fascisti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 2 https://www.carmillaonline.com/2022/10/09/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-2/ Sun, 09 Oct 2022 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73965 di Emilio Quadrelli

La nuova configurazione del nemico e il superamento del “politico”

Facciamo un passo indietro. Torniamo alle due diverse tipologie di nemico. Abbiamo detto che, il nemico pubblico, può e deve essere ucciso in quanto tale. Il corollario di ciò è che nessun tipo di stigma è necessario per poterlo combattere e uccidere. Il nemico pubblico, per essere ucciso, non ha bisogno di presentare alcun aspetto negativo. Non deve essere forzatamente brutto, malvagio, perverso, cattivo, ecc. A essere colpita è la sua funzione non la sua persona e nei suoi [...]]]> di Emilio Quadrelli

La nuova configurazione del nemico e il superamento del “politico”

Facciamo un passo indietro. Torniamo alle due diverse tipologie di nemico. Abbiamo detto che, il nemico pubblico, può e deve essere ucciso in quanto tale. Il corollario di ciò è che nessun tipo di stigma è necessario per poterlo combattere e uccidere. Il nemico pubblico, per essere ucciso, non ha bisogno di presentare alcun aspetto negativo. Non deve essere forzatamente brutto, malvagio, perverso, cattivo, ecc. A essere colpita è la sua funzione non la sua persona e nei suoi confronti non necessita alcun tipo di odio personale. Le ricadute di ciò non sono secondarie. Non per caso, nel corso delle guerre interstatuali, l’incubo dei Governi e degli Stati maggiori è sempre stata la fraternizzazione. Paradossalmente proprio con il nemico assolutamente uccidibile diventa possibile fraternizzare. Il suo tratto oggettivo lo rende immediatamente convertibile in qualcosa di completamente diverso ma non solo. Perché la fraternizzazione sia possibile occorre che i contendenti si percepiscano reciprocamente come grandezze di pari grado e dignità. Proprio in virtù di tale eguaglianza diventa possibile la trasformazione della guerra imperialista interstatuale in guerra civile rivoluzionaria. La fraternizzazione tra eguali nelle trincee consente di volgere lo sguardo verso il comune nemico di classe. Dentro questa eguaglianza diventa possibile individuare nel Kaiser e nello Czar il nemico comune. Tutto ciò, andando al sodo, ci racconta una cosa: nessun processo di svalutazione è intervenuta nella messa in forma del conflitto. L’oggettività del nemico ne inibisce ogni forma di svalutazione. Nella definizione del nemico non entra in gioco nessun elemento morale. Uno scenario che muta repentinamente quando passiamo dalla figura del nemico pubblico a quella del nemico privato.

Un ladro, un assassino, uno stupratore e via dicendo si portano appresso un quid di negatività morale che rende abbastanza impensabile una qualche forma di fraternizzazione nei loro confronti. Verso questi si potranno avere approcci diversi rispetto alle origini e alle cause dei loro comportamenti ma, ben difficilmente, si potrà pensare di unirsi a loro a meno che non si scelga scientemente di diventare un fuorilegge. Anche in questo caso, però, la scelta avrà ben poco di pubblico. Fraternizzare con una banda di ladri consentirà, tutto al più, di spartirsi la quota di un qualche bottino certamente non la possibilità di delineare un’altra linea dell’amicizia e della inimicizia. Nessun Governo o Stato maggiore si è mai preoccupato più di tanto del fatto che, qualche gruppo di sbandati, potesse aggregarsi a qualche gruppo criminale. Nel caso, la polizia si sarebbe occupata di loro. Il nemico pubblico, come è effettivamente accaduto, può dar vita a nuovi e diversi raggruppamenti politici mentre, i nemici privati, possono, nella migliore delle ipotesi, prima di finire sul patibolo fornire il materiale grezzo per qualche opera letteraria. Al vertice della sua fama, il nemico privato, può aspirare a diventare un eroe di carta mai un condottiero politico.

Sia come sia a essere centrale nella figura del nemico privato è il suo tratto immorale. Un tratto che non può essere pubblicamente tollerabile. Il nemico privato pertanto non è uccidibile ma è bandibile. La sua condizione obiettiva non lo può che porre fuori dal vivere sociale. La polizia, a differenza degli eserciti, non combatte eguali ma coloro i quali sono oggettivamente posti in una relazione di bando. Questi, a differenza del nemico pubblico, non possono essere semplicemente battuti ma, almeno in tendenza, estirpati o, attraverso una certosina operazione rieducativa, resi nuovamente compatibili con l’ordine sociale. Significativo il fatto che, con il nemico privato, non è possibile giungere ad alcuna trattazione e mediazione politica. Il nemico privato non può richiedere alcun armistizio così come non può neppure firmare un atto di resa né tanto meno sottoscrivere un trattato di pace. La sua figura non contempla la possibilità di sottoscrivere alcun atto giuridico formale e infatti il conflitto tra nemico privato e polizia non può mai essere formalmente sospeso ma si reitera in permanenza. Non per caso, mentre gli eserciti diventano operativi solo in determinate circostanze, la polizia non va mai in vacanza. La polizia è continuamente operativa poiché, a differenza del nemico pubblico che diventa tale solo in virtù di una tensione politica eccezionale, il nemico privato può presentarsi in qualunque momento e sotto qualunque spoglia mentre il suo agire non ha nulla di eccezionale ma rientra in una routine tanto prosaica quanto banale. Sullo sfondo delle sue azioni possono esservi tanto il mostrarsi tumultuoso delle passioni quanto delle necessità materiali altrimenti non risolvibili in ogni caso non vi è mai una decisione politicamente determinata. Il nemico privato, in fondo, non ha nemici ma solo avversari che non necessariamente devono essere eliminati. Nella stragrande maggioranza dei casi il fuorilegge, non per caso, uccide solo se vi è costretto mentre, il soldato, è esattamente nato per uccidere. L’uccisione del nemico pubblico è l’unica opzione tra le mani del soldato mentre, per fuorilegge e polizia, questa è solo l’extrema ratio. In sostanza il soldato agisce al solo al fine di annientare le forze statuali o, nel caso della guerra civile, le forze di classe avversarie mentre la polizia agisce per bonificare un ambito sociale. Allo stesso tempo, il fuorilegge, entra in conflitto con la polizia soltanto nel caso in cui, quest’ultima, le si para di fronte guardandosi bene, però, dall’andare a cercarne il contatto ma non solo. Mentre gli eserciti, una volta entrati in contatto, non possono far altro che spararsi addosso l’un con l’altro il fuorilegge, nel momento in cui entra in contatto con la polizia, valuta con estremo realismo se opporvi resistenza armata. Il bandito, prima di mettere mano alle armi (che non necessariamente porta con sé), si fa i conti in tasca considera, cioè, se il reato che ha commesso vale la pena di essere aggravato da un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Sullo sfondo dell’agire del nemico privato vi è sempre, a conti fatti, una dimensione definita da una cornice economica (dare e avere) mentre, a informare l’agire del militare, è sempre una motivazione la cui essenza è determinata da una dimensione politica. Due mondi che palesemente non hanno nulla in comune e che, classicamente, delimitano il campo del militare e del poliziesco. Ciò è tanto più evidente se osserviamo il grado di operatività effettiva che caratterizzai due ambiti.

Realisticamente infatti, le operazioni di polizia non hanno mai termine anche perché i suoi confini sono difficilmente delineabili. Il militare ha di fronte a sé una cornice sostanzialmente esatta dei suoi compiti. Deve, se possibile, annientare la forza del nemico. Una volta portata a termine l’operazione il suo ruolo finisce e la palla passa per intero in mano alla politica. Parte interna e compresa, pur con un certo grado di autonomia, della politica il militare, a un certo punto, non può far altro che ritirarsi lasciando il campo di battaglia nelle mani della politica. È possibile ipotizzare qualcosa di simile per la polizia? Evidentemente no. La polizia non può che essere permanentemente operativa. Del resto, come le retoriche di senso comune sono lì a ricordarci, la battaglia tra il “bene” e il “male” non cessa un solo istante e la polizia, per definizione, non può che incarnare le forze del “bene”. Se, in guerra, il bene e il male possono essere tranquillamente elargiti a entrambi i contendenti o, ancor meglio, le retoriche oggettive della guerra si pongono al di là del bene e del male, nel conflitto tra legge e fuori–legge la bilancia non può che pendere interamente da una parte. Il fuorilegge, nella migliore delle ipotesi, potrà essere compreso, mai giustificato.

La differenza tra hostis e inimicus trova nei differenti trattamenti di prigionia una sua non secondaria esemplificazione. Il nemico pubblico, una volta catturato, non va incontro ad alcun tipo di condanna individuale e tanto meno è sottoposto a una qualche forma di rieducazione socio – psicologica così come la sua biografia non è oggetto di indagine da parte di alcun sapere. In altre parole non diventerà preda di alcun specialista del dettaglio cosa che, al contrario, è parte costitutiva e costituente del modo in cui la società legittima si relaziona con le varie figure che si sono poste dentro una relazione di bando.

Ciò non ha bisogno di particolari spiegazioni poiché, il nemico pubblico, anche dalla parte nemica non è considerato un deviante, un criminali e/o un asociale. Anche nei casi in cui, in virtù del tratto fortemente ideologico assunto dal conflitto, una delle due parti si ponga l’obiettivo di rieducare i prigionieri questa rieducazione avviene pur sempre nell’ambito della sfera politica, ovvero pubblica. Ridotto all’osso, in questo caso, ciò che viene rimproverato ai prigionieri di guerra non è l’aver combattuto ma averlo fatto dalla parte sbagliata. Ciò che diventa deprecabile è l’aver compiuto determinate azioni per un fine sbagliato mentre, crimini di guerra a parte, l’azione in sé non è oggetto di una qualche riprovazione. Il carattere oggettivo della guerra fa sì che l’agire del nemico pubblico rientri immediatamente nella sfera di una legittimità la quale, per entrambi i contendenti, non può essere oggetto di discussione. Per definizione, un soldato, non può essere portatore di tare o problematiche individuali tali da non renderlo compatibile con le leggi di guerra.

Nessun educatore politico, pertanto, si sognerebbe di andare alla ricerca nella storia del soldato prigioniero di un qualche suo trauma infantile, di una qualche difficoltà a inserirsi socialmente o delle ricadute che, l’essere cresciuto in un ambito sociale particolarmente degradato e problematico, possono avergli procurato. Di tutto ciò all’ipotetico educatore politico importa poco meno di nulla. Oggetto del suo lavoro diventa far comprendere al prigioniero il perché combatteva per una parte sbagliata. Nel caso in cui, il prigioniero, si fosse macchiato di qualche atto riconducibile alla casistica dei crimini di guerra la sua sorte sarebbe segnata ma, anche in questo caso, del tutto priva di interesse rimaneva la sua dimensione individuale. L’essersi posto fuori dalle regole della guerra lo rendeva, senza possibilità di appello, il criminale assoluto poiché, contravvenendo alle regole del combattimento, aveva disonorato tanto la forma guerra quanto uno dei contendenti di questa. Infrangendo quelle regole si era posto al di fuori di quella relazione di uguaglianza che di quella forma guerra ne era il presupposto. Il crimine di guerra fa perdere la dimensione propria dell’hostis la quale, in linea di principio, tanto lo rende assolutamente uccidibile quando è forza combattente tanto lo rende intoccabile e non giudicabile una volta catturato.

Le condizioni della prigionia di guerra potranno essere più o meno dure ma, in ogni caso, avranno sempre un tratto collettivo. Significativamente nel momento in cui tra i contendenti si perviene a una cessazione del conflitto armato, attraverso una serie di accordi diplomatici e politici si pongono le basi per un rimpatrio dei prigionieri. Del resto, il prigioniero di guerra, non è soggetto ad alcuna pena e la sua prigionia non ha alcun legame con le azioni da questo compiute. Una recluta catturata il primo giorno di guerra senza aver magari sparato neppure un colpo rimane in stato di prigionia per l’intera durata del conflitto, quindi anche per anni, mentre l’aviatore di un bombardiere che ha causato la morte di migliaia di persone se catturato pochi giorni prima del “cessare il fuoco” rimarrà in stato di prigionia per un lasso di tempo estremamente breve. Nella prigionia di guerra non vi è quindi alcuna relazione individuale poiché non vi sono colpe e responsabilità individuali da scontare.

Ciò che è vero per la guerra interstatuale, nonostante qualche immancabile strascico in più, è applicato anche alla guerra civile. L’Italia, sotto tale profilo, ne rappresenta una delle migliori esemplificazioni. Nel momento in cui, dopo la disfatta del nazifascismo, si operò per la pacificazione del Paese tutti coloro che avevano militato e combattuto tra le file naziste e fasciste vennero amnistiati. A questi non fu chiesto di reintegrarsi socialmente e nessuna scienza umana si preoccupò di investigare le biografie dei singoli. I fascisti, in quanto nemici pubblici, furono trattati né più e né meno che come prigionieri di guerra mai come anormali. L’unica cosa che gli venne imposto fu il riconoscere la sconfitta patita e la proibizione di ricostituire una formazione politica legata alle vicende del passato. Il tutto veniva trattato e risolto sul piano politico. Abbandonate armi, divise e gagliardetti il nemico pubblico cessava di esistere, e quindi di essere combattuto, mentre a nessuno interessavano le dimensioni individuali, quindi private, di coloro i quali si erano schierati con la barbarie nazista. Nonostante la sua mostruosità il nazifascismo veniva pur sempre ascritto al mondo legittimo del politico e, in virtù di ciò, i suoi militanti non subirono alcun processo di svalutazione o di stigmatizzazione sociale sotto il profilo individuale. Nei loro confronti rimase, almeno da parte di una consistente quota di popolazione, una non secondaria stigmatizzazione e avversione politica il che, ancora una volta, rimandava a una dimensione pubblica senza alcuna declinazione alla dimensione privata.

I fascisti o neofascisti che dir si voglia andavano combattuti, in quanto raggruppamento collettivo, per ciò che incarnavano politicamente non per i loro tratti individuali. Assolto o condannato, il nemico pubblico, non può che essere racchiuso in un contenitore collettivo. Nessun nemico pubblico può essere oggetto di individualizzazione. Perché il nemico pubblico possa essere individualizzato e quindi ascritto all’interno della cornice del nemico privato occorre che quel principio di eguaglianza che fa da sfondo a ogni conflitto esistenziale conosca una sostanziale modifica. Occorre cioè che, nella messa in forma della guerra, il presupposto dell’eguaglianza tra forze di pari grado e dignità venga a cadere ossia che, dentro la forma guerra, intervenga un processo di svalutazione. In questo modo tutte le retoriche intorno alla figura dello hostis vengono a decadere. Qua è opportuno fermarsi.

(fine seconda parte – continua)

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Dare a Cesare quel che è di Cesare (e ai sindacati confederali quel che spetta loro) https://www.carmillaonline.com/2021/10/21/dare-a-cesare-quel-che-e-di-cesare-e-ai-sindacati-confederali-cio-che-spetta-loro/ Thu, 21 Oct 2021 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68768 di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, [...]]]> di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, il PD e il governo stesso si sono sperticati gola e mani nell’esaltazione dell’opera di pacificazione sociale portata avanti da CGIL, CISL e UIL e in particolare dalla figura, ormai prossima alla beatificazione, di Luciano Lama in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita.

Mentre si sorrideva, giustamente, della richiesta di Salvini a Draghi affinché il presidente del consiglio contribuisse a riportare la pace sociale in vista delle elezioni amministrative e dei successivi ballottaggi, molti, quasi sempre offuscati da qualsiasi superficiale richiamo alla mistica dell’antifascismo istituzionale, ignoravano o sembravano soprassedere sull’autentica e definitiva dichiarazione d’intenti manifestata dai leader sindacali, “unitari” nel sostenere la necessità di evitare qualsiasi tipo di conflittualità sociale al fine di permettere la ripresa economica promessa dal PNRR.

Certo non è la prima volta che i sindacati della concertazione, uscita pari pari dalla Carta del Lavoro di mussoliniana memoria, chiedono sacrifici e compartecipazione dei lavoratori in nome del supremo interesse nazionale. La storia degli ultimi cinquant’anni ne è piena, ma tale funzione di collaborazione spesso è apparsa più sfumata rispetto alle dichiarazioni attuali.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con le sue “opportunità”, o spacciate come tali ai giovani e alle donne soprattutto, appare come una sorta di novello Piano Marshall, cui è stato paragonato più volte. Un’occasione da non perdere sia per gli imprenditori che per i lavoratori e le lavoratrici e i disoccupati. Discorso che, basandosi sulla promessa della crescita del PIL, dovrebbe annullare qualsiasi altra reazione alle sue reali e differenti conseguenze per i primi e per i secondi.

Come ha scritto l’economista, saggista ed editorialista di Limes, Geminello Alvi: «La percezione del mondo in forma di Pil serve non alla conoscenza, ma alla retorica degli stati. […] Il Pil e i suoi abusi sono il più perfetto esempio […] di omologare chiunque, equalizzandolo alle proprie manie di benessere e di potenza […] Il Pil è un indice della potenza statale, e di una qualche vera efficienza solo in tempo di guerra.»1

Per questo motivo l’idea di reddito netto, che era nata nel Seicento proprio per misurare ed accrescere tale potenza, «evolvette a prodotto o reddito nazionale moderno durante la seconda guerra mondiale, per opera di mediocri burocrati ai quali neppure Keynes credeva[…] E cosa si propone oggi nel tanto dissertare sul Pil? Di renderlo ancora più comprensivo, della felicità e di indici ecologici alla moda. Quando si dovrebbe invece lavorare per restringerlo, indi per limitare l’economicizzazione omologante.»2

Il riferimento a Keynes non è casuale poiché proprio il teorico dell’intervento dello Stato nell’economia finì con l’essere il vero, anche se spesso indiretto, ispiratore delle politiche che finirono col caratterizzare le scelte delle maggiori economie uscite devastate dagli effetti della Grande Crisi o Grande Depressione.
Nella competizione allora in corso per uscire da quegli effetti e per la ridistribuzione di quote importanti del mercato e della ricchezza mondiale, sempre secondo Alvi, sulla base degli studi di Costantino Bresciani Turroni3:

il keynesismo hitleriano funzionò pure meglio del New Deal. Nel 1938 gli Stati Uniti producevano un reddito nazionale del 23% inferiore a quello del 1929, e la Germania hitleriana già nel 1938 aveva raggiunto un reddito superiore del 5% a quello del 1929. La svolta tedesca era certo dipesa dal riarmo che provocò inflazione ma anche da spese pubbliche non troppo diverse da quelle dei borgomastri che negli anni venti indebitarono la Germania: autostrade e stadi. Per non dire degli aumenti salariali4.

Il fatto che la ripresa definitiva dalla Grande Depressione fosse poi giunta soltanto con la guerra (mondiale) non può costituire altro che un corollario delle scelte basate su un incremento gigantesco delle spese statali destinate a “grandi opere” (tra le quali occorre inserire il “riarmo” delle maggiori potenze dell’epoca), maggiori consumi (e quindi maggior produzione di merci) e controllo e uso indiscriminato di risorse umane, naturali ed energetiche.

Lo spesso declamato, ancor oggi da certa sinistra, keynesismo necessita di governi autoritari, oppure per usare un eufemismo “fortemente centralizzati”, spesso imposti attraverso la forza, il ricatto o l’inganno (e spesso da tutti e tre questi elementi insieme), in un contesto in cui: «Fare della statistica il criterio della verità è l’ipocrisia indispensabile di qualunque democrazia, la quale favorisce l’omologazione capitalistica.»5
E se qualcuno si stupisse del sentire parlare di democrazia in un contesto in cui si è parlato anche di nazismo, è sempre utile ricordare il fatto che Hitler andò al potere come cancelliere, nel gennaio del 1933, dopo aver vinto le elezioni del 6 novembre 1932 con il 33,1% dei voti (pur perdendo circa il 4% dei voti rispetto a quelli ottenuti nel luglio dello stesso anno) ed essersi alleato in parlamento col Partito Popolare Nazionale Tedesco (8,5% dei voti e 52 seggi).

In democrazia vincono i numeri delle maggioranze, vere o artefatte che siano, e da lì sembra derivare anche l’alto valore assegnato alle scienze statistiche come strumenti di “verità assolute” (Pil, numero dei vaccinati sulla popolazione, etc. solo per fare degli esempi). Pertanto oggi, anche se spesso il tema è rimosso ed ignorato, a farla ancora da padrone è lo schema keynesiano dell’intervento pubblico in economia, che si tratti di TAV, ponti sullo stretto, riarmo dell’esercito, dell’aviazione o della marina militare, reddito di cittadinanza a 5 (o meno) stelle o altro ancora.

Subissati di cifre e da una girandola di informazioni sulla ripresa o meno dei consumi, sull’aumento o diminuzione dei posti di lavoro, tutte basate su dati spuri e nudi che non tengono conto della qualità dei beni necessari ed effettivamente consumati o dei lavori riproposti a salario ribassato e orario inalterato, precipitiamo in un mondo indifferenziato di cittadini consumatori e utenti di servizi (sempre più spesso privati, ma finanziati col pubblico denaro come accade soprattutto per la sanità) in cui il problema delle “tasse” sembra sopravanzare quelli della “classe”6.

La democrazia rappresentativa, ovvero quella che ci ostiniamo a chiamare “borghese”, si nutre innanzitutto di cifre e se i numeri non ci sono, all’occorrenza, come nel caso dell’attuale governo o di quello Monti, si trovano. Gli utili idioti dei partiti, di ogni cifra e colore, disposti a tutto pur di restare a galla sugli scranni parlamentari, nonostante la presenza di quasi un 60% di cittadini non votanti, delusi, scazzati e arrabbiati, si troveranno sempre.
Talmente idioti da non rendersi conto di come questa ripetuta, ormai, tradizione di presidenti del consiglio non eletti, ma nominati, tutto sommato risalente in Italia fino al primo governo Mussolini, non contribuisce ad altro che a privarli ulteriormente di qualsiasi autorità e funzione reale.

Così, mentre si urla al lupo fascista e si convocano grandi manifestazioni di pensionati antifascisti (Che è…sarà mica che poi vengono quelli e ce decurtano la pensione e i diritti acquisiti. Daje, non pensamoce, cantamo n’altra volta “Bella ciao”…), il settore sindacale che conta ormai il più alto numero di iscritti ma di peso specifico politico ed economico pari a zero, l’autoritarismo si rafforza all’ombra della vulgata democratica e delle coperture finanziarie europee o straniere. Perché, lo si dica con chiarezza almeno per una volta, Draghi sembra ripetere i fasti di un altro “grande statista italiano”: Alcide De Gasperi.

Quello eletto con l’appoggio del Vaticano e del Piano Marshall, cui guarda caso oggi spesso si paragona il Recovery Fund europeo, l’attuale con alle spalle i voti delle burocrazie finanziarie europee e i fondi da distribuire con il PNRR. Entrambi autorizzati ad esercitare la loro autorità e portare a termine un disegno politico in nome di interessi altri da quelli della maggioranza dei lavoratori e dei cittadini meno abbienti. Evviva la ricostruzione! Evviva tutte le ricostruzioni post-belliche e post-pandemiche, sempre a vantaggio di pochi ma ripagate dal sudore, dal sangue (che diciamo a proposito del vertiginoso e vergognoso aumento dei morti sul lavoro?) e dai sacrifici di tutti gli altri, soprattutto se proletari, giovani disoccupati e donne.

Pil docet et impera. Tanto che anche il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, appena celebrato dai media nazionali con lo stesso clamore riservato ai vincitori di medaglie d’oro nelle competizioni olimpiche o paralimpiche, è stato bruscamente messo da parte e dimenticato appena ha osato affermare, criticando in parlamento questa misura delle prestazioni economiche di un paese, che incremento del Pil e lotta contro le cause del cambiamento climatico non possono essere compatibili7. Evidentemente per i soloni della politica e dell’informazione un fisico non può vantare competenze nel campo di scienze economiche sempre più attente al paranormale finanziario che alla quotidianità della vita della specie.

Il sindacato invece può farlo, eccome: basta che dica sempre sì e sia più realista del re nel promuovere la partecipazione dei lavoratori agli interessi dell’incremento del Pil e del capitale privato (spacciato per “nazionale”). Soprattutto se nel farlo invoca, come a Trieste ed ovunque vi sia anche soltanto il fantasma di una lotta, l’intervento delle forze dell’ordine contro i facinorosi, quasi sempre dipinti a prescindere come violenti e fascisti.

Per quanto riguarda la generazione cui appartiene chi scrive, si può tranquillamente affermare che diede una sonora ed inequivocabile risposta a tale scelta, sia a Roma in occasione della cacciata di Luciano Lama, gran promotore delle politiche dei sacrifici e della pace sociale insieme al suo sindacato, dall’Università che sulle scale delle Facoltà umanistiche di Torino, pochi giorni dopo i fatti romani. Era il 1977 e tanto basti per restare dell’idea che proprio ciò è quanto compete ai sindacati confederali, adusi a sedersi al tavolo delle trattative ancor prima di dichiarare scioperi o manifestazioni, per definire in partenza con i funzionari del capitale e dello Stato ciò che sia lecito richiedere ed attendersi.

Atteggiamento sindacal-confederale che, insieme all’opportunismo e alla vaghezza delle proposte politiche della sinistra istituzionale e limitrofa, ha finito col determinare la sconfitta del movimento operaio italiano. Nella riclassificazione del Pil italiano in profitti, rendite e salari, tentata da Geminello Alvi, lo stesso ha scritto:

Nel 2003 ai lavoratori toccava il 48,9% del reddito nazionale netto; nel 1972 era il 62,9%. La quota dei redditi da lavoro dipendente è regredita, ora è circa la stessa del ’51. dell’Italia prima del boom. Il che vuol dire, esagerando in furia del dettaglio, non troppo distante da quel 46,6% che era la povera quota del 1881. Siamo regrediti, e intanto però mi arresterei dal dire altro. Perché so che al nostro lettore verrebbe da eccepire: “ Bella forza, ma di quanto nel 2004bpartite Iva e indipendenti sono più numerosi di trentacinque anni fa? “. Lecita obiezione, che ha tuttavia pronta replica statistica: nel 1971 c’erano 2,13 lavoratori dipendenti per ogni indipendente, nel 2004 sono 2,15. Il che significa che i dipendenti sono addirittura cresciuti in proporzione rispetto a ventiquattro anni prima. Si può dire: la quota dei lavoratori dipendenti è regredita alle cifre di un’Italia della memoria, quella prima del boom8.

Dall’epoca dei dati appena ora citati molta acqua sporca e alluvionale è corsa sotto i ponti: crisi del 2008, ristrutturazioni aziendali, tagli alla spesa pubblica, riduzione dei lavoratori dipendenti o garantiti, trasferimento delle imprese all’estero o in mani straniere, crescita dei settori maggiormente caratterizzati dal lavoro precario e non garantito, automazione sempre più diffusa anche nel settore dei servizi, aumento della povertà assoluta, concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ristretto di mani. Eppure, come al solito, eppure…

Quei dati ci servono, forse ancora di più adesso, per mostrare come il taglio del personale nei settori produttivi, la riduzione dei salari e, per converso, una falsa redistribuzione delle ricchezze basata su “redditi di cittadinanza” ridicoli, se non offensivi per chi ne avesse realmente bisogno, fanno parte di quello stesso processo e stanno alla base delle attuali promesse di ripresa legate al PNRR.

Piano che, nonostante le sonore sberle pur affibbiate al ceto medio e ai lavoratori autonomi, continuerà a poggiare principalmente sull’incremento dello sfruttamento dei lavoratori produttivi e/o a basso reddito. La legge dell’estrazione del plusvalore non è cambiata mai, nonostante tutti gli artifici messi in campo per negarla o giustificarla, in nome dell’interesse nazionale, agli occhi di chi la subisce quotidianamente.

Nonostante le fasulle promesse del segretario della UIL di portare a “zero” le morti sul lavoro e la solita, retorica, citazione delle stesse ad opera di Landini durante la manifestazione romana oppure del presidente Mattarella e del presidente del consiglio Draghi, è inevitabile che gli omicidi sul posti di lavoro siano destinati ad aumentare. Motivo per cui, lasciatelo dire per una volta a chi scrive, sia la richiesta del Green Pass per accedere al posto di lavoro che la “fiera” opposizione alla stessa, in termini di vite dei lavoratori e di qualità del lavoro, non cambieranno nulla. Assolutamente nulla, anche quando si parla della difesa di “posti di lavoro”, in un senso o nell’altro.
La lotta di classe per la liberazione della specie dal giogo capitalistico si giocherà su altri fronti e in altre forme, al di fuori delle logiche confederali, dell’antifascismo istituzionale e delle logiche liberali e individualistiche.
Speriamo, prima o poi, di ritrovarle e, soprattutto, di saperle riconoscere.

Dixi et salvavi animam meam.


  1. Geminello Alvi, Il capitalsimo. Verso l’ideale cinese, Marsilio Editori, Venezia 2011, pp. 31-32  

  2. G. Alvi, op. cit., pp. 32- 40  

  3. Costantino Bresciani Turroni, Osservazioni sulla teoria del moltiplicatore, «Rivista bancaria», 1939, 8, pp. 693-714  

  4. G. Alvi, op. cit., p. 93  

  5. Ivi, pp. 70-71  

  6. Si vedano qui un interessante articolo uscito su Codice Rosso, oltre all’intervento pubblicato su Carmilla sabato 16 ottobre da Jack Orlando  

  7. Si veda qui  

  8. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite, Mondadori, Milano 2006, p. 9  

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Un lavoro da non sfruttare nessuno https://www.carmillaonline.com/2017/01/24/un-lavoro-non-sfruttare-nessuno/ Mon, 23 Jan 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36076 di Alfredo Mignini

9788854894563Perché io potevo mettermi a lavorare per conto mio? Io vado a prendere gli operai? Ho visto i miei amici che andavano a prendere gli operai e vedevo… che litigavano fuori dall’officina. Pàr l’amor di dio! E ho scelto un lavoro da non sfruttare nessuno, da sfruttarmi da solo, ha capito?

[Segnaliamo l’uscita di un libro scritto e curato da Alfredo Mignini, storico specializzato in lavoro autonomo e piccola impresa negli anni Sessanta e Settanta, membro della redazione di Storie In Movimento/Zapruder e dell’associazione Il Caso S. Nel suo volume “Un lavoro [...]]]> di Alfredo Mignini

9788854894563Perché io potevo mettermi a lavorare per conto mio? Io vado a prendere gli operai? Ho visto i miei amici che andavano a prendere gli operai e vedevo… che litigavano fuori dall’officina. Pàr l’amor di dio! E ho scelto un lavoro da non sfruttare nessuno, da sfruttarmi da solo, ha capito?

[Segnaliamo l’uscita di un libro scritto e curato da Alfredo Mignini, storico specializzato in lavoro autonomo e piccola impresa negli anni Sessanta e Settanta, membro della redazione di Storie In Movimento/Zapruder e dell’associazione Il Caso S. Nel suo volume “Un lavoro da non sfruttare nessuno. Storie di vita dalla periferia di Bologna” Mignini riporta, rielabora e contestualizza le voci di dieci soci e socie di ANCeSCAO – l’Associazione Nazionale Centri Sociali, Comitati Anziani e Orti – nate tra gli anni ’20 e gli anni ’50 del ‘900.  Attraverso i ricordi e i racconti orali degli intervistati e delle intervistate l’autore accompagna il lettore in un passato recente che dialoga con lo spazio e il tempo presente, invita a riflettere sui mutamenti  sociali, economici e politici che hanno attraversato le città e le campagne emiliane e inserisce le storie individuali e personali in un universo più ampio, collettivo nella sua consapevole parzialità. Vi proponiamo di seguito la storia di Luisa Maccaferri, uno dei dieci movimenti che compongono l’opera. Buona lettura. s.s.].

6. Luisa Maccaferri

“A. Montanari”, Bologna

Io penso a mio padre, semianalfabeta, riuscire a scrivere con tutti i suoi errori […] queste lettere… questa sua volontà che mi ha trasmesso a me di coltivare il senso del sapere. Mio padre mi diceva: “tu devi imparare sempre a guardarti attorno, a conoscere […] io non ho potuto darti la possibilità di andare a scuola, però se tu vuoi, puoi migliorare te stessa attraverso la lettura”. Ecco io leggendo queste pagine penso all’emozione che può aver provato mio padre a un certo punto, semianalfabeta, a riuscire a scrivere.

Nel varcare la soglia di casa di Luisa cercavo di mettere in ordine le idee pensando alla situazione curiosa e un po’ insolita che si era venuta a creare. Di lei infatti, ancor prima di conoscere il timbro della voce, avevo potuto leggere un diario ricco di riferimenti alla sua vita privata, dai buffi aneddoti d’infanzia ai difficili episodi della quotidianità durante la guerra. Soprattutto, ero consapevole che per trovare risposta alle tante domande suscitate da quella lettura non mi sarebbe bastata una giornata intera. In tutta onestà, non so dire quanto di quegli spunti avrei potuto raccontare nelle pagine che seguono, ma devo ammettere che averli avuti in testa proprio mentre la ascoltavo, con la possibilità di interromperla e approfondire, mi ha permesso di cogliere frammenti che avrei sicuramente tralasciato. O almeno questa è l’impressione con cui sono tornato a casa.

Luisa è nata all’inizio degli anni Trenta in Bolognina, il quartiere operaio per antonomasia — quello con «le più grandi fabbriche famose» — a due passi dal centro storico, da cui lo separano i binari e la stazione, forte di una radicata identità sociale e politica. L’essere cresciuta di fronte all’ingresso del Mercato ortofrutticolo la rende inequivocabilmente una donna di città, come le dico quasi per scherzare, ma lei ci tiene a sottolineare che «le origini della mia famiglia sono contadine». Comunista per vocazione e convinzione, è stata iscritta al partito almeno fino alla svolta che prende il nome dal suo quartiere; suo padre, d’altro canto, era stato arrestato e condannato nel 1938 dal Tribunale speciale di Mussolini «per ricostituzione del Pci, appartenenza allo stesso e propaganda», prendendo poi parte alla Resistenza insieme al figlio. Per tutta la vita, Luisa ha lavorato a fianco di suo marito e sempre in quartiere, prima nella bottega della famiglia di lui e poi rilevando uno dei più noti bar del circondario.

A riascoltare la nostra chiacchierata — sarà per via del diario oppure per la presenza del figlio Andrea — mi rendo conto di aver tralasciato molte cose o di averle date per scontate. Al contrario, lei è convinta di aver detto troppo, come se non fossi andato lì per ascoltarla:

— Però io mi sono resa conto che… mi sono presa troppo spazio. Dovevo lasciarti più spazio alle domande, tu mi dovevi fare delle domande… — Non ti devi preoccupare — la rassicuro io — quando volevo chiederti qualcosa te l’ho chiesto, tu forse non ti rendi conto, ma io ti ho chiesto tante cose…
— No, mi dispiacerebbe che avessi approfittato troppo a parlare dei mie ricordi. — No, no, assolutamente… questo era tutto sui tuoi ricordi! — Sì ho capito, però dovevo lasciare più spazio a te… sei sicuro di aver…?
— Assolutamente! E tu — chiedo — sei soddisfatta?
— Io sì perché tutto quello che ti ho raccontato è tutta verità, perché non c’è niente di fantasia.

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Il mercato ortofrutticolo di via Fioravanti, foto tratta da «Due Torri. Quindicinale di vita bolognese», 5, 30 ottobre 1969.

Tutta circondata dai campi
Più di altri aspetti, mi incuriosiva il frequente richiamo alla mondo contadino e il legame con la terra di cui Luisa si mostra sempre molto orgogliosa. Proprio lei — mi dicevo — che in una sola battuta è capace di restituire un profondo senso di attaccamento al quartiere dov’è cresciuta, con la sua atmosfera fatta di palazzine e cortili, tram e classe operaia: «io sono nata qui, sono vissuta sempre qui e morirò qui… più tardi possibile!», mi dice col sorriso. Mi spiazzava, in realtà, l’idea di pensarla dormire su un letto di paglia o correre scalza sui prati della pianura bolognese, anche se avevo letto che i suoi genitori erano entrambi originari di Argelato e di Castel Maggiore, e che parte delle loro famiglie erano rimaste lì, a lavorare la terra. Quello che forse non riuscivo proprio a capire è che avere una famiglia contadina, in fondo, non era poi neanche così necessario perché lei si sentisse legata alla terra. È infatti la stessa Bolognina che, dietro all’immagine degli operai che timbrano il cartellino e si fanno risucchiare dai rumori degli ingranaggi, nasconde la sua natura di borgata di confine, a contatto diretto con i campi, i fossi e l’odore acre dei concimi. «Devi sapere», mi spiega Luisa,

che adesso voi la Bolognina la vedete così, ma la Bolognina era tutta diversa, […] era tutta circondata dai campi eh, era campagna. Perché pensa che io mi ricordo […] che […] tutto il terreno che fa angolo con via Gobetti e dove ci sono gli uffici adesso del Comune, tutta quell’area lì fino alla Villa Angeletti, dove adesso c’è il bellissimo parco, […] lì era tutto campo.

Ma il rapporto di Luisa con la terra, più che per il quartiere, passa attraverso la famiglia di sua madre che «dalle parti di Cadriano», nella «campagna attorno a Granarolo […] il Gomito, quelle parti là», conduceva un podere «che quando veniva alla fine dell’anno […] dovevano portare al padrone un tot di vino, le oche migliori» e così via. È qui che Luisa viene mandata ogni volta che, per l’estate o le vacanze di Natale, non è impegnata con la scuola. Di questi periodi di «vacanza» conserva ancora oggi «dei ricordi molto belli», perché «la campagna […] mi ha sempre attirato molto [e] poi secondo me è una scuola, perché ogni cosa che tu vedi in campagna ti porta… a me mi faceva riflettere». Mi racconta entusiasta di quando gli adulti lavoravano la canapa, dei gelsi e dei bachi da seta che scrutava ammirata nel retro dei casolari, e dei campi di granoturco e di suo zio che la portava avanti e indietro «col biroccino». Col passare degli anni le visite agli zii si diradano e, infine, con la guerra «non è stato più possibile andare in campagna, perché non ci si spostava più». Il resto è storia nota: i figli dei contadini tentano con ogni mezzo di abbandonare la terra e vanno verso la città, alla ricerca di un lavoro in fabbrica o nel commercio. «[M]olti avevano scelto anche delle altre vie», mi spiega Luisa, e l’esodo rurale sembra uno scenario inevitabile: «anche le famiglie in campagna vennero via perché non è che vivessero tanto bene, perché non erano dei proprietari». Gli zii di Cadriano, comunque, non sembrano intenzionati a lasciare e dopo la guerra, pur di migliorare le proprie condizioni, decidono di spostarsi. Avrebbero infine trovato un podere «in una frazione di San Lazzaro [che] si chiama Colunga», ma questa volta con un regolare contratto di mezzadria.

In campagna — racconta Luisa — c’è sempre qualcosa da fare e per risolvere un inghippo o superare un ostacolo bisogna arrangiarsi, inventare soluzioni dal niente. Mentre la ascolto, ripenso alle pagine del diario dove ha immortalato le scene di suo zio che le costruisce un panchetto per farla arrivare all’altezza del tavolo, o delle mattinate in cucina con la zia a imparare come si chiudono i tortellini. L’arte di arrangiarsi e la possibilità di dare sfogo alla curiosità di bambina fanno sì che Luisa, ogni anno, torni in Bolognina con qualcosa in più, «perché è dalla natura che impari anche tanto a vivere, secondo me». In campagna, d’altra parte, avrebbe anche scoperto, per la prima volta, quei fatti ammantati di pudore di cui gli adulti parlavano sottovoce:

Cosa succedeva? Succedeva che […] questo campo molto vasto di granoturco non era recintato niente ed era vicino ad una piccola stradina bianca, quindi nel caso poteva entrare chi voleva, per dire. Solo che i miei zii si erano accorti che le coppiette… cosa facevano? Si introducevano nel campo di granoturco e andavano a far l’amore là, per cui rovinavano attorno le piante […], per il contadino anche solo una pannocchia faceva la differenza… e allora io tutte le sere, nel periodo appunto […] che le pannocchie erano già abbastanza grandine, a un certo orario gli zii — che dopo lungo lavoro si sedevano davanti casa dove c’è l’aia, si fumavano il toscano, programmavano il lavoro del giorno dopo — a un certo punto qualcuno — [con] quel mezzo chiarore che il sole è già quasi tramontato e sta per scendere la sera ma che c’è quella, come devo dire, quella piccola luminosità che a me piaceva tantissimo — e vedevo lo zio che tutte quelle sere prendeva un forcone e si avviava verso i campi di granoturco. Ma io, pff… non è che ci facessi caso. Però una sera lo zio […] andava a controllare, però vedendo che […] stava per venire il temporale, si vede che lui fece il pensiero di dire “non ci sono quelli lì”… e con me dice: «vuoi venire? Andiamo a vedere se ci sono i ladri di pannocchie!», la stessa frase eh! contenta io, via… corri corri con lo zio. Arriviamo al campo, mio zio mi dice: «aspetta un momento», mio zio si inoltra nel campo… dopo un po’ sento delle grida: “oddio cosa è successo?”, io penso. Velocemente vedo sbucare dal campo un ragazzo… un uomo e una donna insomma, abbastanza succinti, capito? Si capiva che i vestiti erano messi di fretta e furia [e] dietro lo zio col forcone, gridava…

Una famiglia operaia e antifascista
«Mio papà era un tranviere… è stato il primo, diciamo così, comunista», mi spiega orgogliosamente Luisa, cioè «ha fondato la prima cellula comunista dentro l’azienda del tram». L’azienda del trasporto pubblico, fra le due guerre, è infatti uno degli snodi del movimento operaio e antifascista bolognese e svolgere attività al suo interno significa quasi sicuramente esporsi alla repressione del regime. Lo sapeva bene il padre di Luisa, Vincenzo, che già prima di allora ha subìto «varie aggressioni da parte dei fascisti per gli aperti atteggiamenti d’opposizione», come riporta il dizionario biografico dei partigiani bolognesi. Comunista della prima ora e già noto alle forze dell’ordine, viene scoperto e arrestato mentre organizza una sottoscrizione in aiuto dei combattenti della Guerra civile spagnola:

In quel periodo c’era la guerra di Spagna e fecero una sottoscrizione per tutti quelli che erano degli antifascisti, dei socialisti… […] per aiutare chi era andato a fare la guerra di Spagna per liberarsi dal giogo della dittatura. Qui nella Bolognina c’era i fascisti che imperversavano e c’era tra l’altro la famosissima OVRA, che erano le spie […] fatte apposta da Mussolini per controllare queste cose. Morale della favola: mio papà una mattina smonta dal servizio e fu arrestato. Ed esattamente fu arrestato nel 1938, quindi io ero piccola, io ero del ’31. Poi mio papà […] per sei mesi non sapevamo dov’era, non ci avvertivano di niente.

Viene recluso per alcuni mesi a Castelfranco Emilia per poi essere trasferito a Roma, dove viene celebrato il processo nel giugno del 1939. La sentenza del Tribunale lo condanna a cinque anni di carcere più due di vigilanza speciale:

Poi, quando loro stabilirono che lo avrebbero mandato a Roma e ci sarebbe stato il processo, ci concessero di vederlo e io ho ancora l’immagine di quella stanza, dopo sei mesi, a rivedere mio padre emaciato [che] portava i segni delle bastonature, quest’uomo che si teneva solo i pantaloni perché gli avevano tolto tutto, gli avevano tolto la cintura, gli hanno tolto i cordonetti delle scarpe…

Scontati i primi cinque anni, nel 1943 torna a casa con l’obbligo «di andare a firmare dai carabinieri tutte le sere». Dopo qualche mese, tuttavia, è di nuovo in contatto con i vecchi militanti e prende parte all’organizzazione dei primi gruppi combattenti. Come molti suoi compagni che avevano conosciuto i tribunali e le carceri fasciste sulla propria pelle, avrebbe ricordato il periodo di detenzione come un momento di straordinaria maturazione politica, non da ultimo per i contatti con i più alti esponenti dell’antifascismo italiano:

Lui […] mi ha sempre detto che cinque anni […] è stato come fare l’università… ma è vero perché mio papà, venendo dalla campagna, lui aveva soltanto la seconda elementare. […] nel periodo che mio papà era in carcere, furono arrestati i grandi che poi fecero la Costituzione […] lui ha avuto la possibilità di stare in carcere con persone come Pertini! Perché poi Pertini era socialista, Pertini è riuscito a evadere dal Regina Coeli insieme a un suo compagno che poi lui fuggì in Francia. Quindi c’erano, in quel periodo che era incarcerato mio padre, […] c’erano quei personaggi che contavano moltissimo… c’erano tutti perché poi non furono arrestati solo dalla parte dei comunisti, c’erano anche degli altri, che erano dei liberali, erano della gente che però sentivano la necessità di formare un nuovo Stato. E io questo me lo ricordo e mio papà mi ha sempre detto: «io l’università l’ho fatta a Regina Coeli». E, delle volte. quando si diceva “ah sei stato… ah te babbo quando eri in galera…?”, non voleva [che] noi dicessimo… lui diceva: «non è vero, io non sono andato in galera, io sono andato all’università, perché se oggi io posso leggere e scrivere, lo devo al carcere!».

Anche Luisa ricorda la reclusione del padre come un momento molto importante, benché durissimo, di crescita personale: «da lì io ho imparato molto, ho imparato a sviluppare il mio carattere in un certo modo». Quando le chiedo di parlarmi di come ne è finalmente uscita, mi spiega che in quei cinque anni la famiglia è precipitata in una situazione economica disastrosa: «la mamma […] Marianna […] con quella cosa lì si ammalò di cuore», mentre lei è ancora troppo piccola per lavorare. L’ATM3 non è certo stata d’aiuto — anzi, «non ci diede [niente]… guarda caso [il babbo] doveva ritirare lo stipendio, non ci diedero nemmeno lo stipendio. Morale che noi rimanemmo così, come si suol dire, in braghe di tela, non avevamo una lira» — mentre la sorella maggiore, «che faceva la sartina, [è diventata] praticamente il capofamiglia» e suo fratello Enzo, che a quel tempo «faceva le Aldini» è stato costretto, «con grandi sacrifici, [a] interrompere perché non c’era più nessuna possibilità» di sostenere i suoi studi. In poco tempo trova da lavorare come fattorino alla Calzoni, una grande aziende metalmeccanica della città, ma nonostante tutti gli sforzi, «le entrate erano molto misere». È per questo che Luisa, finché può, se ne sta a Cadriano dagli zii:

Ché io là potevo mangiare qualcosa […] invece qua non si mangiava niente, si moriva di fame! Perché c’era la tessera che ti dava quel po’ di sopravvivere, e poi c’è quel problema che noi non avevamo soldi… perché molti hanno superato la guerra in un modo diverso, nel senso che c’era il mercato nero, però ci volevano dei soldi, perché il mercato nero era terribile: […] se avevi dei soldi trovavi al mercato nero, altrimenti non facevi niente!

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La Bolognina in guerra
Fra città e campagna la cesura è netta, e nel ricordo di Luisa viene accentuata dall’atmosfera idilliaca di cui è avvolto tutto ciò che ruota attorno al mondo contadino. Vista con gli occhi di una bambina, infatti, la vita degli zii contadini procede secondo i ritmi lenti di una vita serena, al riparo dalla guerra. In città, infatti, fra l’estate e l’autunno del 1943, il fronte si avvicina e, chi può, sfolla cercando rifugio nei paesini della “bassa”.

Per Luisa, al contrario, le bombe rendono sempre più difficile i suoi spostamenti verso Cadriano: «io non sono mai andata via di Bologna, da qui, anche nel periodo della guerra, ché la Bolognina era un cumulo di macerie eh… non c’era niente, non avevamo docce, non avevamo gas, non avevamo assolutamente niente». Non sono molte le famiglie che rimangono a vivere in quartiere e chi lo fa, per scampare al pericolo, dorme in cantina: «bombardavano anche di notte coi bengala», mi racconta infatti Luisa, perché «essendo la Bolognina così vicina alla stazione» si era subito trasformata in «un obiettivo [per] gli aerei». Ma la campagna non è sempre un luogo sicuro e l’anno successivo, dopo il pesante bombardamento di metà ottobre, sono i contadini a cercare riparo in città:

Siccome che questi delinquenti qui dei tedeschi razziavano […] nelle nostre campagne, portavano via le mucche ecc., allora molti contadini cosa fecero? Portarono gli animali, le bestie, qui a Bologna, in città. In modo particolare, per esempio, in Frassinago […], che non è molto lunga, però di qua e di là all’interno c’erano dei cortili, com’è famoso a Bologna, perché a Bologna vecchia ci sono […] tutti i cortili e lì parcheggiavano i contadini, allevavano lì le bestie perché le avevano messe al sicuro […].

Il fratello Enzo, intanto, col nome di battaglia “Macca” è diventato commissario politico del battaglione “Ciro” della brigata “Irma Bandiera”4. Vincenzo, invece, è «stato segnalato di nuovo come antifascista» e un po’ per questo, un po’ perché «aveva necessità», si fa ricoverare al Collegio San Luigi, «uno dei collegi dove la grande borghesia di Bologna mandava i figli a studiare». A seguito dei bombardamenti, però, la struttura era stata requisita e diventa un rifugio per feriti e combattenti: «lì, sotto al San Luigi», mi spiega infatti Luisa, «c’era una cellula partigiana che operava e ricoverarono lì mio papà per tenerlo un po’ nascosto». Da sempre «innamorata» di suo padre, me la immagino che cerca di passare più tempo possibile con lui, ora che finalmente è tornato a Bologna. «[P]rendevo da qui, da sola, e andavo al San Luigi», mi racconta entusiasta, «e stavo con mio papà tutto il giorno»:

Allora mio papà diceva: «quando suona l’allarme vai giù, vai nel rifugio». La prima volta che andai giù, feci questa scoperta, che il rifugio serviva anche come camera mortuaria. E io mi trovai nel rifugio vicino a già dei morti, già che quando camminavi per le strade li vedevi morti, bombardamenti tutti… quindi io ho conosciuto la morte in quella maniera lì.

Pochi giorni prima del 21 aprile, quando la città viene liberata dalle truppe alleate e dalla brigata “Maiella”, il commissario “Macca” «sparì e non sapevamo dov’era, ma stavano organizzando la liberazione»:

Ricordo il 21 aprile, la liberazione di Bologna, piazza dell’Unità, [il] passaggio di tutti i carri armati che ti buttavano le caramelle, i polacchi […] io ero andata all’ospedale a prendere mio padre perché finalmente veniva a casa… e buttavano queste manciate, caramelle, cevingum, che io non sapevo neanche cos’era il cevingum… però io non l’ho presa la caramella! Non l’ho voluta! Guardai mio padre, mio padre non mi disse niente eh, non mi disse: “prendi”… Come? Fino a ieri ci avete buttato giù le bombe e oggi mi date la caramellina? No! […] Magari ho sofferto a rifiutare la caramella, ma io non ho preso la caramella, io non sono una scimmietta ad andare a raccogliere la caramella per terra!

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Bagliori. Romanzo di formazione per giovani fascisti (alla vigilia del massacro) https://www.carmillaonline.com/2016/08/27/32850/ Fri, 26 Aug 2016 22:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32850 di Giovanni Iozzoli

cover_bagliori_Leggere Bagliori di Felice Carosi (Mondadori, 1941) dà l’effetto straniante di certi racconti di fantascienza, in cui ci si ritrova catapultati in un universo parallelo nel quale persone, eventi e ambientazioni sono identici alla realtà, ma ogni cosa risulta completamente rovesciata di senso. Una sensazione vertiginosa, per il lettore odierno. Questo perché il libro è stato pubblicato nel 1941 ed è una specie di “romanzo di formazione” dedicato all’educazione del giovane fascista, nell’Italia appena entrata dentro la seconda guerra mondiale, piena di criminali illusioni.

Potremmo definirlo romanzo ideologico-sentimentale, in cui [...]]]> di Giovanni Iozzoli

cover_bagliori_Leggere Bagliori di Felice Carosi (Mondadori, 1941) dà l’effetto straniante di certi racconti di fantascienza, in cui ci si ritrova catapultati in un universo parallelo nel quale persone, eventi e ambientazioni sono identici alla realtà, ma ogni cosa risulta completamente rovesciata di senso. Una sensazione vertiginosa, per il lettore odierno. Questo perché il libro è stato pubblicato nel 1941 ed è una specie di “romanzo di formazione” dedicato all’educazione del giovane fascista, nell’Italia appena entrata dentro la seconda guerra mondiale, piena di criminali illusioni.

Potremmo definirlo romanzo ideologico-sentimentale, in cui ogni parte della narrazione è verosimile e racconta scenari storici reali ma il giudizio di valore che offre su di essi è perfettamente sovvertito. I “rivoluzionari” sono i fascisti, gli infami assassini sono i rossi, la rivoluzione fascista è la vera emancipazione dei poveri e degli oppressi. Sì, perché il libro, probabilmente destinato alle diverse agenzie di formazione dei giovani (la collana Mondadori è: “Bibliotechina della G.I.L. – Gioventù Italiana Littorio), puntava a un preciso target di lettore: la gioventù proletaria di recente alfabetizzazione. I ragazzi piccolo borghesi non avrebbero mai potuto identificarsi con il protagonista, un giovane miserabile che fa la fame, figlio di un proletariato rurale che vive di stenti e umiliazioni nelle campagne laziali degli anni ’20. È povero il protagonista, sono poverissimi i suoi amici e il suo ambiente. È ferocemente antipopolare il contesto dell’Italia liberale pre-fascista.

Nell’adolescenza il giovanotto entra in contatto in modo spontaneo con l’attivismo rurale socialista e ne subisce i perfidi inganni: i socialisti sono descritti come ammaliatori dei poveri e degli ignoranti, guidati da intellettuali avidi che non hanno voglia di lavorare e strumentalizzano la miseria per i loro loschi interessi. I rossi sono tutti vigliacchi, attaccano in gruppo, devastano, minacciano – sventrano anche a coltellate un povero somaro, così tanto per ridere. E alla fine organizzano pure un attentato dinamitardo che ammazza per sbaglio la povera madre del protagonista (stragisti turatiani!).

Chiaro che se gli ammazzi la mamma, la fede del giovanotto nel socialismo comincia a vacillare. Appena possibile entra in fabbrica e diventa tornitore provetto. «Da due mesi lavoravo al tornio… non so dire la gioia che mi prese quando il sor Mario, il padrone, mi disse: tu, Berto, domani passi al tornio, se sei bravo non ti muovo più… E ora da una settimana il mio tornio era fermo. Mi attendeva lì ed io non potevo andare da lui. Sciopero generale? E perché… per mangiare a sbafo le giuggiole e lo zucchero nelle botteghe svaligiate?». E lì, davanti alla protervia e all’insensatezza degli scioperi, il protagonista ha la conferma definitiva che i socialisti sono in realtà i veri nemici del popolo (e mangiatori a sbafo di giuggiole). Il ragazzo, pieno di disillusioni, fa la valigia e si trasferisce quindi a Roma.

Il biennio rosso è alle spalle, la marcia su Roma ormai imminente, l’intensità e la violenza dello scontro di classe non vengono taciuti dall’autore. Sul crinale di quegli anni sembrano confrontarsi tre mondi: ferrotranvieri e spazzini scioperati che vogliono la distruzione d’Italia, un manipolo di arditi e coraggiosi, di cui il protagonista aveva solo sentito parlare e che impara a conoscere proprio a Roma come “fascisti”, e poi la gran massa degli ignavi che aspettano solo di capire da che parte buttarsi. Boicottare gli scioperi, sostituire gli scioperanti, tenere aperte le officine e i servizi pubblici, diventa azione politica eminente. «Altri nostri compagni guidavano treni, conducevano trams, adoperavano con santa pazienza il santissimo manganello a rinsavire i traviati e la triplice oncia di olio di ricino per purgare il passato».

L’assalto al quartiere rosso San Lorenzo viene descritto con pathos e crudezza, ma anche qui il giudizio storico è rovesciato: non sono i fascisti ad attaccare il bastione nemico, ma è la gentaglia del quartiere ad attirare in trappola le valorose forze nazionaliste che vogliono solo celebrare la tumulazione di Enrico Toti, facendone sfilare le riverite spoglie in tutta Roma. Dopo i primi scontri, i «vili agguati» dalle finestre di San Lorenzo, le «megere che rovesciano olio bollente e ogni suppellettile sui manifestanti», questi ultimi con eroismo marziale e sprezzo del pericolo espugnano il campo nemico, cioè il Rione.

Qui l’autore non nasconde niente: i giovani devono percepire, attraverso le pagine, la crudezza della lotta. La “battaglia per il riscatto nazionale” è roba di pistolettate e morti ammazzati (e anche qualche megera lancia-olio virilmente defenestrata) .

Per la cronaca, la “battaglia di San Lorenzo” che l’autore celebra, viene invece raccontata in tutt’altro modo dalle fonti opposte dell’epoca: i fascisti si squagliarono, le violenze contro il quartiere vennero perpetrate principalmente dalla Guardia Regia e dai Carabinieri. Comunque, al di là dei miti e delle versioni, quello che l’autore vuole evocare nei giovani lettori di allora è il “sapore acre” della Guerra: l’irriducibile nemicità, la necessità della distruzione dell’avversario disumanizzato – nel ’21 nemico “interno”, venti anni dopo nemico “mondiale”.

Curiosa la storiella sentimentale che si intreccia alla vicenda storico-politica: il poverissimo contadino inurbato è da sempre innamorato della figlia di un ricco proprietario e insegue questo amore impossibile, fortemente idealizzato, fino all’età adulta. Però essendo un romanzo di formazione fascista, questa storia di amore di classe non può contrapporre i ricchi ai poveri, come ci si potrebbe aspettare: il proprietario è un buon borghese, generoso e sensibile, che appoggerà la “rivoluzione nazionale” e prenderà il ragazzo sotto la sua ala protettiva. En passant, la ragazza oggetto di cotanto amore morirà di malattia in quei giorni convulsi – ma intanto s’avanza la Rivoluzione Fascista e (che vuoi mai?) la vita va avanti.

Qualche annotazione, sorge spontanea, per provare a capire bene i dispositivi narrativi del Regime e come ci si aspettava che essi funzionassero nella testa dei ragazzi. Innanzitutto la retorica pauperista, quasi di classe, che ricordavamo all’inizio, indirizza il racconto verso una certa platea, ma funge anche da promemoria sulle ragioni storiche del Fascismo, il suo presentarsi come “raddrizzatore di torti” per i figli negletti della Grande Proletaria.

La storia è lineare, i personaggi espliciti (come si conviene a un libro “educativo”) e nonostante lo stile ampolloso e retorico, naturale in un paese totalmente soggiogato dalla estetica letteraria dannunziana, tutto sommato accurato, leggibile, buono per quell’esercito di “mediatori culturali” (insegnanti, quadri di partito, dirigenti delle organizzazioni giovanili) che dovevano invitare e accompagnare alla lettura i giovanotti in camicia nera, poco avvezzi alla carta stampata.

Altro elemento che salta agli occhi: il libro è stato scritto per ragazzi che sono cresciuti dentro il fascismo-regime, che quindi non hanno memoria del fascismo-movimento, in un paese già imborghesito da quindici anni di potere assoluto di Mussolini – quel potere che sta per spedire al massacro, in Russia o in Africa Orientale, proprio quegli stessi giovani. La narrazione assume quindi una funzione evocativa e ri-evocativa, deve stimolare la memoria “rivoluzionaria” del fascismo (che i giovani non conoscono) e risvegliare il clima di battaglia che inevitabilmente dovranno affrontare. È come se l’autore volesse dire ai giovani del 1940: “attenti, giovanotti, occhio che veniamo da moschetti, squadracce e coltelli, questa è la nostra storia e lì tra un po’ bisognerà tornare, sui teatri di battaglia della Storia. Che sia San Lorenzo o la steppa russa, poco cambia. La vita è Guerra, ragazzi”.

Curiosamente nel libro i “comunisti” praticamente non vengono mai citati e un ragazzo del ’41 che leggesse queste pagine, potrebbe pensare che in Italia non siano mai esistiti. La polemica e l’odio sono tutti riservati al Partito Socialista, dipinto (ancora venti anni dopo!) come una masnada di assatanati bolscevichi, forsennatamente impegnati nella distruzione d’Italia.

Quando il sig. Carosi scrive questo libro – a cavallo tra gli anni ’30-’40 – sono ormai divampate le fiamme della grande tragedia europea. I fascismi stanno rovesciando sull’Europa un fiume di sangue inarrestabile. La macchina della propaganda doveva girare in modo massiccio e questo romanzetto, come migliaia di altri prodotti editoriali, teatrali, filmici, fu uno dei tanti piccoli ingranaggi che fecero girare quella macchina implacabile.

Il libro, insieme ad altri pezzi simili, è l’eredità di un mio parente che raccattò questi esemplari editoriali dentro qualche scuola bombardata o in qualche sede ex-Gil abbandonata. Lui era un esponente storico della dinastia di bidelli-invalidi che accompagnarono gloriosamente il passaggio dalle scuole del Regno a quelle della Repubblica; un lignaggio di bidelli semiparalitici – troneggianti nei corridoi come numi tutelati eternamente seduti, che collezionavano ogni detrito della storia educativa: vecchie lavagne, vecchi registri, vecchi libri destinati all’edificazione della gioventù. Monumenti nullafacenti e un po’ cleptomani, che con la loro sola presenza, provvedevano a smussare ogni marzialità fascista – o autorevolezza democratica – delle nostre istituzioni scolastiche, nell’arco di un secolo.

Dell’autore, non ho trovato grandi notizie biografiche, scrisse qualche altro libro per Mondadori, catalogato come letteratura per ragazzi. Provò col cinema, ma un film bellico alla cui sceneggiatura aveva collaborato, si arenò nel ’43 per le note vicende politiche italiane. Quel nome – Felice Carosi – tornerà a galla nel ’67, quando viene insignito del titolo di Grande Ufficiale al Merito della Repubblica. Niente di più normale che un intellettuale fascista si riciclasse in qualche commissione Rai o chissà quale altro ente parastatale di cultura e comunicazione. Non scavo ulteriormente per capire se si sta parlando della stessa persona. Pace all’anima sua e amen.

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