chiedere la presenza di un nuovo de Gaulle13.

Non tenere conto di ciò, chiudersi nello specifico o nel proprio orticello, scimmiottando gli orridi specialisti ed esperti come i 17 membri della super-commissione varata dal governo in questi giorni, sarebbe semplicemente perdente e conservatore.
In tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti i lavoratori di tutti i settori hanno capito che la lotta contro la crisi da coronavirus coincide con la lotta contro il virus del capitale (qui).
Ma ciò che fa paura, forse, è proprio il fatto che nelle crisi sistemiche tutti i nodi sono destinati a venire al pettine e non ci sia più spazio per le incertezze e i tentennamenti.
Stiamo dunque ben attenti a non perdere questa occasione, a partire proprio dalle assemblee, dalle discussioni e dalle eclatanti contraddizioni che si svilupperanno sui posti di lavoro. Non abbiamo bisogno di inventarci spazi, ma di riconquistare quelli che ci sono e conosciamo già.
In fin dei conti, se già gli “esperti”, i media e l’economia ci dicono che “fa brutto”, anche noi avremo prima o poi il diritto di sbroccare, no?14

N.B.
Questo lungo articolo, la cui responsabilità per i contenuti e gli eventuali errori ricade interamente sull’autore, non sarebbe stato possibile senza i consigli, le critiche e le considerazioni espresse da Luca B., Giovanni I., Maurizio P., Gioacchino T. e Cosetta F.


  1. F.M.Snowden, Epidemics and Society. From the Black Death to the Present, New Haven- London 2019, Yale University Press, p.7  

  2. Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020  

  3. Dati Istat riferiti al 2016  

  4. Resta qui da ricordare sempre il vademecum prodiano per la “proficua collaborazione “ tra Stato e mercato: Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino 1995  

  5. R. Galullo e A. Mincuzzi, Residenze per anziani, affare da 1,4 miliardi in Lombardia. L’84% delle Rsa è privato,il Sole 24ore, 8 aprile 2020  

  6. Adriano Lovera, Residenze per anziani, mercato in crescita costante, il Sole 24ore, 14 ottobre 2019  

  7. In Italia, Spagna, Francia, Belgio e Irlanda la metà dei decessi da Covid-19 è avvenuta nelle residenze pr anziani (qui)  

  8. A. Greco, Intervista a Carlo Messina, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  9. Facendo sì che il lockdown promesso e strombazzato non sia mai neppure lontanamente esistito per la maggioranza dei lavoratori, come si può osservare anche solo dai dati dell’ISTAT (qui); fatto evidente che soltanto da qualche giorno il Viminale e alcuni quotidiani fingono invece di scoprire 

  10. Raul Caruso, Dopo la pandemia si rischia una crisi degli assetti globali, Avvenire 14 aprile 2020  

  11. Anche quando per bocca di Papa Francesco avanza la richiesta di un salario universale per i lavoratori più poveri (qui)  

  12. Come spiega molto bene l’intervista ad un’infermiera contenuta qui  

  13. Carlo Andrea Finotto, Virus e rischio baratro. Perché all’Italia servirebbe un nuovo de Gaulle, il sole 24ore, 18 aprile 2020  

  14. Sia ‘far brutto’ che ‘sbroccare’ sono due possibili traduzioni in italiano dell’americano ‘breaking bad’  

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Hanno pagato caro, ma non hanno ancora pagato tutto https://www.carmillaonline.com/2016/12/05/pagato-caro-non-ancora-pagato/ Mon, 05 Dec 2016 19:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35113 di Sandro Moiso

4-leader-sconfitti-no Si erano giocati tutto, convinti di vincere. Hanno stravolto i vertici delle TV di Stato per impedire qualsiasi infiltrazione di dubbi sulla bontà della loro proposta politica ed economica. Hanno contribuito a cambiare anche i direttori di testate giornalistiche della Destra per accaparrarsene i favori. Hanno mentito, falsificato i dati economici e della Storia. Hanno portato in palma di mano camorristi e mafiosi e i progetti delle grandi opere inutili che più stavano loro a cuore.

Hanno insultato, denunciato, perseguitato, minacciato, coperto di infamia chiunque manifestasse il desiderio o [...]]]> di Sandro Moiso

4-leader-sconfitti-no Si erano giocati tutto, convinti di vincere.
Hanno stravolto i vertici delle TV di Stato per impedire qualsiasi infiltrazione di dubbi sulla bontà della loro proposta politica ed economica. Hanno contribuito a cambiare anche i direttori di testate giornalistiche della Destra per accaparrarsene i favori. Hanno mentito, falsificato i dati economici e della Storia. Hanno portato in palma di mano camorristi e mafiosi e i progetti delle grandi opere inutili che più stavano loro a cuore.

Hanno insultato, denunciato, perseguitato, minacciato, coperto di infamia chiunque manifestasse il desiderio o anche solo l’idea di opporsi al loro progetto concentrazionario. Hanno promesso contratti pubblici che non contengono null’altro se non ulteriori fregature per i lavoratori. Hanno promesso denaro che non avrebbero mai avuto il coraggio di sequestrare davvero e in quantità adeguata per bonificare territori devastati da un’industrializzazione priva di regole.

Hanno preso per il culo milioni di giovani, lavoratori, disoccupati, inoccupati, pensionati sull’orlo del baratro con promesse inutili, ridicole e d offensive. Hanno riportato in auge i fasti mussoliniani e cercato di ridare fiato alle leggi promulgate tra il 1923 e il 1926.1 Hanno chiamato immaturi gli elettori che non la pensavano come loro. Hanno dichiarato che in alcuni casi è preferibile l’autoritarismo ad una democrazia che non giunga a realizzare i progetti della finanza internazionale e dei suoi lacchè.

Hanno mobilitato sessantottini putrefatti, lottacontinuisti venduti da decenni al miglior offerente, filosofi da strapazzo che discettando di moltitudini e populismi non hanno mai detto una parola chiara su ciò che occorreva davvero fare in questo referendum, spingendo così molti fiduciosi antagonisti a rincorrere stracci di ideologia e di bandiere come gli ignavi di Dante, senza nemmeno rendersi conto di ciò.

“Hanno” ho ripetuto, non “ha”.
Perché il bullo di Firenze non è stato altro che un pupazzo nelle mani di J.P. Morgan e dei grandi conglomerati finanziari. Prima di tutto questo, ancor prima che un rappresentante dell’europeismo. Sbandierato a tutto spiano per peggiorare le condizioni di esistenza e di lavoro di milioni di persone ancor prima che per rispettare alcune semplici norme di civiltà che pure in altri paesi ancora sussistono.

Un burattino sempre più disarticolato, petulante, odioso e animato dalle mani di altri che, almeno questo, alla fine hanno dovuto metterci la faccia: i grandi organi di informazione, finanziari e non; i banchieri di ogni nazionalità e risma; i giornalisti televisivi e i guru dell’informazione; i padri del Trattato di Maastricht; i grandi detentori di capitali già in fuga da anni e i manager capaci soltanto di trasferire la produzione e i marchi italiani all’estero.

Non vale la pena di citarli uno per uno, non per l’aberrante abitudine di usare il pronome “loro” dietro cui spesso si nascondono complottisti e seminatori di confusione che semplicemente servono da fasullo contraltare a coloro che abbiamo fin qui elencato, ma perché un antico e autorevole concittadino dell’ormai ex-primo ministro ci avrebbe suggerito: “non ragionar di loro, ma guarda e passa”.

Sono stati sepolti insieme al loro miserevole e piagnucoloso rappresentante.
E non lo sono stati dall’indicazione di partiti e movimenti sempre più contraddittori e opportunisti.
Non sono stati sepolti da una generica “ondata di destra”.
Sono stati respinti, cacciati, seppelliti da coloro che pensavano di aver ormai in pugno. Da coloro che pensavano di aver ormai completamente soggiogato, intimorito e piegato. Quelli che un’informazione ormai indegna di questo nome non sa che definire “populisti”. Ma questi “populisti” hanno votato, dal Sud al Nord.2

Sono tornati ad usare uno strumento di democrazia elettorale per sconfiggere l’antico e il morente. Come nel 1974, ai tempi del referendum sul divorzio e con risultati elettorali identici: 59% contro 41%. Soltanto che, paradossalmente, allora si era al culmine di una stagione di lotte che non aveva e non ha più avuto paragoni dal secondo dopoguerra ad oggi. Una stagione in cui le formazioni politiche di sinistra e di estrema sinistra si illudevano di avere un ruolo dirigente, mentre non erano altro che una funzione delle lotte in corso. Così come oggi gli sconfitti di cui non abbiamo fatto il nome, se non in un caso, non sono altro che una funzione del Capitale.

Non è stato colpito il cuore del sistema o, come diceva un tempo qualche formazione poi sconfitta dalla storia, dello Stato. Capitale e Stato non hanno un cuore o un centro, con buona pace di chi si ostina a seguire le vicende del Club Bilderberg o della Trilateral. Stato, club, grandi fondazioni internazionali sono anch’esse niente altro che funzioni del processo di valorizzazione del Capitale.
Un processo che, dopo aver fatto vittime e causato distruzioni in tre quarti del mondo per continuare ad ampliarsi e rimanere in vita, oggi è ritornato, con le conseguenze della globalizzazione e tutta la sua ferocia, là dove tutto era iniziato, nel cuore dell’imperialismo: Europa e Stati Uniti.

Ma lì ha resuscitato la sua nemica di sempre, la lotta di classe che, come l’Eroe mitico dai mille volti, gli si oppone in tutti i modi possibili: leciti e illeciti, dichiarati o confusi, pacifici e violenti, cinici e/o comunitari. Lì sta il nuovo. E lì è sempre stato.
E’ quello che Marx definì come “comunismo”: “il movimento reale che abolisce o stato di cose presenti”. Quello stesso Marx che, insieme al suo pari Engels, commise il suo errore più grossolano proprio nel Manifesto del Partito Comunista.

Laddove sull’onda dell’entusiasmo per le lotte di liberazione nazionale del 1848 europeo finì con l’attribuire meriti progressivi eccessivi ad una borghesia che non li aveva. Non li aveva perché ovunque li avesse avuti li aveva svolti sotto la spinta implacabile di masse anonime e diseredate che premevano e rappresentavano con la loro azione la rivoluzione sociale. Masse e compiti che avrebbe poi tradito subito dopo, appena si fossero placati i fervori rivoluzionari. A partire proprio dall’aprile del 1848 o del 1948, se vogliamo ricordare il tradimento e la sconfitta dell’unico movimento che abbia realmente dato origine all’attuale Costituzione italiana: quello armato e popolare resistenziale.

Ma quell’errore interpretativo di Marx ed Engels ancora si riflette nei vacui giudizi odierni sull’immaturità di coloro che si oppongono ai progetti “più avanzati” del Capitale. Nell’accusa di “conservatorismo” affibbiata tanto ai giovani che negli Stati Uniti hanno votato per Sanders come agli operai che hanno votato per Trump. La Modernità e il Progresso sembrano essere stati definiti una volta per tutte dalle necessità del Capitale e del suo Stato Nazionale e in tale chiave continuano a leggerla tanto i renziani ed i loro padrini, quanto le infinite sette di sinistra (da Lotta Comunista ai bordighisti, passando per tutte le sfumature del variegato microcosmo pseudo-marxista).

Ma questo voto non appartiene a nessuno. Lo ha detto bene Alessandra Daniele nell’articolo che precede questo. Non si illudano la Destra, la Lega, il Movimento 5 Stelle, la Sinistra del PD ed istituzionale di aver avuto davvero qualche merito nell’esito di questo voto. Certo, là dove ha vinto il Sì, Toscana ed Emilia, Massoneria e affarismo legato alle Coop hanno avuto qualche peso, ma non più sufficiente per governare un intero paese. Ed è anche straordinario lo scarso peso che Camorra e Mafia hanno avuto nel voto del Sud.

dosio-e-demagistris Si sono ormai troppo radicate nel Nord finanziario ed industriale per poter pesare ancora troppo sulle regioni meridionali. In compenso il tessuto sociale del Nord è risultato essere più restio ad accettare le infiltrazioni mafiose nelle più normali attività quotidiane. Occorre dirlo: c’è un mondo di persone per bene, nel senso migliore della definizione, soprattutto giovani, che non ci sta più ad accettarne i dettami. Né al Nord né al Sud e ciò costituisce una novità di non poco conto nella attuale economia politica. Soprattutto nella Napoli di Luigi de Magistris (che, non dimentichiamolo, alla manifestazione nazionale dei movimenti contro il No a Roma ha parlato dal palco insieme a Nicoletta Dosio), dove probabilmente sta succedendo qualcosa di inaspettato e positivo.

I giovani non hanno votato per lo Young Pop, così come era stato definito dalla rivista Rolling Stone. E se dopo la Brexit la propaganda mediatica aveva insistito, qui in Italia, su un voto espresso da vecchi delusi contro giovani speranzosi, il voto referendario ha invece dimostrato che la maggior parte dei Sì è arrivata da un elettorato di età superiore ai sessant’anni. Pensionati impauriti, militanti incartapecoriti e risparmiatori benestanti poco propensi a significativi cambiamenti sociali. Volevano la maggioranza silenziosa? L’hanno avuta. Ottenendo così il paradossale risultato che il giovane ed aggressivo rottamatore ha potuto, alla fine, far conto soltanto sull’elettorato più anziano.

Allo stesso tempo, però, l’analisi del voto ci dice che anche in Toscana il Sì ha trionfato a Firenze e ad Arezzo, ha vinto a Pistoia, Prato e Siena ma non nelle province di Pisa (dove ha sostanzialmente pareggiato) e di Lucca, Livorno, Massa e Carrara (dove ha vinto il No). Così pure il Sì ha vinto in Alto Adige, dove forse sarebbe ora di pareggiare i conti con la Storia, rimediando alla conquista italiana successiva alla Prima Guerra Mondiale e rendendo quei territori alla legittima nazione austro-tedesca. Poi stop e ben vengano le foto dei comitati per il No festanti in Piazza Maggiore a Bologna dove, per una volta è stata zittita l’anima pidista del capoluogo delle Coop, nonostante il risultato locale.bologna

Analisti politici e giornalisti asserviti cercheranno di attribuire percentuali di voto ai vari partiti o a Renzi, quasi si trattasse di proprietà private da spartire oppure di feudi divisi, come in Afghanistan, tra vicerè filo-occidentali locali privi di qualsiasi potere effettivo se non quello di rimanere rinchiusi nei loro fortini protetti da mercenari. Se questo è il disordine che alcuni temono ed altri minacciano ben venga. Per dirla con Mao, e almeno per una volta lasciatemelo fare, “grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”.

E non ci commuoveranno le lacrime e i discorsi patetici sulla famiglia e sul giocattolo rotto dei due Giulietta e Romeo delle tenebre dell’ormai ex-governo: ci muoveranno soltanto allo sghignazzo . Sì, proprio così, seppelliti da una colossale risata. In faccia al potere, ai fantocci del capitale e alle sue bamboline di pezza.

Ora arriveranno però le manovre e le minacce “più feroci” per intimorire ancora l’opinione pubblica e l’elettorato infedele. Le più prevedibili riguarderanno:

1) La minaccia del governo tecnico: quasi che del 2011 in avanti tutti i governi abbiano potuto essere qualcosa d’altro. Soprattutto l’ultimo.

2) Le banche. In un contesto in cui i piccoli risparmiatori sono già stati messi a dura prova dai provvedimenti europei (il bail in) e dalle spericolate operazioni di salvataggio messe in atto dal governo ai danni dei primi (Banca Etruria per citarne solo una), la minaccia che Monte dei Paschi possa saltare a seguito del voto appare davvero inutile e ridicola. Visto che, come affermano gli analisti finanziari, per MPS si tratta di “O tutto o niente. Non ci sono mezze misure nell’operazione di messa in sicurezza del Monte dei paschi di Siena, per come l’hanno pensata e organizzata i banchieri d’affari americani della JP Morgan in tandem con i super tecnici di Mediobanca. O tutti i pezzi del puzzle si incastrano al posto giusto e il Monte può ricominciare a crescere, oppure l’operazione di rafforzamento del capitale da 5 miliardi di euro salta e si dovrà ricorrere al tanto evocato spettro del bail in che prevede il sacrificio obbligatorio di azionisti e obbligazionisti della banca fino a un massimo di 13 miliardi di euro (l’8% di 160 miliardi di passività della banca). Come si è arrivati a questa situazione? I passaggi chiave risalgono al luglio scorso quando, a fronte di crescenti richieste da parte della Banca Centrale Europea sulla necessità di mettere in sicurezza del Monte dei Paschi, il premier Matteo Renzi, dopo numerose consultazioni in sede europea,ha scelto di non far intervenire lo Stato nel capitale della banca e dunque non procedere a un bail in, lasciando che la banca si affidasse alle cure di JP Morgan e Mediobanca. Insomma ha preferito la soluzione “privata” a quella “pubblica”, anche in seguito alle rassicurazioni che ricevette personalmente da Jamie Dimon, il gran capo del colosso americano, in un incontro riservato a Palazzo Chigi alla presenza di Vittorio Grilli, ex ministro del Tesoro del governo Monti e ora capo europeo proprio di JP Morgan”.3 Mentre le 8 banche a rischio di cui ha parlato il Financial Times nei giorni precedenti il referendum lo erano già prima, e da molto tempo.4

3) La gestione dei profughi e la difesa dei loro diritti davanti all’Europa. Certo, oggi che i “diritti umani” sembrano aver soffocato qualsiasi altra argomentazione,5 il governo Renzi sembrava essere il campione internazionale dei diritti umanitari. Bastava soltanto dimenticare non solo gli spropositati interessi delle Coop rosse e bianche nella gestione dell’”emergenza” (Buzzi e Carminati insegnano), ma anche il fatto che tale governo, impegnato nella Nato e impregnato di interessi petroliferi, è stato sempre comunque fautore di nuove guerre (Libia) e di spericolate alleanze con le forze che già sono alla base delle guerre che producono miseria , distruzione e profughi. Ma si sa, l’ipocrisia del potere non ha limiti.

4) Questioni quali: contratti , pensioni, promesse. Come dire “parole, parole, parole, soltanto parole”. Vuoti e fraudolenti, come quello per il pubblico impiego oppure autentici ladrocini a danno dei lavoratori come la proposta pensionistica denominata APE (unicamente destinata a favorire, ancora una volta, le banche). oppure le favolose proposte di lavoro per i giovani contenute nel job act e nell’uso dei vaucher per l’impiego.

5) La scomparsa di una sinistra di governo. Evviva! Considerato che è sempre stato questo tipo di Sinistra ad aprire le porte alla Destra e all’oppressione di qualsiasi autonoma iniziativa di classe e/o di lotta contro l’attuale modo di produzione. Con le parole odierne di Marco Damilano, vicedirettore dell’Espresso, “Con lui c’è il suo partito, il Pd, azzerato da una campagna elettorale one-man-show e ora di nuovo dilaniato dalle divisioni. La maggioranza di Renzi non esiste, né sui territori né nel Paese e forse neppure in Parlamento. La minoranza Pd nella società italiana è ininfluente. Il partito ridotto a comitato elettorale dell’americano Jim Messina, il guru che ha fatto perdere tutti i suoi clienti, ha perso ogni contatto con la realtà”. La marmaglia che ha circondato Renzi nel suo governo continua a blaterare di un 40% di votanti che lo avrebbero sostenuto per poi sostenerlo ancora in futuro. Nossignori, la maggioranza silenziosa che vi ha dato il voto per paura o per abulica fedeltà già non vi appartiene più e alla prossima tornata elettorale questo Pd difficilmente raggiungerà un risultato a due cifre.

6) La richiesta di una nuova stretta alla Legge di Bilancio da parte della commissione europea e i possibili diktat della BCE. Già, come se fosse una novità. Il pretesto sbandierato dal 2011 in avanti per tagliare i diritti dei lavoratori, il servizio sanitario, l’istruzione e peggiorare le condizioni di vita e di lavoro della maggioranza degli Italiani è operativo da cinque anni ormai e ha quasi smesso di fare paura. Continua a funzionare come giustificazione in alto, ma non altrettanto in basso. Il voto lo ha ampiamente dimostrato.

Certo, il cammino è ancora lungo, ma il sintomo di una ripresa di opposizione dal basso c’è stato in maniera evidentissima. Lo scontro infinito con l’impero finanziario e capitalistico è ricominciato e, anche se la finestra appena aperta potrebbe rapidamente rinchiudersi, sarebbe necessario non lasciarsi sfuggire l’occasione di rappresentare un’alternativa all’esistente. Un primo picchetto è stato piantato. Proviamo ora a delineare un tracciato che non ripeta gli inutili errori e gli esempi funesti del passato. E, anche se l’uomo di fumo ha pregato gli zombi di rimanere in sella ad un azzoppatissimo cavallo ancora per qualche giorno, non è detto che la partita non possa riaprirsi già fin dalle prossime ore.


  1. Vedasi in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2014/02/06/il-capotreno-trenitalia/  

  2. Si veda in proposito l’analisi dell’Istituto Cattaneo proposta in queste ore dall’Huffington Post: http://www.huffingtonpost.it/2016/12/05/cattaneo-referendum-voto-esclusi_n_13430786.html?1480960462&utm_hp_ref=italy  

  3. Giovanni Pons, https://it.businessinsider.com/mps-attende-il-referendum-ma-matteo-renzi-si-affida-a-jp-morgan/  

  4. “Le otto banche a rischio citate dal Ft sono: una grande (Monte Paschi), tre medie (Popolare Vicenza, Veneto Banca,Carige), e le quattro piccole banche che sono già state salvate nei mesi scorsi (Banca Etruria, Carichieti, Banca delle Marche e Cariferrara)” in
    http://www.ilgiornaledivicenza.it/territori/vicenza/financial-times-se-vince-il-no-8-banche-a-rischio-1.5314920  

  5. Si veda l’interessantissimo testo pubblicato da Nottetempo: Nicola Perugini e Neve Gordon, Il diritto umano di dominare, 2016 che sarà recensito su Carmilla la settimana prossima  

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A chi serve la menzogna? Sull’informazione economica negli Stati Uniti https://www.carmillaonline.com/2013/10/09/chi-serve-la-menzogna-sullinformazione-economica-negli-stati-uniti/ Wed, 09 Oct 2013 21:50:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9772 di Alfio Neri

Il wasn’t a natural disaster. The Bubble was man-made” (Elisabeth Warren)

waa_street_journal1. Lo scorso gennaio, quando ero in California, negli Stati Uniti, mi piaceva leggere il Wall Street Journal. Scritto in un disagevole americano standard, sembrava esporre ovvie verità con un linguaggio crudo, franco, colloquiale. Il suo argomentare diretto contrastava molto con il tono professorale del New York Times, una specie di versione colta del Corriere della Sera, adatto solo ai laureati in una qualche disciplina umanistica. Leggevo questi due giornali perché altri decenti non ce n’erano. Il terzo quotidiano nazionale, USA Today, aveva molte [...]]]> di Alfio Neri

Il wasn’t a natural disaster. The Bubble was man-made” (Elisabeth Warren)

waa_street_journal1. Lo scorso gennaio, quando ero in California, negli Stati Uniti, mi piaceva leggere il Wall Street Journal. Scritto in un disagevole americano standard, sembrava esporre ovvie verità con un linguaggio crudo, franco, colloquiale. Il suo argomentare diretto contrastava molto con il tono professorale del New York Times, una specie di versione colta del Corriere della Sera, adatto solo ai laureati in una qualche disciplina umanistica. Leggevo questi due giornali perché altri decenti non ce n’erano. Il terzo quotidiano nazionale, USA Today, aveva molte foto, molto sport e mi sembrava più adatto a proteggere i senzatetto dal freddo che alla lettura. Altri importanti giornali nazionali non ne vedevo. Esistevano altre testate. Mi ricordo ad esempio il Los Angeles Times. In ogni caso questi fogli, sinceramente, mi sembravano più quotidiani locali che vere fonti informative. Mi trovavo in una situazione molto strana. Una situazione interessante e per me decisamente nuova. Negli Stati Uniti esisteva (esiste) una specie di collo di bottiglia informativo di dimensioni nazionali. La situazione era così esplicita che, un paese con molti quotidiani come l’Italia, poteva apparire come una specie  di covo di intellettuali d’alto livello. Questa ripetuta esperienza di lettura mattutina mi aveva intrigato. A me è sempre piaciuto leggere e trovavo conforto nella vista di altri lettori, in genere barboni, senzatetto e vecchiette rimbambite. I miei simili, i lettori di libri e giornali, sono considerati degli strambi, gente molto particolare. L’americano medio guarda la televisione.

2. All’epoca il Wall Street Journal scriveva articoli di fuoco sulla terribile situazione della Spagna. Il paese era travolto dalla crisi. Le responsabilità erano da imputare a governi corrotti e ai tecnocrati incapaci della BCE; era inteso che ben poco poteva essere fatto per salvare questo sfortunato paese. L’Italia berlusconiana seguiva a ruota governata da una classe politica anche peggiore di quella spagnola. Gli Stati Uniti in paragone erano una specie di piccolo Eden; una nazione che, grazie ad un’azione sagace e lungimirante, stava lentamente ma inesorabilmente uscendo dalla crisi mondiale che aveva colpito tutti, soprattutto i non americani. Tutti questi articoli avevano una comune tesi di fondo. La crisi degli altri era devastante e, in comparazione, gli Stati Uniti stavano meglio sia in termini relativi (velocità di crescita), sia in termini assoluti (tenore di vita). In quei giorni mi trovavo in una San Francisco invernale baciata dal sole; una bellissima città in cui poco lontano dalla zona degli alberghi, dormivano per strada migliaia di persone (tutti cittadini americani da parecchie generazioni). La città era invasa da turisti spagnoli che gioivano del bel tempo invernale e che riempivano i ristoranti di clienti attenti alla buona cucina. Il paese in crisi non sembrava proprio la Spagna.

Europe_financial_crisis3. La bibliografia a disposizione espone, con molti particolari, le drammatiche tesi del Wall Street Journal. Mi ha impressionato ritrovare quelle tesi soprattutto nei libri scritti con caratteri molto grandi, quelli che non affaticano la lettura di presbiti e astigmatici. Il testo più chiaro è sicuramente quello di John Authers1, un giornalista del Financial Times. Il dato fondamentale della sua analisi riguarda il retroterra istituzionale della BCE che è definita come una banca centrale senza Stato. Questa collocazione istituzionale ha impedito alla BCE di agire come la FED e di immettere sufficiente liquidità nel sistema monetario internazionale. In modo non banale, Authers sostiene che inizialmente la BCE ha sottostimato le dimensioni e la gestibilità della crisi e poi, non potendo stampare moneta, ha finito per imporre una repressione finanziaria e un’austerità fiscale inaccettabile. La mancanza di un referente politico ha portato dei tecnocrati senz’anima a gestire la politica monetaria in modo assolutamente irresponsabile. Questa azione ottusa e sciagurata ha condotto l’intero continente verso una recessione feroce e non necessaria. Per evitare queste drammatiche contorsioni la soluzione più ovvia avrebbe potuto essere quella di imitare le brillanti politiche monetarie statunitensi, le stesse che con il salvataggio dell’AIG hanno salvato le inefficienti banche europee. Tuttavia, per ragioni di statuto e di oggettiva stupidità, era risultato impossibile fare agire in modo razionale i tecnocrati della BCE; per questa ragione l’unica soluzione possibile sarebbe quella di semplificare L’Unione monetaria. Occorrerebbe quindi fare uscire subito la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo ed affrontare a viso aperto l’imminente collasso del sistema bancario europeo. Il loro ritiro dall’Unione monetaria permetterebbe la sopravvivenza dell’Euro come moneta regionale. Posizioni simili si rintracciano anche nei saggi raccolti da Sara Eisen2, una fascinosa giornalista finanziaria di Bloomberg TV. Il testo è una raccolta di una serie di saggi redatti in genere da alti papaveri del sistema bancario statunitense e destinati a un pubblico interessato a questioni finanziarie. La tesi ricorrente è la straordinaria forza dell’economia statunitense. Gli Stati Uniti sono l’economia nazionale più grande al mondo, il mercato finanziario più grande al mondo e una delle zone con la crescita della produttività più alta al mondo. Il dollaro è la moneta più sicura al mondo e quindi l’unico problema che si pone è come fanno gli altri a sopravvivere senza usarlo. L’Euro ha un suo posto come valuta regionale anche se la presenza di forti tensioni interne rende molto difficile fare delle previsioni positive a breve termine. Visto che la Grecia è praticamente già uscita dall’Euro, non bisogna più porsi il problema della collocazione del paese ellenico. Al contrario, occorre chiedersi cosa potrà succedere all’intera Europa quando si porrà il problema della probabile uscita di Italia e Spagna dall’Euro.

4. I libri sulla crisi economica scritti con caratteri più piccoli hanno inspiegabilmente tesi leggermente diverse. L’idea che mi sono fatto è che, per le case editrici, chi è affetto da presbiopia e fosse costretto a leggere libri di economia (cioè chi abbia una certa età e sia in posizioni dirigenziali) non debba essere costretto a leggere dei libri veri che, quindi, sono scritti in caratteri molto piccoli. Il libro di teoria economica più interessante riguardo alla recente crisi è quello di Gorton3, un professore di Management and Finance alla Yale School of Management, che aveva lavorato come consulente per l’AEG Financial Products (credo prima che fallisse, altrimenti non avrebbe avuto il tempo di scrivere questo libro). Questo consulente finanziario si pone la questione del perché fino alla fine la crisi non fosse stata avvertita dagli economisti che la dovevano prevedere (fra cui direi si collochi lo stesso Gorton). L’analisi è molto interessante. La descrizione delle dinamiche sociali e finanziarie che si formavano nel caso una corsa agli sportelli (bank run) è un vero capolavoro di storia economica. La cosa che più colpisce è la regolarità dell’evento che appare generalmente all’inizio della fase discendente di un ciclo economico. La folle corsa agli sportelli appare razionale quando si considera che in caso di svalutazione degli investimenti mobiliari, un modo veloce per minimizzare i danni è quello di conservare quanta più liquidità possibile. Con acume, Gorton osserva che non è possibile formulare matematicamente il mutamento delle aspettative e che il bank run è nella sostanza un veloce mutamento di opinione, razionale come tanti altri, sull’andamento futuro degli investimenti. La chiave del problema per Gorton non è la crisi finanziaria in quanto tale (inevitabile alla lunga) ma la possibilità di salvare in tempo le banche in crisi, prima che creino danni alle altre banche sane. In un momento di crisi è indistinguibile chi è solvente da chi non lo è così come è impossibile sapere chi abbia i collaterali migliori. Per questo il mercato finanziario funziona meglio quando le informazioni sullo stato delle singole banche non viene reso pubblico. L’ignoranza è una garanzia per la stabilità dell’intero sistema che, senza l’ingombro di un’informazione adeguata da dare al cliente può massimizzare i profitti a vantaggio degli azionisti.

Per questo quando la crisi è conclamata, la strategia migliore è salvare subito l’intero sistema bancario, mettendo in salvo con soldi dei contribuenti anche i banchieri. La soluzione, in sostanza, non stava nell’impedire ai banchieri di Wall Street di truffare il mondo intero ma quella di salvare a tutti i costi la Lehman Brothers.

time_to_start_tinking5. L’unica vera riflessione giornalistica sulla crisi americana è di un inglese, Edward Luce4, un giornalista del Financial Times che ha scritto un libro che ho comprato in Inghilterra e che non credo di avere notato nelle librerie degli Stati Uniti. Si tratta di un lungo reportage sulla necessità di iniziare a pensare al declino statunitense. Primeggiano le descrizioni di catastrofi, come quella che ha colpito Detroit, e di mancate eccellenze, come quelle di un settore industriale importante ma privo di appoggi politici. Luce pone l’accento più volte che, negli Stati Uniti, l’ignoranza del mondo esterno è elevata mentre la lettura è scarsa. L’istruzione obbligatoria del paese è estremamente scadente, gli alunni sanno fare i test a risposta multipla ma non si sanno esprimere. Nell’industria è la stessa storia, i dottorati in fisica non sono frequentati da americani mentre i brevetti sono in gran parte fatti da stranieri. Luce rileva anche le difficoltà dei governi nell’implementare politiche pubbliche appropriate, sia per oggettivi limiti culturali, sia per una serie di disastrosi veti incrociati statali e federali, che impediscono un’azione di governo coerente. Il punto non è che tra dieci anni il PIL cinese sarà più alto di quello americano (ormai è un dato acquisito), ma che dove è possibile fare qualcosa (come per esempio nell’educazione), non viene fatto nulla. Gli Stati Uniti sono in una traiettoria discendente visibile nel veloce declino della classe media. La crisi ha contribuito a polarizzare le posizioni ideologiche e ha reso più difficili l’elaborazione di risposte politiche coerenti. Nell’insieme non esiste neppure una vera risposta alla crisi e forse neppure la volontà di rovesciare la situazione.

6. Contrariamente a quanto ci si aspetti, negli Stati Uniti è difficile trovare voci dissonanti all’interno dell’informazione istituzionale. In un particolare caso l’occultamento della realtà viene addirittura teorizzato. Gorton fa notare che il modo migliore per fare funzionare un sistema finanziario è quello di assicurare tutti i depositi dei depositanti, senza dare alcuna informazione sullo stato di salute delle singole banche. In questo caso, la sola informazione disponibile per il pubblico è quella data dai dividendi distribuiti dalle banche5. In questo modello teorico, il sistema bancario offre le sue migliori prestazioni quando l’informazione finanziaria viene completamente negata ai fruitori dei suoi servizi. Mi sembra evidente che, per non creare asimmetrie informative fra settori analoghi, l’informazione diretta al grande pubblico debba essere quanto più possibile omogenea cioè, in questo caso, assolutamente nulla. Pongo l’accento su questo fatto perché questa situazione è esattamente quella che si ritrova nel mercato dell’informazione finanziaria statunitense. Esiste una nicchia di pubblico (per esempio studenti universitari) che, in un qualche modo, deve avere una formazione leggermente più ampia (devono leggere qualche libro di testo). Tuttavia l’informazione stampata e televisiva della divulgazione spiccia e dell’alta divulgazione è completamente saturata da una vulgata saccente e ottimista, asservita agli interessi dei grandi gruppi economici. In tutto questo non vi è nulla di rassicurante. Negli Stati Uniti le classi medie sono state prima ingannate dalle banche e poi derubate dei propri risparmi. La cosa è talmente riuscita bene che la crisi del 2008 non ha neppure visto una corsa agli sportelli da parte dei risparmiatori. Il bank run è avvenuto ma chi ha ritirato i propri capitali è stato il settore delle attività finanziarie non regolate. I soldi furono ritirati in tempo da chi, per mestiere, aveva delle conoscenze sullo stato patrimoniale delle banche. Dal punto di vista del modello questo significa che la disinformazione sistematica non è stata sufficientemente ampia. I piccoli risparmiatori scoprirono che i propri investimenti erano andati in fumo solo dopo il collasso del sistema finanziario. Il tappo informativo era tale che la crisi non fu osservata e capita dalla gente comune se non veramente troppo tardi. I cittadini, la stampa, i politici e gli enti preposti alla regolazione iniziarono a comprendere la catastrofe solo quando il disastro finanziario era ormai già avvenuto6.

7. La bolla economica statunitense è cresciuta a dismisura perché era stata preceduta da una bolla politica. Dietro una bolla finanziaria che ha spinto un’intera nazione a indebitarsi c’è molto di più di un ristretto gruppo di banchieri senza cuore. Vi è un’ideologia del libero mercato di tipo fondamentalista, ci sono potenti interessi economici che influenzano l’azione politica e ci sono anche delle debolezze istituzionali che hanno impedito alla politica statunitense di prendere delle decisioni forti. Il risultato è stato patologico. Mentre venivano salvate le banche dal fallimento, non fu neppure possibile fare una vera rinegoziazione dei contratti per proteggere le vittime dei prestiti predatori erogati dalle banche. Da anni non veniva fatto nulla per evitare forme raccapriccianti di prestito immobiliare e per bloccare la crescita dei fondi pensione legati all’andamento azionario (tutte pensioni finite letteralmente in fumo). Scoppiata la crisi, il dibattito legislativo su una possibile riforma finanziaria non ha neppure dato origine a un’abolizione parziale di quella deregolamentazione finanziaria che aveva prodotto la crisi7.

8. Vorrei essere il più chiaro possibile. In Italia la gente è poco indebitata ed è stata terrorizzata al punto di accettare cose inaccettabili. Negli Stati Uniti vi è molta gente, indebitata fino al collo, che è stata derubata dei risparmi e poi convinta che tutto stesse andando per il meglio. A me sembra che, fatti i conti, chi sta correndo pericoli più grossi sia chi sta pensando di non correre pericoli. Dieci anni fa, l’informazione a disposizione del pubblico non permetteva di capire che era in gestazione una crisi sistemica. Oggi l’informazione istituzionale a disposizione e non permette di intravedere che vi sono scenari anche peggiori di quello che è già successo. Di fatto, chi millanta la fine della crisi, non dice che è disposto a sacrificare trecento milioni di americani pur di salvare la propria posizione egemonica. Sui rischi che gli Stati Uniti corrono è illuminate un agevole libricino sull’ascesa e la caduta del dollaro di Barry Eichengreen8, professore di Economics and Political Science, nell’Università di California a Berkeley. Il libro è scritto con un linguaggio accurato ma veloce, forse per assicurarne una leggibilità che fa a pugni con i caratteri minuscoli con cui è stato stampato. L’autore descrive la storia del dollaro e il modo con cui si è imposto come moneta internazionale sulla sterlina fra il 1920 e il 1945. Si focalizza molto sulla storia dell’Euro che vede più come un processo di convergenza politica che come un esempio di cooperazione economica. Come altri sottolinea che gli Usa sono la più grande economia nazionale mondiale e il più grande mercato finanziario. Tuttavia, verso la fine l’autore mette sul tappeto la possibilità che l’uso del dollaro come valuta di riserva internazionale possa finire. Elabora un modello di crash monetario costruito su quello della crisi della sterlina del 1956, al tempo della crisi di Suez. Per Eichengreen potrebbero entrare in moto alcuni meccanismi compensatori come un aumento delle tasse, un incremento delle esportazioni e una forte riduzione delle spese (per esempio quelle militari) che finirebbero per favorire un lento declino del dollaro. Tuttavia, in assenza di questi elementi, la cosa più probabile non è un lento declino ma un crack improvviso e autoalimentato, che distruggendo il dollaro, finirebbe anche per distruggere tutti i risparmi mondiali in dollari in brevissimo tempo.

pkrugman9. Non sta a me fare previsioni o, peggio, profetizzare il futuro. Sta di fatto che se gli Stati Uniti avessero il loro debito in una valuta straniera, oggi si porrebbe già la questione dell’intervento provvidenziale dell’FMI. Non voglio insistere sulla possibilità oggettiva di uno scenario argentino. Voglio solo rilevare che quando un’intera nazione è accecata dal ritornello secondo cui “tutto va bene, stiamo tornando alla normalità” mentre danza di fianco al baratro, chi è cosciente del problema deve anche porsi la questione del “a chi giova tutto questo” [a destra, Paul R. Krugman].

La costellazione di fattori mi ricorda molto alcune pagine di uno fra i migliori manuali di Economia Internazionale9 di tutti tempi. Qui, in alcune pagine assolutamente brillanti, si dimostrava che i paesi in via di sviluppo indebitati avevano bisogno di più credito per favorire il processi di sviluppo e che non dovevano ricomprare i propri debiti a prezzi di mercato (all’epoca molto scontati) perché i benefici erano inferiori a quelli che avrebbero avuti mantenendo i debiti. Per gli autori, ripagare il debito in tempo sarebbe stato solo un grosso favore fatto ai creditori10. Poco dopo, l’intero subcontinente sarebbe poi collassato nuovamente sotto il peso dei propri debiti. Sarebbe cosi continuata la crisi debitoria che fra alterne vicende è durata fino al 2007. Il capitolo in questione scomparve dal noto manuale di Economia Internazionale l’edizione successiva, cioè quando ormai aveva svolto il suo compito, quello di togliere agli stati latinoamericani anche l’idea che fosse pensabile vivere senza essere indebitati con le grandi banche internazionali. All’epoca lo scopo era accecare i governi latinoamericani, mentre oggi l’obbiettivo è accecare gli americani.

10. La domanda da porsi non è più chi ha gonfiato all’inverosimile la bolla speculativa o perché la risposta alla crisi sia stata così insoddisfacente. Il fatto che gli americani abbiano davvero iniziato a credere a quanto viene loro ripetuto in tutti i modi possibili, apre nuovi scenari. La vera questione è ormai solo a chi giova avere in catene una nazione di cittadini indebitati.


  1. Cfr. John Authers, Europe’s Financial Crisis. A Short Guide to How the Euro Fell into Crisis and the Consequences for the World, FT Press, USA, 2013. 

  2. Cfr. Sara Eisen (editor), Currencies after the Crash. The Uncertain Future of the Global Paper-Based Currency System, McGraw-Hill Companies, Inc., USA, 2013. 

  3. Cfr. Gary B. Gorton, Misunderstanding Financial Crisis. Why we don’t see them coming, Oxford University Press, New York, USA, 2012. 

  4. Cfr. Edward Luce, Time to Start Thinking America and the Spectre of Decline, Abacus, Great Britain, 2013. 

  5. Gorton, op. cit., p.48. 

  6. Ivi, p. 177. 

  7. Cfr. Nolan McCarty, Keith T. Poole, Howard Rosenthal, Political Bubbles. Financial Crisis and the Failure of American Democracy, Princeton University Press, USA, 2013. 

  8. Cfr. Barry Eichengreen, Exorbitant Privilege. The Rise and Fall of the Dollar and the Future of the International Monetary System, Oxford University Press, UK, 2011, ed. economica 2012, il modello del crash della moneta è a pp.153-177. 

  9. Sto parlando del Paul R. Krugman, Maurice Obstfeld, Economia internazionale. Teoria e politica economica, Hoepli, Milano, 1995,  è la traduzione italiana dell’edizione statunitense del 1988. 

  10. Cfr. p.811, il riferimento va ricordato. Si tratta di uno dei consigli più immondi mai formulati da un economista. 

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