Fgci – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il senso di un’estate passata https://www.carmillaonline.com/2020/12/13/il-senso-di-unestate-passata/ Sat, 12 Dec 2020 23:01:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63829 di Luca Cangianti

Paolo Scardanelli, L’accordo. Era l’estate del 1979, Carbonio, 2020, pp. 240, € 15,00.

Gli anni della scuola, la nostra sensibilità ancora priva di epidermide, i riti di passaggio della gioventù racchiudono significati che impieghiamo un’intera vita per decifrare. Siamo figli e figlie di un’estate passata a interrogarci su come cambieremo il mondo, con il rumore delle cicale nelle orecchie e una bomba a orologeria nel cuore. Poi, quando giunge il tempo dell’età adulta, la memoria s’incarica prometeicamente di trovare un senso a ciò che è stato e a [...]]]> di Luca Cangianti

Paolo Scardanelli, L’accordo. Era l’estate del 1979, Carbonio, 2020, pp. 240, € 15,00.

Gli anni della scuola, la nostra sensibilità ancora priva di epidermide, i riti di passaggio della gioventù racchiudono significati che impieghiamo un’intera vita per decifrare. Siamo figli e figlie di un’estate passata a interrogarci su come cambieremo il mondo, con il rumore delle cicale nelle orecchie e una bomba a orologeria nel cuore. Poi, quando giunge il tempo dell’età adulta, la memoria s’incarica prometeicamente di trovare un senso a ciò che è stato e a ciò che ne rimane.
L’estate di cui parla L’accordo di Paolo Scardanelli è quella del 1979, quando dopo la maturità un gruppo di amici parte dalla Sicilia alla volta del Friuli per partecipare a un campo di lavoro della Fgci, la federazione giovanile del Pci. In verità il vero “figgicciotto” è uno solo (Roberto), mentre gli altri (Paolo, autore e voce narrante, e Pino) sono più che altro di tendenze anarchiche e autonome. E infatti combineranno qualche guaio. Infine c’è Andrea, che rimane a casa, ma che diviene il focus narrativo degli anni che seguiranno. Il suo rapporto frustrante con il padre, un imprenditore etneo dal carattere autoritario, il suo amore possessivo e disperato verso Anna sono la cifra di una condizione esistenziale tipica degli anni Ottanta. Si tratta di un orizzonte percettivo senza soggettività, dove tutto “sembrava semplicemente e inevitabilmente agito”, dove la realtà sfuggiva via tra le dita come sabbia finissima: “penso ad Andrea – scrive Scardanelli – come paradigma della difficoltà, dell’impossibilità quasi di vivere”.

La trama del libro è solo struttura leggera intorno alla quale si aggrappa una prosa densa, intima, a tratti aulica, a tratti colloquiale, spesso tagliente, sempre dolorosa. È un lungo flusso di coscienza che divaga tra filosofia, religione e temi musicali; un guardare agli anni Settanta, dove tutto iniziò, con sofferto distacco, ma senza rancore: “Gli anni Settanta erano un vecchio mantello lasciato nel guardaroba non senza una punta di nostalgia… dell’ansia d’eterno che li attraversò, della desolazione del dopo che ci colse tutti e ci traghettò verso gli orrendi Ottanta.”
L’accordo è un romanzo che va letto con calma. Parla di un’esperienza imprescindibile che ci riguarda tutti, la necessità di guardare indietro e ritrovare un senso: “Ho paura, ma so di potere, dovere provare a riconnettermi. A ciò che è stato, a ciò che sono stato. Al suo illusorio stato di benessere che la distanza magnifica. Illudendoci. Che ciò che siamo stati possa ritornare. Che l’Eden abbia un posto sulla Terra.”

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Le emozioni del cuore, la freddezza della ragione, la realtà dei fatti. https://www.carmillaonline.com/2017/04/26/le-emozioni-del-cuore-la-d-della-ragione-la-realta-dei-fatti/ Tue, 25 Apr 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37787 di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, della lotta nelle carceri e le stragi compiute all’interno di alcune di esse: Le Murate ed Alessandria; nonché per i nuovi dettagli evidenziati, la segnalazione (ricordi, memorie) di particolari rimossi. La smentita di una recente dietrologia complottista con presenze ‘multiple, diverse ed eterogenee durante le fasi dell’azione in via Fani. Le deposizioni di testimoni oculari che smentiscono se stessi, motociclette con a bordo ignoti sparatori fantasma ed altro ancora.
Inoltre la loro ricostruzione favorisce il recupero e il riordino della memoria.
Quella colletiva e quella individuale: la nostra, di ognuno di noi.

Gli autori hanno dei significativi ‘precedenti’ relativamente agli argomenti trattati nel libro di recente pubblicazione.
Clementi, dieci anni fa, ha realizzato una “Storia delle Brigate Rosse”;1 anni prima aveva dato alle stampe uno studio che potremmo definire correlato al piano ‘Victor’, ossia come neutralizzare umanamente, politicamente, personalmente e mentalmente il presidente del Consiglio Nazionale DC qualora fosse stato liberato.2
Il piano da attuare in caso di morte dell’ostaggio, era stato denominato ‘Mike’.
Più semplice, prevedeva di informare tutta una serie di figure istituzionali, giudiziarie e politiche, isolamento immediato del luogo di ritrovamento del corpo, interdizione dello stesso ai famigliari, l’istituzione di un efficiente servizio d’ordine davanti lo studio e l’abitazione di Moro, fornire in forma dubitativa le informazioni a stampa e tv.

Persichetti, con Oreste Scalzone, ha scritto “Il nemico inconfessabile”3 e, quasi quotidianamente, su ‘Insorgenze.net’ conduce una sistematica azione di puntigliosa smentita e rettifica di notizie…false e tendenziose. Relativamente ad avvenimenti e fatti riconducibili alla lotta armata e suoi militanti, alla repressione, tortura, ‘omicidi’ di stato, alla politica e alla cultura.

Infine, Santalena, ha elaborato una tesi dottorato di ricerca all’Università di Grenoble su, “La gauche révolutionnaire et la question carcérale : une approche des années 70 italiennes” (8 dicembre 2014) con capitoli espliciti: “Dalle prigioni fasciste, alle prigioni in rivolta (1969-1973)”; “Dalla riforma alla controriforma: tra repressione, lotta armata ed evasione (1974-1977)”; “Le prigioni al centro del conflitto: tra lotta armata e gestione dell’emergenza antiterrorismo (1977-1987)”.

Dettagli e particolari
Addentrandosi nella lettura si incontrano alcuni dettagli, o particolari, che se non sconosciuti, sono sicuramente poco noti. Così, si apprende che, la mattina del 9 maggio 1978, lo spazio dove verrà ritrovata in via Caetani (a metà strada tra la sede nazionale della Dc e quella del Pci) la Renault 4 di colore amaranto con all’interno il corpo senza vita di Moro, era stato occupato la sera prima da Bruno Seghetti che vi aveva parcheggiato la sua vettura personale, una Renault 6 di colore verde. Questo per evitare intoppi o inconvenienti dell’ultimo minuto. Così facendo si era sicuri che il luogo prescelto per posizionare la macchina servita per l’ultimo trasferimento, e successivo ritrovamento del corpo senza vita del parlamentare democristiano non sarebbe stato ostacolato dalla presenza di altri veicoli inopportunamente parcheggiati al suo posto.

Un’altra questione poco considerata è l’azione svolta da Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, quando è nominato difensore d’ufficio dal presidente della Corte d’Assise di Torino che deve condurre il giudizio (maggio 1976) contro il cosiddetto ‘nucleo storico’ (definizione sempre rifiutata dagli imputati) dell’organizzazione comunista combattente, dopo che i militanti delle BR avevano ricusato i propri avvocati di fiducia, diffidato la corte di nominarne d’ufficio ed erano, momentaneamente, riusciti a far vacillare i meccanismi classici dell’ordinamento giudiziario, rivendicando il diritto all’autodifesa, per condurre il cosiddetto ‘processo guerriglia’4 e far ‘saltare’ il dibattimento.

br-processo Nonostante l’accettazione delle superiori ragioni di stato, delegando la difesa tecnica ad altri otto avvocati dell’ordine torinese, il presidente della corporazione forense, approfittando del rinvio al 16 settembre 1976 – in attesa di un pronunciamento della Cassazione per redimere un conflitto di competenza territoriale tra Torino e Milano – al riparo da clamori mediatici, si fece promotore della proposta di promulgazione di una ‘leggina’ (come la definì in una missiva indirizzata al presidente del Consiglio nazionale forense) ad hoc che permettesse agli imputati che lo desiderassero di difendersi da soli.

Sempre durante il tentativo di costituire la corte per poter svolgere il processo, oltre alla nomina di ‘difensori tecnici’, si incontrarono notevoli difficoltà nell’individuare i giudici popolari, per la rinuncia ad accettare di molti di essi.
Per superare questo ostacolo scesero in campo i massimi dirigenti del Pci torinese, Giuliano Ferrara in testa, coadiuvato ufficiosamente da due magistrati della procura, Luciano Violante e Gian Carlo Caselli che, secondo il parlamentare ed esponente del Pci torinese Saverio Vertone, “Partecipava alle riunioni del comitato federale. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria…” Mentre l’elefantino (pseudonimo di G. Ferrara) partecipò ad “alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico” (M. Caprara).

Sempre Ferrara, rivendicava il merito al Pci di aver realizzato, e diffuso, il famigerato questionario contro il terrorismo che, alla domanda n. 5, invitava alla delazione.
…poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra. (…) Per esempio case. Chiedevamo: ‘Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo”.
Tramite un suo ‘autorevole’ dirigente, G. Ferrara, il Pci si faceva Stato.

Prima delle Brigate Rosse e le militanze nel Pci
Già subito dopo la Liberazione si sono strutturati gruppi od organizzazioni Comuniste che praticavano la lotta armata. In diverse forme e modi. Dal Movimento Resistenza Partigiana-Movimento di Unità Proletaria di Carlo Andreoni, di cui, però, vanno chiarite alcune ambigue striature; alla “IX Divisione Stella Rossa Brigata clandestina ‘808’ “ di Armando Valpreda,5 presidente dell’Anpi di Asti, tra i promotori dell’ insurrezione di Santa Libera,6 fino a quel gruppo di bravi ragazzi che si ritrovavano presso la Casa del Popolo di Lambrate (Mi) per costituire la ‘Volante Rossa’.7 Per giungere a quei militanti emiliani (clandestini ed apparentemente senza organizzazione unificante) che hanno costellato le province reggiana, modenese, ferrarese e bolognese di numerosi fatti d’armi, principalmente eliminazione di fascisti e loro complici.

In anni più vicini al secondo biennio rosso italiano (1968-1969) ci sono esperienze di resistenza ed attacco armato che potremmo definire propedeutiche alla più significativa (per durata, numero di militanti ed azioni) organizzazione che ha ‘imbracciato il fucile’ e che viene ‘raccontata’ nel libro.
Il gruppo torinese costituito da Piero Cavallero, Danilo Crepaldi, Sante Notarnicola,8 Adriano Rovoletto, tutti militanti del Pci operaista delle ‘Barriere’ proletarie di Torino. “Già nel 1959 abbiamo compiuto la prima azione e siamo andati avanti fino al 1967, momento del nostro arresto. Piero era il coordinatore delle sezioni Pci della ‘Barriera di Milano’ , una circoscrizione popolare con circa 70.000 abitanti. Io, ero stato segretario dell’organizzazione giovanile del partito (Fgci) a Biella e contavamo circa 3.000 iscritti. Agli inizi degli anni sessanta avevamo capito che non eravamo più sintonizzati con il ‘partito’. Troppo ingessato, conformista e non più ‘rivoluzionario’9 .

Un’altra compagine di militanti iscritti al Pci, sezione “Rino Mandoli” di Ponte Carrega a Genova, che ha intravisto ‘l’ora del fucile’, è quella che volgarmente e mediaticamente è stata battezzata XXII Ottobre, attiva a Genova dal 22 ottobre 1969 (data di costituzione) al 26 marzo 1971, giorno della rapina al fattorino dello Iacp. In realtà, colui che è indicato come uno dei fondatori della pattuglia di nuovi partigiani, Mario Rossi, anche se con reticenze, distinguo e cautele, afferma: “Condividendo la posizione dei Gap, diventammo in pratica il gruppo Gap di Genova come c’erano già a Milano e Trento. Però, l’ho detto e lo ripeto ancora, siamo sempre stati autonomi rispetto alle altre formazioni che si stavano formando o che erano già attive altrove”.10
.
L’esperienza di Rossi, e la lettura del libro di Clementi-Persichetti-Santalena, ci offrono l’occasione di approfondire anche un altro aspetto, relativo a militanti delle prime formazioni armate, ma anche delle Brigate Rosse: la loro provenienza, l’appartenenza e l’agire politico.
Nella testimonianza raccolta da Donatella Alfonso (giornalista de “La Repubblica”) Rossi ribadisce,
Io, di fatto, mi sento ancora un militante del Pci degli anni Sessanta…In quegli anni lì ti capitava di frequentare il Partito soprattutto sul posto di lavoro, nelle sezioni di fabbrica, perché sentivi il polso dell’operaio che era quello che ti insegnava a lavorare e poi pensare…(Noi) ci eravamo tutti forgiati anche con il 30 giugno del ’60, quando Genova ha respinto il congresso del Msi. Lì c’eravamo tutti e l’ultima volta che ho visto davvero il Partito comunista in piazza è stato quel giorno, con i partigiani e i portuali con il gancio in mano”.

Nella ricostruzione delle sue scelte politiche, svela anche un particolare emblematico, “…un altro fatto che non ho mai raccontato per non mettere in imbarazzo nessuno, ma io ho continuato ad avere la tessera del Pci: finché non è morto, un vecchio compagno di Genova me l’ha rinnovata tutti gli anni, anche quando ero in carcere…Sembra assurdo, ma io non sono mai stato espulso dal Partito comunista”.

feltrinelli Queste due organizzazioni ‘minori’ e precedenti al dispiegarsi delle BR e di altre formazioni con struttura nazionale anche se con diffusione a macchia di leopardo (Nuclei Armati Proletari e Prima Linea) insieme ai Gruppi d’ Azione Partigiana costituiti da Giangiacomo Feltrinelli (operativi a Trento, Milano e Genova, i cui militanti in maggioranza, e sostanzialmente, sono confluiti nelle Brigate Rosse dopo la morte dell’editore,14 marzo 1972) sono stati un insieme di più ‘iscritti’ al Partito (Nelle inchieste sui Gap sono stati indagati G.B. Lazagna, Marisa e Vittorio Togliatti, nipoti del Migliore, ed altri ancora molto ‘vicini’ al Pci) che si sono mossi collettivamente, ma ci sono anche sintomatiche individualità o compagni semi-organizzati, con contatti personali. L’editore milanese presta la sua pistola (una Colt Cobra) a Monika Ertl, nome di battaglia ‘Imilla’, quando il primo aprile 1971, ad Amburgo, uccide Roberto Quintanilla Pereira, rappresentante del governo boliviana in Germania e boia di Ernesto Che Guevara.11

Clementi e coautori ricordano il caso di Maria Elena Angeloni, la zia di Carlo Giuliani, dilaniata – insieme al militante cipriota Georgios Christou Tsdikouris – dall’auto bomba che stava indirizzando verso l’ambasciata statunitense di Atene (2 settembre 1970) ed iscritta alla sezione 25 Aprile del Pci milanese. “Ai funerali di Elena, a Milano, per la Resistenza greca c’è Melina Mercouri. Ci sono i compagni, gli amici, i militanti del Pci. A titolo individuale. Il Partito non c’è. Anche se ufficialmente sostiene la Resistenza. Il segretario della sezione 25 aprile viene costretto dalla Federazione a strappare la matrice della tessera di Elena”.12

Un altro esempio evidenziato in “Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’” è quello di Angelo Basone, operaio alle presse di Mirafiori, delegato sindacale e dirigente della sezione di fabbrica del Pci, mai espulso dal partito, inserito nella lista dei 61 operai da licenziare e militante noto e riconosciuto dell’organizzazione con la stella a cinque punte. Condannato per partecipazione a banda armata, prigioniero politico nelle carceri speciali.

Quelle sopra ricordate sono le biografie politiche di alcuni militanti comunisti (militanti del Pci) che hanno intrapreso la lotta armata. Militanti politici a tutto tondo, che partecipavano all’attività di sezione, contribuivano al dibattito durante le riunioni, intervenivano ai congressi di partito, organizzavano manifestazioni e comizi, redigevano e distribuivano volantini, diffondevano la stampa: il quotidiano ‘L’Unità’, i settimanali ‘Vie Nuove’ e ‘Noi Donne’. Non giocavano a fare i soldatini.

La più significativa, probabilmente, è la coerente traiettoria disegnata da Prospero Gallinari. Già militante, a Reggio Emilia, dell’ organizzazione giovanile del Pci, dal 1968 con doppia tessera, anche quella del Partito13 quando ne viene espulso (1969) per indisciplina, partecipa alle riunioni del ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’, detto ‘Gruppo dell’appartamento’ (poi CPM-Sinistra Proletaria di Re). Dopo un’infelice (così la definisce nella sua autobiografia) esperienza (1971-1972) nel Superclan di Corrado Simioni, aderisce ufficialmente alle Brigate Rosse, divenendone uno dei militanti più rappresentativi.

Mario Moretti, quando Gallinari muore, lo ricorda così: “Il nome di battaglia di Prospero era Giuseppe e non è certo per caso. Se l’era scelto con molta ironia ma per un vecchio comunista quel nome vuol dire qualcosa. Prospero è uno dei compagni di fiducia e di linea, è lui che guida la battaglia politica con Morucci nella colonna romana. Prospero è il marxismo-leninismo, tutto quel che ci succede, ascese e cadute, lui lo legge alla luce del rapporto tra partito e masse, avanguardia e masse. Pensa che è là che manchiamo. Viene dall’esperienza emiliana, per lui il partito è tutto, la coerenza politica è tutto, e ha un senso morale fortissimo. Ognuno vive la sconfitta in maniera diversa… per lui, se le cose tornano sui paradigmi marxisti-leninisti va bene, e di lì non si muove neanche se gli spari. Quando le Br si esauriscono, spera in una continuità in qualcosa che non siano le Br. Il che a mio parere non ha senso, e gliel’ho detto, pur con il grande rispetto che ho per lui. Prospero è uno di quelli con cui mi intendevo, è d’acciaio, proprio d’acciaio, è fatto così, è un vecchio contadino del Pci. Prospero è importantissimo. Ciao, Prospero”.14

Anche Andrea Colombo,15 in altra prospettiva ed ottica, gli rende gli onori della Politica: “Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice ‘col cuore grande’…Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo. Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. ‘Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata’ “.

La costituzione delle BR
Gli artefici di questo primo volume, a cui altri ne seguiranno, hanno ricostruito dettagliatamente come, e quando, si è costituita la prima, e più importante, organizzazione armata italiana del dopoguerra con un’ ampia ramificazione su quasi tutto il territorio nazionale. Quali sono stati gli organismi, collettivi e comitati politici che hanno contribuito alla sua fondazione. Più sopra abbiamo sottolineato come questo lavoro sia di aiuto e stimolo al recupero della memoria, anche per questo motivo lo consideriamo un testo utile e fondamentale.

Da Trento, un apporto sostanziale lo hanno fornito Margherita Cagol e Renato Curcio che, poi, con Mauro Rostagno (Movimento per una Università Negativa) sono ‘migrati’ a Verona, per poter aver un respiro politico maggiore, dove hanno collaborato con il ‘Centro d’informazione’ che pubblicava la rivista ‘Lavoro Politico’ diretta da Walter Peruzzi. Successivamente, quasi tutta la redazione aderì al Partito Comunista d’Italia, che poi si scisse in ‘linea nera’ e ‘linea rossa’.

Curcio e ‘Mara’ aderirono a quest’ultima, fino a quando, agosto 1969, ne vennero espulsi insieme a Peruzzi ed al ‘trentino’ Duccio Berio. Da Verona si trasferiscono a Milano, ed incontrarono i Compagni del Collettivo Politico Metropolitano (poi Sinistra Proletaria), i Compagni dei Cub Pirelli, Alfa, Sit-Siemens, Marelli, nonche i componenti dei Gruppi di Studio della Sit e della Ibm. Quest’ultimo, qualche anno dopo, realizza un importante lavoro di ricerca sulla multinazionale statunitenese: “IBM, capitale imperialistico e proletariato moderno”.16 Ma anche nei quartieri della cintura periferica ci sono realtà ‘autonome’ che iniziano una certa critica politica: comizi volanti, diffusione di materiale di propaganda e militare, prevalentemente incendio di automobili di capetti e fascisti.

Particolarmente radicato, nel quartiere Lorenteggio-Giambellino, il “Gruppo Proletario Luglio ’60” comunista autonomo. Animatori e aderenti a questo organismo sono tutti (un centinaio) ex militanti iscritti alla sezione Pci di quartiere, intitolata al partigiano ‘Giancarlo Battaglia’. Come partigiani sono il militante storico del rione: Gino Montemezzani, uno dei pochi maoisti ad avere incontrato personalmente Mao Tse Tung,17 e Giacomo ‘Lupo’ Cattaneo, successivamente combattente comunista nelle Brigate Rosse. Del comitato “Luglio ’60” fanno parte anche i nove fratelli Morlacchi,18 figli di una ‘famiglia comunista’. In sei saranno perseguitati per costituzione e partecipazione a banda armata: le BR. Pierino, oltre ad essere uno dei promotori dell’organizzazione è stato anche nel primo comitato esecutivo con Curcio, Cagol e Moretti.

A Reggio Emilia, la gran parte dei componenti il ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’ provenivano dal Pci e dalla Fgci, ed insieme agli organismi sopra ricordati, oltre ad un gruppo di compagni di Borgomanero (No) e uno del comprensorio Lodi-Casalpusterlengo (allora provincia di Milano) si ritrovarono a dibattere e discutere, a fine dicembre 1969 presso la locanda ‘Stella Maris’ di Chiavari (Ge) e, poi, al ‘congresso di fondazione’ in quel seminario-convegno di tre giorni che si svolse presso la trattoria ‘Da Gianni’, frazione Costaferrata, zona appenninica della provincia reggiana nell’agosto 1970. Così, sostanzialmente, si costituirono le Brigate Rosse.

Memoria ed oblio
Spesso si ripete che la memoria è un ingranaggio collettivo. Ma è anche uno strumento ‘sovversivo’. I tre ricercatori, autori di questa complessa ricostruzione umana, storico e politica ci forniscono l’occasione per coniugare le due azioni. Gli episodi, all’interno di questo primo volume, sono numerosi, alcuni ci hanno colpito particolarmente. Ricordiamo quelli che ci sembra abbiamo una maggior valenza politica.

Quello di maggior spessore e ‘peso’, in tutti i sensi, è relativo al famigerato (vale la pena ribadirlo) scandalo Lockheed. Gli autori lo ricordano19 con precisione. “Lo scandalo Lockheed era nato dalle rivelazioni della Commissione d’inchiesta statunitense guidata dal senatore Frank Church, secondo le quali la compagnia Lockheed aveva pagato tangenti in molti paesi per vendere la produzione bellica agli eserciti nazionali. Per quanto riguardava l’Italia, si trattava di tangenti per l’acquisto di 14 aerei C-130 comprati dal governo italiano tra il 1972 e il 1974, di aerei F-104S e di carri armati Leopard. Accanto a Gui (Ministro degli Interni e moroteo, nda) fu coinvolto anche il ministro della Difesa Mario Tanassi mentre, sempre secondo le rivelazioni statunitensi, dietro alcuni nomi in codice (Antelope Cobbler e Pun) si nascondeva un ex presidente del consiglio…Il nome in codice ‘Antelope’, secondo le rivelazioni americane, indicava un presidente del Consiglio negli anni dal 1965 al 1970, coinvolgendo dunque, oltre a Moro (1963-1968), il governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone (giugno-novembre 1968) e quello di Mariano Rumor (dicembre 1968-luglio 1970). I tre smentirono ogni coinvolgimento e il 29 aprile l’ambasciatore statunitense notò che, nel farlo, avevano dato l’impressione di ritenersi colpevoli a vicenda”.

Repubblica Moro Dal momento che non condividiamo, né abbracciamo, nessun tipo di teoria complottista e dietrologica, specifichiamo subito che non attribuiamo a nessuno dei citati colpe precise, però ricordiamo…E ricordiamo che giovedì 16 marzo 1978, il giorno del rapimento Moro, sulla prima pagina del quotidiano “La Repubblica” c’era questo ‘box’: “Antelope Cobbler è Aldo Moro?” che rimandava ad un articolo interno: “Antelope Cobbler? Semplicissimo Aldo Moro, presidente della DC”.

Non ci dilunghiamo oltre perché non è necessario. Rileviamo che la notizia poteva essere approfondita, verificata, confermata, smentita. Come tutta la vicenda delle cosiddette ‘bare volanti’, così erano anche chiamati i Lockheed F-104, che si concluse con le condanne dei ‘soli’ Tanassi (Psdi), del suo segretario personale, dei rappresentanti italiani della Lockheed e dell’allora presidente di Finmeccanica (a partecipazione statale). Non sappiamo come finì la falsa (?) accusa del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari contro Moro.

Con la loro ricostruzione, Clementi, Persichetti, Santalena, ci aiutano a rideterminare i tempi e modi con cui sono state istituite le carceri speciali, la ‘settimana rossa’ dell’Asinara, le battaglie di Pianosa e Saluzzo, lo sciopero della fame di Nuoro, proprio per superare e smantellare le fortezze disumane: Kampi. La costruzione ed inaugurazione del primo super-carcere femminile: quello di Voghera e la manifestazione-con cariche bestiali e tante botte ai partecipanti-del luglio 1983, per la sua neutralizzazione. La ‘mano libera’ concessa a Carlo Alberto Dalla Chiesa e al suo nucleo speciale antiterrorismo. L’introduzione dell’uso sistematico della tortura contro gli arrestati per farli parlare.
Già dal 1975, con Alberto Buonoconto, poi Enrico Triaca, Cesare Di Lenardo, Paola Maturi, Sandro Padula, Emanuela Frascella, purtroppo tanti altri.

E proprio all’istituzionalizzazione di questa pratica crudele e ai molti casi riscontrati, gli autori di ‘Brigate Rosse’ dedicheranno approfondimenti ed adeguato spazio nei prossimi volumi. Senza tralasciare il sequestro D’Urso, Dozier e dei quattro rapimenti della ‘campagna di primavera’: Cirillo, Taliercio, Sandrucci e Peci. Non trascurando la nascita del Partito Guerriglia, del distacco della Walter Alasia, dell’annuncio della ritirata strategica e della fine di un’esperienza.
Così come il massacro di via Fracchia a Genova e l’esecuzione di Roberto Serafini e Walter Pezzoli a Milano.
“La storia continua”.20

N. B. Questo è il primo di tre contributi relativi a lotta armata, carcere, proletariato extra legale, realizzati prendendo spunto da altrettante recenti pubblicazioni. Oltre a questa di Clementi-Persichetti-Santalena, le prossime saranno l’autobiografia di Pasquale Abatangelo “Correvo pensando ad Anna”, e “L’albero del peccato”, pubblicato, grazie a Giorgio Panizzari, aggiornato e notevolmente ampliato rispetto all’edizione del 1983, diffusa a firma ‘Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate Rosse’. (F.A.)


  1. Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek Edizioni, Roma, 2007  

  2. Marco Clementi, La ‘pazzia’ di Aldo Moro, Odradek Edizioni, Roma, 2001  

  3. Paolo Persichetti-Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni settanta ad oggi, Odradek Edizioni, Roma, 1999  

  4. Jacques M. Verges, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969  

  5. Nel saggio di Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’ insurrezione partigiana. Agosto 1946, il leader degli insorti, ‘Armando’, “…insieme ad alcuni compagni, costituì, dopo la liberazione, un gruppo clandestino denominato ‘808’ in onore di un potente esplosivo e che, di fronte al progressivo atteggiamento di clemenza dei giudici nei confronti dei fascisti, decise di assumersi il compito di fare giustizia.”  

  6. Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010; Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984; Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995; Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “ L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995; Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009; Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013  

  7. Cesare Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di ‘un gruppo di bravi ragazzi’, Colibrì Edizioni, Milano, 2009; Carlo Guerriero-Fausto Rondelli, La Volante Rossa, Datanews, Roma, 1996; Massimo Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, DeriveApprodi, Roma, 2009; M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia, DeriveApprodi, Roma, 2011; Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014  

  8. Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972  

  9. Da una conversazione con Sante Notarnicola, 14 aprile 2017  

  10. Donatella Alfonso, Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra golpe e resistenza tradita. La storia inedita della banda XXII Ottobre, Castelvecchi Rx, Roma, 2012  

  11. Jurgen Schreiber, La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl, casa editrice Nutrimenti, Roma, 2011  

  12. Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma, 2015  

  13. Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani Overlook, Milano, 2006  

  14. Mario Moretti, Per Prospero, 14 gennaio 2013  

  15. Gli Altri online, 14 gennaio 2013  

  16. Sapere Edizioni, Milano, 1973  

  17. Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Edizioni LiberEtà, Roma, 2006  

  18. Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X, Milano, 2007  

  19. nn.14 e 15, pag. 149  

  20. P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit.  

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MUSICA STRANA – Intervista a Fabio Zuffanti https://www.carmillaonline.com/2016/12/20/musica-strana-intervista-fabio-zuffanti/ Tue, 20 Dec 2016 22:21:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35376 di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i [...]]]> di Dziga Cacace

fabio-zuffantiErano i primi anni Settanta quando il genere musicale rappresentato da gruppi come Yes, King Crimson o Emerson Lake & Palmer assunse il nome di progressive, quasi a significare la volontà di rompere ogni barriera, di spingersi sempre oltre ogni limite e di mescolare qualunque influenza, senza costrizioni. Si arrivava da esperienze come quella dei Nice, dei Colosseum o dei Traffic e oggi, a posteriori, possiamo considerare compiutamente prog – secondo l’accezione originaria del termine – le esperienze di tantissime band poi diventate globali senza etichetta, se non genericamente rock, come i Pink Floyd, i Jethro Tull o i Deep Purple. Quella a cavallo tra anni Sessanta e Settanta fu una stagione creativa eccezionale (anche in Italia, a partire dai nostri Big Four: Area, Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso e Orme) ma col passare del tempo i canoni esecutivi e compositivi del genere cominciarono a cristallizzarsi, specie dopo la crisi di fine anni Settanta, con l’affermazione del punk e della New Wave. Adesso progressive significava troppo spesso tempi dispari, inserti classicheggianti ed esibizioni autoindulgenti di virtuosisimo senza una reale tensione creativa. I cultori del genere si offenderanno ma la musica “progressiva”, col tempo, è diventata per molti sinonimo di scelte reazionarie piegate alla riproposizione e all’inseguimento di una mitica età dell’oro, anticipando la nostalgica conservazione che oggi investe tutto il rock “classico”. Per fortuna ci sono le dovute eccezioni, grazie a chi continua a pensare alla musica come un organismo vivente, che cresce affrontando nuove esperienze e si arricchisce senza star ferma in un recinto. È successo a livello mondiale con Steven Wilson e, in Italia, è sicuramente il caso di Fabio Zuffanti: un quarantenne genovese che del prog nazionale è un po’ il guru nonché il più popolare interprete, anche all’estero, con una carriera iniziata negli anni Novanta e ora nella massima maturità. Prolifico e mai fermo, Zuffanti è responsabile di band come i Finisterre o La Maschera di Cera, di progetti sinfonici sui generis come gli Höstsonaten, di rock opera, di innumerevoli collaborazioni e ovviamente di una produzione a nome proprio che comincia a farsi sempre più corposa e che annovera titoli di altissimo valore come La foce del ladrone e La quarta vittima.
Fabio: qual è il percorso che porta un ragazzo, negli anni Ottanta a decidere di suonare musica prog?
Credo sia stata una spinta inconscia, una sorta di attrazione, un tentativo di andare oltre le solite cose e cercare di esplorare mondi musicali diversificati. Sono cresciuto con un fratello maggiore che aveva una cameretta colma di dischi e libri. Erano gli anni Settanta e io ero bambino, i suoni che uscivano dalle casse erano spesso quelli di King Crimson, Genesis, Gentle Giant e altri similari. Musiche (e copertine, fattore che scatenava ancora di più la fantasia) delle quali subivo la fascinazione, pur non capendo bene chi o cosa fossero. Ma non solo, il fratello era abbastanza onnivoro musicalmente e verso la fine del decennio prese ad ascoltare anche Talking Heads, Clash, Joe Jackson e altra New Wave assortita. Ecco quindi che mi ritrovo a 14 anni, 1982, ad avere già assorbito un bel po’ di mondi musicali. Io dal canto mio all’epoca scoprivo il Battiato “pop”, i cantautori, altra New Wave di stampo più elettronico (Ultravox su tutti). Scatta anche la voglia di imparare a suonare la chitarra; il solito fratello era stato bassista in alcune formazioni cittadine e lo strumento campeggiava nella sua camera assieme ad alcune chitarre e a una pianola elettrica. Insomma, tanti strumenti e da parte mia la voglia di scoprirli. Così mi metto di buona lena e riesco a cavarne qualcosa. Per me il metodo DIY era, e resta, il più funzionale quando voglio imparare qualcosa, non ho mai avuto un maestro di musica o cose del genere. Mi ci butto e fino a che non riesco a trovare un modo per esprimermi non ne esco. Così ho fatto con gli strumenti. Alla fine tra tutti quelli che armeggiavo ha vinto il basso che reputavo il più affascinante, ritmo e note allo stesso tempo, un qualcosa anche di molto sensuale se vuoi, con quelle frequenze che ti prendono allo stomaco. A metà anni Ottanta al liceo scoppia la U2-mania. Da lì a mettere su una band per eseguire cover degli irlandesi il passo è breve. Ma a quel punto io sono già imbevuto di tonnellate di ascolti diversificati e ogni volta che si tratta di comporre qualcosa di personale ecco che scatta la voglia di metterci il cambio di tempo, l’assolo più lungo del previsto, la stranezza. Ma facevo ciò in maniera del tutto inconscia, solo non reggevo di fare quattro/cinque/sei pezzi sempre uguali e con la stessa struttura strofa/ritornello. Dovevo sempre mischiare un poco le carte in tavola, ma non per volere fare prog a tutti i costi, ma perché non amo le cose che sono sempre e solo uguali a loro stesse, ho bisogno di variazioni, di sorprese, di contaminazioni impreviste. Dopo il gruppo del liceo, ad inizio Novanta entro in una band chiamata Calce & compasso, di stampo blues/cantautorale. E anche lì, appena presa un po’ di confidenza, ecco scattare i miei input per allungare i pezzi, per mettere nella stessa canzone più elementi. Il gruppo nel 1993 cambia nome in Finisterre e a quel punto la metamorfosi è completa. Complice anche l’ingresso di Boris Valle, un tastierista imbevuto di classicismo, minimalismo e studio della contemporanea (Berio, Nono, etc.) i Finisterre diventano una band prog. Ma l’idea di base non è mai stata quella di rifare i Genesis, semmai quella di scardinare le strutture e inserirci dentro più elementi possibile. Non siamo  mai stati dei nerd del prog per cui o c’è il sinfonismo alla Genesis, Yes e EL&P o niente: ho troppe cose in testa, troppi ascolti e influenze variegate, per fermarmi a un solo aspetto del meraviglioso mondo progressive.
Perché il prog è stato considerato un genere “di destra”? Tu hai mai sofferto questa identificazione?
Assolutamente no; a Genova nei primi Novanta suonavamo spesso coi Finisterre in eventi organizzati dalla FGCI e nessuno di noi aveva idee destrorse, anzi, e mai nessuno ha osato tirarmi fuori discorsi sul prog di destra e cose del genere. Mi sarei arrabbiato molto. Il tutto nasce dal fatto che negli anni Settanta questa musica aveva una patina un poco ambigua, da una parte era seguitissima e molto apprezzata da tutti i giovani del Movimento, dall’altra raramente prendeva posizioni politiche. Spesso i testi erano favolistici, metaforici, psicologici. In realtà invece tutto ciò nascondeva grandi riflessioni nei confronti dell’esistenza, ma era un qualcosa che bisognava sforzarsi di andare a cercare, non era subito messo in evidenza. Da questo punto di vista vinceva chi mostrava in pieno la sua militanza, vedi gli Area. Avevano vita dura invece formazioni tipo il Museo Rosenbach: misero in copertina un collage nel quale spicca un busto di Mussolini. Il gruppo venne bollato come destrorso e la loro carriera ne risentì molto. Chiaramente sono aberrazioni, il Museo Rosenbach non intendeva certo fare l’apologia del duce, trattando però un concept sullo Zarathustra nietzschiano c’era di mezzo anche tutto un discorso sul potere, da qui il riferimento. Sono cose un po’ più sottili, alle quali accostarsi con un’adeguata apertura mentale.
Il prog come lo intendi tu è una musica effettivamente “progressiva”, secondo il significato originale del termine, senza barriere. Io oggi questa libertà però la vedo soprattutto in certo jazz e in tutte le esperienze musicali indefinibili, che fuggono programmaticamente un genere.
Il prog per me è una palestra che in primis mette in gioco me stesso e la mia apertura verso altri mondi, musicali e non. E la libertà che esprime è impagabile. Come dici tu, oggi come ieri, è il jazz che cerca sempre la contaminazione ma non credo che il prog abbia perso la sua voglia di abbattere steccati. Mi spiego: ascolto tanti demo e cd di gruppi giovani ed è vero che in molti casi questi cercano sempre di scimmiottare gruppi importanti, ma ci sono anche ragazzi che si trovano in sala e non si accontentano di fare la canzone da tre minuti e stop. Certo volte esagerano coi virtuosismi, con le seghe mentali e con strutture troppo complesse ma l’approccio è quello giusto: non fermarsi, andare oltre! Quindi è comunque un esercizio che fa bene, alle mani e alla testa. Poi c’è sempre tempo per affinare la proposta, cercare l’originalità e comporre musiche che arrivino veramente.
a4183923227_10Il mio essere onnivoro a volte ha fatto sì che avessi il desiderio di fare magari un passo indietro rispetto alle strutture “aperte” del prog e mi venisse voglia di fare il percorso opposto, ovvero provare a vedere cose succedeva se deliberatamente mi richiudevo entro le strutture della canzone tout court. È un modo come un altro da parte mia di abbattere uno steccato, solo che invece di combatterlo mi ci rinchiudo cercando di capire come posso cambiarlo da dentro. Con i Finisterre abbiamo sperimentato più volte con la forma-canzone e io in particolare le ho dedicato un intero album (La foce del ladrone, del 2011). Il disco è andato benissimo ma il responso da parte della frangia più oltranzista dei miei fan è stato disastroso. Non ci sono state nemmeno critiche negative, ma proprio disinteresse. Fortunatamente una parte del pubblico che mi segue è curioso, altri tirano su la testa solo quando leggono i nomi Höstsonaten, la Maschera di Cera, Finisterre, ovvero nomi sicuri e dalle quali non ci si vuole attendere sorprese. Mi dicevi di avere trovato in Autumnsymphony di Höstsonaten diversi elementi jazz che potrebbero non dispiacere a un ascoltatore di quel genere: quell’album è stato uno dei meno capiti di Höstsonaten. Detto ciò io comunque faccio la mia strada e se mi venisse voglia di fare un disco rap lo farei.
Tu sei molto attivo: pubblichi, produci, scrivi. Sei un punto di riferimento nel genere che suoni. Perché non si riesce ad aggregare tutte le energie che ci sono in giro? È un problema storico attuale o più una peculiarità negativa dell’Italia?
La tua domanda è il quesito del secolo per me. Ciò che posso dirti è che conduco da anni una lotta per l’abbattimento di molti steccati. Posso essere anche d’accordo con chi preferisce “schierarsi” a favore di un genere piuttosto che un altro e sposarne filosofia e peculiarità; il metallaro, il jazzofilo, l’indie rocker, il classicista, il dark e via dicendo. Ma ci deve essere anche una strada che inglobi tutte le direzioni, anzitutto perché di curiosi come me ce ne sono molti più di quanto si pensi e poi perché mischiare le carte fa sempre bene all’elasticità mentale. Invece è tutto molto chiuso e settoriale, lo vedo col progressive: ad ogni evento ci sono solo gruppi prog che si portano dietro il (selezionatissimo) pubblico prog e quindi non se ne esce. Invece sogno concerti dove ci siano artisti diversi a condividere lo stesso spazio in modo che sia chi sta sopra il palco sia chi sta sotto possano arricchirsi, a livello di conoscenze ed emozioni. Purtroppo prevalgono i compartimenti stagni, le piccole nicchie che non comunicano tra loro. Io cerco di rendermi più trasversale che posso, specie nella frequentazione e collaborazione con musicisti diversi che possano aprirmi a nuove esperienze. Non me ne frega nulla di chiamare Steve Hackett a farmi un assolo su un disco, è la cosa più banale e poco “progressiva” che potrei fare. La sfida è chiamare, chessò, Manuel Agnelli a cantare una suite da venti minuti. Vedere cosa ne ricavo io e cosa ne ricava lui, da questa unione. Solo mettendo assieme esperienze diverse, senza paura e con la giusta forma mentis si potrà creare qualcosa di grosso e uscire per una buona volta da questa impasse infinita. Ogni anno organizzo il mio Z-Fest e cerco di proporre proprio questo; trasversalità! È dura ma con il giusto impegno i risultati non mancano.
In Italia si riesce a vivere di musica, al di là dei generi?
Non posso parlare dei colleghi perché ognuno ha la sua storia, le sue esperienze, le sue esigenze e le sue fortune o sfortune. Personalmente, dopo anni di sacrifici, sono arrivato al punto di riuscire a pagare l’affitto, le bollette e quel poco che mi serve per vivere. Certo, propongo cose non proprio popolari, quindi un po’ questa fatica me la sono anche cercata ma questo è quello che il mio cuore mi dice di fare e questo faccio. Sopravvivo grazie alle vendite dei dischi, ai diritti d’autore, alle produzioni per altri artisti, ai libri e a tanti lavori in campo musicale. Più difficile, invece, vivere di solo live.
fabio-zuffanti-zband-20Chi è che racconta l’Italia di oggi, adesso, secondo te? Sono veramente i rapper?
Mah, se il rapper sa raccontare bene e riesce a essere veramente lo specchio dei nostri giorni, come lo sono stati in diverse epoche molti altri autori, perché no? Ma il rapper deve essere tosto, io ad esempio amo molto Dargen D’Amico, uno che sperimenta con le parole e con la musica e quando rappa quello che dice colpisce: è intelligente, ha cultura e poesia. Oppure apprezzo certo rap militante (penso agli storici Assalti Frontali). Purtroppo il rap oggi è al 90% una cosa da ragazzini con storie da e per ragazzini. Anche quello è un modo di raccontare il mondo di oggi, quindi ci sta, però io non riesco ad ascoltarlo. Certo rap adolescenziale non lo ascoltavo a 16 anni, figurati ora. A parte poche eccezioni trovo i cantautori di oggi (specie quelli indie) molto deludenti, a volte dei poseur buoni solo per far breccia su un pubblico che si accontenta e segue la moda del momento. Bada: detto questo, non sono assolutamente oltranzista nei confronti dell’indie italiano. Anzi, è una realtà che mi incuriosisce assai perché nell’indie tutto sembra possibile, musiche “strane”, personaggi fuori dagli schemi, robe anti-classifica. È tutto più libero! Inoltre c’è un ottimo giro concertistico, bei locali, un pubblico folto, curioso, acculturato. Il rovescio della medaglia è che se non rispetti certe caratteristiche – anche proprio fisiche, di abbigliamento e atteggiamento – non puoi far parte di quel giro. Un giro fatto di etichette, siti e situazioni varie che rappresentano comunque una delle poche valide alternative al pop mainstream.
Gli artisti che apprezzo nel giro indie (e dei quali, in alcuni casi, sono amico e collaboratore) sono tanti. Te ne cito alcuni: Bachi Da Pietra, Beatrice Antolini, Alessandro Grazian, Colapesce, Fuzz Orchestra, Giardini Di Mirò, I Cani, Iosonouncane, Julie’s Haircut, Massimo Volume, Teatro Degli Orrori, Bologna Violenta, Mariposa… Tutta gente che come me ha un approccio che mette innanzi a tutto la voglia di esprimere qualcosa con qualsiasi mezzo e qualsiasi sforzo, prima della tecnica strumentistica. Loro sono un po’ dei figli evoluti del punk. E anche io mi sono sempre sentito facente parte di quella scuola. Però ho fatto prog che è un po’ un controsenso… ma io nei controsensi ci sguazzo: vuoi mettere la soddisfazione di quando riesci a fare qualcosa passando per la strada meno agevole?
C’è qualche esperienza prog italiana storica, tolti PFM, Banco, Orme e Area, che tu reputi straordinaria? Una chicca da consigliare ai nostri lettori?
Ne cito una per tutte, in quanto stella di prima grandezza: Ys del Balletto di Bronzo. Anno 1972, un album incredibile, tra sinfonismo novecentesco alla Bartok/Messiaen/Stravinskij, rock acido e delirante, atmosfere lugubri e opprimenti. Per me un must, uno dei dischi più rivoluzionari partoriti in terra italica.
Prima hai citato tuo fratello. E tuo padre come vedeva questa “tua” musica?
Anche lui suonava la chitarra e, ancora prima di mio fratello, mi ha insegnato i primi accordi. Era un grande appassionato d’opera ma non era chiuso ad esempio nei confronti del rock. Sapeva quali erano i suoi gusti e li coltivava, pur con le ristrettezze di mezzi della nostra famiglia, che lui sosteneva con il lavoro di operaio all’Italsider. Poi invecchiando forse non ha mai compreso bene quello che facevo, perché avessi compiuto scelte così impopolari a livello sociale (fare il musicista piuttosto che un altro lavoro più remunerativo) e soprattutto non capiva come mai, se facevo così tanti dischi e della gente mi stimava, non ero diventato ricco e famoso. Domande alle quali non sapevo rispondere, se non dicendo che faccio musica “strana”, particolare, per un pubblico di nicchia. Se ne è andato lasciandomi il rammarico di non avergli fatto capire a fondo a cosa hanno portato (nel bene e nel male, indipendentemente da fama e soldi) quei due accordi che mi ha insegnato quando avevo 13 anni.
Su cosa stai lavorando adesso?
In questo periodo sono molto concentrato sulla preparazione del mio nuovo album solista, previsto per l’autunno 2017. Con questo lavoro sto esplorando una via “rivoluzionaria” al concetto di prog ed è possibile seguirne lo sviluppo sulla mia pagina Facebook. Poi a gennaio uscirà un progetto a cui ho preso parte, promosso da Mox Cristadoro, nel quale, con altri amici musicisti, ci siamo divertiti a stravolgere e rendere prog, hard e psichedelici diversi pezzi di cantautori italiani storici. Inoltre ho in via di pubblicazione un album noise-metal con il progetto R.U.G.H.E., la registrazione di un reading assieme allo scrittore Antonio Moresco e un EP di canzoni “out” e a marzo sarò a Milano con la nuova edizione dello Z-Fest, il mio mini-festival, prima di partire per un tour in nord America. Non starò fermo, insomma!

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Estetiche del potere. I manifesti dopo il ’68 https://www.carmillaonline.com/2015/09/04/estetiche-del-potere-i-manifesti-dopo-il-68/ Fri, 04 Sep 2015 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24241 di Gioacchino Toni

muri lungo 68La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono [...]]]> di Gioacchino Toni

muri lungo 68La propaganda politica istituzionale tra adeguamento ai cambiamenti sociali e strategie di recupero e depotenziamento delle radicalità dei movimenti

William Gambetta, I muri del lungo ’68. Manifesti e comunicazione politica in Italia, Derive Approdi, Roma, 2014, 192 pagine, € 18,00

Il saggio di Gambetta rappresenta uno studio sistematico di come, nel panorama politico italiano, nel corso degli anni ’70, il linguaggio dei manifesti dei partiti istituzionali si sia confrontato con i manifesti prodotti, a partire dal 1968, dai movimenti politici della sinistra radicale. Ad essere indagate sono da una parte le modalità innovative del linguaggio dei manifesti prodotti dai movimenti extraparlamentari e, dall’altro, l’influenza esercitata da tali novità sulla produzione dei manifesti della politica istituzionale. “La ricerca si è sviluppata in due direzioni: da un lato, la ricostruzione dell’attività sociale connessa alla produzione e diffusione dei manifesti, sia nel vivace magma delle migliaia di collettivi di movimento che nei grandi partiti di massa; dall’altro, l’analisi dell’iconografia e delle forme narrative assunte dai manifesti delle differenti forze politiche”. Il saggio intende indagare quanto “l’urto destabilizzante” dei movimenti abbia influenzato la comunicazione e la rappresentazione della politica istituzionale italiana.

Tra i vari aspetti trattati da Gambetta, in questa sede, si preferisce insistere sulle “modalità di recupero” dei manifesti e del linguaggio della sinistra radicale attuate, per quel che possibile, dal sistema istituzionale con il duplice fine di dotarsi di un linguaggio in grado di comunicare con i soggetti sociali che, a partire dal ’68, animano le piazze (giovani, operai, donne) e, dall’altro, di addomesticarne e depotenziarne i contenuti. Ovviamente, un conto sono le finalità che i singoli partiti istituzionali, ed i singoli manifesti, nel corso degli anni ’70, si danno, altro è il raggiungimento degli scopi. Non mancano tentativi maldestri e palesi incapacità ma è innegabile che, anche in tale ambito, il processo di riassorbimento delle lotte antisistemiche e del loro linguaggio, si è dispiegato con un potenza di fuoco impari, soprattutto se si pensa a come la controffensiva dei manifesti istituzionali sia stata supportata dalla comunicazione televisiva.

Nel saggio è presente un corposo apparato iconografico che raccoglie un’ottantina di riproduzioni dei manifesti che, nel corso del testo, vengono analizzati nel lessico, nell’iconografia, nelle caratteristiche tipografiche e compositive, nelle scelte cromatiche, nel lettering, nei contenuti più espliciti ed in quelli più profondi. “Studiare esclusivamente l’iconografia dei manifesti significa fermarsi alle soglie della loro specificità, che consiste in una più complessa articolazione tra racconto generale (il manifesto come parte di un sistema più complesso di comunicazione), sua elaborazione grafica e diffusione nella società”.
1969-operai-studenti-unitiLa prima parte del testo ricostruisce la nascita dei manifesti italiani della sinistra rivoluzionaria a partire dal ’68. La fonte d’ispirazione maggiore è costituita dalla produzione del Maggio francese che basa la comunicazione sulla “combinazione essenziale di immagini e parole, privilegiando messaggi di rottura” spesso provocatori ed aggressivi, ricorrendo al “ribaltamento di senso dei termini, simboli e modi di dire del linguaggio dominante per mostrarne incoerenze e contraddizioni (…) per far emergere concetti e significati alternativi”, rifacendosi alle pratiche di détournement di matrice situazionista. Un ruolo importante spetta anche alla cultura underground statunitense che, già prima del ’68 si diffonde negli ambienti più inquieti della società italiana, soprattutto tra gli studenti. Altre fonti d’ispirazione sono la grafica cubana, una volta emancipatasi dal realismo di matrice sovietica ed, in maniera minore, per quanto riguarda la rielaborazione grafica per manifesti pubblici, la Rivoluzione culturale cinese. L’iconografia cinese viene infatti ripresa più per la produzione di manifesti da esporre nelle sedi politiche o domestiche che non per la produzione pubblica. Sicuramente la sinistra radicale è debitrice nei confronti della rivoluzione maoista per quanto riguarda il ricorso ai ta-tse-bao, ma si tratta, in questo caso, di “linguaggio delle parole”, ben distante dalla “comunicazione iconografica ed essenziale del manifesto”. Sarebbe sbagliato enfatizzare le abilità comunicative dei manifesti, o dei giornali murali, di movimento così come non si dovrebbero stroncare i manifesti della politica istituzionale; nel corso degli anni ’70 si ha un interesse talmente diffuso per il dibattito politico che riescono ad incidere a livello comunicativo anche manifesti prolissi, maldestri e poco attraenti.

tesseramento pci 1979__1980Dall’indagine sviluppata dall’autore emerge come la propaganda politica istituzionale di fine anni ’60 risulti decisamente arretrata tanto rispetto alle tecniche della promozione commerciale, quanto alle strategie comunicative dei movimenti antagonisti ma, tale ritardo, deve essere imputato anche ad una sostanziale inadeguatezza politica nei confronti delle figure sociali emergenti. Il sistema politico ufficiale si dimostra, insomma, in forte ritardo nel comprendere la trasformazione in corso tanto nella società italiana, quanto internazionale, ed il ritardo nella comunicazione politica è legato sia al permanere di un’immagine del paese che ormai non esiste più, che ad una difficoltà di dare risposte a domande che si sono fatte radicali e che, probabilmente, non possono ottenere risposte istituzionali. Insomma, dopotutto ad essere messo in discussione è il sistema capitalistico; difficile dare risposte a chi intende promuovere una rivoluzione radicale.
L’autore segnala come il Pri sia la prima forza politica che, sin dall’inizio degli anni ’60, ricorre ad un art director per rinnovare l’immagine del partito di Ugo La Malfa: viene abbandonata la tradizionale comunicazione realista in favore di uno stile razionalista derivato dalle nuove strategie di promozione commerciale. Con un decennio di ritardo rispetto all’esperienza dei repubblicani, anche il Partito socialista inizia a ricorrere a qualche designer professionista al fine di riformulare la propria immagine. In questo caso vengono mantenuti alcuni simboli tradizionali seppur rinnovati stilisticamente anticipando quella che sarà la sostanziale trasformazione del partito che si compie con l’avvento di Bettino Craxi ed il riposizionamento della forza politica quando, una volta messa in secondo piano la tradizionale base operaia, decide di concentrarsi sui ceti medi.
Nel corso degli anni ’70 sono diversi i grafici, i pittori ed i fumettisti che si prestano alle strategie comunicative dei partiti istituzionali o dei movimenti. Ricorso a professionisti della comunicazione o meno, l’intero panorama politico istituzionale, nel corso degli anni ’70, si trova a fare i conti con la rappresentazione dei soggetti sociali che animano la scena: giovani, operai e donne.

psi 1972Il mondo giovanile, sostiene Gambetta, è il primo soggetto ad essere ridefinito graficamente nei manifesti e nell’immaginario iconico dei partiti istituzionali di fine anni ’60. Il divario tra l’immagine dei giovani offerta dai partiti e la loro autorappresentazione appare decisamente incolmabile anche dal punto di vista grafico. Sin dalle elezioni del maggio 1968 i partiti si trovano a doverli rappresentare nei manifesti ed optano per una descrizione composta e misurata attraverso immagini di rassicuranti “volti acqua e sapone”. Successivamente il Partito comunista tenta di collegarsi maggiormente con il mondo reale ricorrendo a fotografie di manifestazioni studentesche accostate però, in maniera stridente, a testi tradizionali tesi a “normalizzare” le immagini (es. “innovazione nella continuità”). I partiti istituzionali di sinistra (Pci, Psi, Psiup) iniziano pian piano ad utilizzare immagini di giovani in corteo, spettinati e con tanto di pugni chiusi ma, tale rappresentazione dei partiti, attraverso l’immagine del giovane maschio risulta piuttosto una metafora di “vitalità, e vigore, nonché di virilità” tesa ad esaltare la potenza rigeneratrice delle organizzazioni. Nei partiti di sinistra, in sostanza, le immagini dei giovani servono per rappresentare le qualità giovanili dei partiti. In alcuni casi la medesima immagine viene utilizzata con finalità opposte. Fgci1977_tesseraGambetta propone a tal proposito l’esempio della celebre foto di Uliano Lucas di Piazzale Accursio a Milano nel 1971, utilizzata dalla Fgci nel 1977 con lo slogan “Unità dei giovani per salvare l’Italia” e, qualche anno dopo, dall’area dell’autonomia romana per ricordare Valerio Verbano. I partiti più moderati, invece, ricorrono alle immagini dei giovani sopratutto “per comunicare con quello specifico target sociale, rifiutando cioè l’idea di autorappresentarsi attraverso il volto dei giovani”. La Democrazia cristiana, ad esempio, attraverso le immagini dei giovani inseriti nei manifesti vuole sottolineare l’interesse e la fiducia in essi ma non intende associare il partito alla giovinezza.

1968_fabbrica_pciGli operai rappresentano il secondo soggetto a trovare spazio sui manifesti dei partiti politici istituzionali. Le formazioni conservatrici tendono ad evitare di rappresentare il mondo del lavoro attraverso una specifica categoria professionale, soprattutto operaia, preferendo puntare sull’idea di cittadinanza: ogni lavoratore diventa più genericamente un cittadino. Nei casi in cui tale cittadino venga ritratto, esso si presenta come maschio, adulto ed appartenente alla piccola o media borghesia. Nelle rappresentazioni dei partiti della sinistra parlamentare si riprende l’iconografica ottocentesca che prevede un lavoratore maschio, muscoloso e virile, non di rado a torso nudo con gli attrezzi da lavoro e lo sguardo rivolto al futuro. Tale rappresentazione, però, abbandona l’iconografia cara al realismo socialista; viene scemando la raffigurazione dell’operaio in marcia al fianco di contadini ed intellettuali con bandiere rosse e nazionali. Se prima del ’68 l’operaio viene presentato, nei manifesti dei partiti di sinistra istituzionale, come uomo maturo, esperto ed orgoglioso della sua professionalità, soprattutto dopo le vertenze dell’Autunno caldo ’69 l’operaio si trasforma in giovane combattivo ritratto in situazione di conflitto. La marcia orgogliosa verso il “sol dell’avvenire” lascia il posto al corteo conflittuale ed allo sciopero.
Tanto negli ambienti radicali, quanto in quelli istituzionali si ricorre anche a personaggi di fantasia disegnati in maniera caricaturale con una notevole dose ironica e dissacrante. Se in un primo tempo la caricatura nasce per irridere la controparte, sull’onda della grafica politica radicale nordamericana, ora questa viene utilizzata per l’autorappresentazione di una classe perennemente in lotta.

manifesto_dcLa donna è il terzo soggetto che, irrompendo sulla scena, obbliga il sistema politico a ripensare e ridefinire la comunicazione tramite manifesto. Si tratta di una rincorsa, spesso maldestra, frequentemente di facciata, funzionale da una parte a conquistare il foto femminile, non più scontato, e dall’altra a depotenziare la portata eversiva dei movimenti femministi. Se sin dai tempi antichi la figura femminile viene utilizzata soprattutto per incarnare un ideale, raffigurare un mito, tra il XIX ed il XX secolo le donne borghesi diventano consumatrici di merci ed iniziano a perde l’astrattezza simbolica in un processo di “riduzione alla fisicità”. Ben presto l’immagine femminile viene costruita dall’immaginario maschile e dal sistema commerciale come veicolo per vendere merci. Le formazioni moderate e conservatrici, non di rado, continuano a rifarsi all’immaginario di matrice religiosa ove la donna è prima di tutto, quando non esclusivamente, madre. In generale la donna è mostrata come madre e moglie nell’ambito domestico, tanto che, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, molti manifesti politici ripropongono la tradizionale associazione “donna/madre/famiglia”. Con l’avvento dei collettivi femministi vengono contestati radicalmente sia i ruoli tradizionali assegnati alle donne, che il consumismo, imponendo tanto alla sinistra rivoluzionaria, quanto al mondo politico istituzionale, la “necessità di parlare delle donne e alle donne e di tener conto delle loro aspirazioni”. I manifesti prodotti dall’area femminista risultano piuttosto in linea con la “presa di parola”, con la necessità di raccontarsi autonomamente. “I titoli e i testi colloquiali ed evocativi, i simboli femministi disegnati e rielaborati in mille modi, l’impiego dominante e originale di colori come il viola, il rosa, l’azzurro, i caratteri tipografici più dinamici e spesso tratteggiati a mano, l’ampio utilizzo di fumetti, caricature e fotografie inconsuete – soprattutto in funzione autoironica, più raramente autocelebrativa – furono i segni di questa nuova narrazione tra donne”. Alla fine degli anni ’70 tutte le formazioni politiche si trovano costrette a divulgare una nuova immagine della donna. Nell’ambito della politica istituzionale, il Partito radicale, per certi versi partito maggiormente di frontiera tra istituzioni e movimenti, è tra i primi ad inserire una rinnovata immagine femminile: o come “denuncia della propria oppressione” o come “protagonista della propria liberazione”.

manifesto_psi_00Il Partito socialista nelle campagne referendarie per il divorzio e, successivamente, per l’aborto inizia a rappresentare il mondo femminile non solo tramite l’icona della donna autonoma e consapevole ma con l’aspetto e il volto delle donne che protestano in piazza: il manifesto del Psi del 1977 per l’8 marzo ricorre ad un volto di donna urlante associato alla scritta. “No a una giornata celebrativa – Le donne in lotta per l’alternativa”. Ancora nel 1979, quando ormai può dirsi iniziato il processo di trasformazione del Psi in forza politica sempre meno di lotta e sempre più riformista, il partito continua a mantenere un certo protagonismo femminile nei manifesti: il tentativo diviene quello di “mitizzare quella battaglia, di strapparla dal fermento vivo del conflitto per renderla narrazione epica”.
Gambetta sintetizza, attraverso l’analisi di due manifesti ravvicinati di metà anni ’70, la trasformazione in corso nell’immagine femminile del Pci.

pci 1975 donna_jpgIn un manifesto del 1975 il ritratto femminile “è accompagnato da un invito esterno”: “Donne siete più forti – Con il vostro voto cambiate la società”. Nel manifesto del 1976 all’immagine femminile viene associata la scritta: “Voto comunista perché il domani sia anche mio”. Si è passati dall’immagine di una donna come “soggetto da esortare” ad una donna che si fa protagonista del suo slogan. Qualcosa di analogo, tenuto conto del diverso orizzonte politico, accade anche nella Dc. In un manifesto del 1972 all’immagine di una giovanissima donna dall’aria incerta viene associata la frase: “Tu voti per la prima volta – Attenta che non sia anche l’ultima”. In un manifesto di qualche anno dopo, del 1976, l’immagine mostra un gruppetto di donne che parlano tra loro in pubblico, una di loro fuma una sigaretta ed a tale scena è associato lo slogan. “Vieni con noi” (da intendersi nella doppia accezione con noi donne / con noi Dc). Anche in questo caso si passa dalla donna come soggetto a cui suggerire ciò che è meglio per lei, ad una donna che, agendo in prima persona, invita altre donne a partecipare.
La radicalità del messaggio femminista e dell’autorappresentazione data dalle stesse militanti attraverso i manifesti risulta difficilmente riassorbibile dalla politica istituzionale (e dalla cultura maschilista del paese): a parte l’area politica istituzionale più vicina ai movimenti (nuova sinistra e radicali) nessun partito si sente di “superare alcuni limiti, scardinati invece nei manifesti femministi come, ad esempio, la denuncia dei rapporti patriarcali interni alla famiglia o le disparità sessuali nelle gerarchie di lavoro”, così come nessun partito decide di affrontare “esplicitamente i temi legati alla sessualità e al corpo femminile”.

1975_violenza_jpgParlando del decennio post ’68, è inevitabile per i manifesti affrontare la questione della violenza politica. Gambetta sottolinea come l’etichetta di “anni di piombo”, applicata al decennio, riconduca tutte le pratiche in cui vi è ricorso ad una forma di violenza, all’interno di un insieme indistinto: scontri tra opposte fazioni o con la polizia, bombe stragiste, azioni di fuoco di gruppi armati ecc., tutto diviene parte di una nebulosa indistinta. Dalla ricerca dell’autore emergono tre schemi comunicativi principali: l’esaltazione della forza del popolo o del partito al fine di piegare la violenza negativa dei nemici, la denuncia della violenza di Stato e l’appello alla concordia istituzionale contro un nemico estraneo alla vita democratica del paese.
La forza del popolo tendenzialmente viene celebrata tanto dai manifesti dei movimenti radicali, quanto dalla sinistra istituzionale. Nel primo caso l’accento è spesso posto sul legame tra le lotte popolari internazionali e la lotta anticapitalista portata avanti all’interno del paese. Il ricorso alla violenza, anche armata, non solo è condivisibile nei confronti delle lotte di popolo in atto (es. Vietnam), ma non è da escludere nemmeno sul fronte interno. Molti sono i manifesti in cui al pugno chiuso inizia ad essere associata l’icona dell’Ak 47. Nella sinistra istituzionale, invece, il riferimento alle armi si limita o alla celebrazione della Resistenza italiana al nazifascismo o alle guerre popolari di liberazione nel sud del mondo. Dal punto di vista “interno”, nazionale, la forza “delle masse” viene tradotta graficamente dalla sinistra parlamentare dalle immagini di un popolo che si mobilita riempiendo le piazze, “nei volti severi ma scoperti dei manifestanti e nelle bandiere”.
dc_76_violenzaMolti manifesti nel corso del “lungo Sessantotto”, adottano un sistema dicotomico ove una violenza “legittima e necessaria” si scontra con una violenza “immorale e arbitraria”: partiti costituzionali vs. “opposti estremismi”, sinistra rivoluzionaria vs. neofascisti e/o Stato borghese e/o capitalismo ecc. Non è infrequente che nei manifesti di tutte le forze politiche, istituzionali e non, il nemico venga mostrato come entità anonima, col volto celato (passamontagna o casco d’ordinanza, in base allo schieramento della forza politica), incline alla violenza cieca ed indiscriminata. Il nemico violento viene raffigurato come automa senza volto, mero simbolo o marionetta guidata da dietro le quinte. Le forze politiche istituzionali, al fine di negare legittimità agli avversari, tendono a denunciare la violenza armata o “attraverso immagini verosimili, ideate appositamente”, o “modificando profondamente le fotografie originali” al fine da enfatizzare l’impatto emotivo. Alla condanna del terrorismo (termine che ben presto diviene quasi onnicomprensivo di qualsiasi ricorso a forme di violenza), i manifesti istituzionali associano spesso l’indicazione di come sconfiggerlo. La comune “battaglia per la difesa della democrazia” nei manifesti Dc diviene “difesa delle istituzioni e della sua classe dirigente”, mentre nella produzione del Pci la risposta viene dalla “mobilitazione popolare”, dalla massa di lavoratori che scende in piazza e partecipa alla vita democratica del paese. Allo schema più diffuso, basato sulla semplificazione “bene vs. male”, si sottraggono le formazioni della nuova sinistra ed i radicali. La campagna referendaria (un quesito riarda l’abolizione della Legge Reale) di questi ultimi, in pieno 1977, ne è un esempio emblematico. Vengono affissi due manifesti del tutto uguali in termini di slogan (“Disarmiamoli con la non violenza firmando gli 8 referendum”) e di grafica recanti in un caso la celebre foto del militante che spara in via De Amicis a Milano e, nell’altro, l’altrettanto celebre immagine del poliziotto travestito da manifestante che, dopo aver sparato, pistola in pugno, si ritira tra le fila delle forze dell’ordine. In questo caso di duplice manifesto, il messaggio radicale è chiaro: condannare tanto la violenza armata di piazza, quanto la violenza armata repressiva. La nuova sinistra, volendo problematizzare il ricorso alla violenza nelle sue svariate manifestazioni, fatica a ricorrere ad un mezzo sintetico come il manifesto necessitando di argomentazioni articolate inadatte ad una comunicazione così “drastica”.

In conclusione Gambetta segnala come, a partire dai primi anni ’80, con l’affievolirsi dei movimenti e della conflittualità sociale, il linguaggio dei manifesti subisca una sorta di “ritorno all’ordine”. La comunicazione politica si avvicina sempre più a quella commerciale ed il ruolo della televisione diviene sempre più determinante tanto che, gli stessi manifesti vengono ad avere la funzione di “richiamare messaggi ascoltati altrove, promossi e diffusi attraverso altri canali, nei talk show o negli spot televisivi”.

 

 

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Copertina: W. Gambetta, I muri del lungo ’68…, Derive Approdi (2014)
– Manifesto: Operai-studenti…, Movim. studentesco di Bologna (1968)
– Manifesto: Per uscire dalla crisi…, Pci (1979)
– Manifesto: Lotta col voto…, Psi (1972)
– Tessera: Unità dei giovani…, Fcgi (1977)
– Manifesto: Assemblea operaia…, Pci (1968)
– Manifesto: Tu voti per la prima volta…, Dc (1972)
– Manifesto: No a una giornata celebrativa…, Psi (1977)
– Manifesto: Voto comunista perchè…, Pci (1976)
– Manifesto: No alla violenza…, Pci (1975)
– Manifesto: La violenza distrugge la libertà…, Dc (1976)

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