Feuerbach – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’Unico e la sua proprietà https://www.carmillaonline.com/2023/11/29/lunico-e-la-sua-proprieta/ Wed, 29 Nov 2023 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80056 Raúl Zecca Castel, L’unico in rivolta. Vita e opera di Max Stirner, Red Star Press, Roma 2023, pp. 202, 19 euro

[Si pubblica qui di seguito un estratto dall’Introduzione al libro di Raúl Zecca Castel sulla vita e le opere di Max Stirner, edito da Red Star Press. Per esigenze grafiche e di lettura, gli estratti qui presentati sono riprodotti senza l’apparato di note corrispondente. S.M.]

«Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di “diritti dell’uomo” […], sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io […]. Proprietario del mio potere sono io stesso, [...]]]> Raúl Zecca Castel, L’unico in rivolta. Vita e opera di Max Stirner, Red Star Press, Roma 2023, pp. 202, 19 euro

[Si pubblica qui di seguito un estratto dall’Introduzione al libro di Raúl Zecca Castel sulla vita e le opere di Max Stirner, edito da Red Star Press. Per esigenze grafiche e di lettura, gli estratti qui presentati sono riprodotti senza l’apparato di note corrispondente. S.M.]

«Io rifiuto un potere conferitomi sotto la speciosa forma di “diritti dell’uomo” […], sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io […]. Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico» (Max Stirner)

«L’unico e la sua proprietà» viene dato alle stampe dall’editore Otto Wigand di Lipsia nell’ottobre del 1844, ma a distanza di soli pochi giorni dalla pubblicazione cade sotto il pugno delle ferree leggi censorie del tempo e le autorità politiche del governo di Sassonia ne dispongono l’immediato sequestro, “poiché non solo in singoli passi di tale scritto Dio, Cristo, la Chiesa e la religione in generale vengono trattati con la più irriguardosa blasfemia, ma anche tutto l’assetto sociale, lo Stato e il governo vengono definiti come qualcosa che non dovrebbe più esistere, mentre la menzogna, lo spergiuro, l’assassinio e il suicidio vengono giustificati e il diritto di proprietà viene negato”. Nemmeno una settimana più tardi viene però emessa un’ordinanza di dissequestro e il testo, ora giudicato innocuo e insensato, torna in circolazione. Ancora pochi giorni e un nuovo opposto provvedimento ne decreta la rimozione dal territorio sassone; poi, il 26 agosto 1845 viene definitivamente messo al bando in tutto il Regno di Prussia. Ma è ormai troppo tardi: la turbolenta vicenda di quest’opera “famigerata […], la più estrema che conosciamo in genere” ha già avuto inizio.

Nel corso degli anni si succederanno innumerevoli e controversi giudizi, appassionate dispute interpretative, feroci critiche ed entusiastici elogi, strumentali richiami e grossolane ideologizzazioni, lunghi intervalli di misterioso oblio e improvvise riscoperte alle quali nemmeno l’autore riuscirà a sottrarsi. Friedrich Engels sarà il primo a riconoscere in Stirner “il profeta dell’odierna anarchia”, tanto che l’“ingenua” teoria proudhoniana, “non avrebbe mai portato alle dottrine anarchiche attuali, se Bakunin non vi avesse iniettato una buona dose di rivolta stirneriana; in seguito alla quale gli anarchici sono diventati dei puri ‘unici’, talmente unici” – concludeva con sarcasmo – “che due di loro non possono sopportarsi”. Il giudizio appare acquisito e si protrae – non senza obiezioni, anzi – fino ai giorni nostri: “il più rappresentativo filosofo e ideologo dell’anarchia […], una coscienza visceralmente anarchica”, scrive di lui Antimo Negri. “Stirner può essere annoverato tra i rappresentanti di uno dei poli dell’anarchismo, forse il più importante”, assicura Carlo Roehrssen riferendosi all’individualismo anarchico, e aggiunge poi che “Stirner è certamente un antesignano, un padre fondatore dell’anarchismo”. Massimo La Torre affianca Stirner a William Godwin e a Pierre-Joseph Proudhon in quella che considera la triade dei “pensatori che danno origine alla filosofia politica anarchica”, sostenendo come Der Einzige und sein Eigentum [sia] dunque, molto più di An Inquiry on Political Justice di Godwin e di Qu’est-ce que la propriété? di Proudhon, un libro anarchico” e che si tratti dell’“l’opera in cui per la prima volta, e in maniera articolata e coerente, viene esposta una filosofia morale e politica anarchica”. Una filosofia molto pericolosa a parere di Albert Camus, che legge nelle pagine di Stirner la legittimazione e l’istigazione a una violenza che si sarebbe poi realmente espressa nelle varie “forme terroristiche dell’anarchia”. Ma questa interpretazione, che riconduce a Stirner le responsabilità morali del terrorismo anarchico, viene condivisa e suffragata anche da altri osservatori che, come evidenzia William J. Brazill, “hanno suggerito un legame diretto tra Stirner e i terroristi russi del XIX secolo, in particolare con Sergei Nechaev”.

Sempre a questo filone interpretativo di matrice anarchica appartiene poi la singolare visione di uno Stirner anarco-sindacalista e operaista, considerato il “maggiore teorico e ispiratore della lotta sindacale”. Visione quanto meno paradossale se si tiene conto del fatto che i concetti filosofici cui ruota attorno la filosofia di Stirner sono quelli dell’egoismo e dell’interesse proprio; concetti, cioè, a prima vista antitetici rispetto a quelli dell’organizzazione sindacale, che evidentemente implicano un valore solidaristico condiviso da una collettività. Non è un caso perciò se Enrico Ferri, studioso del pensiero stirneriano, esprime il parere perfettamente opposto per cui “appare difficile, se non impossibile, annoverare Stirner tra i teorici dell’anarchismo” dal momento che ha elaborato “la più radicale concezione individualistica della filosofia moderna”. E non è il solo a pensarlo. Molto prima di lui, in un saggio del 1904 di Victor Basch, se da un lato veniva riconosciuta l’appartenenza di Stirner alla corrente dell’individualismo anarchico – come eloquentemente annunciato dal titolo stesso dell’opera –, dall’altro si arrivava alla conclusione secondo cui tale anarchismo troverebbe espressione compiuta in un elitismo eroico di tipo aristocratico, sia pure con esiti paradossalmente democratici. Ed è a questa figura mitica dell’Unico, declinata in una dimensione epica e quasi millenaristica, che dovette fare riferimento il Benito Mussolini socialista quando rammentava le sue “escursioni sulle più alte vette del mondo” – “dolomiti del pensiero” s’intende, dal momento che scriveva dal carcere –, tra le quali vi si trovava, primo della lista, il nome di Stirner, seguito da quelli di Nietzsche, Goethe, Schiller, Montaigne e Cervantes.

Ancora nel dicembre del 1919, un Mussolini già meno socialista e molto più fascista, si sgolava energicamente sciorinando bassa retorica e incutendo cattivi presagi: “basta, teologi rossi e neri di tutte le chiese, con la promessa astratta e falsa di un paradiso che non verrà mai! Lasciate sgombro il cammino alle forze elementari degli individui, perché altra realtà umana, all’infuori dell’individuo, non esiste! Perché Stirner non tornerebbe d’attualità?”. A conti ormai fatti, ci avrebbe pensato Hans Helms nel 1966 a iscrivere Stirner al partito fascista, affermando lapidariamente che “la storia dello stirnerianismo è una storia del fascismo”. Eppure, il fascistissimo Paolo Orano non avrebbe mai sottoscritto, poiché a suo dire, l’Unico stirneriano “nulla ha a che vedere con il crudo breve risoluto realismo delle Camicie Nere”.

Tuttavia, ciò non ha impedito a Luca Leonello Rimbotti di accreditare a Stirner gravi responsabilità storiche. Facendo riferimento al presunto influsso che Stirner, mediato da Eckart, avrebbe avuto su Hitler, Rimbotti sostiene infatti che è “possibile leggere un’intera epoca del Novecento come qualcosa di molto simile ad una rivelazione violenta delle profezie stirneriane”. Ecco allora che un fedele sostenitore del regime nazista come Carl Schmitt, dal carcere per crimini di guerra di Norimberga dove era rinchiuso, affidava ad un piccolo scritto alcuni significativi pensieri su Stirner. Confessava dunque come “Max” – la confidenza è tutta sua – fosse l’unico a fargli visita nella cella e gli riconosceva il merito di aver “trovato il titolo più bello e comunque più tedesco di tutta la letteratura tedesca”.

[…]

È un misto di fascino e ripugnanza, attrazione e sgomento a contraddistinguere la prima ricezione dell’opera di Stirner, un’opera estrema che chiude i conti con tutta la filosofia precedente compromettendone irrimediabilmente la salute. Per queste ragioni si dovette pensare di escluderla e Kuno Fischer poté scrivere che essa “nulla ha in comune col nome della filosofia e della critica”.

Prima di relegare L’Unico all’ideologia anarchica, Engels aveva (s)qualificato l’opera di Stirner come “la punta acuminata di ogni teoria che si muova all’interno della stupidità corrente” e, ancora, come “perfetta espressione della pazzia corrente”. Eppure si era subito preso la briga, assieme a Karl Marx, di redigere una “critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti” – questa la didascalia che accompagnava il titolo dell’opera, L’ideologia tedesca –, dedicando, piuttosto significativamente, quasi quattro quinti del libro a Stirner, lì ribattezzato con il nome di San Max e associato a San Bruno (Bauer) in un lungo capitolo intitolato Il concilio di Lipsia.

Marx ed Engels non mancano certo d’ironia e nel ricondurre al vecchio carro astratto dell’idealismo, oltre che Feuerbach e Bauer, anche un nemico giurato di tale impostazione filosofica come Stirner, si dilettano nell’attribuirgli divertenti titoli ecclesiastici e spiritosi soprannomi. Ecco dunque il santo scrittore, il buon padre della chiesa tedesca, il beato Max e Jacques le bonhomme, Sancio Panza o il caballero dalla tristissima figura alle prese con la condanna marxiana lungo una dettagliata analisi critica de L’Unico tesa a demolirne ogni singolo paragrafo, ogni singola frase, e in diversi casi ogni singola parola.

Stupisce il fatto di tanto accanimento e resta la sensazione che all’ombra del sarcasmo con cui Stirner viene bistrattato si nasconda in realtà una forte preoccupazione nei confronti della sua filosofia. Sorge dunque spontaneo il dubbio che il filosofo Giorgio Penzo ha espresso in diverse occasioni per cui “si può forse pensare che nel leggere L’Unico e la sua proprietà Marx ed Engels abbiano avuto subito coscienza delle doti geniali di Stirner e che abbiano intuito che si trattava di un avversario pericoloso per quanto riguardava la problematica sociale. Forse per questo – conclude Penzo – Marx ed Engels cercarono in San Max di relegare il più possibile il pensiero di Stirner nell’ambito di un filosofare idealistico vuoto e fumoso che doveva ormai essere del tutto superato”.

Alle stesse conclusioni era giunto molti anni prima lo storico delle idee Henri Arvon, il quale faceva notare come nel periodo precedente il 1848 era con gli argomenti forniti da L’Unico che si lottava contro il socialismo ed è per questo molto probabile che Marx avesse visto nel suo autore un nemico da eliminare. In nessun altro modo sarebbero comprensibili toni così violenti e ridicolizzanti come quelli impiegati nell’Ideologia tedesca se non con il disperato tentativo di mettere a tacere idee piuttosto scomode. L’opera di Marx ed Engels rimarrà però ostaggio della critica roditrice dei topi per quasi un secolo e solo nel 1932 vedrà la luce. Per la legge della nemesi storica gli auspici che avevano animato l’impegno di Marx ed Engels non saranno esauditi e, anzi, si riveleranno controproducenti. Come rileva sempre Henri Arvon, “L’ideologia tedesca, che nelle intenzioni di Marx avrebbe dovuto mostrare l’inconsistenza della filosofia stirneriana, costituisce, al contrario, la testimonianza irrecusabile del suo valore storico”.

A prescindere dalla polemica marxiana, resta il fatto che se di ricezione filosofica de L’Unico si può parlare, questa avvenne esclusivamente nel ristretto circolo della sinistra hegeliana al quale Stirner apparteneva e nel quale si era formato, e avvenne solo per un breve periodo, dal momento che già a partire dal 1848 l’opera pare dimenticata. La sua rinascita porta la data del 1898 e corrisponde all’anno in cui lo scrittore e attivista John Henry Mackay, sulle tracce di Stirner da diverso tempo, ne pubblica una bio-agiografia all’insegna dell’anarchismo, facendone il primo teorico dell’individualismo anarchico e dando così avvio alla lettura fortemente politicizzata dell’opera cui si faceva più sopra riferimento.

Lettura che “ne ipoteca fortemente l’avvenire”, per dirla ancora con Arvon, il quale non dubita invece nel porre Stirner alle origini di una delle correnti più significative della filosofia contemporanea, quella dell’esistenzialismo, accennando, in conclusione al suo testo, un accostamento con Kierkegaard già intrapreso da Martin Buber ne La domanda rivolta al singolo del 1936 e invitando ad approfondire tale dimensione esistenziale del pensiero stirneriano. L’invito sarà appunto raccolto da Penzo in un testo del 1971 fin dal titolo programmatico: Max Stirner. La rivolta esistenziale, nel quale l’autore non nega la natura anarchica del pensare stirneriano, ma sostiene che “si è di fronte a un anarchismo tutto particolare, definibile come un anarchismo della ragione”. Secondo Penzo, infatti, Stirner tematizza una nuova concezione esistenziale dell’essere che si precisa nella forma dell’egoismo, qui inteso come condizione umana dell’Io in relazione alla morte di ogni pensare idealistico-universale. Si tratterebbe in fondo della problematica della morte di Dio – sia pure celato sotto le mentite spoglie dell’Uomo feuerbachiano – e del conseguente confronto con il Nulla. Tematiche che, a partire da sensibilità squisitamente esistenziali, aprirebbero il varco alla terribile verità del nichilismo. Ed è su questo terreno ermeneutico, difatti, che Camus riconosce in Stirner il precursore del nichilismo nietzscheano. Come già accennato, d’altronde, la figura dell’Übermensch è stata spesso accostata a quella dell’Unico, e sono diversi, effettivamente, i punti di contatto tra il pensiero stirneriano e quello di Nietzsche, tanto che, stando alla testimonianza dell’amica Ida Overback, lo stesso Nietzsche se ne sarebbe preoccupato temendo l’accusa di plagio. Vano, dunque, il tentativo della sorella Elisabeth teso a negare qualsivoglia debito filosofico di Friedrich nei confronti di Stirner se si prende in considerazione anche la testimonianza dello storico tedesco Adolf Baumgartner, che afferma di aver letto L’Unico su indicazione del suo maestro Nietzsche, il quale avrebbe poi accompagnato il consiglio al giudizio per cui l’opera di Stirner “è quanto di più audace e consequenziale sia stato pensato dopo Hobbes”.

[…]

Bisognerà allora cominciare col domandarsi cosa realmente vi sia scritto in questo libro – vero e proprio corpus delicti – che ha suscitato così tante reazioni contrastanti; quale ne sia il messaggio contenuto, quali le intenzioni.

E bisognerà di conseguenza chiedersi chi si cela dietro il nome di Max Stirner, chi veramente sia stato. Forse un giovane hegeliano troppo audace? Un profeta dell’anarchismo? Un teorico del sindacalismo? Un borghese individualista? Un violento apologeta del terrorismo? Un cultore della forza e un precursore del fascismo? Un filosofo esistenzialista? Un nichilista? Un semplice provocatore? Un folle?

Ma soprattutto bisognerà domandarsi chi è questo suo Unico, questo Egoista, questo Proprietario di cui si parla. Una nuova categoria dell’umano? Una figura del futuro? Addirittura un “mostro inumano”?

Sono, queste, solo alcune delle domande cui si tenterà una risposta, pur con la consapevolezza dell’impossibilità di giungere a soluzioni certe né tanto meno definitive del pensare stirneriano, per sua natura refrattario e ostile a ogni sistematizzazione.

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Le strade iniziate e interrotte della filosofia https://www.carmillaonline.com/2023/01/30/le-strade-iniziate-e-interrotte-della-filosofia/ Sun, 29 Jan 2023 23:01:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75861 di Luca Cangianti

Vladimiro Giacché, Filosofia dell’Ottocento. Dall’Idealismo al Positivismo, Diarkos, 2022, pp. 594, € 26,00 stampa, € 12,99 ebook.

Mai quarta di copertina fu più adeguata a esprimere lo spirito e le ragioni di un’opera come Filosofia dell’Ottocento. Dall’Idealismo al Positivismo. Le parole sono quelle di Hegel: «Il patrimonio di razionalità autocosciente che oggi ci appartiene non si è sviluppato soltanto dal terreno del presente. Esso è essenzialmente un’eredità. La nostra attuale filosofia è il risultato del lavoro di tutti i secoli». L’autore del libro, Vladimiro Giacché, che conosciamo per le sue [...]]]> di Luca Cangianti

Vladimiro Giacché, Filosofia dell’Ottocento. Dall’Idealismo al Positivismo, Diarkos, 2022, pp. 594, € 26,00 stampa, € 12,99 ebook.

Mai quarta di copertina fu più adeguata a esprimere lo spirito e le ragioni di un’opera come Filosofia dell’Ottocento. Dall’Idealismo al Positivismo. Le parole sono quelle di Hegel: «Il patrimonio di razionalità autocosciente che oggi ci appartiene non si è sviluppato soltanto dal terreno del presente. Esso è essenzialmente un’eredità. La nostra attuale filosofia è il risultato del lavoro di tutti i secoli».
L’autore del libro, Vladimiro Giacché, che conosciamo per le sue opere di storia ed economia (una fra tutte: Anschluss. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa) nasce come filosofo e a ben vedere non ha mai smesso di esserlo, anche occupandosi di flussi monetari, guerre e imperialismi. Questo suo ultimo lavoro è molto di più di uno dei tanti manuali in cui i sistemi filosofici vengono giustapposti a freddo, quasi fossero reparti di un manicomio prima della legge 180. Giacché tratta con grande fluidità i pensatori dell’Ottocento immergendosi nel loro lessico e nel loro orizzonte intellettuale. Ciò nonostante nell’introduzione dichiara apertamente il senso “politico” della sua operazione: la storia della filosofia è un antidoto potente contro la velenosa e diffusa credenza che allo stato presente delle cose non vi sia alternativa; essa ci offre una profonda conoscenza del presente insieme a molti altri scenari diversi e devianti, «Strade iniziate e interrotte» che in alcuni casi potrebbero perfino essere riprese.

Il volume – cui ne seguiranno altri – prende le mosse da un evento storico, la Rivoluzione francese, e da un processo, la dissoluzione del sistema kantiano. Vengono così spiegati i sistemi filosofici di Fichte, Schelling, Hegel e i rispettivi tentativi d’individuazione di principi assoluti del sapere capaci di abbracciare la realtà nel suo complesso. Di contro alle metafore meccaniche del Settecento emergono spiegazioni teleologiche improntate alla complessità e all’organicità.
Si tratta degli ultimi tentativi di dare alla filosofia un volto sistematico, poi tali ambizioni titaniche entrano in crisi: le costruzioni di Schopenhauer, Kierkegaard e Feuerbach, pur nella loro eterogeneità, sono sia causa che effetto di tale processo dissolutivo. Parallelamente il pensiero scientifico moderno sviluppa un sapere basato sull’esperienza con un conseguente scetticismo riguardo all’utilità di un’indagine sull’essenza delle cose. Le cosmologie positiviste di Comte, Mill e Spencer trovano grande diffusione anche oltre i circoli specialistici, senza tuttavia evitare di ritornare «a quelle concezioni ingenue del rapporto tra pensiero e realtà la cui critica da parte di Kant aveva dato avvio ai dibattiti filosofici idealistici e romantici.»

Filosofia dell’Ottocento è un libro rivolto sia a chi ha formazione filosofica, sia a chi desidera approfondire – anche con un sano godimento nella lettura – la storia dei sistemi di pensiero umani. A tal fine, oltre al linguaggio chiarissimo, contribuiscono al successo del progetto: la suddivisione dei capitoli in paragrafi brevi, la selezione di letture commentate e di brani critici, l’inclusione di poeti (Hölderlin, Goethe, Leopardi), letterati (Mazzini) e scienziati (Darwin) che permettono una trattazione del pensiero filosofico calata nella ricchezza e nella complessità del tempo.

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Marx ai tempi di Marx https://www.carmillaonline.com/2020/06/23/marx-ai-tempi-di-marx/ Tue, 23 Jun 2020 21:55:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60897 di Nico Maccentelli

Gennaro Imbriano , Marx e il conflitto, DeriveApprodi 2020, Collana Input 144 pp., 9,00 euro

Il pregio di questo breve saggio di Gennaro Imbriano sul pensiero di Marx è duplice: da una parte quello di essere un ottimo approccio per i neofiti ai temi centrali propri del marxismo… senza passare dal pessimo marxismo (1), ossia da quelle interpretazioni spesso dogmatiche e dottrinarie che hanno avuto il demerito di sclerotizzare Marx stesso ad opera dei più diversi diversi filoni politici. Imbriano ci presenta un pensiero depurato da quella [...]]]> di Nico Maccentelli

Gennaro Imbriano , Marx e il conflitto, DeriveApprodi 2020, Collana Input 144 pp., 9,00 euro

Il pregio di questo breve saggio di Gennaro Imbriano sul pensiero di Marx è duplice: da una parte quello di essere un ottimo approccio per i neofiti ai temi centrali propri del marxismo… senza passare dal pessimo marxismo (1), ossia da quelle interpretazioni spesso dogmatiche e dottrinarie che hanno avuto il demerito di sclerotizzare Marx stesso ad opera dei più diversi diversi filoni politici. Imbriano ci presenta un pensiero depurato da quella pletora di “eterne verità” estrapolate dai classici, dalle conclusioni politiche postume, che hanno il solo scopo di legittimare determinati eventi politici e scelte dei partiti e delle organizzazioni marxiste nel corso di oltre 150 anni di storia del movimento comunista.

Dall’altra Marx e il conflitto è una sintesi organica dell’impianto teorico marxiano nel suo divenire, dai Manoscritti economici e filosofici del 1844 fino al Das Kapital. Costituisce una cassetta degli attrezzi per chi intenda riprendere in modo proficuo, ossia rivoluzionario e anticapitalista, l’antagonismo di classe nell’epoca storica odierna, quando il comunismo sembra finito nel binario morto della storia o sopito dentro il mare magnum di un pensiero unico che ha espunto da ogni contesto la sua narrazione attraverso le solite vulgate a cui siamo fin troppo abituati, imponendole nell’intera koinè come un mantra, riducendo il comunismo come esperienza (che poi è il socialismo) a crimine o la sua possibilità di giustizia sociale a utopia.

Eppure le rivolte popolari che stanno attraversando il mondo, che esprimono quanto la miseria e l’alienazione del capitalismo sulle masse stia arrivando a punti di insopportabilità e sofferenza, rendono il comunismo un processo storico-sociale immanente, sempre possibile. Ecco perché il ritorno ai fondamentali originari, la possibilità di ripartire da Marx in modo agevole come offre questo pamphlet, significa riprendere le questioni fondamentali che pertengono chi vuole cambiare il mondo e non solo interpretarlo: quel materialismo storico e dialettico che consente di effettuare quelle espansioni di ragionamento che si basano sull’analisi concreta della situazione concreta e non sui procedimenti speculativi rovesciati per adattare la realtà al pensiero.

Ecco perché proverò in questa recensione ad avviare un paio di spunti espansivi che ci fanno capire come l’impianto teorico marxiano sia ancora attuale e si configuri come un apparato di categorie filosofiche ed economico-sociali che rappresenta una vera e propria guida per la comprensione della realtà con lo scopo di cambiarla e non di interpretarla a nostro uso e consumo per adattarla in modo consolatorio, catastrofista, o liquidazionista all’esistente.

Karl Marx

E infatti, il primo punto che troviamo nel lavoro critico di Imbriano su Marx è la questione che Marx affronta contro i giovani hegheliani di sinistra, principalmente Bruno Bauer: un materialismo puramente astratto, élitario, completamente scollegato con la materialità dei rapporti sociali.
È il Marx dell’operaio, del lavoratore salariato a conquistare la scena storica della rivoluzione sociale, poiché al centro della sua visione c’è la “società civile”, la potenza sociale della sua riproduzione e la materialità dei rapporti sociali. Non dunque un’autonomia del politico avulsa dalle condizioni sociali e materiali in cui vive l’essere umano, un’aporia che quindi separa lo Stato e la politica da queste condizioni sociali, ossia più in specifico dai rapporti di produzione, dalla loro relazione contraddittoria con le forze produttive della società.

La “vicenda teorica” in progress di Marx scardina queste concezioni metafisiche e idealistiche della sinistra dell’epoca, che partono da Bauer e Feuerbach per arrivare a Proudhon per mettere al centro di ogni categoria di pensiero per l’azione la centralità del sociale, individuando tre elementi fondamentali che fanno giustizia di ogni velleità politica e religiosa: la centralità della produzione, la divisione sociale del lavoro e la lotta di classe.

In Marx, il concetto di “società civile” è il prodotto storico di questo sistema di relazioni. Non esiste una politica che governa la “natura umana”, perché la natura umana si incarna in un rapporto sociale ed è il rapporto sociale (di produzione e riproduzione), la sua potenza a determinare la politica, non viceversa. La politica quindi non può essere concepita al di fuori dei rapporti di classe. Si capirà che all’epoca una simile impostazione filosofico-politica era indigesta persino per quell’intellettualità che scambiava il proprio filantropismo per lotta progressista contro i regimi reazionari del tempo.

A chiosa di questa analisi critica del Marx in dissidio con l’hegelismo di sinistra e il proudhonismo, Imbriano rileva un aspetto importante:

“Questi elementi non ci segnalano soltanto la differenza marxiana rispetto al pensiero «critico» del suo tempo, ma anche la sua alterità rispetto alle forme più o meno mutate nelle quali quel pensiero si reincarna oggi. Se l’opposizione al dominio del capitale diventa mera politica della cittadinanza (inconsapevole della centralità della sfera sociale), lotta redistributiva (affascinata dall’idea che il momento dello scambio sia costituente e che produttive siano le sue figure sociali di riferimento), battaglia culturale per l’affermazione delle idee che si atteggia in superiore distacco dalla massa (presunta) inconsapevole, pratica del dialogo tra interessi inconciliabili (che elimina l’organizzazione del conflitto dal suo orizzonte), esso si pone definitivamente al di fuori del riferimento marxiano, e dunque si rende incapace di diventare vera alternativa.” (1)

Una prima espansione analitica parte dunque dalla critica della concezione metafisica che vuole la politica come soggetto che meccanicisticamente plasma il mondo.
 Infatti, in questa considerazione ci sta l’eterna aporia dentro la sinistra tra una politica (oggi “dirittoumanitarista”) che si svincola dal nucleo centrale della sfera sociale: il lavoro, ossia il rapporto capitale/lavoro, la lotta tra classi sociali che ha la sua base politica proprio nella sfera della produzione e riproduzione materiale della società e dei rapporti sociali che determina, e una politica rivoluzionaria, radicale (nel senso che va alla radice elle contraddizioni materiali e sociali) che è consapevole del fatto che non di storture sociali si tratta quando parliamo di neoliberismo, patriarcato, militarismo, razzismo, ma le modalità con le quali il capitalismo stesso si riproduce, ciò che gli consente di esistere ed affermarsi nel pianeta. Sono le espressioni sociali e politiche del dominio capitalista nell’epoca attuale, operate dagli organismi politici e dagli apparati statuali delle classi dominanti. Se si pensa che la politica abbia una sua vita propria, sganciata dai rapporti sociali, si finisce per ridurla a uno strumento innocuo e ininfluente.

Questo è uno dei motivi per i quali oggi abbiamo una sinistra che si è adeguata al pensiero unico neoliberale scavandosi tutt’al più delle nicchie “umanitarie” che sono del tutto inoffensive per il dominio capitalista, armi spuntate contro le sue politiche discriminatorie e prevaricatrici che rimandano sempre e comunque alla guerra dall’alto verso il basso che le forze capitaliste portano avanti per mantenere il rapporto capitale/lavoro soddisfacente per la realizzazione di plusvalore. Migranti, condizione femminile, precariato, differenze etniche, sono tutte condizioni sociali e di classe determinate da questa guerra non dichiarata e costante sul corpo sociale del proletariato.
 E se andiamo a vedere la tara “genetica” di questa sinistra imbelle dobbiamo risalire a Proudhon, a Bauer, a concezioni metafisiche della politica che storicamente si ripresentano.

Uno snodo fondamentale è stata la trontiana “autonomia del politico”, che per quanto possa aver influito nella sinistra italiana, ha fatto più danni di quello che potremmo supporre, se guardiamo a una sinistra-partito leggero da salotto, che governa a colpi di decreti, che ben prima della Bolognina si è distaccata da espressione politica delle classi popolari a partir dal proletariato. Che è arrivata a sostenere la fine delle classi sociali e l’obsolescenza di categorie sociali come “proletariato” e la fine della spinta propulsiva al “socialismo”, assumendo in pieno l’orizzonte metafisico di un capitalismo eternizzato, dove esistono solo individui e gruppi sociali orientati a lottare davanti a un ascensore sociale inesistente. Che ha assunto il solo punto di vista dei capitalisti (le aziende) spacciandolo per interesse nazionale.

Altra aspetto critico riguarda Proudhon:

“Marx definisce «conservatore», il cui limite consiste nel fatto di spacciare una sostanziale accettazione dello status quo, che si esprime in un’acritica esaltazione del libero commercio tra liberi individui, per egualitarismo rivoluzionario.” (2)

“Marx scopre che esiste una divisione sociale del lavoro sulla base della quale una parte della società può esercitare la teoria perché è dispensata dalla fatica materiale. L’intellettualismo (il disprezzo per la massa e per la prassi) è la conseguente assunzione che il sapere (e più in generale i processi dell’autocoscienza) siano la chiave fondamentale per agire le trasformazioni: nessuna idea più retriva, agli occhi di Marx, e intrisa di presupposti classisti. Ugualmente errata è la visione di quanti assumono la centralità del politico. Si tratta, per Marx, di un errore strategico, che conduce inevitabilmente il pensiero critico (o presunto tale) nei vicoli ciechi della riedizione in forme nuove del politicismo”. (3)

Infatti Marx, spiega Imbriano, si è molto soffermato sulle illusioni proudhoniane (Miseria della filosofia), come se il libero scambio tra produttori senza considerare il nucleo essenziale del rapporto sociale di produzione, la produzione di plusvalore attraverso il pluslavoro, non sia il vero nodo economico da cui discende la connotazione sociale dei rapporti tra classi, come se questo incessante processo di produzione e riproduzione sociale, non sia rapporto sociale esso stesso, non sia la base dei rapporti sociali di classe. La riflessione critica dunque viene portata a un socialismo “su misura” per i piccoli produttori, che tutt’oggi produce ricadute riformistiche del tutto interne al solco politico e di governance economica neoliberale.

Pierre Joseph Proudhon

Un’espansione analitica che è possibile sviluppare può benissimo richiamare i cosiddetti “ceti medi” di togliattiana memoria. Non intendo sostenere che esistono agganci teorici diretti tra l’impianto analitico proudhoniano e quello del PCI sulla “democrazia” progressiva e l’alleanza con i ceti medi nel secondo dopoguerra. Tuttavia questa impostazione riformista è stata la base strategica dell’approdo filo-capitalista di un partito che nei suoi feudi come l’Emilia “rossa” ha trasformato la partecipazione operaia, il cooperativismo e il sostegno alle piccole e medie imprese in un grande laboratorio economico pro-capitalista a cavallo degli anni ’70 – ’80, con il decentramento produttivo e la scomposizione di classe. Un laboratorio che prosegue anche oggi con il terzo settore che va a sostituire il pubblico e persino le cooperative nella gestione dei servizi sociali e socio-sanitari. (4)

Che medesime a quelle di Proudhon siano le illusioni proprie di una piccola borghesia espresse in un apparato di partito sull’emancipazione sociale “armoniosa”, senza conflitto, estese a un universalismo autoreferenziale, mi pare piuttosto evidente. A questo pantano ideologico idealista ha condotto la lunga marcia del PCI dentro le istituzioni e nella società capitalista italiana dal secondo dopoguerra. A cui faceva da contraltare un totalitarismo repressivo contro i movimenti.

Questa espansione analitica è importante per superare l’analisi superficiale di certa ortodossia marxiana, il “berlinguerismo pentito”, di chi riduce tutta la questione dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria da parte del più grande partito comunista dell’Occidente alla dichiarazione di Berlinguer sulla fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre e al riconoscimento dell’ombrello NATO. Senza ovviamente analizzare da un punto di vista di classe, ossia del ruolo di una tale forza politica nei rapporti sociali e di produzione, ciò che il PCI era diventato negli anni ‘70 nello svilimento di una lunga strategia politica che, almeno inizialmente, poteva avere una sua coerenza rivoluzionaria, pur discutibile. Questione che i neocomunisti o quelli di “stretta osservanza” si sono da sempre ben guardati dall’affrontare (cosa rifondi allora?), come se la Bolognina fosse solo un fatto politico.

In generale, anche oggi, l’ombra di Proudhon emerge di fatto nelle velleità riformistiche di una sinistra che s’intestardisce nel far rientrare pratiche economiche “virtuose”, surrogati di un associazionismo che nulla hanno che vedere con le cooperative e le casse operaie dei primi del ‘900, l’autoimprenditorialità che ha coinvolto anche esperienze autogestionali,  un mutualismo fine a se stesso, dentro gli schemi della riproduzione sociale e della catena del valore del neoliberismo selvaggio, accettandone logiche e dinamiche. Riconoscendo, così, di fatto, l’impossibilità di una rivoluzione sociale.

La parte finale del saggio di Imbriano affronta la questione della conquista del potere da parte del proletariato e della transizione al comunismo, ripercorrendo i passaggi del pensiero di Marx a partire dalle esperienze rivoluzionarie del 1848, con le considerazioni sviluppate nel 1864 nel documento d’inaugurazione dell’Internazionale e poi ancora fino alla Comune di Parigi del 1871 e alla presa di posizione riguardo al Programma di Gotha nel 1875. Una questione molto attuale di fronte al dilagare di un riformismo fine a se stesso persino nel campo della sinistra radicale odierna. (5) E che si riaggancia alla prima questione, quella sociale.

In definitiva, per chi vuole utilizzare questo pregevole excursus sul pensiero di Marx lungo direttrici di analisi orientate al conflitto di classe e alla transizione al comunismo, qui può trovare una vera miniera di spunti espansivi. Ma soprattutto un approccio ben attinente al pensiero marxiano, una guida per l’azione da parte del comunista di Treviri, che non era certo un esegeta della filosofia astratta, ma un vero militante antagonista ante litteram.

 

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NOTE:
1. Non è certo mia intenzione svilire questioni politiche ed eventi così complessi riguardanti la storia e la politica del marxismo novecentesco, che meriterebbero ancora oggi delle analisi approfondite; del resto anch’io sono parte in causa appartenendo a un filone politico del comunismo italiano. Il mio scopo è piuttosto quello di operare un’estraniazione da queste questioni per tornare alle fonti primarie, ossia al pensiero marxiano depurato dalle sue interpretazioni successive. E  il percorso tracciato da Imbriano in quest’opera mi pare un’ottima traccia, uno spacchettamento coerente e ragionato delle questioni rilevanti per Marx. Poi se altri intendono trovare altri spunti in altre opere: ben venga; quello che importante è uscire dalle contese da bar a cui assisto sui social tra i seguaci dei vari “…ismi” (e poi c’è chi si chiede perché non si riesce a costruire l’unità dei comunisti.)…

2. Marx e il conflitto, pag. 78

3. Ibidem, pag. 70

4. Se per Sergio Bologna, il lavoratore della conoscenza nell’era del taylorismo-fordismo non è tanto il chimico che entra a lavorare alla BASF, quanto il tecnico che organizza la produzione, il personale organizzativo che avvia la grande stagione della scomposizione di classe emiliana, nella segmentazione dei cicli di produzione possiamo identificarlo in una serie di soggetti interni agli apparati di partito e a quelli amministrativi della PA, fino al sindacato. Con una base sociale e produttiva in quei ceti medi togliattiani che “si sono fatti da soli” e che permeano tutto il sociale gestito dal PCI di quegli anni ’70 e ’80: dalle case del popolo alle associazioni di categoria, dai sindacati alle istituzioni locali, alle cooperative. Una base che diviene reazionaria nella ricerca di integrazione alla catena del valore del grande capitale, alle incessanti riconversioni produttive che hanno fatto del modello emiliano-romagnolo quell’agile piroga nelle trasformazioni economico-sociali di fine secolo della ristrutturazione capitalistica, e insieme quel rigido controllo sulla forza lavoro frammentata. Un modello integrato ai mutamenti neoliberali del capitalismo (agli albori della reaganomic) e non un’alternativa economico-sociale: né di sistema, né di riforma. Lo scontro con l’autonomia di classe non poteva che essere inevitabile. (https://www.youtube.com/watch?v=t1lk6DtlKxY&t=224s)

5. “Se interpretiamo bene le parole di Marx e quelle di Engels, sembra che l’entusiastico fervore per l’azione dei comunardi che «spezzano» il potere venga ora ricondotto nell’alveo di una più complessa valutazione. Spezzare questo potere, instaurare la Comune, il Gemeinwesen, è certo l’obiettivo rivoluzionario: ma ciò non può essere fatto nell’immediato, pena la sua inconsistenza. Prima, è necessaria la transizione: occorre marciare su Versailles, prendere il potere politico, schiacciare i propri nemici, imporre la socializzazione dei mezzi di produzione e tenere in vita la dittatura proletaria fino a quando il tempo della transizione non sarà concluso.” Marx e il conflitto, pag. 130-131

 

 

 

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