fasce di contenzione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La più miserabile delle arti https://www.carmillaonline.com/2021/11/18/la-piu-miserabile-delle-arti/ Thu, 18 Nov 2021 21:30:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68950 di Gioacchino Toni

A distanza di quasi un decennio dalla sua prima uscita, ricompare sugli scaffali delle librerie, in una nuova edizione, il volume di Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale (elèuthera, 2021) [su Carmilla] ove, nel suo caratteristico alternare racconti di esperienze umane e professionali vissute direttamente e riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni o da letture di vario tipo, l’autore passata in rassegna l’ombra lunga del manicomio fisico proiettatasi ben oltre le chiusure sancite dalla Legge 180.

Dopo la chiusura dei manicomi tradizionali è con il ricovero presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura [...]]]> di Gioacchino Toni

A distanza di quasi un decennio dalla sua prima uscita, ricompare sugli scaffali delle librerie, in una nuova edizione, il volume di Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale (elèuthera, 2021) [su Carmilla] ove, nel suo caratteristico alternare racconti di esperienze umane e professionali vissute direttamente e riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni o da letture di vario tipo, l’autore passata in rassegna l’ombra lunga del manicomio fisico proiettatasi ben oltre le chiusure sancite dalla Legge 180.

Dopo la chiusura dei manicomi tradizionali è con il ricovero presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura che l’individuo inizia la sua carriera di “malato di mente”, di dipendente/utente della “fabbrica della cura mentale”. Condotto in stato di agitazione in una di queste strutture, viene lì trattenuto, facilmente obbligato a una terapia sedativa e, quando ritenuto necessario, legato al letto. Se il malcapitato non si “normalizza” velocemente rischia di essere obbligato a soggiornare per qualche tempo presso qualche Casa di cura convenzionata. Una volta riammesso in società, non è difficile aspettarsi che, vista la sostanziale impossibilità di ricevere aiuto domiciliare, il paziente torni presto a essere ricondotto presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, dunque a riprendere il percorso dal suo inizio.

È così, sostiene Cipriano, che funziona la “fabbrica della cura mentale”: una fabbrica che ha il suo direttore (il primario) che controlla il buon funzionamento della catena di montaggio umana coadiuvato dai tecnici specializzati (gli psichiatri) con il malato recepito come la macchina biologica da riparare non attraverso la parola, la relazione e un po’ di umanità, ma soprattutto per via farmacologica.

Uno spazio importante all’interno del libro Cipriano lo dedica al perdurare della pratica del legare i pazienti con disturbi psichici, nonostante la chiusura dei manicomi tradizionali e il suo non comparire nei libri di psichiatria. Ciò avviene sicuramente a causa di carenze legislative, oltre che per la sua “economicità” ma, sottolinea l’autore, a permettere tutto ciò sono soprattutto l’etica e la cultura degli operatori che continuano a farvi ricorso.

Il volume uscito nel 2013 ha avuto, tra gli altri, il merito di contribuire a riproporre, non solo tra gli operatori, “il problema della contenzione”. La questione resta di estrema attualità, come sottolinea Cipriano nell’introduzione alla nuova edizione, anche alla luce di alcuni eventi recenti che danno il polso della situazione. In particolare l’autore si sofferma su come la forma narrativa di un libro come L’arte di legare le persone, scritto da Paolo Milone, psichiatra ormai in pensione, abbia ottenuto un certo consenso persino tra “intellettuali insospettabili”, «capaci di applaudire a questa malafede psichiatrica camuffata da gesto narrativo. Intellettuali convinti che siccome la letteratura è letteratura, in quanto tale deve poter dire tutto. […] La letteratura d’altra parte è magica, e ha il potere di muovere gli eventi e far rinascere, come zombie, certe pratiche che credevamo di aver seppellito. Come ogni magia la letteratura può essere bianca oppure nera, quando la letteratura riesce a persuadere che legare le persone è un’arte, io dico che è una sorta di magia nera».

Per farsi un’idea del regresso culturale che caratterizza l’attualità basta notare come a vincere il concorso per dirigere il Centro di Salute Mentale aperto nelle 24 ore di Trieste sia stato l’ex direttore di un SPDC chiuso, con porte sotto chiave e fasce pronte all’uso. «Forse perché l’arte di legare è stata riabilitata perfino dalla letteratura?». Probabilmente, afferma pungente Cipriano, «l’arte di legare le persone è l’arte in cui devi eccellere, in questo momento storico, se vuoi fare carriera nella psichiatria italiana». Se questa è un’arte, conclude lo psichiatra riluttante, allora «è la più miserabile delle arti».

Certo, afferma lo psichiatra riluttante, non legare può essere molto più faticoso. «Ma vuoi mettere, tornare a casa stanco e non sentirsi una merda». «Ci sono alcuni che fanno cento legamenti in un anno, e altri che ne fanno quattro in tutta la carriera. I primi, se sanno scrivere abbastanza bene, riusciranno perfino a scrivere L’arte di legare le persone. E giù applausi. Sembra che il libro tardivo sia servito, allo psichiatra che lega, per giustificare quel tipo di carriera. E di esistenza. E di crimini di pace. Crimini trasformati letterariamente in atti terapeutici».

La fabbrica della cura mentale tornata in libreria in una nuova edizione è anche, scrive Cipriano, «un po’ la risposta alle spacconate dello psichiatra artista delle fasce. Anche se, a pensarci, è più probabile che sia stato il suo libro la risposta al mio. Lo avrà letto di certo, come lo lessero moltissimi psichiatri – come fa uno psichiatra che ama legare a non avere la curiosità di leggere un libro contro di lui? Non può, un libro dove perfino asserivo che chi non lega è felice e chi lega è infelice ognuno a modo suo – l’avrà letto e dopo si sarà messo di tigna per riabilitarsi, riuscendo a pubblicarlo, tu vedi i casi della vita, con lo stesso editore che negli anni Settanta pubblicava Franco Basaglia: ma non è un segno dei tempi tutto ciò?».

 

 

]]>
La fabbrica della cura mentale. Storie di banalità del male in tempo di pace https://www.carmillaonline.com/2017/08/04/39424/ Thu, 03 Aug 2017 22:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39424 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2013, 176 pagine, € 14,00

«C’è una frase di De André che sempre mi accompagna nei momenti di maggior conflitto con il mio mestiere: “Chi va dicendo in giro che amo il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo…”. Credo che essere basagliano trent’anni dopo la 180, voler continuare a deistituzionalizzare, a negare l’istituzione del male mentale e dei manicomi, significhi essere un po’ bombarolo. Bombarolo come Basaglia» (Piero Cipriano, p. 56).

[...]]]>
di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2013, 176 pagine, € 14,00

«C’è una frase di De André che sempre mi accompagna nei momenti di maggior conflitto con il mio mestiere: “Chi va dicendo in giro che amo il mio lavoro non sa con quanto amore mi dedico al tritolo…”. Credo che essere basagliano trent’anni dopo la 180, voler continuare a deistituzionalizzare, a negare l’istituzione del male mentale e dei manicomi, significhi essere un po’ bombarolo. Bombarolo come Basaglia» (Piero Cipriano, p. 56).

Tra il 2013 ed il 2016 Piero Cipriano ha dato alle stampe tre testi importanti a proposito della gestione coercitiva istituzionale di chi è afflitto da sofferenza mentale. Di due dei tre testi che compongono la trilogia ci siamo già occupati in passato: Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla], che ricostruisce l’avvento dell’era della psichiatria chimica e La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ove l’aspetto diagnostico è indicato come meccanismo di conferimento di identità e destino all’individuo. Non resta che presentare La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), primo volume della trilogia dello psichiatra riluttante, come ama definirsi Cipriano.

Anche ne La fabbrica della cura mentale, come negli altri libri, l’autore alterna racconti di esperienze vissute in prima persona come essere umano, ancor prima che come psichiatra, all’interno dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, a riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni e da letture di saggi e romanzi. Dunque, il testo alterna dati scientifici, esperienze tra i pazienti e storie d’invenzione.

«Se il SPDC [Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura] non è un manicomio io direi che assomiglia a una catena di montaggio. Il manicomio ricordava un campo di concentramento, il SPDC ricorda una fabbrica. Il che è un passo avanti […] Il SPDC è meglio del manicomio. Però guardiamo da vicino, trent’anni dopo la 180, come viene ricoverato nella gran parte dei SPDC d’Italia, un malato con crisi mentale acuta. Come inizia la sua carriera di malato di mente. Come, anche se il manicomio non c’è più, il malato viene ugualmente ridotto a cosa, a un corpo rotto» (p. 31). Al malato che giunge in un SPDC particolarmente agitato, trattenuto da più persone (agenti, infermieri, medici…), viene praticata una terapia sedativa prima di essere ricoverato. Se il malato manifesta (o ha fama) di essere “problematico”, viene legato al letto così, quando si risveglia, rimbambito dai farmaci, si ritrova bloccato da quattro fasce e capisce che è meglio “non disturbare”, che conviene adeguarsi alle regole del reparto, ai suoi orari ed ai suoi rituali. Una volta data prova di sottomissione, il paziente (paziente per forza), accompagnato, può uscire dalla porta del reparto costantemente chiusa ma se non si è “normalizzato a sufficienza”, anche nel caso si sia presentato in reparto volontariamente, il ricovero si trasforma praticamente in TSO.

Una volta dimesso, nel caso il paziente si dimostri ancora “grave e pericoloso”, «va in una Casa di cura Convenzionata, a far ricchi gli imprenditori della follia. Lì passa uno, due o tre mesi con l’autorizzazione del medico del Centro di Salute Mentale (CSM), così nel frattempo respira […] Prima o poi, però, esce anche dalla Casa di Cura e deve essere ripreso in carico dal CSM. Purtroppo, tranne eccezioni virtuose, è il paziente che deve raggiungere il CSM, dato che gli operatori non si possono muovere per andare al suo domicilio perché sono pochi o non ci sono le macchine o per altri motivi […] Per cui, dopo un po’, il paziente addomesticato si inselvatichisce di nuovo e si dà alla macchia […] dopo qualche settimana o mese, quello ritorna in crisi acuta in SPDC, perché i parenti o i vicini hanno chiamato il CSM […] e ricomincia il gioco della porta che gira» (pp. 32-33).

È terrificante. Ma è così che funziona la fabbrica della cura mentale. «Il SPDC è una fabbrica. Il primario è il direttore della fabbrica. Che ha una catena di montaggio a cui badare. Uno Psichiatra è un tecnico specializzato addetto a questa specie di catena di montaggio umana, dove il malato è la macchina biologica rotta, che deve essere aggiustata non con la parola, con la relazione o con un po’ d’umanità, ma con il farmaco» (p. 33).

Già, la psichiatria chimica si sostituisce alle parole perché queste, continua Cipriano, gli psichiatri le conservano «per il pomeriggio, per lo studio privato, per i pazienti più danarosi, meno gravi, meno malati, meno sporchi, più colti, quelli più piacevoli da vedere (della stessa classe sociale del terapeuta, si sarebbe detto in altri tempi). In SPDC basta il farmaco. E se non basta ci sono le fasce» (p. 33). Ma se farmaco e fasce non bastano, ecco che «il paziente viene inviato di soppiatto, senza dirlo troppo in giro, in qualche casa sicura attrezzata per la terapia elettrica, terapia che […] se non altro toglie la memoria e la consapevolezza di sé» (p. 33). Grazie l’elettrochoc il malato viene internato per qualche mese ed il medico può rifiatare in attesa di ritrovarselo alle porte del reparto.

Cipriano dedica qualche pagina al lessico adottato dai medici; un linguaggio incomprensibile ai più che contribuisce a mantene i camici bianchi unici depositari del “segreto della salute e della malattia” ed intanto ai tirocinanti viene insegnato a riconoscere i sintomi, così da poter collocare il caso in un quadro clinico al fine di formulare una diagnosi, quella diagnosi che, come ottimamente spiegato dal Nostro psichiatra riluttante nel volume La società dei devianti, conferisce identità e destino all’individuo.

Tornando ai Dipartimenti di Salute Mentale italiani, sostiene Cipriano, la Legge 180 del 1978 è male applicata in buona parte di essi, visto che, in molti casi, non viene messa in discussione la centralità del ricovero, il primato della clinica rispetto ai luoghi della vita delle persone. Roberto Mezzina, psichiatra del DSM triestino, denuncia questa logica sottolineando come non vi sia alcuna necessità scientifica di confinare l’individuo in un luogo se non lo si concepisce come “corpo da custodire” affinché questo venga controllato e “riparato” prima di restituirlo al corpo sociale. Dunque, aggiunge Cipriano, si tratta di un’operazione di controllo e «per far sì che la questione del controllo sociale dell’emergenza urbana non si concluda inevitabilmente con l’arrivo nel luogo magico del pronto soccorso, e con il passaggio ultimo e definitivo nel SPDC, è necessario ripensare i servizi territoriali, i cosiddetti Centri di Salute Mentale, spesso ridotti a meri ambulatori dove si prescrivono psicofarmaci» (p. 38).

Cipriano indica alcuni esempi alternativi di trattamento dei malati; tra questi i CSM aperti ventiquattro ore al giorno triestini, che ospitano i pazienti in luoghi aperti basati sulla relazione e non sull’internamento coatto, e il modello di cura alternativo Soteria, ideato dallo psichiatra americano Loren Mosher, basato su un’abitazione ospitante un numero ridotto di individui affetti da primi episodi di psicosi in cui non si ricorre ad alcuna etichetta nosografica e, soprattutto, si selezionano gli operatori in base alle loro caratteristiche di empatia e disponibilità. Tra i motivi della scarsa diffusione di tali modalità di cura alternative, Cipriano indica come secondo alcuni psichiatri critici «il vero motivo del dogma della farmacologizzazione precoce delle psicosi è la forte collusione [degli operatori e delle istituzioni] con le multinazionali dei farmaci e le università, grazie alla quale si è mantenuta, in cinquant’anni di psicofarmacologia, la stessa approssimazione degli anni Sessanta» (p. 40). È talmente strutturata l’idea che terapia psichiatrica significhi somministrazione di psicofarmaci che lo psichiatra che anche solo diminuisce la terapia farmacologica ad un paziente, rischia di essere condannato da un tribunale. «Basaglia sosteneva che gli psicofarmaci servono a sedare, più che il malato, l’ansia dello psichiatra» (p. 42).

Nel volume ci si sofferma anche sulla pratica del legare i pazienti con disturbi psichici. Pratica che, nonostante non sia menzionata dai libri di psichiatria, continua ad essere diffusamente praticata. Il ricorso alle fasce di contenzione, secondo Cipriano, è diffuso anche a causa di carenze legislative ma questo non basta a spiegare il fenomeno. Nemmeno la motivazione economica (legare costa meno che aumentare le risorse umane nei reparti), secondo lo psichiatra riluttante è sufficiente a spiegare il diffuso ricorso a tale pratica. Probabilmente si tratta di «una questione di etica e di cultura» (p. 53). Occorrerebbe cambiare la testa degli operatori.

«Quando un matto agitato viene catturato dalle forze dell’ordine, ammanettato e portato nel pronto soccorso di un ospedale, e lo psichiatra non fa altro che sostituire le manette con le sue fasce, ecco, in quel caso non ha fatto lo psichiatra, ma ha fatto il poliziotto, si è adeguato alla misura poliziesca, ha fatto l’antipsichiatra, insomma. Per cui io ribalterei la vecchia dicotomia degli anni Settanta tra psichiatria e antipsichiatria. Il vero antipsichiatra per me non è colui che ricusa le fasce, ma è colui che lega; viceversa, il vero psichiatra non è colui che lega, ma colui che non accetta di adoperare le fasce» (p. 54).

Riflettendo sul ricorso alla contenzione da parte di tanti operatori, Cipriano riprende le riflessioni di Hannah Arendt circa la banalità del male; in effetti, sostiene, questi operatori che ricorrono alle fasce non sono sadici torturatori, eppure lo fanno. Riprendendo e parafrasando brillantemente l’incipit di Anna Karenina di Lev Tolstoj – “Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” – Cipriano giunge alla conclusione che «ogni psichiatra che non lega si assomiglia; e non lega per un motivo molto semplice, perché ha compreso che non è giusto, non è terapeutico, anzi è antiterapeutico, è una tortura, è un crimine. E per questo è felice […] uno psichiatra che non lega è felice. Viceversa, ogni psichiatra che ritiene giusto, utile, terapeutico legare un altro uomo “è infelice a modo suo”» (p. 55). In tale varietà di “infelici” c’è chi lega per paura, chi perché è autoritario, chi perché semplicemente lo ha sempre fatto senza chiedersi nulla, chi perché di notte in reparto vuole dormire, chi perché non conosce bene i farmaci e via dicendo. Gli infelici legano per tanti diversi motivi. «Gli psichiatri felici, invece non legano. E non legano per un solo motivo» (p. 55).

La tortura è ovviamente qualcosa di diverso da un ricovero psichiatrico ma, afferma Cipriano, il rapporto che lega torturato e torturatore a volte non è poi così diverso dal rapporto tra il ricoverato in un SPDC e lo psichiatra che lo lega al letto. A tal proposito l’autore de La fabbrica della cura mentale riprende alcune considerazioni sulla tortura di Françoise Sironi (Persecutori e vittime) provando a confrontarle con la psichiatria coercitiva. Ecco allora che la domanda “Come si può curare chi è stato vittima di torture?”, pensando ad un paziente ricoverato in maniera coatta, magari legato e sedato, può diventare: “Come può la psichiatria curare una vittima della psichiatria?”. Oppure, se a proposito della tortura Sironi mette in luce il suo essere un’esperienza incomunicabile, avvolta dal silenzio sia da parte di chi la pratica che di chi la subisce, di cui si può, eventualmente, avere informazioni soltanto dalle testimonianze delle vittime, non molto diversa è la situazione dei ricoveri psichiatrici; chi è stato legato al letto ripetutamente per giorni e giorni, difficilmente può essere testimone dell’accaduto anche a causa della poca credibilità che gli viene concessa. In tal caso la coltre di silenzio può essere infranta solo da qualche operatore dissenziente. Altro esempio di analogie è dato dal fatto che nelle pratiche della tortura non di rado si ricorre al terrore generato dal costringere i torturati ad assistere alla tortura di altri prigionieri. Ebbene, continua Cipriano, nei reparti psichiatrici i pazienti si trovano ad assistere al bloccaggio ed alla contenzione di altri ricoverati e tutto questo non può che generare in essi il terrore che ciò possa accadere anche a loro se non si comportano secondo le regole del reparto. Oppure, ancora, nelle prigioni spesso si alternano carcerieri buoni a carcerieri cattivi esattamente come accade nei reparti psichiatrici. Nelle galere è prevista la medicazione non terapeutica a scopo punitivo, pratica diffusa anche nei reparti psichiatrici e così via…

Sul finire del libro, Cipriano, riprendendo il triste caso dell’anarchico Franco Mastrogiovanni – a cui l’autore ha fatto riferimento anche nel suo scritto “Lo specialista pericoloso” [su Carmilla] -, riflette amaramente sul ruolo che lo psichiatra si trova a ricoprire di questi tempi. «Siamo meri esecutori dei crimini in tempo di pace. Perché fuori facciamo i comunisti, i progressisti, ci iscriviamo ad Amnesty International, votiamo Sinistra, Ecologia e Libertà o Partito Democratico, compriamo “La Repubblica”, “il manifesto”, “L’Unità” o “Il fatto quotidiano”, siamo contro i leghisti che vogliono gli stranieri fora da le bal. Ma quando siamo in camice, dentro al nostro ospedale, dentro al nostro reparto psichiatrico, diventiamo carnefici come il potere ci vuole. E leghiamo la gente. E la chiudiamo dentro. E la sorvegliamo e la puniamo. Fora da le bal allo strano, al diverso, all’alienato. Nella nostra pratica professionale non siamo più comunisti, progressisti, democratici, tolleranti, ma perfetti fascisti» (p. 158).

]]>
Macchina diagnostica, agenzie della salute sovranazionali e campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione https://www.carmillaonline.com/2016/10/04/macchina-diagnostica-agenzie-della-salute-sovranazionali-campagna-labolizione-delle-fasce-contenzione/ Tue, 04 Oct 2016 21:30:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33600 di Gioacchino Toni

Conversazione con Piero Cipriano, “psichiatra riluttante”

pillola[ght] Dopo aver raccontato il manicomio fisico con La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), con Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] hai ricostruito come si è giunti all’era della psichiatria chimica in cui il manicomio è somministrato al paziente attraverso gli psicofarmaci. Nell’ultimo libro, La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ti soffermi soprattutto sull’aspetto diagnostico indicandolo come macchina in grado di conferire identità e destino all’individuo.

Leggendo la tua ricostruzione della storia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fino al DSM-5, manuale [...]]]> di Gioacchino Toni

Conversazione con Piero Cipriano, “psichiatra riluttante”

pillola[ght] Dopo aver raccontato il manicomio fisico con La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), con Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] hai ricostruito come si è giunti all’era della psichiatria chimica in cui il manicomio è somministrato al paziente attraverso gli psicofarmaci. Nell’ultimo libro, La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ti soffermi soprattutto sull’aspetto diagnostico indicandolo come macchina in grado di conferire identità e destino all’individuo.

Leggendo la tua ricostruzione della storia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fino al DSM-5, manuale diagnostico sostanziale accettato e applicato acriticamente a livello mondiale, si ha la netta impressione di avere a che fare con l’ennesimo pacchetto normativo che si impone sull’umanità dettato da agenzie internazionali (come la World Health Organization) o da lobby che finiscono, di fatto, per dettar legge a livello internazionale (come l’American Psychiatric Association). Si tratta di agenzie che impongono a livello globale una precisa visione del mondo, in questo caso inerente alla salute/malattia degli individui, in strettissimi rapporti con un altro potentato sovranazionale: la lobby dell’industria farmaceutica.

Insomma, al lungo elenco di agenzie economiche e politiche internazionali che determinano la nostra vita – International Monetary Fund, World Bank, Goldman Sachs, European Union, United Nations, European Central Bank ecc. -, possiamo aggiungere anche agenzie ed associazioni come la World Health Organization e l’American Psychiatric Association con la loro bibbia diagnostica… Cosa ne pensi?

[pc] Sì, direi che è così. Una serie di etichette, da quelle mediche a quelle psichiatriche a quelle giudiziarie a quelle sociologiche, determinano una sequenza di percorsi terapeutici, rieducativi, riabilitativi, punitivi, espulsivi, a cui è sempre più difficile sottrarsi. Una società nosografica, che per forza di cose poi diventa società terapeutica: siamo anormali, dobbiamo curarci. Come? Coi farmaci, per lo più. Eccoci dunque in questa era della farmacocrazia.

[ght] Nel tuo La società dei devianti si parla dell’urgenza di intraprendere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione. Tale campagna, oltre che a fare pressione sui politici affinché si arrivi all’abolizione di tale pratica, deve necessariamente raggiungere l’opinione pubblica mettendola al corrente della pratica della contenzione e di quanto sia ancora diffuso il ricorso ad essa. Informare l’opinione pubblica comporta un’estensione della responsabilità; un’opinione pubblica sensibilizzata a proposito del ricorso a tale pratica costrittiva dovrebbe sentirsi in dovere di farsi carico della questione. La difficoltà maggiore mi sembra quella di individuare le modalità con cui raggiungere la gente comune in una realtà che vede i media interessati a tutto ciò che riguarda il disagio mentale solo quando ad esso è possibile imputare qualche forma di violenza particolarmente cruenta. Non di rado nel trattare tali episodi i media danno voce a una sempre meno celata “nostalgia di manicomio”. Sicuramente scriverne è importante e da questo punto di vista la tua “Trilogia della riluttanza” può essere considerata un ottimo contributo alla denuncia ed all’informazione così come tutte le iniziative di presentazione dei libri può essere utile a sensibilizzare l’opinione pubblica. Cos’altro si può fare di concreto, a tuo avviso, per supportare la campagna contro la contenzione?

[pc] Bella domanda. Che mi fai proprio in un momento in cui questa campagna, per slegare i cristi in croce legati nei luoghi non solo della psichiatria ma dell’intera medicina, un po’ langue, boccheggia, stenta. Perché stenta? Perché lo sapevamo che era un’iniziativa difficile, lunga, piena d’insidie, e che chi, come me, si esponeva (sono uno psichiatra che è contrario alle fasce e ne chiede l’abolizione, che tuttavia continua a lavorare in un reparto dove vengono, anche se sempre di meno, ancora adoperate), rischiava molto. Perché le fasce sono economiche. Sono comode. Sono facili, semplici. Non comportano il difficile esercizio del pensiero (per dirla con Hannah Arendt). Non comportano mettersi più di tanto in discussione. Basta un po’ di rimozione, o l’abitudine, abituarsi alla pratica, anche a torturare il torturatore in fondo si abitua (leggersi Notturno cileno o Stella distante, di Bolaño, per esempio), dopo essere stato opportunamente inziato. Difficile è sbarazzarsi delle fasce e domandarsi: e ora?, come faccio a relazionarmi con quest’uomo, o questa donna, o questo adolescente, o questo vecchio, o questo cocainomane, o questo ubriaco, che si agita, che mi aggredisce? Lì è la sfida. Invece ci addestrano a fare i legatori. Leghiamo l’umanità! E dopo averla legata (e torno alla tua domanda di prima) con le etichette diagnostiche che t’incanalano per sempre in percorsi obbligati, dopo averla legata con molecole che ti gessano i pensieri, te li paralizzano, o viceversa ti esaltano innaturalmente le emozioni, dopo averla legata con contenitori e luoghi d’ogni sorta, se tutto ciò non basta, per i più indomiti recalcitranti riluttanti, ecco il legamento più primitivo, e però più sicuro: le fasce.

Le fasce, come gli altri legamenti che le precedono, sono entrate ormai nel nostro immaginario, nelle prassi, in ospedale, tra gli addetti ai lavori, medici infermieri ausiliari psicologi ma anche tra i famigliari, ne troverai pochi che si scandalizzino. Lo scandalo, al contrario, lo procuriamo noi che proponiamo l’abolizione delle fasce. Siamo noi, i medici infermieri psicologi che contestano i legamenti a essere scandalosi, e dunque pericolosi, con questa nostra iniziativa velleitaria. La follia è pericolosa, il matto è da legare, e anche solo proporre l’eliminazione di questo millenario strumento per gestire la follia è scandaloso, ed è pericoloso.
Per questo la campagna per abolire la contenzione si profila come un modo per continuare a contestare la manicomialità. Mettendo in discussione, stavolta, non solo il manicomio civile o quello giudiziario, ma proprio l’ospedale generale, l’intera medicina dunque. Per cui, cosa si può fare?, mi domandi.

87oreRicominciamo con varie iniziative, a ottobre, per esempio, un convegno a Castiglione delle Stiviere, per andare a stanare questa pratica proprio nell’OPG perfetto (anche se ora si è trasformato in una mega REMS), talmente perfetto che si legano agevolmente gli internati, anzi, vi è internata una donna che da una decina d’anni è costantemente legata, di giorno in carrozzina e di notte al letto. Coinvolgere persone che possano raccontare questa battaglia fuori dallo specifico degli addetti ai lavori. Persone della società dello spettacolo, per dirla alla Debord, per esempio Pierpaolo Capovilla, del Teatro degli Orrori, che si sta spendendo molto su questo tema, e ne canta nei suoi dischi, o Paolo Virzì, che nel suo ultimo film descrive bene cosa succede a chi entra nella morsa del circuito psichiatrico, e ci mostra Michaela Ramazzotti legata al letto. Ma servirebbero altri, come loro. Che realizzino altre opere esplicite, film come 87 ore, per esempio, dove viene mostrata la lenta agonia del maestro Mastrogiovanni legato a un letto per quattro giorni fino a morire, ecco, questo è un documento che bisognerebbe proiettare nelle scuole. Cose così, insomma.

[ght] Questa campagna contro le fasce di contenzione deve fare i conti con una società sempre più cinica e propensa a delegare la soluzione di tutto ciò che individua come “problema” a comodi “specialisti” di turno. Cogliere i devianti come problema comporta facilmente la concessione di una sorta di “delega in bianco” in favore di ogni pratica volta a toglierli dalla vita sociale. Da questo punto di vista, evitata ad arte una terminologia troppo esplicita, la segregazione in luoghi separati e il ricorso a forme di contenzione tutto sommato possono anche non essere viste con ostilità dall’attuale opinione pubblica. Una volta etichettati come devianti, saranno gli “esperti”, i “tecnici”, a farsi carico del “problema-devianti”. Farmaco o non farmaco, cinghia o non cinghia, l’importante è lavarsene le mani una volta che il problema viene rimosso dalla vita pubblica. Ripensando alla battaglia di Franco Basaglia e Franca Ongaro viene da pensare che se da un certo punto di vista la società degli anni ’60 e ’70 non era poi tanto più “aperta” mentalmente rispetto all’attuale, è anche vero che proprio in quel periodo si stavano aprendo “brecce di libertà” all’interno della cultura e della società italiana che oggi onestamente è difficile individuare. Cosa ne pensi?

[pc] Sottoscrivo ciò che dici. Ci siamo tutti rassegnati e consegnati al potere/sapere degli psichiatri, che nell’arte della manomissione delle parole, per dirla con Carofiglio, sono dei veri talenti. Hanno suddiviso il grande contenitore della follia in più di trecento partizioni, come a dire che oggi nessuno più è folle, ma nessuno più può dirsi del tutto normale, tutti noi abbiamo almeno due tre diagnosi possibili, ormai. Diagnosi che accettiamo passivamente, supinamente. Anzi, siamo a tal punto acritici che talvolta ci presentiamo e ci raccontiamo con quella diagnosi, io sono un borderline, io sono un bipolare, poco ci manca che le mettiamo perfino nel nostro biglietto da visita: Mario Rossi, depresso. Le diagnosi psichiatriche ristrutturano la nostra identità, un po’ come accade per i segni zodiacali, con la differenza che i segni zodiacali lasciano il beneficio del dubbio (non è roba scientifica, per quanto suggestiva), le diagnosi psichiatriche invece non lasciano dubbi, perché sono opera di scienziati della mente (è scienza, insomma).

contenzioneMa pure rispetto ai loro luoghi, gli psichiatri hanno messo in gioco il meglio della loro semantica: i manicomi non esistono? Perfetto. Vuol dire che la manicomialità la distribuiremo in altri contenitori più piccoli, meno appariscenti, che chiameremo soprattutto con acronimi: SPDC, CSM, CT, OPG, REMS, eccetera. I ricoveri ad infinitum non sono più possibili? Non c’è problema. Esiste un gioco dell’oca della cronicità per cui realizzo l’internamento circolare: dieci giorni in SPDC, un mese in Casa di Cura che ora si chiama STIPT, sei mesi in CT. Compi un reato ma sei deviante? Un anno in REMS, e poi ricominci il giro, magari ripassando dal SPDC.

[ght] Nel tuo La società dei devianti ragioni sui comportamenti che possono adottare gli operatori psichiatrici nella pratica quotidiana al fine di evitare trattamenti disumani nei confronti dei devianti. Inviti, ad esempio, a praticare un colloquio continuo con i pazienti, a portarli fuori dai luoghi di ricovero, a revocare i TSO, a sciogliere i legati ed a ridurre i farmaci. Attraverso tali comportamenti, sostieni, sarebbe più facile convincere i giovani operatori del settore, i pazienti e i loro famigliari che esistono altri modi per affrontare i disturbi mentali. Naturalmente gli operatori, così come le famiglie dei pazienti, si trovano a vivere in un mondo in cui l’aspetto produttivo, con i suoi ritmi sempre più infernali e dilatati nel tempo e nello spazio, sottrae buona parte del tempo e delle energie che possono essere dedicate a chi è in difficoltà. La stanchezza psicofisica degli operatori e dei familiari di certo si riversa negativamente su chi è in difficoltà. Non credi che nel mondo degli operatori psichiatrici una campagna finalizzata a un trattamento “più umano” dei pazienti debba intrecciarsi a rivendicazioni di tipo sindacale volte a rendere il lavoro meno sfiancante? Mi riferisco al numero di operatori impiegati in rapporto ai pazienti, ai turni di lavoro ecc.

[pc] Assolutamente sì. Lavoro in un reparto dove ci sono minimo dodici persone ricoverate. Tre infermieri non bastano, non possono bastare. Però il numero fa la differenza, ovviamente. Se già con tre-infermieri-che-non-vogliono-legare è possibile non legare le persone, per mia esperienza, figuriamoci con sei (se quei sei vogliono non legare). E’ ovvio che se invece ti trovi con infermieri-che-vogliono-legare, anche con dodici (potendoti dunque permettere un rapporto uno a uno) leghi le persone, non si sfugge. Discorso a parte per i medici. I medici sono coloro che, in fin dei conti, decidono se legare o non legare. I medici, per mia esperienza, più sono e meno decidono. O meglio, più sono e meno sono coraggiosi, e più si nascondono dietro le fasce. E più legano. Ma perché legano? Non lo so. A me pare che la maggior parte dei medici abbiano più dimestichezza con i libri, con le diagnosi, con i farmaci, con le molecole, che con le persone in carne e ossa. Sarà per la lunga formazione a cui sono stati sottoposti, formazione medica che invece di avvicinarli alle persone li allontana, che in qualche modo li disumanizza, apprendistato che gli fa perdere di vista la persona, che li addestra quasi esclusivamente allo studio del caso (clinico), caso (clinico) che diventa cosa. Oggetto. E qui torna attuale Franca Ongaro Basaglia quando ci ricorda che la medicina si forma sul corpo morto, e il medico impara a conoscere l’uomo vivo (malato) studiando il cadavere nelle aule di anatomia patologica, e memore di questo debito tende, il medico, sempre, a ricondurre l’uomo vivo (malato), a corpo morto, disteso sul letto d’ospedale, allettato, clinico, esanime, o coi farmaci o con le fasce.

]]>