Filippo Tuena – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 15 Nov 2024 07:23:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nodi alla gola https://www.carmillaonline.com/2022/03/19/nodi-alla-gola/ Sat, 19 Mar 2022 22:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71103 di Ezio Sinigaglia

[Questo testo è tratto dal recente romanzo di Ezio Sinigaglia Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte, Terrarossa Edizioni, Bari, 2022 (pp. 90-92), qui preceduto da una nota introduttiva di Luigi Weber.

Si fa un gran parlare di Terrarossa edizioni, di questi tempi, ed è giusto, anzi un bene. Tre titoli formidabili di Ezio Sinigaglia (il quarto in libreria dal 24 febbraio) nel giro di due anni; un libro – La casa delle madri, di Daniele Petruccioli – che riesce, con merito, a entrare nella dozzina dello Strega; la riproposta, con un nuovo [...]]]> di Ezio Sinigaglia

[Questo testo è tratto dal recente romanzo di Ezio Sinigaglia Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte, Terrarossa Edizioni, Bari, 2022 (pp. 90-92), qui preceduto da una nota introduttiva di Luigi Weber.

Si fa un gran parlare di Terrarossa edizioni, di questi tempi, ed è giusto, anzi un bene. Tre titoli formidabili di Ezio Sinigaglia (il quarto in libreria dal 24 febbraio) nel giro di due anni; un libro – La casa delle madri, di Daniele Petruccioli – che riesce, con merito, a entrare nella dozzina dello Strega; la riproposta, con un nuovo titolo, di That’s (im)possibile di Cristò Chiapparino (ora Uno su infinito), e altri due suoi volumi in catalogo; in tutto una ventina di pubblicazioni, con una grafica sempre azzeccata, molto agile e contemporanea, inconfondibile, servite da una strategia di comunicazione eccellente. E da poco è arrivato anche Pensa il risveglio, il nuovo di Alessandro Cinquegrani, studioso e critico di grande finezza che ha dato buona prova di sé anche come narratore. Un direttore editoriale, Giovanni Turi, che sembra non sbagliare un colpo – anche Binari di Monica Pezzella e Qui non crescono i fiori di Luca Giordano hanno ottenuto in rete molta attenzione; ben sopra la media per un editore indipendente – e ci auguriamo continui così a lungo. Un progetto ardito: dividere in due la sua scuderia tra i “Fondanti”, ossia testi di pregio del passato che vanno recuperati (su tutti, la riproposta del Pantarèi di Sinigaglia, anno 1985), e gli “Sperimentali”, libri che nascono oggi con la volontà di guardare al domani, non solo al brevissimo domani che i libri vivono sugli scaffali dei negozi prima di essere sostituiti dai nuovi arrivi.
Nel 2021, drammatico per l’editoria come per tutta la società, schiacciata dall’emergenza pandemica, e al contrario fecondo per gli scrittori, a segnalare la salute della nostra narrativa ci ha pensato l’uscita di almeno tre romanzi singolari, quanto mai diversi tra loro, che sembrano quasi comporre uno stemma araldico, una Rota Vergilii degli stili: Ultimo parallelo di Filippo Tuena (il Saggiatore), che torna ai lettori, dopo l’edizione 2007 e 2013, con una preziosa prefazione-manifesto e un’appendice di testi inediti, e che per l’altezza della scrittura potremmo considerare emblema dello stile sublime o elevato; il tragico, insomma, non solo per il racconto della tragedia di Scott e dei suoi al Polo, quanto perché quella tragedia si innerva della Waste Land di Eliot, ne germina come un’arborescenza, e diventa un racconto di fantasmi sull’esplorazione di un Altrove che non è l’Antartide ma la scrittura.
C’è poi Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio), l’opera che ha turbato e disturbato di più, di cui si è detto e scritto di più, in questi mesi, e non sempre a proposito; a dispetto di una costruzione calibrata, complessa e disorientante, che tende al disfacimento piuttosto che alla ricomposizione, è un romanzo dalla voce apparentemente dimessa e colloquiale, e a me pare emblema dello stile medio, ossia dell’elegiaco; il libro è davvero un’elegia, perché più di tutto è dedicato all’assenza: assenza della memoria, assenza dell’identità.
Infine, il registro umile o comico: Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche di Ezio Sinigaglia (Terrarossa), che è dove volevamo fin dall’inizio andare a parare.
Intendiamoci: quando parliamo di registro umile stiamo continuando in questa, certo un po’ tendenziosa, certo un po’ pretestuosa, chiave di lettura della ruota degli stili, e non intendiamo dire che l’ultimo nato in casa Sinigaglia sia un libro comico, sebbene non latiti in esso un’ampia dose di divertimento, bensì che alla sua sfrenata invenzione stilistica presiede il più basso, ma solo perché più capiente, più metamorfico, più inclusivo, grado degli stili, o meglio ancora l’unico che sia in grado di tollerare la coesistenza di tutti gli altri, e peraltro di “opera-mondo umoristica” ha parlato lo stesso Sinigaglia in un’intervista in rete qualche tempo fa.
Che Sinigaglia fosse un virtuoso del pastiche era cosa nota, messa in mostra a mo’ di esibizione di poetica inattuale dal Pantarèi, e confermata dal delizioso L’imitazion del vero, dove al tour de force novecentesco del primo romanzo si sostituiva una perfetta imitazione, appunto, a partire da lingua e stile, di una novella post-boccaccesca non poco licenziosa. In entrambe le opere, la nota distintiva di questo autore così multiforme rimaneva la grazia, e le cose non cambiano con il primo volume di Fifty-fifty.
Molte altre cose avrei voluto dire, su questo libro, e magari più avanti dirò, se a qualcuno dovessero interessare, ma oggi mi limito a riprendere, a contrasto spero proficuo, le parole dolenti di due degli autori convocati: Filippo Tuena, che osserva che vi sono giorni in cui parlare di libri è superfluo, e Giovanni Turi, che annunciando l’uscita del secondo volume di Fifty-fifty scrive “Strano caso che esca proprio oggi un libro che irride il militarismo e ne denuncia i pericoli, FIFTY-FIFTY. SANT’ARAM E IL REGNO DI MARTE”. Strano ma in fondo proficuo. Perché il comico è arma dell’intelligenza e strumento della critica, le sole armi che ha senso usare. Anche contro i momenti tragici in cui le armi le imbracciano davvero, e non lontano da noi. (Luigi Weber)]

Il colonnello Psycho […] risiedeva in caserma, con moglie e figli, in un appartamento di cui si favoleggiava che custodisse la statua di bronzo, a grandezza naturale, di un fante assaltatore del nostro glorioso reggimento, plasmato dall’artista nell’atto di restituir l’anima alla Patria, per perfida granata d’obice austroungarico, sul cruento altipiano di Bainsizza. In memoria delle macellerie del Diciassette sull’infausto Isonzo, noi tutti, dal colonnello Psycho fino a Pisolo, ci annodavamo al collo una cravatta rossa. Rosso sangue. Un simbolo che trattavo con riguardo, con un misto di pietà e di orrore. Non sottovaluto mai i simboli. Sono lì apposta per esser valutati: per quel che sono: simboli, cioè rappresentanti plenipotenziari della cosa. La cravatta rossa per me restava sangue, per quanto si fosse coagulato in una striscia di tessuto. Ogni giorno, davanti allo specchio del mio bagno, mi osservavo chiazzarmi la camicia dei palpitanti eritrociti di un povero fantolino del Novantanove. Non ne provavo orgoglio. Solo pena. Arterie gettate via anzitempo, con dolore. Sacrificate all’imbecillità che si perpetua. Proterva, immarcescibile. Alla tracotante idiozia che, dopo morta, si fa strada e piazza e monumento. Mentre l’innocenza non può farsi che cravatta. Nodo alla gola.

Psycho abitava in caserma, con la famiglia, nel suo appartamento privato. Non per amor della cravatta, dei fanti e delle diane. Per risparmiar l’affitto, va da sé. Precauzione comprensibile. Ma da me non condivisa. Io dormivo fuori. Eppure non c’è dubbio che amassi diane e fanti più di lui. Quanto alla cravatta, almeno, mi pesava un poco, mi s’incendiava subitanea nello specchio come una vergogna nazionale. La portai sei mesi. Ne avevo due. Quella d’ordinanza, dozzinale, povera, di terital divenuto traslucido col tempo, con la pioggia e col sole: sangue vivo. Una seconda, di maglia di lana, dalle punte squadrate, corta all’ombelico, di un rosso opaco, leggermente spento: sangue antico. All’atto del congedo, non sapevo che farmene. Era da escludere che potessi portare una cravatta rossa, per il resto della vita. Progettai di versarle in due provette, ben tappate, di conservarle, di proteggere dall’oblio quei palpiti innocenti di due fantolini del Novantanove. Ma, nel complesso, sopravvalutare i simboli non è meno oltraggioso che sottovalutarli. Preferii sciogliere i due nodi, per sempre, e regalare le cravatte a chi restava. Comunque, finché prestai servizio a Palmanova, la trattai con rispetto, la cravatta, con il rispetto dovuto agli organismi naturali. Non avevo rispetto per nulla, in quei mesi sarcastici e ribelli, fuorché per i ragazzi e la cravatta. A volte l’una e gli altri entravano in un tenero conflitto. Quando mi spogliavo per far l’amore, nascondevo quel filo di sangue secco in un cassetto, o in una tasca. Il mio fluiva, rigoglioso come mai. Non volevo che il suo, dalla sua siccità, invidiasse la mia piena. Chissà se il fantolino del Novantanove, assassinato dai suoi Psycho a diciott’anni, aveva mai fatto l’amore? A volte, invece, nelle mie insonnie trepide e ispirate, nella penombra della tana soffice, gonfia di mormorii come il mio cuore, il nastro rosso si stagliava all’improvviso sulla notte come la traccia di un delitto. Gocciolava, dalla spalliera della sedia, dalla schiena della giacca. Mi ricordavo d’essere soldato. Assassino potenziale. Addirittura candidato comandante di un plotone di morti o di assassini. Ero un simbolo anch’io, non solo la cravatta! Un simbolo vivente, minaccioso. Scendevo per le pendici dell’altipiano in rivoletti rossi, sprizzavo dall’Isonzo, infelicissimo fra i fiumi. Ero la guerra, ufficialmente. Ero l’idiozia, la follia, la tracotanza che si perpetuavano. Era opportuno che il mio nodo alla gola me lo rammentasse, di tanto in tanto: giocavo un gioco sporco, anche se molto più divertente del previsto.

]]>
Julien Green, Vertigine https://www.carmillaonline.com/2017/04/23/julien-green-vertigine/ Sat, 22 Apr 2017 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37803 di Gioacchino Toni

green_vertigine_coverJulien Green, Vertigine, a cura di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, Nutrimenti, Roma, 2017, pp. 232, € 17,00

Julien Green (1900-1998), nato a Parigi da famiglia americana, è autore di racconti, drammi, saggi, romanzi. Fra i suoi romanzi più celebri, anche in Italia, ricordiamo Mont-Cinère (1926), Adrienne Mesurat (1927), Leviatan (1929; tradotto nel 1946 da Vittorio Sereni), Il visionario (1934), Varuna, (1940; uscito in Italia nel 1953 nella traduzione di Camillo Sbarbaro), Moira (1950). Di grande interesse la sua opera autobiografica, suddivisa in diversi volets, e la sterminata produzione [...]]]> di Gioacchino Toni

green_vertigine_coverJulien Green, Vertigine, a cura di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia, Nutrimenti, Roma, 2017, pp. 232, € 17,00

Julien Green (1900-1998), nato a Parigi da famiglia americana, è autore di racconti, drammi, saggi, romanzi. Fra i suoi romanzi più celebri, anche in Italia, ricordiamo Mont-Cinère (1926), Adrienne Mesurat (1927), Leviatan (1929; tradotto nel 1946 da Vittorio Sereni), Il visionario (1934), Varuna, (1940; uscito in Italia nel 1953 nella traduzione di Camillo Sbarbaro), Moira (1950). Di grande interesse la sua opera autobiografica, suddivisa in diversi volets, e la sterminata produzione diaristica, che occupa ben sedici volumi.

Nel 2015 l’editore Andrea Palombi (Nutrimenti) e Filippo Tuena (all’epoca direttore della collana “Tusitala”) hanno affidato a Giuseppe Girimonti Greco la curatela della raccolta Viaggiatore in terra (il cui titolo deriva da quello del primo racconto, già uscito nel 1959 nella “Biblioteca delle Silerchie” del Saggiatore, nella traduzione di Leonardo Sinisgalli e con un’importante nota di Giacomo Debenedetti); per tradurre questi cinque racconti – tutti scritti o concepiti quando Green era poco più che ventenne, ma che presentano una certa varietà di tono e atmosfera: dalla ghost story al bozzetto naturalistico-melodrammatico – si è scelto di far dialogare due traduttori letterari ‘puri’ (il curatore e Francesca Scala) e due scrittori-traduttori (Ezio Sinigaglia e Filippo Tuena). In appendice figurano cinque ampie note ai testi firmate dai singoli traduttori.

Se questa prima esperienza di traduzione a più mani aveva offerto al lettore italiano la possibilità di apprezzare ben tre racconti ancora inediti nel nostro paese – Le chiavi della morte, Maggie Moonshine, Leviatano o L’inutile traversata (da non confondersi con il romanzo) –, interamente inedita in Italia è la raccolta di venti racconti Vertigine (titolo originale: Histoires de vertige), uscita, sempre per Nutrimenti, nel marzo di quest’anno. L’équipe di traduttori si è arricchita per l’occasione di una quinta voce, quella di Lorenza Di Lella, che si è fatta interprete dei testi più apertamente fantastico-meravigliosi della silloge. I testi di Vertigine appartengono a diverse stagioni (si va dagli anni Venti alla metà degli anni Cinquanta), il che spiega, anche qui, la varietà di toni e atmosfere; è tuttavia possibile individuare due filoni principali, all’interno della raccolta, che rimandano a due numerose famiglie di personaggi, peraltro tipicamente greeniani: i bambini tiranneggiati dagli adulti e le donne sole.

[I due curatori – Girimonti Greco e Sinigaglia – firmano una Nota ai testi che dà conto, in una serie di brevi paragrafi, dei temi, dei motivi ricorrenti, degli stilemi e delle personali ossessioni di Green, molte delle quali di matrice autobiografica. Presentiamo qui di seguito il paragrafo relativo alla Bella provinciale, preceduto da un breve estratto del racconto – Ringraziamo l’editore per la gentile concessione – ght]


La bella provinciale [estratto]

[…]

Attraversò il cortile come in sogno e sospinse una porta dai vetri multicolori. Sulle scale l’aspettava l’odore umido e austero che ben conosceva, un odore di convento sotto il quale trapelava il profumo ingenuo del vaso di garofani che stava sul davanzale di una finestra. Stéphanie si chiedeva talvolta se non fosse per via di quelle scale che veniva a trovare Marcelline, o di quel cortile che pure le metteva voglia di morire. Ma oggi veniva a trovare Marcelline per lei stessa, perché aveva qualcosa da dirle e qualcosa da ascoltare da lei. Ma che cosa, dunque? Stéphanie avrebbe preferito non darsi una risposta: si affidava all’ispirazione, avrebbe deciso sul momento… ma salendo i lunghi gradini che si dispiegavano come un ventaglio aperto a metà si figurò la noia delle frasi che sarebbe stato necessario scambiarsi. Rimpianse allora di non potersi attardare per le scale, sedersi su un gradino e andarsene dopo aver continuato a fantasticare ancora un po’; ma Marcelline ormai l’aspettava e non avrebbe capito, e c’era inoltre quella strana angoscia la cui morsa già si allentava un poco a così breve distanza dalla persona irrequieta e positiva che, a dieci metri da lei, dietro un paio di pareti e di porte, stava disponendo in un piatto i biscotti da offrirle, e progettando nel frattempo le sue astute domande.

[…]

Oltrepassarono insieme le tenebre di un ingresso dove si inciampava in pile di scatoloni e si trovarono quindi al centro di una stanza le cui finestre oscurate da tende di tulle giallo lasciavano filtrare una luce incerta. Nell’angolo più oscuro un divano di reps nascondeva come vergognandosene le sue forme di dubbio gusto, affiancato a destra da un tavolo con i piedi a zampa di rospo e a sinistra da una bassa poltrona, che una mente calcolatrice aveva piazzato là come opere di fortificazione. Si disegnava così una specie di rettangolo, in un intento che Marcelline credeva segreto ma la cui evidenza saltava agli occhi anche dei più ingenui.


La bella provinciale [Nota al testo]

Julien_Green_1929_Come di consueto, alla fine di questo racconto rimane al lettore una curiosità insoddisfatta, una domanda formulata fin dalla prima pagina e cui nessuno ha dato risposta: perché è in lutto, in lutto stretto, Stéphanie? Tuttavia si deve riconoscere che non ha nessuna importanza saperlo. Quel che conta è che la narrazione colga “la bella rossa” a una svolta decisiva della sua vita. Che abbia perso prematuramente il marito o che sia in lutto, com’è assai più probabile, per la morte del padre, Stéphanie si trova ad avere più libertà di quanta ne avesse prima. A differenza di quello stuolo di donne abbandonate alla loro solitudine che costituiscono forse la popolazione di personaggi più numerosa di Vertigine, Stéphanie è ancora padrona del proprio destino. La chiave del racconto sembra situarsi in quell’immagine di sofferenza che il finestrino del taxi, come uno specchio di fortuna, le rimanda all’improvviso. È in quel momento che Stéphanie capisce l’importanza della sua scelta di andare a trovare Marcelline, la sola persona con cui possa parlare, la sola a cui possa rivelare il nome dell’uomo che è entrato da poco nella sua vita (e il fatto che si chiami Fabien, come il ragazzo dalla “bellezza pagana” spiato nella sua stanza dal cuginetto innamorato molte pagine prima, può risultare – a seconda delle sensibilità – più spiegabile o più inquietante se si pensa che i due racconti sono stati scritti a una sola settimana di distanza l’uno dall’altro: il 22 settembre 1944 quello, il 29 questo). Così Stéphanie va da Marcelline a chiedere consiglio, e ci va come andrebbe da uno psicanalista: attraversa un cortile gonfio di ricordi, sale rampe di scale dagli odori ben noti, sente placarsi l’angoscia al semplice pensiero delle “astute domande” che le saranno rivolte e, nello stesso tempo, è insofferente dei noiosi preliminari che l’aspettano. Poi, entrata in casa, viene accompagnata al “quadrilatero”, protetto da adeguate “opere di fortificazione”, all’interno del quale Marcelline esercita le sue “doti strategiche” (pp. 190-191). In un curioso ma efficace capovolgimento, se non dei ruoli, delle posizioni relative, la paziente Stéphanie siede in poltrona mentre l’analista Marcelline si allunga “come una nuotatrice nelle profondità del divano”, che ben rappresentano quelle dell’inconscio altrui. I toni insolitamente umoristici della seconda parte del racconto e soprattutto del finale si direbbero di buon auspicio per il futuro della bella provinciale.


Julien Green, Vertigine – Traduzione di Lorenza Di Lella, Giuseppe Girimonti Greco, Francesca Scala, Ezio Sinigaglia, Filippo Tuena

]]>