Federico Boni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/20/nemico-e-immaginario-il-ritorno-del-mostruoso-tra-cattiva-coscienza-coloniale-e-neocolonialismo/ Tue, 20 Sep 2016 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33294 di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) [...]]]> di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) immaginario” ripratendo da una scena del film La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1986) di George Romero in cui l’eroe nero viene scambiato per uno zombie ed ucciso dagli uomini bianchi. Si tratta di un errore “del tutto comprensibile”, visto che nella società bianca il nero è uno zombie, è una presenza priva di soggettività. Quello subito dal personaggio nero può dirsi dunque un processo di de-umanizzazione ed a ben guardare è il medesimo processo a cui sono sottoposti i migranti sugli schermi televisivi e fuori da essi.

Nel saggio di Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier, 2016), meritoriamente recensito da Luca Cangianti nel suo “I mostri dell’accumulazione originaria”, l’autrice ha, tra le altre cose, particolarmente approfondito il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo. Il «nemico si manifesta come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l”umanità’ con la propria invadenza o con la propria incontrollabile ‘pazzia’ e/o sete di vendetta. Egli è l’Altro assoluto che ha attraversato le acque per venire a capovolgere una nave già piena, come nel caso dei sopravvissuti al disastro del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, o in quello dei pescatori di perle (migranti irregolari cinesi) che muoiono nel totale silenzio mediatico al largo delle coste britanniche […] È l’Altro-assoluto contro cui la società – quella fatta di ‘simili’ per cultura, religione, spirito democratico e, parrebbe conseguirne, appartenenza razziale – si rinsalda e si muove compatta» (pp. 10-11).

La studiosa ricorda come contemporaneamente all’appello alla solidarietà democratica, europea, occidentale, contro l’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” del gennaio 2015, in difesa della libertà d’espressione, nelle società occidentali è stata riadattata «la narrazione dello scontro di civiltà contro i ‘cattivi extraterrestri’ (gli stranieri simmeliani trasformati in potenziali criminali) e lungo il perimetro degli spazi nazionali e comunitari si rafforzano le misure di protezione delle frontiere contro l’immigrazione» (p. 11). Secondo Giuliani è esemplare l’intreccio francese tra “costruzione dell’Altro-assoluto” e “costruzione del Sé nazionale”: un paese dal violento passato coloniale plurisecolare contraddistinto da un’amnesia di Stato a proposito dello schiavismo e dal riprodursi di una narrazione istituzionale di stampo coloniale della “missione civilizzatrice” e del Progresso. Nel saggio, a tal proposito, si ricorda come la legge francese n.2005/158 del 23 febbraio 2005, nell’articolo 4, richieda espressamente che agli studenti della scuola dell’obbligo venga spiegato il «ruolo positivo della colonizzazione francese […] specialmente in Nord Africa».

Convinta dell’idea che il mostruoso rimandi, a maggior ragione oggigiorno, «alla mutazione interna dell’organismo umano e all’incapacità cartesiana di ristabilire il controllo su di essa» (p. 12), Giuliani definisce l’alterità (alieno/a, non-morto/a, mutante, cyborg ecc.) come post-umana. Inoltre, la studiosa definisce neocoloniale il tentativo di ristabilire il controllo su tutto ciò che è mutato, producendo alterità, trasgredendo alle regole della razionalità sovrana.

Nel saggio si ricorda come la narrazione distopica non abbia mancato di soffermarsi sull’ambivalenza della mutazione determinata dalla scienza e dalla tecnologia, a tal proposito si può far riferimento, ad esempio, alla produzione cinematografica di David Cronenberg degli anni Settanta ed Ottanta o, nel decennio successivo, a film come 12 Monkeis (1995) di Terry Gilliam od ancora, nel nuovo millennio, ad opere come I am Legend (2007) di Francis Lawrence, District 9 (2009) di Neill Blomkamp e World War Z (2013) di Marc Forster.

Esiste un’evidente continuità tra il “subumano” proprio del periodo coloniale e schiavista ed il “non-umano” o “post-umano” neocoloniale; in entrambi i casi la sua eliminazione solleva da responsabilità e lo sterminio diventa “naturale” nel suo essere presentato come la “soluzione finale” che permette il ritorno ad un’ontologia di un particolare tipo dell’umano di nuovo al centro dell’universo. Molte narrazioni recenti insistono sul fatto che il non-umano, o post-umano, conviva già con l’umano e tale convivenza, sostiene la studiosa, rimanda «alla codificazione della cosiddetta ‘società multirazziale’ del mondo reale, con le sue divisioni e contraddizioni sociali e culturali» (p. 16).

cover_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiRifacendosi ad «una prospettiva genealogica che tende a rintracciare la paura nella storia delle sue rappresentazioni e dei suoi significati a partire dalla modernità, dalla nascita dello Stato nazione e dagli albori del movimento coloniale delle potenze europee verso ovest» (p. 18), il saggio affronta tematiche che vanno dal “ritorno del mostruoso” al “rapporto tra modello multiculturale ed Alterità assoluta” (tra “normalizzazione della diversità” e costruzione di una “diversità inconciliabile”), dalle “fantasie di bianchezza” presenti nelle narrazioni della catastrofe (utopiche e distopiche) alla “cittadinanza emotiva” concentrata «sull’incontro con l’alterità da parte delle diverse incarnazioni (culturali, sociali istituzionali) della ‘norma bianca’ in Europa e nelle ex colonie di popolamento» (p. 19).

Da parte nostra, in questo scritto, ci limiteremo alla questione del “ritorno del mostruoso” – affrontato dall’autrice nel primo capitolo del volume – rimandando per le altre questioni trattate dal denso ed interessante saggio al quadro d’insieme ricostruito nella già citata recensione stesa da Luca Cangianti [su Carmilla].

Giuliani legge alcune figure del cinema di genere horror e dintorni come allegorie della violenza coloniale e del suo ripresentarsi attraverso narrazioni distopiche sotto le sembianze di morti viventi. In generale il mostruoso coincide con la rappresentazione della finis mundi e se tale funzione può essere intesa come componente importante nella costruzione della “comunità antropologica”, nel corso dei secoli, sostiene la studiosa, si è strutturata nei termini dei confini dell’Ecclesia cristiana e, nella modernità, nei termini della separazione cartesiana e rinascimentale tra conoscente e conosciuto. Il satanico, bestializzato dall’iconografica della Scolastica sino a metà del Trecento, viene incorporato nelle leggende dei viaggiatori cinquecenteschi che toccavano i lontani territori del Pacifico, africani, caraibici, amazzonici… fino al Calibano shakespeariano. Ancora a cavallo tra Otto e Novecento Cesare Lombroso colloca proprio a tali latitudini la “barbarie calcificata” inestirpabile, incline al cannibalismo ed in epoca ancora più recente, ricorda Giuliani, sopravvivano tracce di tali “storie antropologiche” utili all’auto-rappresentazione dell’occidente che si vuole civilizzato e civilizzatore, si pensi a tal proposito il film Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato.

In età rinascimentale il cannibalismo (vero o presunto) dei nativi è inteso come prova evidente della loro “bestialità” o sottomissione all’anti-Cristo. La mostruosità del cannibalismo gioca un ruolo importante nella legittimazione del primo colonialismo divenendo “l’estremo male” da combattere in funzione dell’edificazione dell’Utopia. La bestia umana deve essere eliminata o sottomessa «alle leggi della Cristianità, dell’istituzione politica e, infine, del capitale […] La conquista e la realizzazione di nuove società abitate solo dagli elementi migliori (cristiani, bianchi e proprietari) necessitava di un’”accumulazione originaria” nel senso più marxiano del termine, ossia, da un lato, la cannibalizzazione della forza lavoro, il suo addomesticamento mediante lavoro servile o schiavo» (p. 27). Ed è proprio a questo secondo fine «che adempierà la costruzione di un nuovo mostruoso (lo/la schiavo/a ‘negro’, il coolie e il/la migrante ‘bruna’ del Mediterraneo, della Cina e dell’Asia meridionale sovente descritti mediante riferimenti a bestie ed insetti) utile a dividere e governare la forza lavoro mediante statuti (razziali) differenziali» (p. 27).

La donna sin dal Medioevo viene collocata tra le mostruosità per poi divenire nell’epoca del razionalismo settecentesco, dell’imperialismo e della moralità vittoriana, «la diversità assoluta all’interno degli spazi domestici dell’intimità borghese e della sua riproduzione. Diverrà non solo l’oggetto di violenze mediche, culturali e di polizia […] ma la sua diversità diverrà uno dei dispositivi di inferiorizzazione all’interno della comunità coloniale e imperiale della Modernità» (p. 27).

Dunque, continua Giuliani, il mostruoso è il prodotto della cattiva coscienza coloniale che si ripresenta a noi tramite la figura del non-morto, è il Calibano che si ripresenta per vendicarsi dello stigma e della violenza. È la “coscienza nera” che si incarna sottraendosi alla rimozione dell’esperienza coloniale e dello schiavismo, che si ripresenta prendendo a morsi chi ha massacrato in nome del progresso e chi oggi lucra erigendo “confini razzializzati” contro l’umanità migrante. «Questo cannibalismo in lettere e celluloide ribalta il cannibalismo fisico e simbolico dei conquistadores, dei padri pellegrini, degli schiavisti e di chi possedeva le piantagioni, ma anche quello dei ‘capitalisti’ descritti da Marx nel frammento dei Grundrisse del 1858, avidi di sangue – di denaro, di carne da lavoro – come ‘vampiri’» (p. 28).

Già in diversi scritti abbiamo fatto riferimento alla comparsa haitiana della figura dello zombi ed alla nascita di quella “Repubblica nera” incubo degli Stati Uniti segregazionisti. Abbiamo anche visto come le prime pellicole americane che affrontano gli zombie inevitabilmente abbiano a che fare tanto col senso di colpa nei confronti delle sofferenze inflitte agli schiavi, quanto col timore che infondono i neri nella società bianca. Abbiamo anche preso atto di come, tra gli anni ’30 e ’50, attraverso la figura dello zombie, l’immaginario cinematografico americano richiami la questione della “perdita di di volontà e controllo su se stessi”; l’epoca è quella della Depressione, dei conflitti mondiali, della Guerra fredda e della minaccia atomica. Nel corso degli anni ’60, con i movimenti di lotta per i diritti civili, il cannibalismo degli zombie portati sullo schermo da Romero pare legarsi al riscatto dei morti viventi contro la violenza razzista operata dal capitalismo.

I film di Romero «tematizzano il ritorno dei diseredati, dei subalterni e dei reietti della società statunitense sotto forma di zombie cannibali, i quali sono gli unici in grado di svelare […] come ricchezza e consumismo, fondati su violenza e marginalizzazione, non siano altro che realtà fragili, transeunti, ‘grondanti di sangue’» (p. 30). I linving dead romeriani vengono raffigurati come “moltitudine rivoluzionaria”, oscillando tra “massificazione” e “individuazione” e questi, pian piano smettono di essere massa indistinta per divenire “moltitudine di identità”. Se nella produzione romeriana si ricorre alla figura del morto vivente per riflettere sulle contraddizioni e sulle diseguaglianze americane, nelle produzioni più recenti, sostiene Giuliani, non si tratta più tanto di fare i conti con il “lato mostruoso” della società umana ma di “invocare un nuovo inizio”, di fondare un nuovo mondo con ogni mezzo necessario. Il nemico venuto dal passato, “il nuovo Calibano” che ha voce ma non linguaggio, deve essere eliminato attraverso una “guerra fondativa” di esseri superiori. Come esempi di ciò la studiosa cita il film spagnolo REC (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza, ove l’origine satanista dell’epidemia legittima la “guerra giusta” contro il demone zombie, la saga Resident Evil (2002-2012) di Paul W. S. Anderson, ove la guerra è mossa contro zombie derivati da un’epidemia batteriologica determinata da esperimenti farmaceutici e World War Z (2013) di Marc Forster, ove l’apocalisse zombie porta ad uno “stato di guerra permanente”.

In questo ultimo caso la studiosa evidenzia come a tale “stato di eccezione permanente senza confini” non pare accompagnarsi alcuna critica alla società presente mentre circa la società a venire, il film, sembra indirizzarsi verso fantasie di supremazia eteronormativa di classe (borghese) e di razza (bianca). «Essa appare come lo spettro di quella guerra che il filosofo italiano Carlo Galli ha chiamato ‘globale’, all’alba della Guerra al Terrore di George Bush Jr. In questo quadro la guerra non è più quella tra Stati, come per tutta la Modernità e in particolare, su scala globale, sin dalla prima guerra mondiale: in esso riaffiora l’idea di guerra ‘giusta’ invocata da san Tommaso e dalla cristianità medievale, e successivamente dal colonialismo, contro vecchi e ‘nuovi barbari’» (p. 34).

Nell’età globale la legittimazione della guerra pare poggiarsi sul confronto tra morali decisamente semplificate e, nella visione occidentale, si stabilirebbe così, secondo Galli, una sorta di gerarchia di valore tra la guerra a difesa (o portatrice) di diritti e democrazia mossa da poteri legittimati dall’ordinamento internazionale ed il terrorismo fondato sugli istinti più bassi. A tal proposito Giuliani preferisce rifarsi alla tesi di Tasal Asad (Sull’attentato suicida) sulla linea di continuità che l’inferiorizzazione coloniale del nemico traccia tra modernità e post-modernità. Tale impostazione la si ritrova anche in Judith Butler (Sexual politics, torture and secular time) quando a proposito della “Guerra al Terrore”, soffermandosi sulle torture nei campi di detenzione americani, sostiene che tali pratiche coercitive, violente ed umilianti possono essere considerate l’esplicitazione di una logica già presente “a monte” nella stessa idea di “missione civilizzatrice”.

28daysÈ dunque in tale contesto culturale e geopolitico che si viene a dare una particolare mutazione dello zombie a partire dall’inizio del nuovo millennio: «il mutante è soprattutto un infettato che viene ad essere il pericolo numero uno, incontrollabile attentatore suicida che per contagio trasforma gli altri in terroristi. Di fronte a lui la sovranità statuale si manifesta come totalmente impotente» (p. 35). Il morto vivente di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle rappresenta un’umanità animalizzata regolata dalle leggi del branco e della forza che ha in sé tanto le caratteristiche dei mutanti che della bestia rabbiosa. Tali caratteristiche le ritroviamo nel francese La horde (2009) di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, ove più che camminare gli zombie corrono velocemente: il walking dead si è mutato in un running dead.

La natura mutante risignifica la figura del morto vivente quale risultato del dilagare del virus e secondo Peter Dendle (The Zombie Movie Encyclopedia) i timori incarnati da questi nuovi zombie non sono espressione della perdita del sé ma di una sua sovraesposizione. Se le vecchie generazioni di zombi sono contraddistinte dalla mancanza di affettività, dall’irrazionalità, dalla semplificazione e dalla lentezza, ora palesano un’energia senza precedenti.

Secondo Giuliani il nuovo morto vivente incarna anche la figura del pericolo post-11 settembre 2001 e post-massacri vari da Columbine ad Utøya, fino agli episodi più recenti. Si tratta di un pericolo errante ed incontrollabile che proviene dal vicino di casa, dai propri compagni di scuola o di lavoro che improvvisamente palesa una forza ed una violenza inimmaginabili.

La studiosa sottolinea come in queste produzioni si evochi l’idea che a sopravvivere possano essere le figure più adattabili, più avvezze a difendersi, come i giovani, le donne ed i marginali, quasi a palesare «una speranza di un’umanità futura che chiude con i debiti le sperequazioni (di genere, classe, razza) che hanno da sempre infestato la storia dell’Occidente» (p. 41). Non sfugge, però, continua la studiosa, come in diverse produzioni audiovisive recenti questi sopravvissuti, per fondare una nuova società, finiscano col piegarsi nuovamente a regole e consuetudini conservatrici: nel film di Boyle, «Selena smetterà di essere la guerriera autonoma e coraggiosa per divenire (o tornare ad essere) la femmina bisognosa di protezione […] e dispensatrice di cure materne» (p. 41).

Vi sono però alcune importanti differenze tra i due film citati tanto a proposito dell’estensione del contagio che delle cause scatenanti. Da una parte l’insularità britannica del film di Boyle può lasciar pensare che il contagio non si sia propagato “al di fuori” dell’isola mentre diverso è il rapporto tra la Parigi in fiamme di Yannick Dahan e Benjamin Rocher e le sue periferie postcoloniali prive di barriere al contagio. Circa le cause, in 28 giorni dopo l’origine dell’epidemia è palesata nella sperimentazione laboratoriale, mentre La horde sorvola totalmente sulle cause scatenati concentrandosi sulla vita degli umani di fronte alla possibile fine dell’umanità così come conosciuta. Inoltre, se nel film britannico l’umano-rabbioso è mortale, non è un non-morto, nel lungometraggio francese il linving dead rappresentata “l’intramontabilità della catastrofe”.

In comune i due film hanno l’ambientazione urbana e Londra e Parigi rappresentano la metropoli europea centro del potere coloniale in passato e luogo di attrazione per migranti, oltre che di sperimentazione di “pratiche di governabilità”. «La mobilitazione/dislocazione dei corpi secondo le regole del controllo biopolitico e del mercato salta all’arrivo del cannibale la cui corsa frenetica e in gruppo sembra non ammettere barriere di classe, razza e genere. È una marea distruttiva e fagocitante che annulla i dispositivi della segregazione spaziale e della produzione capitalistica incarnate dalle metropoli europee. Lo scenario urbano svuotato dei significati che fondano l’ordine sociale è così la massima espressione del sovvertimento delle regole alla base della società umana come polis» (p. 42).

Come abbiamo visto affrontando il saggio di Federico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano (Mimesis, 2016) [su Carmilla], l’ambientazione rurale è tipica del gotico americano, ad essa, sostiene Giuliani, si accompagna una vera e propria disumanizzazione cannibalistica rimandante al conflitto tra la costruzione nordista della nazione e dei suoi “altri-interni”. A tal proposito tra gli studi più interessanti occorre citare, anche se datato, il saggio di Sacvan Bercovitch, The american Jeremiad (1978).

Nella serie britannica Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, da noi affrontata nuovamente grazie a Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis, 2016) [su Carmilla], la ruralità rimanda all’isolamento, all’impossibilità di controllare e difendere il territorio e, più in generale, nelle produzioni europee, sostiene Giuliani, l’ambiente agreste rinvia alla «costruzione della barbarie-interna in conflitto con l’urbanità ‘civilizzata’» (p. 42). Vale la pena notare come anche in Dead Set, al pari di 28 giorni dopo e La horde, i cannibali corrano veloci ed in questo caso è evidente l’analogia con la velocità di trasmissione televisiva.

Il film 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007) di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del film di Boyle, si concentra sulla questione della “molteplicità” che caratterizza la società londinese, sulla difficoltà di definire una demarcazione netta volta ad escludere il nemico esterno ed a neutralizzare quello interno e sull’immunizzazione della popolazione attraverso la quarantena.

Giuliani segnala come analizzando in sequenza cronologica, i film affrontati – 28 giorni dopo (2002), 28 settimane dopo (2007), Dead Set (2008) e La horde (2009) – è possibile «affermare che la speranza di sopravvivenza infusa dal primo, e tematizzata dal secondo come olocausto del mostruoso, viene drammaticamente distrutta dal terzo e dal quarto, i quali sacrificano progressivamente ogni sogno di sopravvivenza dell’idea di umano – e del suo rapporto tra corpo e mente, vita e morte» (p. 47).

Se in diverse produzioni americane recenti, come World War Z (2013) di Marc Forster, si rintracciano alcune caratteristiche tipiche del cinema di guerra, come ad esempio il palesare una netta dicotomia spaziale, etica e politica tra i contendenti e la possibilità di ripristinare l’ordine internazionale modernamente inteso (meglio se entro la fine del film), nelle produzioni europee come 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set e La horde, secondo Giuliani, non abbiamo l’eroe unico e non vi è superamento definitivo della crisi.

In World War Z quella che inizialmente sembra una critica ad un uso scriteriato delle tecnologie e della scienza si risolve in un’esaltazione delle capacità del maschio bianco occidentale e della razionalità scientifica e militare. Se si confrontano World War Z e Land of the Dead di Romero, si vede come entrambi «pongono al centro la rottura della geometria spaziale umana – spazzata via da un take over zombie irresistibile, per Romero la rottura con la geometria/gerarchia significa una nuova idea di progresso che […] include il post-umano o ha nel post-umano il proprio attore principale. In WWZ la rottura è solo una sospensione di un ordine sociale e politico che viene subito ristabilito e che vede vincitori ‘i migliori, i più bianchi, i più ricchi, i più tecnologici abitanti dell’Occidente civilizzato’» (p. 48).

In una serie di recenti produzioni audiovisive il vivo si deve riconciliare col non-morto e, riprendendo Michel Foucault, si può dire che il potere di “uccidere” (lo zombie) da parte dello Stato lascia il posto al potere di “lasciarlo vivere” (recluso) ed, infine, al potere di “farlo vivere” riabilitandolo, governando il bios dei post-zombie. Dunque i walking dead subiscono un processo di individualizzazione e soggettivazione, divengono “oggetti governamentali” e «devono vivere, al fine di permettere ai vivi di riconciliarsi col trauma dell’apocalissi. E allo stesso tempo essi divengono nuda (post-)vita – un bios molto particolare – la cui ricodificazione sociale e biologica in quanto ‘membri della società’ dipende da medicine che prima i dottori, poi i famigliari, iniettano nella loro spina dorsale. Lo Stato governa sulla loro costruzione biologico-corticale e così facendo, permette alle persone di ricostruire le proprie comunità» (p. 36). I morti viventi si trasformano da minaccia a manifestazione della mutazione (da umana a post-umana) che ha investito le società contemporanee.

Giuliani vede nelle fantasie di vittoria sul contagio presenti in tanta narrazione distopica contemporanea una volontà di riscatto mossa dal senso di colpa «di chi è stato all’origine contagio di se stesso». Abbiamo visto in altri scritti della serie “Nemico (e) immaginario” come il contagio derivi spesso da interventi umani sulla natura. «È il senso di colpa che produce mostri, come lo era in quelle descrizioni dei tropici di fine Ottocento da parte dei medici australiani che sostenevano che l’uomo bianco là desiderava l’indesiderabile, aspirava a ciò che non sarebbe mai riuscito ad ottenere: la sopravvivenza in un ambiente già, o diventato, ostile. Con la differenza che là la natura non doveva essere violata, e nelle narrazioni distopiche contemporanee è la natura violata che si vendica» (p. 36).

revenants456Nel volume vengono passate in rassegna tre recenti realizzazioni audiovisive – Fido (2006) di Andrew Currie, Les revenantes (2012 – in produzione) ideata da Fabrice Gobert ed In the flesh (2013-1914) scritta da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell – che pur nella loro diversità, in un modo o nell’altro, risultano contraddistinte dal grado di precarietà in cui versa un’umanità ormai incapace di governare le conseguenza della guerra e/o della tecnica e del Progresso.

Il film Fido, di produzione americana/canadese, è un horror-comico in cui «la memoria incarnata dalla violenza a cui rimanda la figura dello zombie è quella della schiavitù» (p. 54). Alla fine di una cruenta guerra dell’umanità contro gli zombie una grande azienda realizza un collare in grado di neutralizzare gli istinti aggressivi degli zombie rendendoli mansueti servitori della comunità piccolo-borghese nordamericana. Il film è ambientato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 e questi “zombi addomesticati” sostituiscono quella componente sociale, razziale e di classe maggiormente sfruttata. La nuova figura di schiavo non deve essere riprodotta, non sporca, non mangia ed è ubbidiente al padrone. La tranquilla vita piccolo-borghese della cittadina viene interrotta dall’attacco omicida di cannibali in libertà e la storia «si conclude con il sovvertimento dell’ordine sociale (razziale e di genere) ma non di classe» (p. 56). Il nuovo mondo che pare far capolino a fine narrazione pare essere di quelle «donne per bene, pur sempre angeli del focolare ma ora anche capofamiglia, in cui l’uomo gioca la parte del ‘sottosviluppato’ addomesticato» (p. 56).

Il tema principale della serie Les revenantes è individuato da Giuliani nel “dono” del ritorno dei morti tra i loro cari. Il fatto che i morti tornino alla spicciolata per riprendere il loro posto tra i loro cari nella piccola comunità montana situata accanto ad un’enorme ed inquietante diga crea immediatamente problemi di comprensione e di convivenza a cui si aggiunge il riaffiorare del vecchio paesino dalle acque del bacino idrico che si abbassano misteriosamente. Il riemergere del passato, secondo la studiosa, potrebbe essere «simbolo del riscatto dalla violenza umana sulla natura e il sovrannaturale, la valle sembra utilizzare il ritorno degli oltrepassati come una sorta di vendetta contro chi in quell’area ha continuato a vivere» (pp. 56-57). Resta misterioso il motivo per cui alcuni personaggi tornino in vita più volte così come sono ignote le ragioni per cui questi revenants vengano reclamati da loro simili privando nuovamente le famiglie dei propri cari.

Nella serie In the flash, prodotta dalla BBC, si ha una narrazione molto intimista tra zombie e “scomparsi e poi ritornanti”. Giuliani sottolinea come qui si scavi nei conflitti famigliari di una piccola comunità ed il ritorno di Kieren Walker ha tutte le sembianze di un dono offerto alla famiglia per riparare agli errori commessi precedentemente. Il tutto pare ruotare attorno alla trasformazione dello zombie in una nuova possibilità d’amore e di riscatto. «La storia di Kieren e sua madre ci inducono alle ragioni della scelta, da parte del regista e narratore, del genere zombie e del post-umano per raccontare una storia di marginalità e sofferenza (cagionata da discriminazione di genere, classe e sessualità) all’interno di una piccola comunità inglese: il post-umano e l’Apocalisse, in particolare, sembrano permettere infatti, seguendo le teorie del femminismo materiale, di tematizzare la critica all’epistemologia maschile e bianca, all’antropocentrismo eterosessuale e illuminista e al patriarcato (etero) sessista che è sia matrice della secolarizzazione sia pilastro del potere spirituale della Chiesa» (p. 60). Il ruolo della chiesa è qui decisamente ambivalente; da una parte essa ha contribuito a mantenere unita la comunità nel corso dell’insurrezione ma ha basato tale coesione sull’odio nei confronti dei ritornanti.

Giuliani si sofferma anche sulla sovversione femminile dell’ordine costituto presente sia nel film Fido che nella serie In the flash. Nell’horror-comico Fido le donne americane intendono abbandonare il ruolo di «passive domestiche dedite alla riproduzione del maschio e della sua egemonia tipico dei primissimi anni Sessanta (si pensi alla rappresentazione della domesticità femminile nella serie americana Mad men): sono anche quelle che più nettamente infrangono i tabù sessuali legati alla linea del colore e di classe, e le regole sociali che stabiliscono il confine tra normalità e anormalità» (pp. 60-61). Nel caso di In the flash abbiamo donne che segretamente «costruiscono le reti affettive che sembrano garantire materialmente l’avvento di un futuro ‘migliore’: le madri e mogli dei ritornanti si incontrano in una stanza buia, separata, insieme all’infermiera e madre di Philip, il segretario del vicario (La ragazza madre del paesino), che ha deciso di insegnare loro come ‘medicare’ i propri famigliari PDS [Partially Deceased Syndrome, sindrome del parzialmente deceduto]. È sempre lei che ha creato questo gruppo di ‘autocoscienza’ e ‘autoaiuto’, perché le donne possano raccontare che cosa provano e come riescono a fare i conti con i PDS e la società attorno» (p. 61). Dunque, in qusto ultimo caso, le donne hanno un “ruolo ponte” tra umano e post-umano.

Nella serie la milizia, nonostante comprenda anche donne, secondo la studiosa rappresenta lo spazio semantico della virilità, del maschio, del soldato che custodisce la purezza della nazione e si fonda sulla convinzione che la minaccia è ancora presente pur certificando che la mutazione non è eliminabile. «La milizia si nutre dell’emergenza e, al contempo, la combatte: come per le polizie anti-terrorismo a cui è demandata parte della gestione governamentale del ‘nemico’ all’interno delle società reali, anche nella narrazione distopica il permanere del ‘mostruoso’ come parte integrante della società legittima il controllo di polizia su persone e relazioni. Come per le prassi e il discorso securitario e anti-terrorista posti in vigore dagli apparati di sicurezza britannici a partire dalla guerra in Afghanistan e in Iraq e dagli attacchi suicidi del luglio 2005, così anche nel racconto horror di In the flash tutti sono chiamati a fare i delatori e a manifestare, anche dentro le proprie case, la presenza di un PDS. Ma non devono agire da soli contro ‘i ritornanti’: devono piuttosto affidarsi alla milizia, alla polizia, auto-dichiaratasi in charge dell’eliminazione del risorto, come in una ‘società totale’ che non ammette critica né diversità» (p. 61).

Dunque, conclude Giuliani, se guardiamo 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set, La horde, Fido, Les revenants ed In the flash «in continuità con le guerre ‘coloniali’ del secolo scorso […] queste produzioni insistono sul backlash, sugli effetti di ritorno, di una condotta che può, in queste distopie, essere definita coloniale: il nemico è divenuto ‘inestirpabile’, ed è una costante intrinseca all’Europa ‘sin da quando essa è uscita da se stessa per reinventarsi sugli altri continenti. Al suo pari, il mondo degli uomini, nelle narrazioni distopiche prese in considerazione, ha ‘superato i propri confini’. A meno di una guerra che come quella ‘atomica’ potrebbe cancellare l’umano, insieme al post-umano, dalla faccia della Terra, l’apertura ‘della porta coloniale’ ha permesso all’altro, persino al non-morto che viene dall’aldilà, di varcare l’uscio e restare» (p. 62).

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Nemico (e) immaginario. I media dei morti viventi del/nel neoliberismo https://www.carmillaonline.com/2016/08/23/nemico-immaginario-media-dei-morti-viventi-delnel-neoliberismo/ Tue, 23 Aug 2016 21:30:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32359 di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto [...]]]> di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto alla comparsa nella fiction di un’orda di living dead. Vi sono almeno altri due ambiti in cui, in forma metaforica, si manifesta la figura dello zombie: il mondo del lavoro, nelle sue forme di alienazione e sfruttamento, ed il mondo dei media tanto nella “narrazione-produzione” di morti viventi (basti pensare a come vengono quotidianamente presentati i migranti), quanto nel suo stesso palesarsi come mondo sospeso tra la vita e la morte, nel suo proiettarsi oltre il luogo, lo spazio ed il tempo. Insomma, come vedremo, i media costruiscono e sono morti viventi.

Al fine di approfondire tali tematiche ci viene in aiuto il nuovo libro di Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis 2016), ove lo studioso analizza la figura dello zombie come metafora che riguarda i media dal punto di vista produttivo, delle modalità di rappresentazione del potere da essi attuate e delle forme di consumo dei contenuti da parte del pubblico. La metafora dei morti viventi viene dunque indagata dall’autore facendo riferimento ai lavoratori delle imprese mediatiche, ai potenti messi in scena dai media ed ai pubblici.

La figura dello zombie sembra mettere in scena le paure e le ansie che abitano l’immaginario occidentale contemporaneo. Secondo diversi studiosi i morti viventi che popolano i media contemporanei rappresentano una sorta di reazione culturale alle ingiustizie sociali e politiche del momento. Quel che è certo è che quella dello zombie è una figura decisamente malleabile e ciò la rende supporto metaforico per inquietudini diversificate.

«Nel nostro percorso ci capiterà di imbatterci in orde di morti viventi, a seconda vittime o carnefici di un sistema neoliberista che riduce le persone a una non-vita. Incroceremo i loro sguardi, spesso interrogativi, e cercheremo di interrogarli a nostra volta» (p. 11).

A proposito dei morti viventi che popolano le produzioni audiovisive, Boni ne ricostruisce le principali fasi di sviluppo a partire dalla loro comparsa sul grande schermo negli anni Trenta e Quaranta quando, in linea con le sue origini haitiane, la figura dello zombie rimanda alla rappresentazione dello “schiavo senz’anima” delle piantagioni con evidenti riferimenti alle condizioni della working class americana negli anni della Grande Depressione. I film di questo periodo, inoltre, non mancano di esplicitare il timore degli occidentali di venire prima o poi dominati e “colonizzati” dai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. Se negli anni Cinquanta e Sessanta, la figura del morto vivente, oltre a richiamare le atrocità della guerra da poco terminata, rinvia al terrore per un’eventuale invasione comunista, successivamente, attraverso una nuova generazione di zombie, inaugurata da George Romero con La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), si sviluppano riflessioni sul razzismo, sull’imperialismo e sul consumismo.

Nelle più recenti produzioni audiovisive di zombie, in cui è diventato sempre più difficile distinguere nettamente la condotta dei morti viventi da quella dei sopravvissuti, oltre che a dare immagine all’ansia contemporanea determinata dalla mancanza di stabilità e sicurezza, si insiste sul tema del contagio e su questioni bioetiche. L’ultima generazione di zombie si lega «a una dimensione che potremmo ricondurre alla patologizzazione e alla medicalizzazione della società, la cui diffusione planetaria suscita tutti i nostri timori relativi ai processi della globalizzazione neoliberale […] I morti viventi diventano così la rappresentazione fin troppo realistica del proletariato contemporaneo, dei flussi migratori e della estrema facilità con cui è sempre più possibile per le persone finire in uno status di “non-persone”, veri e propri morti viventi» (p. 19).

Riprendendo il discorso sul mito sviluppato da Roland Barthes (Miti d’oggi), secondo Boni «il morto vivente costituirebbe una categoria dell’immaginario nella quale la nostra società trasferisce le proprie vittime sacrificali […] La furia e la soddisfazione che si provano nell’eliminare definitivamente uno zombie nei film e nelle fiction […] tradiscono questa funzione di capro espiatorio […], ma va sempre ricordato che, originariamente, esso è uno schiavo, “che ha perso l’anima per il lavoro imposto dal capitalista. Ogni mito conserva la propria origine, nascondendola, tramutandola in sintomo. Se ciò è vero gli schiavi sono sempre schiavi, anche oggi, come in origine, sono loro che il mito nasconde”. Insomma: lo zombie è un mito, ma queste orde di morti viventi esistono davvero, sono tristemente reali» (p. 27).

Attraverso il mito del morto vivente le vittime vengono trasformate in mostri, dunque diviene lecito, oltre che divertente, eliminarle. Scrivono a tal proposito Martino Doni e Stefano Tomelleri: «Gli zombi sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in difformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di anima, che predica egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e ingaggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati occidentali […]. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione. Lo zombi è il non-me […]. La nostra piccola sicurezza quotidiana è garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» [M. Doni, S. Tomelleri, Zombi. I mostri del nuovo capitalismo, pp. 70-71] (p. 28).

sociologie-boni-watching-dead-1Lo zombie, oltre a definire il campo discorsivo del neoliberismo politico ed economico e gli stessi corpi dei suoi protagonisti, si presenta anche come metafora degli effetti della “necropolitica” applicata sui corpi degli individui. I morti viventi vengono presentati come massa informe ma, sostiene l’autore, questi “ultimi degli ultimi” sono anche i rifiuti, gli scarti, della società neoliberista, sono l’immagine di quelle “vite di scarto” di cui parla Zygmunt Bauman (Vite di scarto). I morti viventi non sono soltanto gli operai zombificati dallo sfruttamento neoliberista, essi sono anche «i lavoratori-consumatori, una sorta di “proletariato inattivo” e inutile per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi inconsapevole e involontario. Sono molti gli studiosi che hanno individuato soprattutto ne L’alba dei morti viventi […], di George Romero, una metafora neanche troppo velata del consumismo contemporaneo, dove orde di zombie si assiepano intorno a un mall (riuscendo infine a entrarvi, spinti da un ricordo o da un istinto al consumo fine a se stesso)» (pp. 55-56).

A proposito di consumo, Rocco Ronchi sostiene che nello zombie è possibile scorgere una “nuova forma di proletarizzazione” che «consiste nella organizzazione del consumo come “distruzione del saper-vivere”, al fine di creare un astratto potere d’acquisto. Come il capitalismo classico si reggeva su di una forza lavoro astratta così il capitalismo postmoderno si regge sulla compulsione al consumo, vale a dire su di un vivente ridotto il più possibile alla sola funzione astratta di consumatore di merci» [R. Ronchi, Zombie outbreak, p. 59] (p. 57).

Nel saggio vengono affrontati i fenomeni della “mediatizzazione dello zombie” e della “zombificazione dei media”. Nel primo caso l’autore fa riferimento a come la figura dello zombie venga prodotta all’interno dei media, dunque a come essa sia un discorso mediatico, nel secondo caso a come gli stessi media possano essere letti come morti viventi.

A proposito della “mediatizzazione dello zombie”, Boni sostiene che lo zombie è una figura costitutivamente mediatizzata derivando da un processo di produzione e riproduzione di testi interni ai diversi media. I morti viventi mediatizzati, continua lo studioso, sono soprattutto “ri-mediati” e “crossmediali”, derivanti dal passaggio dei contenuti di un medium in un altro. Inoltre, la figura dello zombie investe praticamente tutti i generi cinematografici e televisivi e, in generale, tocca tutti i mezzi di comunicazione nelle loro più svariate produzioni, dalla narrativa agli audiovisivi artistici e musicali, dai videogame ai fumetti.

Per quanto riguarda la “zombificazione dei media” l’autore porta alcuni esempi di produzioni audiovisive che palesano tale fenomeno. Nel film Pontypool. Zitto… o muori (Pontypool, 2009) di Bruce McDonald, il contagio si propaga attraverso la trasmissione radiofonica e telefonica: «la zombificazione corrisponde al linguaggio, anzi alla lingua inglese – più precisamente ancora, al significato delle parole inglesi. Per eliminare il virus è necessario uccidere la parola – ucciderne il significato –, ripetendola finché non diviene incomprensibile» (p. 73). Di fatto, ricorda l’autore, tutti i mondi mediati elettronicamente dalle telecomunicazioni tendono ad evocare il soprannaturale ed il mostruoso, abitando, tali media, una zona liminale, tra la vita e la morte, proprio come gli zombie. Se i mezzi di trasmissione delle comunicazioni proiettano oltre il luogo e lo spazio, quelli di registrazione consentono anche di andare oltre il senso del tempo. I media possono allora essere letti come morti viventi.

Secondo lo studioso Erik Bohman (Zombie Media) nelle opere di Romero è possibile individuare la metafora del medium come morto vivente: nei suoi film i media sono mostrati come agenti di zombificazione, dunque come zombie essi stessi. Boni mette in evidenza come La notte dei morti viventi (1968) di Romero giunga nelle sale pochi anni dopo la pubblicazione di Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan, saggio in cui lo studioso canadese sostiene che la specializzazione derivante dall’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate riduce le persone ad automi ed i mezzi di comunicazione elettronici determinano un nuovo tribalismo che si esplicita nella forma del “villaggio globale”. «La notte dei morti viventi ci mostra questo tribalismo nei suoi effetti più devastanti, sia nella sua declinazione nella figura dello zombie (che da poche unità diviene poi una massa minacciosa) sia nella sua articolazione nei sopravvissuti asserragliati all’interno di una fattoria, le cui azioni sono peraltro orientate dalla radio e della televisione, i cui annunci tuttavia nel corso della vicenda perdono sempre più di credibilità e affidabilità» (p. 76).

Nel lungometraggio Le cronache dei morti viventi (Diary of the Dead, 2007) di Romero, «assistiamo alla pervasività (e alla disfatta) dei media: nel film un gruppo di studenti documenta l’apocalisse zombie attraverso le loro cineprese e i loro telefonini, e vediamo spesso immagini tratte da telecamere di sicurezza e altri sistemi di controllo e vigilanza […] Tuttavia, a onta di tutto il materiale di immagini che viene raccolto nel corso della vicenda, i protagonisti sono consapevoli della sostanziale inutilità di quella documentazione. Se già a livello testuale è possibile verificare il delinearsi della metafora dei media come morti viventi – capaci di zombificare i loro consumatori –, a un ulteriore livello di analisi è possibile vedere come la stessa grana delle immagini mediatiche che rappresentano i cadaveri in disfacimento degli zombie restituisca le tracce della loro mediazione e rimediazione, rinvenibili negli effetti di distorsione e negli interventi digitali sulle immagini[…] è possibile parlare di zombie media poiché il corpo dello zombie (reso con tutte queste tecniche) e il corpo dei media (la qualità stessa delle loro immagini) sono connessi metaforicamente in una relazione reversibile. A questa sorta di “ontologia” dei media si unisce una “fenomenologia” dei media, “nella quale i piaceri e le paure associati al guasto dei media sono veicolati dallo spettacolo della disintegrazione del corpo dello zombie”» (pp. 78-79).

I mezzi di comunicazione, esattamente come i corpi umani, si corrompono, sono soggetti all’invecchiamento ed alla decadenza. Inoltre, continua lo studioso, i media divengono presto obsoleti (dead media) e la riattivazione di questi, attraverso processi di manipolazione, permette di farli tornare in vita, come accade agli zombie. «In questo modo, gli zombie media mostrano come degli scarti tecnologici (gli stessi scarti che abbiamo visto costituire uno degli aspetti principali della rappresentazione del morto vivente) possano “tornare in vita”, perché “i media non muoiono mai» (p. 80). Anche i più recenti media digitali sono duri a morire; Angela M. Cirucci (The Social Dead: How Our Zombie Baggage Threatens to Drag Us into the Crypts of Our Past) a tal proposito ricorda come i dati pubblicati sui social network, anche quando si pensa di averli definitivamente cancellati, possano “ricomparire” in contenti imprevisti.

dead-set-poster-09La metafora dello zombie è utilizzata dai media anche per rappresentare il mondo del lavoro dei mezzi di comunicazione. Al fine di indagare tale ambito, lo studioso prende in esame la serie televisiva Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, autore della serie documentaria How TV Ruined Your Life (2001) e della serie Black Mirror (dal 2011). Dead Set narra di un’epidemia zombie che si diffonde sia nel paese che all’interno del cast e dell’equipe che lavora alla realizzazione del reality inglese Big Brother. A partire da tale esempio, Boni «si concentra sulla metafora dello zombie come di un “morto che lavora”, in un’epoca in cui il campo professionale delle grandi imprese mediatiche è sempre più caratterizzato dalla precarietà e dallo sfruttamento. Le “videopolitiche” diventano qui davvero delle “necropolitiche” lavorative, dove la flessibilità, la mobilità e il rischio costituiscono i fattori centrali che presiedono alle pratiche professionali di chi lavora all’interno degli apparati dei media, e delle stesse celebrità – effimere, undead – che vengono prodotte» (p. 10). Nella serie di Brooker tutti sono rappresentati come zombie: i partecipanti al reality, i produttori ed il pubblico sono ormai privi di qualsiasi funzione celebrale. Gli esseri umani sono soltanto propensi al consumo di immagini, carne umana, celebrità a loro volta zombificate.

David McNally (Monsters of the Market. Zombies, Vampires and Global Capitalism) sostiene che nel presentare gli zombie come consumatori compulsivi, molte produzioni recenti hanno finito per celare il mondo della produzione, dello sfruttamento del lavoro e delle diseguaglianze di classe che rendono possibile tale consumo. Dunque, secondo lo studioso, molti film sugli zombie contemporanei si limitano a criticare il consumismo senza mai affrontare di petto il capitalismo a partire dai processi lavorativi che zombificano i lavoratori. La serie Dead Set può essere vista come rimedio a tale limite, visto che oltre al processo di zombificazione dei consumatori dei media, affronta anche quello dei lavoratori dei media.

A ben guardare gli stessi spettatori sono messi al lavoro (labouring audience) e contribuiscono alla produzione dei media. Lo studioso Dallas Smythe (On the Audience Commodity and Its Work) sostiene che il pubblico si sta trasformando in un bene di consumo venduto dai media agli inserzionisti pubblicitari; la tv produrrebbe telespettatori per poi venderli agli sponsor. «Nel capitalismo contemporaneo il pubblico costituisce così la “forma-merce” dei prodotti della comunicazione […] una “merce” molto particolare, che produce da sé il proprio valore: e questa è appunto la teoria della labouring audience, secondo cui il pubblico elabora attraverso i messaggi pubblicitari (ma non solo) la propria ideologia consumistica. La nostra “storia” di consumatori, cioè di pubblico dei messaggi pubblicitari, è molto lunga […] e questo fa di noi non solo un pubblico competente in ordine ai consumi, ma dei veri e propri “stacanovisti” del consumo, una merce che lavora incessantemente per valorizzare sempre più il proprio ruolo – il proprio pregio – di ascoltatori, spettatori o lettori. Con le proprie ricerche sul pubblico, i media non cercherebbero quindi di ottenere prodotti migliori per il pubblico stesso, ma punterebbero a sfruttare quest’ultimo con una vera e propria forma di lavoro» (p. 87).

Visto che le ricerche di Smythe risalgono alla fine degli anni Settanta, alcuni studiosi hanno pensato di aggiornarle facendo riferimento al panorama dei social media contemporanei, ove gli utenti sono divenuti anche produttori di contenuti. «A completare la metafora dello zombie come lavoratore alienato asservito agli interessi e allo sfruttamento dell’industria dei media, abbiamo l’analogo concetto di free labour, dove i riferimenti alla zombificazione sono piuttosto espliciti: gli utenti di Internet sono definiti “NetSlaves” (schiavi della rete) – un riferimento piuttosto sinistro alle origini culturali dello zombie –, e la loro attività costituisce uno “sweatshop elettronico”, in funzione 24 ore al giorno e sette giorni su sette. Altro che consumattori: laddove alcuni amano vedere in queste nuove figure un’élite culturale, altri vi vedono semplicemente un’inedita forma di lavoro proletarizzato, un nuovo, “terrificante mostro”. Il free consumer è uno spettro, un non-morto sfruttato e sottoposto a una nuova forma di governamentalità. E – ciò che è peggio – si tratta di una schiavitù di cui non si è nemmeno consapevoli, dal momento che viene associata a una piacevole attività, spesso svolta tra le pareti domestiche» (pp. 89-90).

In Dead Set, come si diceva, anche i lavoratori intenti alla realizzazione del reality divengono zombie; si tratta di lavoratori in balia di quella flessibilità e precarietà caratteristiche del lavoro e della vita contemporanea che il sistema produttivo degli audiovisivi ha da tempo introdotto. Una ricerca di inizio anni Duemila di Gillian Ursell (Working in the Media), ha messo in luce «come le imprese mediali abbiano di fatto trasferito la maggior parte dei rischi, dei costi e dei compiti di management ai lavoratori stessi, ma si trovino allo stesso tempo minacciate da nuove imprese produttive che impiegano lavoro flessibile sulla base di singoli progetti, magari offrendo migliori condizioni» (p. 93). Dunque, i lavoratori dei media risultano sempre più «sottopagati e sottoposti a un regime di auto-imprenditorialità all’insegna dell’“ognuno per sé”, che indebolisce peraltro i legami tra colleghi» (p. 93).

I lavoratori dei media, del tutto in linea con le politiche neoliberiste, si presentano come una moltitudine di lavoratori ridotti al precariato lavorativo ed esistenziale, obbligati all’auto-sfruttamento, all’auto-commercializzazione, all’auto-formazione, al “presentismo produttivo” anche quando non sono fisicamente sul posto di lavoro (ormai estesosi a dismisura nel tempo e nello spazio), all’identificazione con l’azienda che, masochisticamente, porta ad amare l’essere sfruttati.. «Come gli zombie, i freelance dell’industria dei media sono orde, masse di lavoratori assolutamente sostituibili; come gli zombie, gli stagisti che lavorano nella produzione della reality tv sono stretti in una morsa da parte della stessa reality tv, che li sfrutta succhiando loro le competenze professionali e le energie lavorative» (p. 95). Gli stessi partecipanti ai reality non solo si trovano ad essere le più effimere tra le celebrità, dalla durata sempre più limitata, ma hanno anche rinunciato contrattualmente ad avere vita ed identità proprie. Inoltre costoro incarnano un tipo di celebrità disprezzata dal pubblico borghese che assiste alle loro performance con sufficienza, come di fronte ad un freak show. Sono personaggi visti come reietti, scarti umani… morti viventi.

La metafora dello zombie viene sempre più spesso applicata anche ai personaggi politici messi in scena dai media. A tal proposito Boni si focalizza sulla rappresentazione mediatica del corpo di Silvio Berlusconi. Secondo lo studioso «possiamo vedere come di fatto il campo discorsivo mediatico dello zombie rispetto alla figura politica di Berlusconi si declini nella doppia accezione di body politic e di body politics. La doppia valenza di questa metafora – che restituisce l’immagine di un leader non solo mostruoso carnefice ma anche vittima della zombificazione – la rende particolarmente efficace per restituire diverse caratteristiche di Berlusconi e del “berlusconismo” di questi ultimi vent’anni: il sistematico ritorno alla politica anche (soprattutto) quando dato “politicamente morto”; la “serialità” e la “viralità” della sua immagine caleidoscopica, che contiene e allo stesso tempo contraddice tutte le sue rappresentazioni […]; il “berlusconismo” come commodification e lifestyle politics, “specchio” di un’avvenuta trasformazione socio-culturale dell’Italia degli ultimi decenni; pericoloso e mostruoso cannibale, affamato non solo delle vite dei cittadini ma anche delle carni di donne giovani e procaci; cadavere la cui putrefazione rimanda alla corruzione di un intero sistema politico ed economico; mummia […] che si sottopone a macabre cure per sconfiggere la vecchiaia e la morte; infine, un caricaturale mostro tutto italiano, nel suo farsesco machismo di altri tempi» (pp. 130-131).
Se il leader arcoriano invitava i suoi venditori a considerare il pubblico come una moltitudine di decerebrati guidati solo dal consumo compulsivo di merci ed immagini, il Berlusconi mediatico, mette in guardia Boni, vittima e carnefice al tempo stesso, rischia di uscire di scena “cannibalizzato” dallo stesso popolo-zombie. Si tratta pur sempre di un prodotto dei media e come tale soggetto al consumo.

dead_set222Focalizzandosi sul pubblico si può facilmente notare come, tradizionalmente, questo venga rappresentato come una massa amorfa totalmente acritica. Ciò avviene anche nella serie inglese Dead Set, visto che la metafora dello zombie qua si estende al pubblico che circonda minacciosamente il set ove viene prodotto il Grande Fratello. A tal proposito Boni compara l’attrattiva per il centro commerciale degli zombi de L’alba dei morti viventi di Romero con l’attrattiva per la “Casa” del reality della serie Dead Set: dal consumo dei beni materiali al consumo dei media. Nella serie inglese però le battute tra i personaggi del set circondati dal “pubblico-zombie” denotano la pessima considerazione che il mondo della tv ha dei telespettatori tanto che il “caro vecchio pubblico inglese” viene identificato come un’orda di voraci morti viventi pronti a consumare anche da morti le immagini, i corpi ed i luoghi della televisione.

Secondo Boni le stesse viralità e velocità di trasmissione del contagio, messe in scena da Dead Set, possono essere lette come metafora della facilità con cui si ritiene che i media infettino il pubblico rincretinendolo (zombificandolo, appunto). La questione del “contagio” operato dai media è stata, sin dalle origini, al centro della communication research. Nella cosiddetta “magic bullet theory” i media sono visti come strumenti persuasivi che agiscono direttamente su di una massa totalmente passiva ed inerte. Nella teoria “degli effetti limitati” si sostiene che, tutto sommato, i media si limitano a rafforzare le opinioni che gli individui già hanno. Paul Felix Lazarsfeld, uno dei principali teorici degli effetti limitati, ritiene però sia possibile collegare gli effetti dei media ai tempi di esposizione a cui si sottopone il pubblico; lo studioso affronta l’influenza dei media come si trattasse di un’epidemia tanto da focalizzarsi sull’effetto cumulativo dell’esposizione “contaminante”.
Parallelamente a tali ricerche americane, in Europa si sviluppa la “teoria critica” della Scuola di Francoforte che affronta i media, come l’intera industria culturale, inserendoli all’interno di una più estesa strategia di manipolazione dei cittadini. I Cultural studies anglosassoni, rielaborando la teoria critica francofortese, da un lato limitano la portata manipolatrice dei media e dall’altro affiancano all’analisi del consumo quella della produzione. La Scuola di Birmingham insiste particolarmente sul ruolo attivo degli spettatori.

In epoca più recente alcuni studiosi hanno invece ripreso visioni più apocalittiche; Paul Virilio (Lo schermo e l’oblio), ad esempio, connette lo schermo all’oblio e, ricorda Boni, l’essere un corpo senza memoria è proprio una delle caratteristiche dello zombie. Ad insistere sull’assenza di memoria del pubblico è anche Stefano Tani (Lo schermo, l’Alzheimer, lo zombie. Tre metafore del XXI secolo), studioso che definisce la visione contemporanea un “vedere senza pensiero”. «Il telespettatore è in balia delle immagini che gli vengono somministrate […] “è diventato un utente, cioè qualcuno che crede di usare qualcosa non sapendo di essere usato”. In questa “falsa coscienza”, l’utente televisivo “è un compulsivo consumatore del nulla”. Soprattutto, è un consumatore senza memoria: provvisto al limite di “quella sorta di istinto” che lo fa tornare, da morto – o meglio da non-vivente – al centro commerciale o ai cancelli della “Casa” del Grande Fratello» (pp. 140-141). L’individuo contemporaneo si sottopone anche ad altri schermi oltre a quello televisivo e, sostiene Tani, sul Web esso è privato della propria identità, è uno zombie a cui è stato rubato tutto facendogli credere di poter acquistare.

Boni affronta quel processo che può essere definito di “romanticizzazione dell’audience”, in buona parte costruito sull’idea di “pubblico-attivo” e sulle “capacità critiche del pubblico”. Nel primo caso, sostiene lo studioso, se ci si accontenta del fatto che uno spettatore televisivo “processa ed elabora” ciò che fruisce, allora si è di fronte ad una tautologia; la questione cruciale, come ricorda Roger Silverstone (Televisione e vita quotidiana), non risiede nel fatto che un’audience sia attiva ma piuttosto se quell’attività abbia un senso. Circa i limiti dell’idea di “pubblico-attivo”, diversi studiosi che si rifanno alla cosiddetta “ipotesi dell’agenda setting”, segnalano come se è pur vero che i media non ci dicono che opinione dobbiamo avere, ci impongono però l’argomento, l’agenda, su cui dobbiamo esprimere un’opinione. Secondo tale ipotesi i media sarebbero i principali costruttori di realtà sociale.
Nel caso delle “capacità critiche del pubblico”, «assumere che lo spettatore sia “critico”», secondo diversi studiosi, «non significa per ciò stesso che esso dia una lettura oppositiva del testo mediale fruito, né tanto meno, come vorrebbero alcuni autori, che tale lettura “critica” sia un “atto politico”, in grado di ridefinire codici culturali dominanti in chiave antagonista» (p. 143). Inoltre, secondo alcuni studiosi, focalizzarsi eccessivamente sulla capacità del pubblico di leggere criticamente il contenuto dei media rischia di deresponsabilizzare i media e di far dimenticare il fatto che le pratiche di consumo passivo rappresentano le modalità di fruizione dominanti.

La spettacolarità e la retorica dell’“interattività” contribuiscono a costruire un’immagine falsata del pubblico che in realtà mette in atto spesso un “consumo distratto” dei media. Secondo Landi Raubenheimer (Spectatorship of screen media; land of the zombies?) si può paragonare il consumo automatico di immagini sullo schermo da parte del pubblico, alla “sete di sangue” dei morti viventi che sbranano chi incontrano senza averne necessità. Secondo lo studioso, in molti casi, ci si trova davanti allo schermo senza una necessità specifica e senza consapevolezza.

Volendo insistere sul pubblico-attivo si possono prendere in esame casi in cui il pubblico si è mostrato in grado di appropriarsi dei testi mediatici per farne un uso nuovo e differente. Un caso emblematico a cui fa riferimento il saggio è quello delle zombie walks, quelle sfilate in cui la gente ama travestirsi da morti viventi per mettere in scena l’apocalisse zombie nel cuore delle città, non di rado come forma di protesta, come è accaduto nell’ambito di Occupy Wall Street a New York. «Zombificati dagli orrori del capitalismo e del neoliberismo, i “pubblici-performer” che si impadroniscono delle vie e delle piazze delle città finiscono per mettere in scena in realtà una “de-zombificazione”» (pp. 154-155). Questi morti viventi deambulanti lungo le vie cittadine appaiono come «il perturbante “inconscio” della città, tutto ciò che si cerca di allontanare e che torna per rivendicare quelle stesse strade da cui era stato cacciato» (p. 155).

Molte descrizioni delle zombie walks però, sostiene Boni, tendono a ricordare le retoriche consolatorie diffuse dalle letture “romanticheggianti” dei pubblici di cui si è parlato prima. «Nel loro trarre materiali dall’industria dei media e ri-significarli in senso oppositivo e sovversivo, le sfilate dei morti viventi dovrebbero rappresentare il massimo dell’attività dei pubblici-performer, e tuttavia la loro incapacità di indicare soluzioni alternative a quelle contro cui protestano ci parla di una sostanziale passività, che ricorda da vicino l’eterno presente in cui “vive” – o meglio ancora non-vive – lo zombie. In questo senso, le zombie walks e le zombie parades non sono solo appropriate per il tentativo di movimenti come Occupy di richiamare l’attenzione sull’organizzazione dello spazio urbano nell’epoca del capitalismo neoliberista, ma rappresentano anche un riflesso (forse inintenzionale e inconsapevole?) dell’assenza di una possibile alternativa» (p. 157).

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American Horror (Hi)Story https://www.carmillaonline.com/2016/05/11/american-horror-history/ Wed, 11 May 2016 21:30:17 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29007 di Gioacchino Toni

american horrFederico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 125 pagine, € 12,00

Se da una parte l’immaginario orrorifico gotico è utile alla cultura dominante per potervi sublimare i traumi e le ingiustizie occidentali, riportando «ciò che non vuole (riconoscere di) essere in una dimensione “altra”, immaginaria, dove una realtà fatta di ingiustizie e soprusi viene contraffatta e proiettata nelle figure perturbanti di fantasmi, mostri e altri abominî» (p. 11), dall’altra non viene meno l’aspetto sovversivo del gotico, visto che, [...]]]> di Gioacchino Toni

american horrFederico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 125 pagine, € 12,00

Se da una parte l’immaginario orrorifico gotico è utile alla cultura dominante per potervi sublimare i traumi e le ingiustizie occidentali, riportando «ciò che non vuole (riconoscere di) essere in una dimensione “altra”, immaginaria, dove una realtà fatta di ingiustizie e soprusi viene contraffatta e proiettata nelle figure perturbanti di fantasmi, mostri e altri abominî» (p. 11), dall’altra non viene meno l’aspetto sovversivo del gotico, visto che, «benché contraffatto, l’elemento perturbante torna comunque a infestare la società, suggerendo che l’orrore e il terrore rappresentati potrebbero scaturire da noi, potrebbero parlare di noi» (p. 11).
Il gotico americano non avvalora di certo il mito dell’America come paese di speranza ed armonia e «se il gotico americano ha una sua caratteristica distintiva, forse è proprio quella di porsi come critica a tale mito nazionale, fondato sulla a-storicità e l’innocenza di un intero paese, su un immaginario di purezza ed eguaglianza» (p. 12). Si può dire, secondo l’autore, che il gotico americano recupera quella storia americana che è stata dimenticata o rimossa, dunque intende rendere visibile l’invisibile.

Il saggio di Federico Boni analizza la serie televisiva American Horror Story (dal 2011) individuando in questa una mappatura delle diverse declinazioni dell’American Gothic. Nel primo capitolo del volume l’autore contestualizza la serie all’interno dell’horror televisivo mettendo in luce tanto gli elementi di novità, quanto quelli di continuità, rispetto alla tradizione del gotico televisivo. Vengono dunque analizzati il rapporto tra il mezzo televisivo e la dimensione del perturbante, il panorama dell’horror television a partire dagli anni ’50 e gli aspetti produttivi della serie, come l’aver optato per una scansione antologica ma su base stagionale. Nel secondo capitolo vengono passati in rassegna gli spazi orrorifici che strutturano le diverse stagioni della serie (la casa stregata, il manicomio…) che rappresentano i luoghi ove si concentra l’immaginario perturbante del gotico americano. Si tratta di luoghi in cui si esercitano istanze di potere e, di conseguenza, gli spettri che abitano tali spazi possono essere identificati come “spettri del potere”. Infine, nel terzo capitolo vengono analizzate alcune tematiche affrontate dalla serie.

In American Horror Story ogni stagione ruota attorno ad un luogo specifico e questo è indicato sin dal titolo che identifica la stagione. La prima serie, Murder House (titolazione aggiunta a posteriori), ruota attorno alla casa stregata di Los Angeles ove si trasferisce la famiglia Harmon, la seconda, Asylum, è ambientata nell’ospedale psichiatrico di Briarcliff, nei pressi di Boston, la terza stagione, Coven, è collocata a New Orleans, in particolare in una scuola per streghe, la quarta, Freak Show, si concentra attorno ad un circo itinerante americano nella Florida del 1952, proprio all’epoca della scomparsa di questo tipo di spettacoli. Al momento della stesura del saggio non era ancora stata trasmessa la quinta stagione, Hotel. Ad ognuno di questi luoghi l’autore associa un elemento caratterizzante del gotico: il fantasma (ritorno del rimosso) per l’haunted house, la violenza dell’istituzione totale per l’ospedale psichiatrico, la stregoneria e la caccia alle streghe per la scuola di New Orleans, l’orrore grottesco per le deformità dei corpi per il freak show e la rimozione dei traumi della storia statunitense per l’hotel della quinta stagione.

boni_american_horror_story_cover«La casa stregata della prima stagione di American Horror Story, appropriatamente ribattezzata Murder House, è la “casa stregata dell’America”, il deposito delle violenze e degli orrori di cui si è macchiata la sua storia» (p. 52). Se il gotico europeo, soprattutto inglese, ha scelto di far dimorare i fantasmi soprattutto in castelli, monasteri od antiche dimore, il gotico americano opta spesso per una casa. Dalla Casa degli Usher (1839) di Poe in poi, sostiene l’autore, la haunted house ha assunto un ruolo molto importante nell’immaginario americano. «Nell’immaginario costruito da Poe, Hawthorne e Thoreau prima, e poi da Faulkner, James, Fitzgerald e tutta la schiera di scrittori statunitensi contemporanei, la casa trasforma il sogno americano in un incubo. Un vero e proprio “incubo americano” […] la haunted house americana è davvero il ricettacolo dell’orrore dell’America» (p. 53). E la Murder House della prima serie è stata «edificata sui cadaveri dei nativi, dei neri portati dall’Africa, degli stessi coloni più deboli – quelli sfruttati, emarginati, annichiliti, fantasmizzati. E lo racconta a suo modo, in una ridda di riferimenti alla letteratura, al cinema, alla cultura “alta” e alla cultura pop, che non è puro gusto citazionistico e intertestuale, ma – questa è peraltro la tesi dell’intero volume – una mappatura barocca del topos della casa infestata nel gotico americano, delle sue retoriche narrative e discorsive; un’esplorazione dei sensi di colpa di una nazione seppelliti nelle fondamenta o nella cantina – ma anche nascosti in soffitta – di una casa che vive e si nutre di traumi e violenze del passato e del presente» (p. 54).
I fatti che accadono presso l’istituto psichiatrico di Briarcliff, nella seconda stagione, Asylum, secondo Federico Boni, ricordano le colpe della società americana che ha voluto rimuovere e reprimere coloro che non si sono adeguati ad un ordine sociale puritano, anche se “veri mostri” sono da ricercarsi, sottolinea l’autore, in quei meccanismi di potere che portano l’istituzione totale manicomiale a distinguere tra cittadini dotati di diritti ed esseri privi di essi.

In Coven, terza stagione di American Horror Story, si fronteggiano due tipi di streghe, quelle provenienti da Salem in Massachusetts, cittadina famosa per la caccia alle streghe di fine Seicento, con quelle vudù di derivazione afro-caraibica. A livello narrativo, soprattutto nella parte finale della stagione, lo stile sembra «votato all’eccesso e all’artificio, enfatizzato dagli interni della scuola, dell’elegante dimora di Madame LaLaurie e di altri spazi della New Orleans del presente e del passato, fa da contrappunto estetico a una serie di richiami ad alcuni degli episodi più dolorosi della storia degli Stati Uniti: la “caccia alle streghe”, e dunque la repressione femminile, e la schiavitù. Anzi, qui la stregoneria può essere vista come una vera e propria risposta ai soprusi del potere da parte di una società patriarcale e razzista» (p. 66).

La quarta stagione, Freak Show, ha come luogo privilegiato il circo popolato da corpi deformi e grotteschi. Nella sua analisi, Boni riprende gli studi di Laslie Fiedler (Freaks, Miti e immagini dell’io segreto) in cui viene descritto il passaggio da una lettura del freak come fenomeno divino ad una che vi individua malattie scientificamente definite. «La centralità del passaggio dal regime discorsivo teologico a quello teratologico (e infine, a quello clinico) in Freak Show è evidente sin dalla collocazione temporale delle vicende narrate. La quarta stagione […] è ambientata nella Florida del 1952, quando il “Cabinet of Curiosities” di Elsa Mars è uno degli ultimi freak show presenti nel paese […] i freak di Freak Show sono una razza in via di estinzione: sempre più individui affetti da malformazioni classificabili clinicamente, e sempre meno meravigliosi “scherzi della natura”. Siamo quindi nell’epoca del tramonto di questo tipo di spettacolo, soppiantato soprattutto da una nuova, temibile, concorrente: la televisione» (p. 76). Vale la pena sottolineare come la fine dei freak show coincida con l’avvento della televisione che, per certi versi, rende davvero obsolete tali forme di spettacolo ed al tempo stesso le assorbe all’interno del suo palinsesto quotidiano seppur in nuove forme.

I mostri che compaiono in American Horror Story, tanto quelli tipicamente americani, quanto quelli derivati dalla tradizione europea, sostiene Boni, possono essere interpretati come reificazioni di traumi ed orrori reali. Alla figura del mostro la società tende ad applicare quei valori negativi che le consentono di costruire, per opposizione “altro”/”io”, un’identità positiva. L’autore, riprendendo le riflessioni di W. Scott Pole (Monsters in America. Our Historical Obsession with the Hideous and the Haunting), sostiene che «questi “mostri della storia americana sono reali”, metafore di una serie di circostanze e azioni storiche ben più che mere immagini della letteratura, del cinema o della televisione. Guardare all’America attraverso i suoi mostri offre una nuova prospettiva ad antiche questioni, senza sconti per nessuna di queste. Anzi, la prima vittima di questo orrore è il tanto celebrato “eccezionalismo americano”, che vorrebbe l’America un “Nuovo Mondo” innocente e puro, in grado di insegnare la democrazia in giro per il mondo» (p. 84).

Le figure degli zombie in American Horror Story riprendono la “versione originaria” haitiana che vuole lo zombie non come mostro ma come vittima di chi riporta in vita gli individui riducendoli ad una “schiavitù post-mortem”. Gli zombie di American Horror Story, nel loro «mettere insieme la versione “originaria” del morto vivente con l’estetica della “zombie renaissance” cinematografica e televisiva contemporanea, […] recuperano le attuali metafore dello zombie, che vedono questo “schiavo eterno” come vittima dello sfruttamento, delle nuove schiavitù, delle migrazioni, ma anche come “proletariato inattivo” per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi involontario (come negli zombie della saga cinematografica di George A. Romero)» (p. 86). Se da un lato lo zombie può incarnare la figura della schiavitù, dall’altro, però, incarna anche l’idea di ribellione.

pretend we're deadTrattando la figura del serial killer, che certo non mancano in American Horror Story, l’autore sottolinea come questa, pur derivando da matrici europee, rappresenti una tipicità americana: «l’idea di una sorta di “fordismo” dell’omicidio, un’arte dell’uccidere “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, appunto un’arte dell’omicidio in serie, che riporta tale mostruosità nell’alveo del gotico americano» (p. 87). Riprendendo le riflessioni di Annalee Newitz (Pretend We’re Dead. Capitalist Monsters in American Pop Culture), l’autore sostiene che i serial killer che popolano le vicende narrate da Murphy e Falchuk, «sono “mostri del capitalismo”, la loro brutalità condanna i metodi della produzione capitalistica americana portandoli al loro estremo, arrivando in definitiva alla produzione di massa (in serie) di corpi morti. Il serial killer restituisce una versione gotica e orrorifica del “lavoro morto” marxiano, proiettando sulle vittime i sentimenti distruttivi ispirati dal luogo di lavoro» (p. 88).
Per certi versi, continua Boni, anche il mad doctor è un mostro del capitalismo. «L’“americanità” di fondo di tale figura […] è legata al suo legame col capitalismo statunitense: i dottori della tradizione del gotico americano sono infatti portati alla follia, in parte, perché ritengono di dover lavorare ai loro progetti ininterrottamente, senza pausa, in un lavoro intellettuale che prevede la vendita delle proprie idee a istituzioni professionali. […] In un paese, come l’America, che ha conosciuto una progressiva “proletarizzazione” della professione medico-scientifica, il mad doctor diviene un mostro perché scisso tra manie di grandezza e lavoro alienato; così diviso, non è mostruoso perché devia dalla sua professionalità, ma proprio perché la incarna» (pp. 89-90).

Risulta interessante la parte del saggio in cui l’autore riprende l’analisi di Helen Wheatley (Gothic Television) che, considerando la tv un mezzo gotico, enfatizza il ruolo del televisore di portare l’orrore esterno all’interno delle abitazioni fino a metterlo a contatto con le ansie domestiche. Federico Boni sottolinea che quando «a essere trasmessi sono testi gotici che rappresentano case infestate o edifici inquietanti, in quel caso è possibile parlare di un incontro tra “due case gotiche”: una è quella rappresentata nel testo televisivo, dove la narrazione si ripete serialmente e dove quindi le immagini ritornano – come dei revenants – con cadenza giornaliera o settimanale; l’altra è quella che ospita il mezzo televisivo e dove avviene la visione, e che corrisponde dunque allo spazio domestico e familiare. La televisione diviene così il vero spazio perturbante della casa, un vero e proprio “fantasma in casa”, la soglia che ci porta “ai confini della realtà” e che restituisce una accezione inquietante e perturbante dell’idea della televisione come “finestra sul mondo” e come “specchio” dell’interno (dell’inferno) domestico» (p. 93)

In alcuni episodi di American Horror Story viene enfatizzato il ruolo perturbante ed orrorifico della televisione. Ad esempio, in Coven Madame LaLaurie, riportata in vita negli anni Duemila, nello scoprire la televisione non manca di denunciare come questa sia di fatto basata sull’umiliazione dei suoi “ospiti”, mentre invece in Freak Show, la televisione viene indicata come “l’orrore contemporaneo” e come creatrice di freak. A tal proposito risultano interessanti le analisi di Jon Dovey (Freakshow. First Person Media and Factual Television) sulla reality television, riprese dal saggio di Boni, che evidenziano come tale tipo di programmazione sfrutti il bisogno di esprimere la propria identità da parte di individui che rivendicano con orgoglio il loro essere freak e che sentono la necessità di mettere in scena «l’ordinarietà della loro straordinaria soggettività» (p. 95).

Altra questione su cui si sofferma il volume è quella relativa a diverse figure femminili presenti nella serie; molte delle donne presenti in American Horror Story risultano accomunate da una vita segnata da ingiustizie e sofferenze a cui, però, reagiscono ribellandosi. «In Murder House la stessa haunted house protagonista della stagione è associata al corpo femminile, e di rimando il corpo femminile è associato alla casa […] Il femminile, del resto, è da sempre presente nel topos narrativo della haunted house, soprattutto laddove la donna, a cui è negato lo spazio esterno della vita pubblica, viene relegata negli spazi chiusi dell’ambiente domestico» (p. 97).
Il saggio passa in rassegna anche quelli che definisce gli “spettri della sessualità” soffermandosi in particolare sulla coppia gay dei vecchi proprietari della casa della prima stagione, Murder House, ridotta ad essere una coppia fantasma in linea con la fantasmizzazione, dunque repressione, dell’omosessualità. «E però, lo spettro torna a infestare i vivi: così fantasmizzata, l’omosessualità si ripropone comunque e si impone nel presente e nella coscienza della nazione» (p. 100). In Asylum si fa riferimento anche all’omosessualità femminile; Lana verrà rinchiusa e sottoposta a terapie disumane al fine di “curare” il suo lesbismo.

In American Horror Story è presente anche la questione del razzismo, soprattutto in Coven, tematica spesso presente nel Southern Gothic, in particolare a proposito della segregazione razziale. Boni, a tal proposito, riprendendo alcune considerazioni di Teresa Goddu (Gothic America) evidenzia come le storie narrate dal gotico americano «ben lungi dall’essere storie che ci proiettano in mondi lontani e di fantasia, quelle gotiche sono storie intimamente connesse alla cultura che le produce […] Questo genere registra le contraddizioni della sua cultura, presentando una versione distorta della realtà, ma non scollegata da essa» (p. 101).
Alcune considerazioni interessanti riguardano anche le giovani presenze nell’immaginario gotico. Se storicamente nel gotico non è infrequente imbattersi in giovani “posseduti”, vittime di colpe non proprie, nel panorama del cosiddetto New Teen Gothic, i giovani tendo ad abbandonare il ruolo di vittime per divenire la fonte stessa dell’orrore. Tale cambiamento parrebbe aver ricevuto un netto impulso dai tragici eventi della Colombine High School del 1999.

È nota l’importanza del mito della frontiera all’interno della cultura americana e la stessa serie American Horror Story, a partire dal suo essere una sorta di cartografia del gotico americano, non manca di evidenziarlo. Si intrecciano nelle diverse stagioni itinerari e frontiere di diverso tipo, ad esempio: in Murder House gli Harmon nel trasferirsi da Boston a Los Angeles compiono il medesimo itinerario (da Est ad Ovest) dei pionieri. Facendo invece riferimento all’ospedale psichiatrico della seconda stagione, la (labile) frontiera sembra essere quella tra ragione e follia. In Freak Show la carovana itinerante sembra invece ormai essersi insabbiata nelle paludi della Florida in procinto di essere inghiottita definitivamente dalle sabbie mobili rappresentate dal nascente mostro televisivo.
Chiudendo la disanima, non resta che segnalare un’ultima riflessione proposta dal saggio. L’ossessione americana per il mito dell’apertura offerta dalla frontiera, associata allo spirito chiuso del puritanesimo, nel momento in cui si esaurisce la frontiera storica, a fine Ottocento, implode in una forsennata ricerca di nuovi spazi anche attraverso il ricorso della “furia catalogatrice” che, secondo F. Tarzia ed E. Ilardi (Spazi (s)confinati. Puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano) porterà ad un puritanesimo inquisitorio e poliziesco che dal Proibizionismo conduce alla cacce alle streghe comuniste per arrivare fino ad Echelon ed al Patriot Act: ogni ambito dell’esistenza umana deve essere catalogato ed etichettato.

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