Far West – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Emilio Salgari, perché la tigre ruggisce ancora https://www.carmillaonline.com/2024/10/23/emilio-salgari-perche-la-tigre-e-ancora-viva/ Wed, 23 Oct 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84973 di Sandro Moiso

Paola Irene Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024, pp. 432.

Inquadrato Salgari entro i suoi limiti stilistici, assolutamente evidenti, è doveroso riconoscergli un’influenza sul fantasticare giovanile – e non solo – che pochissimi suoi contemporanei hanno avuto. Quanto alla battaglia per la conoscenza, essa riguarda una domanda cruciale: ribalto in altra forma, volutamente provocatoria: qualcuno pensa che il più recente vincitore del Premio Strega soppravviverà al 2015, al 2025, al 2035? Mi permetto di dubitarne. [...]]]> di Sandro Moiso

Paola Irene Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024, pp. 432.

Inquadrato Salgari entro i suoi limiti stilistici, assolutamente evidenti, è doveroso riconoscergli un’influenza sul fantasticare giovanile – e non solo – che pochissimi suoi contemporanei hanno avuto. Quanto alla battaglia per la conoscenza, essa riguarda una domanda cruciale: ribalto in altra forma, volutamente provocatoria: qualcuno pensa che il più recente vincitore del Premio Strega soppravviverà al 2015, al 2025, al 2035? Mi permetto di dubitarne. Invece l’effimero Salgari ci accompagna dalla fine dell’Ottocento e ancora non accenna a scomparire. Capirne il motivo dovrebbe importare a chiunque analizzi lo scrivere o scriva egli stesso. Attiene al motivo per cui, dall’alba dei tempi, gli esseri umani si raccontano storie e condividono l’immaginazione altrui. (Valerio Evangelisti, Perché Mompracem resiste ancora -2003)

Alla luce dell’analisi svolta da Paola Irene Galli Mastrodonato sull’opera complessiva di Emilio Salgari, il pur positivo giudizio espresso da Valerio Evangelisti potrebbe risultare ancora limitato e parziale. La studiosa, tutt’altro che nuova alla trattazione delle vicende letterarie e critiche ricollegabili alla figura del grande e, certamente, sottostimato autore di libri di avventure, nel monumentale saggio appena pubblicato in lingua inglese dalla Fairleigh Dickinson University Press riesce infatti ad attualizzare e a mettere in luce aspetti fino ad ora ignorati del lavoro, svolto spesso tra mille difficoltà ed angosce, non soltanto di carattere economico, dello scrittore nato a Verona nel 1862 e scomparso a Torino, per propria mano non ancora, cinquantenne nel 1911.

L’autrice ha conseguito un PhD presso la McGill University (Canada), in Letteratura Comparata, e ha trascorso gran parte della sua vita lavorativa presso l’Università della Tuscia (Viterbo) e quella di Potenza dove ha insegnato Lingua Inglese, Letteratura e traduzione in qualità di ricercatrice confermata. Ha pubblicato svariati libri, articoli e saggi sulla letteratura del XVIII secolo e del periodo rivoluzionario1. Inoltre ha pubblicato studi sulle letterature emergenti e l’inscrizione geografica dell’immaginario2.

“Salgariana di vecchia data”, come lei stessa si definisce, ha pubblicato inizialmente un saggio sulle due Indie di Salgari e Forster ( 1996) e ha proseguito con un saggio del 2001 sul “caso” Salgari, tradotto in francese e citato all’estero. Ha proseguito poi con la pubblicazione di svariati articoli e di due volumi collettanei3, perseguendo, con ferma volontà, il tentativo di inserire i romanzi avventurosi dell’autore italiano all’interno degli studi post-coloniali e sulle culture contemporanee. Prefiggendosi, come afferma ancora la stessa «l’obiettivo di inserire Salgari nel discorso critico e postcoloniale in inglese per colmare un vuoto di ricezione che dura da troppo tempo». Ritrovandosi così indirettamente dalla parte dello stesso Valerio Evangelisti, quando questi affermava che:

Emilio Salgari gode oggi di ampio interesse da parte della critica. Si tratta però, nella maggior parte dei casi, di un interesse tra il bonario e il divertito, teso a inquadrare il “fenomeno Salgari” – che si impone come tale in virtù della sua capacità di parlare a intere generazioni, spesso condizionandone l’immaginario – in una nicchia ai margini della storia della letteratura italiana. Magari si destruttura la prosa salgariana, si cercano i meccanismi della sua “magia”, ma quasi sempre si finisce per individuarne il cuore nel colorito e nel pittoresco. Secondo me c’è ben di più, ed è la connessione stretta tra l’opera di Salgari e l’intero universo della narrativa popolare, con la sua capacità di destare emozioni durature e di riproporle a dispetto del tempo trascorso4.

Anche se il discorso di Paola Irene Galli Mastrodonato si è di fatto approfondito e, in qualche modo radicalizzato, trovandosi anche a polemizzare, per alcuni versi, con un’altra studiosa del “Capitano”, Ann Lawson Lucas5, che per Einaudi ha curato il volume dei «Millenni» dedicato a Salgari: Romanzi di giungla e di mare (2001), che aveva definito Salgari come una “spugna” capace di assorbire influenze e nozioni provenienti da letture e impressioni giornalistiche senza riconoscergli, invece, la grande capacità di rielaborazione e invenzione riconducibili, entrambi, allo sforzo immane di ricerca di dati storici, sociali, antropologici e geografico-naturalistici così come di fonti originali di informazione che costituirono sempre la fitta rete strutturale che avrebbe retto ogni testo salgariano.

Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive! si articola intorno ad una introduzione, in cui si ripercorrono brevemente le vicende “personali” dello scrittore, e a cinque densi capitoli che ne affrontano ognuno qualche aspetto particolarmente significativo, accompagnati da una ricchissima bibliografia di quasi venti pagine che raccoglie una grande quantità di contributi dedicati al medesimo, sia in Italia che all’estero, oltre che da un elenco delle sue opere.

Il primo capitolo espone la dimensione planetaria delle avventure narrate da Salgari, mentre il secondo si sofferma sulla dimensione epica della resistenza contro l’imperialismo britannico contenuta all’interno del ciclo delle Tigri di Mompracem. Il terzo, che si ricollega direttamente al secondo, esplora la dimensione indiana dei Misteri della Giungla Nera collegandola alla rilettura italiana che giungerà fino ai film di Sollima con protagonista l’attore indiano Kabir Bedi e all’influenza della stessa su uno scrittore importante come Amitav Ghosh, che in alcuni suoi romanzi non solo ha chiamato direttamente in causa l’autore italiano e, in particolare, le “sue” Sunderbans, le foreste di mangrovie in cui le acque del Delta del Gange e di altri grandi fiumi si mescolano a quelle salmastre dell’Oceano, di cui parla proprio nel ciclo indiano, ma ne ha anche tratto ispirazione nella costruzione di un’epica moderna indiana in cui il ricordo del passato coloniale e la lotta anticoloniale si mescolano all’avventura con la A maiuscola6.

Il quarto capitolo è invece dedicato al Corsaro Nero e al ciclo caraibico di pirati, amore e vendetta. Ma è il quinto a costituire il boccone più succulento per quanto riguarda la revisione degli studi critici sull’opera di Salgari. Non a caso, quindi, è intitolato proprio all’eredità di Emilio e alla necessaria decostruzione non solo degli studi letterari a lui dedicati, ma anche della concezione, contenuta nella maggioranza degli stessi, che vede separati l’alto e il basso, il popolare e il colto nell’ambito dell’invenzione letteraria.

In quest’ultimo non soltanto si sottolinea con forza la continuità degli elementi antimperialisti, anticolonialisti e antirazzisti contenuti nei suoi romanzi, ma se ne scopre e difende la sostanziale modernità interpretativa degli elementi “realistici” e/o storici che fanno da sfondo o scenario dei fatti narrati. A partire da quella classica che, nel contesto degli studi letterari, si pone più spesso: «Chi è un autore popolare e cos’è un testo popolare?».

La ricezione del pubblico e la diffusione di un testo oppure la popolarità di un autore e dei suoi personaggi, fanno certo parte della risposta. Una risposta che, però, troppo spesso separa il sottotesto, il contesto e gli elementi di riflessione contenuti in un’opera o di un autore di “successo” da quelli riconosciuti come tali in un testo o in un autore “colto”. Il paragone che l’autrice stabilisce, per fare ciò, tra i romanzi salgariani e quella che ritiene l’opera letteraria popolare più celebre e diffusa di tutti i tempi – Rebecca di Daphne Du Maurier, pubblicata nel 1938 – e quello successivo di questa con La nausea di Jean Paul Sartre, si rivela subito molto interessante per comprendere come, troppo spesso (per non dire sempre), la critica accademica rifiuti di riconoscere nelle opere popolari le stesse valenze, sia a livello di contenuto che interpretative, di quelle ritenute “colte”. In questo caso l’esistenzialismo riconducibile ad entrambe, ma riconosciuto soltanto nella seconda.

L’autrice dello studio, nel difendere la modernità e la complessità dell’eredità letteraria di Salgari, afferma:

Mi si lasci iniziare [… ] rivedendo proprio ciò che è stato considerato il suo tallone di Achille, il suo stile letterario. Se noi consideriamo infatti la mimesis come “imitazione” o “convenzione” noi dobbiamo tutti concordare sul fatto che si allontana decisamente dal realismo mimetico (così come, ad esempio, fece Byron) sia per le sue trame esotiche che per le contaminazioni linguistiche contenute nelle stesse. Per questo motivo è profondamente antinaturalistico e antimimetico, sia positivista (per la sua visione enciclopedica planetaria) che anti-positivista (la trama dei Misteri della Giungla nera oppure la distopia delle Meraviglie del Duemila), mentre Alfredo Luzi ha accertato definitivamente l’originalità e la qualità della tecnica “post-moderna” di Salgari basata su ciò che Édouard Glissant ha definito come una “rete di riferimenti”, l’abilità di inserire “nuclei narrativi di finzione all’interno un tessuto di eventi reali”, un tratto distintivo della sua lingua meticcia e creola, irrispettosa delle regole”. Come ho dimostrato, sebbene in una forma ancora obbligatoriamente incompleta, la prosa di Emilio è allo stesso tempo “visuale” e “visionaria”, aperta ad un paesaggio “utopico”, l’eccezionale frutto di una scrupolosa riscrittura delle fonti consultate7.

Non potendo, però, per motivi di spazio e tempo indagare completamente la riflessione dell’autrice sui riferimenti della cultura pop, cinematografica e televisiva ai romanzi salgariani, preme a chi recensisce qui il testo sottolineare ancor alcuni elementi messi in risalto da Paola Irene Galli Mastrodonato.

Il primo, che si ricollega direttamente all’impianto antiimperialista dell’autore, è legato al primo kolossal del cinema italiano e forse mondiale: Cabiria di Mario Pastrone, realizzato nel 1914, tre anni dopo la scomparsa di Salgari. Tratto liberamente dal suo romanzo Cartagine in fiamme, ma la cui sceneggiatura attribuita a Gabriele D’Annunzio, cancellando l’autore originale, avrebbe completamente ribaltato l’impianto anti-romano e le caratteristiche dei personaggi principali.

Fatto che rivela anche, come sottolinea ancora la ricercatrice, l’inconsistenza dell’accusa di “fascismo” rivolta ad un autore scomparso undici anni prima dell’avvento del regime mussoliniano, la cui unica colpa era, e per molti versi rimane, quella di essere stato uno degli autori italiani più letti, in Italia e all’estero, del Novecento. Periodo fascista incluso. Accusa che, se si pensa al peso successivamente attribuito ad autori per l’infanzia come Gianni Rodari (strettamente ricollegabile al periodo filo-sovietico e stalinista del PCI, ancora dopo la seconda guerra mondiale), appare francamente proditoria e ridicola.

L’ultimo punto che l’autore di queste insufficienti righe vorrebbe ancora sottolineare è quello del ruolo delle figure femminili nel contesto dell’opera salgariana. Tralasciando le figure di Marianna, Jolanda e molte altre eroine ancora, compresa la coraggiosa Capitana dello Yucatan, è dalle pianure del Far West che queste ricevono il massimo splendore, unendo un differente interpretazione del mito del West in chiave anti-razzista e anticoloniale a quella di donne rappresentate obbligatoriamente come deboli, indifese, destinate ad essere soltanto vittime, madri, sorelle e amanti fedeli. A differenza di Minnehaha e Yalla protagoniste della trilogia western: Sulle frontiere del Far West, La scotennatrice e Le selve ardenti.

Oltre ad anticipare gli spaghetti-western di sessant’anni dopo, con il coinvolgimento di giovani e avventurosi italiani nelle vicende narrate, la trilogia metterà al centro della vicenda la resistenza dei nativi al progressivo avanzare dei coloni bianchi e dei massacri perpetrati dagli stessi e dall’esercito degli Stati Uniti nei confronti degli abitatori originali delle grandi pianure dell’Ovest. Non a caso la vendetta della figlia di Nuvola Rossa si compirà soltanto con il massacro del Little Big Horn, dove il colonnello Custer e i suoi uomini pagheranno il prezzo delle angherie perpetrate precedentemente sulle tribù più indifese.

Ma non è soltanto il riconoscimento in anticipo della violenza subita dai popoli amerindi a colpire il lettore, poiché anche la forza delle figure di donne guerriere all’interno delle differenti tribù Apache, Sioux Oglala, Cheyenne o altre ancora è stata riscoperta e sottolineata nelle ricerche storiche e antropologiche al femminile condotte negli ultimi decenni. Ricerche che rivelano come l’importante ruolo delle donne sciamano e guerriere, esattamente come nelle tradizioni nordiche, appartenesse totalmente a società che troppo spesso sono state ridotte a primitive, barbare e maschiliste. Creando un modello femminile immaginario di cui, purtroppo, sembra ancora nutrirsi tanto femminismo perbenista in stile Me Too.

Come si è già detto, soltanto ragioni di spazio obbligano il recensore a fermare qui la sua ricapitolazione della ricchezza di osservazioni, riflessioni e riletture che il bellissimo e interessantissimo testo di Paola Irene Galli Mastrodonato avanza in quasi ogni pagina e non rimane che augurare che lo stesso testo trovi al più presto un editore per la sua pubblicazione anche qui in Italia, da troppo tempo adusa alla boria di una critica letteraria insufficiente e stantia, anche quando, e forse soprattutto, si pensa “progressista”.


  1. La rivolta della ragione, 1991; Storia della vita e tragica morte di Bianca Capello. Genesi di un racconto si successo del Settecento, 2009 e “Romans gothique anglais et traductions françaises: l’année 1797 et la migration des récits”, 1986, che è stato in seguito inserito nella Cambridge History of the Gothic nel 2020.  

  2. Ai confini dell’Impero. Letterature emergenti (1996) e Geo-Grafie: percorsi di frontiera attraverso le letterature (1999).  

  3. Il tesoro di Emilio: omaggio a Salgari (2008) e Riletture salgariane (2012).  

  4. V. Evangelisti, op. cit., p. 180.  

  5. A. Lawson Lucas, La ricerca dell’ignoto. I romanzi di avventura di Emilio Salgari, Leo S. Olschki, Firenze 2000.  

  6. Si vedano in particolare i romanzi della trilogia ruotante intorno alla Guerra dell’Oppio: Mare di papaveri, Neri Pozza Editore,Vicenza 2008; Il fiume dell’oppio, Neri Pozza, Vicenza 2011 e Diluvio di fuoco, Neri Pozza, Vicenza 2015.  

  7. P.I. Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024, p. 380. Traduzione a cura del recensore.  

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Nemmeno John Wayne in soccorso del mito https://www.carmillaonline.com/2024/03/08/nemmeno-john-wayne-in-soccorso-del-mito/ Fri, 08 Mar 2024 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81449 di Giorgio Bona

Pat Garrett, L’autentica vita di Billy the Kid, a cura di Aldo Setaioli, pp. 176, € 15, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze 2024.

La modernità avanza a discapito del vecchio West, con il tramonto del periodo più puro in cui i temerari eroi della frontiera diventano mortali perdenti senza onore e senza legge. Un libro, L’autentica vita di Billy the Kid, che è in sintonia con la memorabile colonna sonora di Bob Dylan (1973), affascinante ballata western crepuscolare dove lo spirito indomito della frontiera e l’illusione di un’amicizia che ha il sapore di eterno non riescono a fare [...]]]> di Giorgio Bona

Pat Garrett, L’autentica vita di Billy the Kid, a cura di Aldo Setaioli, pp. 176, € 15, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze 2024.

La modernità avanza a discapito del vecchio West, con il tramonto del periodo più puro in cui i temerari eroi della frontiera diventano mortali perdenti senza onore e senza legge. Un libro, L’autentica vita di Billy the Kid, che è in sintonia con la memorabile colonna sonora di Bob Dylan (1973), affascinante ballata western crepuscolare dove lo spirito indomito della frontiera e l’illusione di un’amicizia che ha il sapore di eterno non riescono a fare diga contro un processo di civilizzazione drogato dal cinismo del neocapitalismo emergente e da una giustizia che non è uguale per tutti ma al servizio dei potenti. La fine di un’amicizia, quella tra Pat Garrett e Billy the Kid, segna anche il tramonto di un’epoca che, andando incontro al “progresso” legato ad una nuova visione del mondo, vede smarrirsi all’orizzonte i suoi eroi, mandriani e fuorilegge, cavalieri solitari e rinnegati.

Pat Garrett rappresenta colui che sa interpretare questa nuova visione di un mondo in mutamento e il suo racconto si presenta come una lunga meditazione crepuscolare in conflitto tra le ceneri del vecchio e le scintille per accendere il nuovo che sta sorgendo. Una ballata tra rassegnazione e speranza che non lascia capire quale dei due stia nel vecchio o nel nuovo per la patina di nostalgia negli occhi.

In Pat Garrett e Billy Kid (Pat Garrett and Billy the Kid, appunto 1973) Sam Peckinpah ha portato sulla scena un western d’addio dalla vena malinconica con un saluto di commiato al vecchio mondo. Per Peckinpah le figure di Pat Garrett e Billy the Kid rappresentavano l’opportunità di regolare i conti con il passato: l’amicizia tra i due finisce nel momento in cui Garrett diventa uomo di legge e appunta la stella di sceriffo sul petto, mentre il secondo continua a seguire la strada del fuorilegge. La caccia non potrà che condurre a uno scontro all’ultimo sangue.

I primi riferimenti su Billy the Kid si hanno da Sallie, nipote di John Chisum, il ricco allevatore del New Mexico portato sullo schermo da John Wayne in un film del 1970 – appunto Chisum – con la regia di Andrew V. McLaglen: una pellicola che ripropone i due miti del vecchio West in ruoli non precisamente memorabili e sembra una traslazione bislacca, perché quando di parla di personaggi come Pat Garrett e Billy the Kid si pensa decisamente ad altro. Sallie divenne una figura importante nella regione, visse fino al 1934 e lasciò un diario di importanza storica con tanti riferimenti a Billy the Kid e a Pat Garrett che lei aveva conosciuto di persona.

Per la prima volta appare in traduzione italiana la biografia di uno dei più leggendari banditi del West, Henry McCarty (1859-1881), alias William H. Bonney, meglio conosciuto come Billy the Kid, la cui leggenda è altrettanto epica di quella di un altro mattatore, Jesse James (1847-1882). In questo libro la storia ci viene raccontata addirittura da uno dei protagonisti, che rivela con meticolosa dovizia di cronaca le gesta del bandito. A scriverla è colui che gli diede la caccia e lo uccise nel 1881, Patrick Floyd Jarvis Garrett (1850-1908) uno dei più popolari sceriffi del vecchio West. Fu cacciatore di bisonti, barista, cowboy prima di diventare sceriffo di Lincoln nel New Mexico. Garrett ebbe la nomina di Deputy U.S. Marshall (agente federale), incarico che gli permetteva di seguire i ricercati oltre i confini di ogni singolo stato. L’amicizia tra Garrett e Billy the Kid finisce quando il primo diventa sceriffo e riceve l’incarico di arrestare il secondo: lo farà ostinatamente, contro tutto e tutti, e la caccia non potrà che portare a uno spargimento di sangue.

Questo è sicuramente il libro più vero e più ricco di dettagli attendibili che si sia dedicato al Kid perché fu scritto a ridosso dei fatti e ci offre una lettura a caldo della storia del famoso fuorilegge. Certo è scritto da Pat Garrett, e come suggerisce la logica sarebbe bello sentire la versione opposta, quella di Billy. Ma questo libro ci offre uno spaccato del vecchio West senza quell’alone di romanticismo e di leggenda che la filmografia mescola come ingredienti quasi inevitabili. La fine di un’amicizia viene imposta dai tempi, all’improvviso: due visioni della realtà che hanno sempre viaggiato parallele, a un certo punto arrivano a un bivio. La fine dell’amicizia si conclude con la morte di Billy.

Di qui un libro doloroso, eppur straordinariamente vivo: e Pat e Billy rappresentano due modi di essere “eroi” con visioni diverse. Per questo Pat Garrett nel suo scritto non si sente di condannare il vecchio amico che ha fatto una scelta sbagliata. È molto lontano dalle visioni cinematografiche come Chisum, dove William Bonney il Kid viene visto come un romantico inguaribile, con quell’aria da eterno ragazzo che non vuole crescere. Niente di tutto questo. C’è nel libro una forza antica che affonda le radici nella realtà del vecchio West, quella che ci ha fatto sognare, e pagine come queste ci permettono di recuperare.

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Alè, alè, anduma a balè ch’a je l’America an via dij Plissè https://www.carmillaonline.com/2022/06/09/ale-ale-anduma-a-bale-cha-je-lamerica-an-via-dij-plisse/ Thu, 09 Jun 2022 20:46:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72404 di Giorgio Bona

Il 21 aprile 1906 fece la sua comparsa in Piemonte William Frederick Cody (1846-1917), che nella sua epopea leggendaria era conosciuto come Buffalo Bill.

Cacciatore, uccisore di indiani, scout dell’esercito, corriere del Pony Express, guida turistica di nobili europei in cerca di avventure, eroe nelle guerre indiane e infine impresario teatrale, professione dove la sua fama superò l’oceano e arrivò in Europa esportando il mito del vecchio West che aveva grandi estimatori e appassionati.

Un bluff, un altro mito della frontiera, emissario di quella politica imperialista [...]]]> di Giorgio Bona

Il 21 aprile 1906 fece la sua comparsa in Piemonte William Frederick Cody (1846-1917), che nella sua epopea leggendaria era conosciuto come Buffalo Bill.

Cacciatore, uccisore di indiani, scout dell’esercito, corriere del Pony Express, guida turistica di nobili europei in cerca di avventure, eroe nelle guerre indiane e infine impresario teatrale, professione dove la sua fama superò l’oceano e arrivò in Europa esportando il mito del vecchio West che aveva grandi estimatori e appassionati.

Un bluff, un altro mito della frontiera, emissario di quella politica imperialista che il Grande Paese esercitava oltre i suoi confini, mettendo in mostra un sistema, quello della grande colonizzazione, in nome del progresso.

Ecco ciò che dice la biografia sul mito William Frederick Cody alias Buffalo Bill. All’età di otto anni si trasferì con la famiglia nel Kansas e il padre fu vittima di un pesante clima persecutorio a causa delle sue posizioni antischiaviste. Infatti fu ucciso da un colpo di coltello ad opera di uno sconosciuto dopo aver pronunciato un discorso contro lo schiavismo. Un buon viatico per cominciare a costruire una leggenda sul personaggio, tra l’altro insignito della medaglia d’oro al Congresso, facendo leva su uno dei sentimenti patriottici più alti.

La lista che gli storiografi misero in piedi per narrare le sue imprese era molto lunga, ma la sua vera intuizione, quella che servì a esportare in Europa il modello americano attraverso la leggenda della frontiera, fu il Wild West Show, uno spettacolo circense. La leggenda qui ebbe un seguito con il mondo reale fatto di pubblico e di partecipazione, attraverso una rappresentazione in grande stile. Il Wild West Show fece la sua  prima comparsa a Roma nel 1890, prima tournee nel nostro paese ripetuta in seguito dopo il successo avuto, appunto nel 1905.

Cominciamo dalle prime comparse in Piemonte, Alessandria e poi Torino, città attraversate da intense trasformazioni sociali dove si visse l’eccitazione del momento.

Quotidiani, riviste, manifesti sui muri a riempire ogni angolo dei quartieri, mentre arrivava questo improvvisato burattinaio con al seguito una struttura da far spavento: 800 persone e 500 cavalli.

Lo spettacolo suscitò talmente tanto interesse che proprio nel capoluogo piemontese i torinesi intonarono una canzone che recitava così: Alè, alè, anduma a balè ch’a je l’America an via dij Plissè.

 

Forse, mi viene da dire, la sua vita di frontiera è stata vissuta ed esaltata per garantire al personaggio un futuro come attore. Non era certamente il suo mestiere, perché pare non avesse attitudine e capacità.

Mise in scena spettacoli ignobili che avevano poco a che fare con un mondo di vinti, forse uno dei popoli più resistenti della storia: gli indiani d’America. Spettacoli che raccontavano le guerre indiane, naturalmente in una trasposizione artistica altamente infedele di fatti reali, a cui spesso i protagonisti avevano partecipato realmente.

Impressionante che per un certo periodo abbia lavorato in questo show uno straordinario personaggio come Tatanka Iyotake meglio conosciuto come Toro Seduto (c. 1831-1890), storico capo della nazione Dakota (Sioux).

Anche Emilio Salgari che aveva esplorato con i suoi libri e la sua fervida fantasia il mondo del vecchio West non risparmiò elogi su questa figura, definendolo un eroe e sostenendo, parole sue, che nessun uomo si era guadagnato tanta fama quanto quell’intrepido avventuriero, che incarnava l’antico tipo del vero scorridore e cacciatore di prateria e forse a nessuno più di lui erano toccate tante vicende straordinarie.

Emilio Salgari aveva raccontato con fervida immaginazione anche l’epopea del vecchio West in romanzi di grande avventura come La scotennatrice (1909), storia di una guerriera Dakota che sognava la morte di tutti gli uomini bianchi. In questa direzione anche Salgari non fece un racconto che guardava agli indiani d’America come il popolo oppresso, bensì come il selvaggio lontano dalla strada della civiltà.

Un documentario dal titolo Capitan Salgari diretto da Marco Serrecchia, un dvd allegato al libro Una tigre in redazione a cura di Silvino Gonzato (Marsilio, 1994) presenta alcuni articoli del Salgari giornalista e tra questi la recensione che l’autore offrì del circo di Buffalo Bill.

E di Buffalo Bill non può mancare Arriva Buffalo Bill, perché ci fu un incontro tra lo scrittore e il circense avvenuto a Verona, durante la prima comparsa del circo in Italia nel 1890 e sembra che proprio da questo incontro partisse un’avventura fantastica che coinvolse lo scrittore a scrivere del vecchio West.

Francesco De Gregori lo evoca in una delle sue canzoni più celebri, Bufalo Bill (1976), dove immagina un personaggio di giovane e orgoglioso eroe del West, che ormai invecchiato e stanco, in un pomeriggio triste sul bordo di una strada a contemplare l’America, firma un contratto capestro e diventa saltimbanco di un circo.

Ma è interessante vedere il rovescio della medaglia, che ci racconta un’altra parentesi di vita del personaggio che non contempla la rappresentazione di un mito. Alcune voci dicono che durante la guerra di secessione Cody fosse una spia dell’Unione in territorio confederato. Nel 1872 fu eletto alla Camera dei Rappresentanti, ma la sua elezione venne impugnata e si dimise senza nemmeno aver prestato giuramento. La sua ambizione non aveva limiti, e da quel momento iniziò ugualmente a farsi chiamare onorevole. Investì molti suoi guadagni in imprese fallimentari dove dilapidò una fortuna: l’avventura del circo fu la rinascita da una vita di fallimenti e per sopperire a un disastro economico in cui era precipitato.

Fu Robert Altman nel suo film Buffalo Bill e gli indiani (1976) a fornire un piccolo saggio di storia che servì a contraddire ogni verità ufficiale e svelare quello che fino ad allora nessuno aveva avuto il coraggio di raccontare. Ridicolizzato il mito di Buffalo Bill, evocato dalla bugiarda esasperazione storica scritta dai vincitori, questo diventava un passaggio quasi obbligato per affrontare sotto un’altra ottica e una nuova visione il tema del mito americano: nel  film di Altman il leggendario cacciatore di bisonti esce davvero malissimo in uno scontro con Toro Seduto che dovrebbe diventare il personaggio di punta dello spettacolo e che invece gli dà una grande lezione di spiritualità e soprattutto di libertà nella prigionia. Come era nella realtà, uno spaccone che si era vantato di aver ucciso un numero considerevole di indiani, Buffalo Bill vorrebbe demolire la dignità del capo indiano che invece ne esce a testa alta.

L’ex cacciatore di bisonti, l’ex scout, il circense, era un calcolatore politico della peggior specie e sapeva benissimo che la tournée che aveva programmato in Italia poteva avere successo soltanto se riconosciuta da un’autorità come quella del Pontefice. Non è affatto trascurabile il contributo della chiesa nel Nuovo Mondo. Aveva una politica autonoma in nome dell’evangelizzazione che non andava sicuramente in favore dei nativi americani, anzi pendeva dalla parte dei conquistatori a volte in modo netto e radicale in nome di una sacrosanta civiltà, definendo selvaggi e senza Dio gli autoctoni che, tra l’altro, non mancavano certo di una ricchezza e un fondamento spirituale.

La prima richiesta di incontro con Leone XIII fu rifiutata perché la compagnia era molto numerosa, poi venne accolta a patto che partecipasse, con un invito alla Cappella Sistina, un numero ristretto di persone. Cody presenziò con alcuni nativi americani, tra cui Toro Seduto e Alce Nero, imponendo loro gli abiti naturali che indossarono con una dignità tale da intimorire anche il papa. La notizia fece il giro del mondo e l’Herald Tribune scrisse: tra affreschi immortali di Michelangelo e di Raffaello e in mezzo alla più antica aristocrazia romana apparve improvvisamente una banda di selvaggi con le facce dipinte, coperti di piume, armati di scuri e coltelli.

E intanto il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt elogiandone le gesta lo descriveva così: è stato uno di quegli uomini dai muscoli e dai nervi d’acciaio, il cui coraggio ha aperto il grande West all’insediamento della civiltà.

Lo spirito della nazione.

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Sotto il cielo del West https://www.carmillaonline.com/2014/11/28/grande-cielo-west/ Thu, 27 Nov 2014 23:01:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18888 di Sandro Moiso

guthrieAlfred Bertram Guthrie, Il grande cielo, Mattioli 1885, Fidenza 2014, pp.450, € 16,90

“L’epoca degli uomini della montagna nel Far West non fu mai narrata così bene. Probabilmente non lo sarà mai più” (Ernest Hemingway)

Le edizioni Mattioli 1885, nella loro pregevole opera di riscoperta e pubblicazione di opere ed autori della letteratura nord-americana del XIX e XX secolo, rendono nuovamente disponibile per il pubblico italiano, nella nuova traduzione di Nicola Manuppelli, uno dei capolavori meno conosciuti della letteratura statunitense. Pubblicato, infatti, negli Stati Uniti nel 1947, il romanzo di A. B. Guthrie fu tradotto e pubblicato per [...]]]> di Sandro Moiso

guthrieAlfred Bertram Guthrie, Il grande cielo, Mattioli 1885, Fidenza 2014, pp.450, € 16,90

“L’epoca degli uomini della montagna nel Far West non fu mai narrata così bene. Probabilmente non lo sarà mai più” (Ernest Hemingway)

Le edizioni Mattioli 1885, nella loro pregevole opera di riscoperta e pubblicazione di opere ed autori della letteratura nord-americana del XIX e XX secolo, rendono nuovamente disponibile per il pubblico italiano, nella nuova traduzione di Nicola Manuppelli, uno dei capolavori meno conosciuti della letteratura statunitense. Pubblicato, infatti, negli Stati Uniti nel 1947, il romanzo di A. B. Guthrie fu tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia dalla Mondadori nella collana Medusa nel 1950; in seguito ricomparve, ad opera della Rizzoli, nel 1978 per poi sparire definitivamente nel dimenticatoio.

Probabilmente ciò fu dovuto allo scarso interesse che la letteratura e il cinema di carattere western esercitarono in Italia a partire dalla fine degli anni settanta e per i decenni successivi. Dal libro era stato infatti tratto nel 1952 anche un film dall’omonimo titolo, diretto da Howard Hawks ed interpretato da Kirk Douglas, che, però, ne stravolgeva completamente storia e significato. Assolutamente lontano dai modelli di cinismo, violenza e ribellione che avrebbero caratterizzato il cinema western di Sergio Leone e di Sam Peckinpah negli anni sessanta.

Peccato, perché in realtà il romanzo di Guthrie anticipava di decenni il revisionismo western di cui sarebbero, poi, stati protagonisti i due registi ed autori come Cormac McCarthy, Larry Mc Murtry, Annie Proulx e, anche se per un solo romanzo,1 John Williams. Lontano dall’epica della Frontiera come creazione di un mondo nuovo e migliore, Guthrie mostrava, in quello che è stato unanimemente considerato il suo romanzo migliore, il peccato d’origine degli Stati Uniti: la distruzione dei nativi, delle specie animali, del territorio e di qualsiasi rapporto sociale che non fosse immediatamente basato sulle logiche dello scambio mercantile e del profitto individuale o delle grandi compagnie commerciali.

Un’America che nasce tutt’altro che vergine e che porta con se un peccato originale non di carattere religioso, come avrebbero voluto i Padri Pellegrini, ma di stampo capitalistico e mercantile; dando vita, come risultato inevitabile, ad una società spietata in cui tutte le contraddizioni del sistema si sarebbero manifestate senza alcuna remora. Una società in cui la presenza della morte avrebbe dominato non come conseguenza del puritanesimo importato col Mayflower, ma come risultato delle logiche distruttive messe in atto.

A.B. Guthrie Jr. (1901 – 1991), come ci rivela nelle preziose note poste a chiusura del testo il curatore e traduttore, aveva deciso preventivamente di narrare il West e i suoi avventurieri come mai nessuno li aveva narrati prima. Ci riuscì e nel corso della sua vita, in cui scrisse molti altri romanzi e racconti di ambiente western, si spostò sempre più su posizioni radicali a difesa dei nativi americani e dell’ambiente. Praticamente fino al termine dei suoi giorni.

Già negli anni successivi al college l’autore si dichiarava “agnostico, liberale e ribelle” e tutto ciò traspare fin dalle prime pagine del romanzo, in cui il protagonista Boone Caudill rompe violentemente con il padre e fugge, ancora diciassettenne, verso l’Ovest e verso l’ignoto; scontrandosi immediatamente con l’avidità degli uomini e la falsità della Legge e dei suoi tutori. Ma la sua odissea di formazione, come in seguito per tanti personaggi di Cormac McCarthy, non assumerà le forme né della liberazione né, tanto meno, della redenzione dai peccati della civiltà.

Scandita in cinque parti (1830, ancora 1830, 1837, 1842-1843 e 1843), la narrazione accompagna Boone attraverso le grandi pianure del bacino del Missouri e le Montagne Rocciose, fino al suo trentesimo anno e al suo, inutile, ritorno all’Est. Un Odisseo senza Itaca, perché quello che ritorna non è un Boone migliore o più maturo o più saggio. No, è soltanto un uomo indurito, con la nostalgia per un mondo che ha contribuito a conquistare e distruggere e in cui ha dimostrato di non sapere davvero amare. E che non potrà nemmeno portare a termine la vendetta che aveva meditato per così lungo tempo.

Un mondo di violenza e di sospetto, in cui il mito dell’amicizia virile non è altro che una leggenda come quella delle valli ancora piene di castori; che, invece, a loro volta sono già stati distrutti per soddisfare, con le loro pellicce rivendute anche a bassissimo costo, l’industria e il mercato dei cappelli a cilindro per i benestanti delle grani città. Un mondo duro e spietato dove un minimo errore può significare la morte e la vita scorre fino a quando non incontra un coltello, una freccia o una pallottola. Magari sparata da un amico.

Domina su tutto il grande cielo del West, infinito e imperturbabile; sia sulle vicende degli uomini bianchi che su quelle degli uomini rossi. I primi destinati a morire per gli agguati e le ferite oppure a soffrire la fame, la sete, il freddo o per le conseguenze di malattie veneree; i secondi destinati ad essere spazzati via per effetto delle devastazioni e delle violenze portate dalla civiltà e dalle epidemie diffuse ad arte. Vittime del primo grande genocidio moderno. Il tutto in uno scenario in cui domina una natura solo potenzialmente ancora incontaminata, ma, in realtà, già cartografata, divisa e contesa dalle grandi compagnie per il commercio delle pellicce.

Lewis e Clark sono passati da lì pochi anni prima, ma il danno è stato già fatto e non si potrà più tornare indietro. Esattamente come per Boone Caudill.
Mentre rimangono sullo sfondo le donne. Bianche e rosse. Le prime eterne Penelopi dalla vita passata in attesa di un ritorno che magari non avverrà mai oppure di un amore che non si rivelerà altro che violenza, anche sessuale, oppure, ancora, destinate a morire di fatica nelle povere case costruite in prossimità della Frontiera. Le altre destinate ad essere, nel rapporto con l’uomo bianco, null’altro che una merce di scambio o inconsapevoli oggetti e schiave sessuali.

Leggendo questo romanzo, durissimo e bellissimo, ci si rende conto che il cinema western tradizionale ha davvero fatto un cattivo servizio alla storia degli Stati Uniti e della Frontiera. Probabilmente lo sapevamo già tutti da tempo, ma Guthrie, che con il successivo “Il sentiero del West” avrebbe vinto il Premio Pulitzer, lo ha rivelato ben prima di tutti gli altri autori che abbiamo poi imparato a conoscere ed amare.

Non vi è traccia in Guthrie della visione pastorale di una America bucolica in cui potersi rifugiare e dove solo l’avvento della macchina a vapore, oppure del macchinismo tout court, avrebbe segnato l’inizio del declino e della rovina, così come Henry David Thoreau nel “Walden” aveva teorizzato fin dall’Ottocento.2 Non vi è romanticismo, ma una visione, che rasenta il naturalismo espressivo, ben lontana da qualsiasi forma di epica o di epopea.

Non resta così che augurarsi che l’editore continui nella riedizione dei romanzi e delle novelle dell’autore americano, sia di quelli già pubblicati in Italia sia di quelli ancora inediti. Un autentico Omero di una frontiera priva di qualunque funzione mitopoietica, le cui vicende non sono determinate dalla volontà di divinità sregolate e volubili, ma dal raziocinio del calcolo della profittabilità delle imprese e delle conquiste.


  1. Butcher’s Crossing, Fazi Editore 2013, edizione originale americana 1960  

  2. Si veda in proposito Leo Marx, The Machine in the Garden. Technology and the pastoral ideal in America, Oxford University Press 1964 – 2000  

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