Fanucci – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Lo specialista di Shi Heng Wu https://www.carmillaonline.com/2020/07/09/lo-specialista-di-shi-heng-wu/ Thu, 09 Jul 2020 20:30:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61221 Fanucci Time Crime, Roma 2020 pagg. 247 euro 14,90

di Pierluigi Sullo

Se avete in mente di prendervi un sollievo (dalla clausura del virus, ad esempio), leggendo un romanzo, magari giallo, lasciate perdere per una volta i soliti. Voglio dire i classici Pepe Carvalho, il cui autore Vázquez Montalban era un esule galiziano in Catalogna, o la creatura di Camilleri, Montalbano, che nelle indagini ci inzertava sempre, o il commissario Charitos, uomo normale in un paese, la Grecia, che non lo era, tanto che decapitava gli inviati del Fondo [...]]]> Fanucci Time Crime, Roma 2020 pagg. 247 euro 14,90

di Pierluigi Sullo

Se avete in mente di prendervi un sollievo (dalla clausura del virus, ad esempio), leggendo un romanzo, magari giallo, lasciate perdere per una volta i soliti. Voglio dire i classici Pepe Carvalho, il cui autore Vázquez Montalban era un esule galiziano in Catalogna, o la creatura di Camilleri, Montalbano, che nelle indagini ci inzertava sempre, o il commissario Charitos, uomo normale in un paese, la Grecia, che non lo era, tanto che decapitava gli inviati del Fondo monetario internazionale, o il roccioso commissario Adamsberg, che dai Pirenei era sbarcato a Parigi. Eccetera. Il romanzo in questione, Lo specialista, è l’esatto contrario.

Fabio Montani, l’investigatore di Jean-Claude Izzo, si aggirava nella fanghiglia tossica di Marsiglia essendo il prototipo del bene, del riscatto, lo Specialista è un assassino di professione, non addestrato ma naturalizzato nel ruolo: il suo corpo allenato in modo maniacale e la mente gelida, il cibo frugale, la cura nello stare discosto dalla vita di tutti, le sue origini misteriose e il nome che non viene mai citato. Un uomo che accetta incarichi estremamente rischiosi in ogni parte del mondo, dalle favelas di Rio de Janeiro alla vera capitale dell’impero, New York. E che uccide in ogni modo, con ogni mezzo, con calcolo di ogni dettaglio e senza alcun turbamento.

Lo Spacialista cerca di essere una macchina, si direbbe, cui si dà il comando ed essa esegue, senza sbavature, senza lasciare tracce. E poi si ritira, scompare nella sua casa-fortilizio nella peggiore delle banlieues parigine. Sole compagnie, ma nelle “missioni”, la sua socia-amante occasionale Eve, che fa pensare alla Eva di Diabolik, bionda e bellissima e micidiale, anche se quella del fumetto agiva in modo criminale per procurare il bene. Mentre lo Specialista è il male assoluto, tranne un’unica debolezza: Jeanne-Marie, giovane madre single che vive su un barcone nella Senna, cui l’assassino fa visita, ogni tanto, per respirare un affetto normale.

Quel che ci si chiede, leggendo delle imprese letali dello Specialista senza nome (in generale contro personaggi ricchi, odiosi o meritevoli di punizione) è se ci sarà, prima o poi, una svolta, un riscatto di qualche tipo, una crisi, nello stile di vita dell’assassino. E naturalmente sì, succede quando lui ha accumulato abbastanza tensioni, stress, da faticare a praticare la meditazione. E anche soldi, certo. Un vero e proprio tesoro, depositato in un paradiso fiscale. Così si ritira, o annuncia di volerlo fare. E da quel momento il cacciatore diventa preda. Perché, inconsapevolmente, sa cose che non dovrebbe sapere, anche se i committenti degli omicidi lui non sa chi siano. E però deve morire, sparire, non lasciare traccia. Così che lui si dilegua, o ci prova. Fugge, finisce a Tokyo, e così via.

Non dirò qui come va a finire, solo, visto che è annunciato nella presentazione del libro, che la sua traiettoria termina in un monastero shaolin. Lui diventa un monaco, e quindi…

L’ulteriore finzione consiste nel fatto che Mauro Baldrati si presenta, nelle copertine del libro, come il “curatore”, cioè uno che ha raccolto il racconto di Shi Heng Wu, monaco, e lo ha scritto senza che l’interessato, l’ex assassino di professione, abbia voluto metterci mano. E questo incontro, il primo, sarebbe avvenuto in una casa di Hare Krishna a Firenze. Tutto molto dettagliato e probabilmente falso, chissà. Anche se la quantità di dettagli sui luoghi, i viaggi, le abitudini alimentari di mezzo mondo sembrano davvero molte, anche per uno che, da fotografo professionista, ai suoi tempi deve aver viaggiato molto. Ricavandone, chissà, appunto la sensazione che un grande male incombe su tutto, che però a certe condizioni può rovesciarsi nel suo contrario; così che il monaco Shi Heng Wu finisce per assomigliare, in un certo senso, a Pepe Carvalho e a Salvo Montalbano, uomini complicati ma animati da una etica inossidabile.

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Io sono El Diablo, backstage https://www.carmillaonline.com/2019/03/12/io-sono-el-diablo-backstage/ Tue, 12 Mar 2019 22:23:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51286 di Mauro Baldrati

Questo capitolo fu stralciato dal mio romanzo Io sono El Diablo, pubblicato da Fanucci nell’ottobre 2018, perché distraeva il flusso di lettura, lo sviava. Non per il testo in sé, ma in rapporto al romanzo stesso. Io, dopo una discussione con l’editore e con l’editor, e dopo diverse riletture e riflessioni, ho concordato. In effetti era come se stessi seguendo un sentiero e a un certo punto prendessi una derivazione faticosa senza sapere dove mi stava portando.

Però sono affezionato a questo testo. Per scriverlo mi ero ispirato a Suttree, [...]]]> di Mauro Baldrati

Questo capitolo fu stralciato dal mio romanzo Io sono El Diablo, pubblicato da Fanucci nell’ottobre 2018, perché distraeva il flusso di lettura, lo sviava. Non per il testo in sé, ma in rapporto al romanzo stesso. Io, dopo una discussione con l’editore e con l’editor, e dopo diverse riletture e riflessioni, ho concordato. In effetti era come se stessi seguendo un sentiero e a un certo punto prendessi una derivazione faticosa senza sapere dove mi stava portando.

Però sono affezionato a questo testo. Per scriverlo mi ero ispirato a Suttree, un capolavoro di Cormac McCarthy, l’uomo del fiume. Ma non solo. Dietro c’è anche il cosiddetto “fatto vero”.

Nei primi anni ’70 a Mezzaluna (RA), la cittadina dove ho ambientato i romanzi Avventure di un teppista e Il mio nome è Jimi Hendrix, vivevano i fratelli Cipolla. Il primogenito, colui che aveva dovuto ingoiare tutte le gelosie e le umiliazioni per la nascita del principino, era Il poveretto, mentre il secondo era Il signore.

Cipolla il signore era un broker assicurativo. Viaggiava su auto di grossa cilindrata, vestiva con la giacchetta e la cravatta, portava orologi d’oro, era cordialone, espansivo, e offriva spesso da bere nel bar della sezione P.C.I.

Cipolla il poveretto era sempre al verde, una mina vagante che il sabato sera cercava di scroccare il biglietto del cinema, un caffè, una birra, le sigarette. Tutti cercavamo di evitarlo.

Un giorno Cipolla il poveretto sparì dalla circolazione. Venimmo a sapere che si era costruito una capanna di giunchi in riva al fiume Lepre, dove viveva di pesca “a manaccia” (cioè catturava i pesci lungo le sponde a mani nude), e, si diceva, di piccoli furti negli orti e anche qualche gallina. I contadini protestavano, ma erano tempi morbidi, di “vivi e lascia vivere”, e Cipolla il poveretto ci passò tutta l’estate.

Ogni tanto andavamo a trovarlo. Era diventato selvatico, con la barba lunga, gli occhi spiritati.
Pensavo soprattutto a lui mentre scrivevo questo capitolo.

L’inglese, durante le sue peregrinazioni nella periferia bolognese, va a trovare l’amico Giac che vive in una capanna nella golena del fiume Reno.

***

 
Non fu lungo il tratto fino al ponte sul fiume.
Il traffico era diminuito ma le auto e i camion lo sfioravano come missili imbolsiti nei passaggi dove il marciapiede era interrotto per lavori.
Prima del ponte girò a sinistra, entrò in un isolato di edifici con cortili, un piccolo giardino coltivato a rose rosse e bianche.
Raggiunse la golena, superò il grande ponte di pietra della ferrovia affiancato da due colossi di cemento bianco, i viadotti futuribili di forma arrotondata che costituivano le piste dei treni ad alta velocità.
Un pensionato che stava tagliando un tronco con una sega a motore lo vide.
Alzò un braccio, gridò

“è là! E’ arrivato!”

Si addentrò nel tratto selvaggio del Reno, con avvallamenti, piccoli acquitrini creati dalle piene, fiancheggiò una montagna di terra e pietre ricoperta di papaveri, canneti. La terra sembrava levigata dal passaggio della piena, con depositi di erba secca, tronchi, qualche sacco di plastica.
Superò la carcassa di un’auto bruciata, portata in quel sentiero chissà come e perché.
Lo vide in lontananza, accucciato dietro al tavolino traballante. Era ligio agli orari Giac. Pranzo a mezzogiorno, cena alle sei, alle cinque quando la luce calava alla svelta. Ora aveva finito di pranzare e stava prendendo il sole che bucava le nuvole in viaggio nel cielo stracciato.
L’inglese si avvicinò. Giac lo salutò con una mano.
Gli stessi vestiti larghi e infangati di sempre, gli scarponi da lavoro con la punta di ferro, la faccia di un colore marrone, di chi sta sempre all’aria aperta, la barba di una settimana.
Notò subito qualcosa di insolito accanto alla postazione-cucina, col tavolo scassato, le sedie di plastica da campeggio: un palo alto tre metri con una piastra inclinata in cima.
“Inglese. Ti fai vedere. Ogni tanto.”
Giac intercettò il suo sguardo. “Visto? Sai cos’è?”
“Circa” disse l’inglese, osservando il palo.
“Me l’ha regalato un tipo, uno che si interessa di ecologia, quelle storie lì. Si chiama pannello fotovoltaico. Prende la luce del sole e la trasforma in elettricità. Non è fico?”
“Fico” convenne l’inglese.
“Guarda qua!” gridò Giac. Spostò degli arbusti scoprendo una tenda di plastica che nascondeva un frigorifero di piccole dimensioni. “Fa funzionare un frigo! Così tengo la roba quando è caldo. Il pannello l’hanno costruito loro, quelli ecologici voglio dire, in un corso, un laboratorio, così mi ha detto.”
Aprì lo sportello del frigorifero. L’inglese vide dei vasetti bianchi, una bottiglia di latte.
“Quando sei arrivato?” chiese.
“Da poco. Questo inverno è venuto un metro di neve. Se stavo qui morivo.”
L’inglese si sfilò lo zaino. Giac viveva sul fiume da aprile a novembre, poi si arrangiava. A 35 anni non aveva più il fisico per superare l’inverno, diceva, ed era costretto a trasferirsi in città. Aveva bisogna di un locale riscaldato. Così stava nel dormitorio pubblico. Un posto pieno di pazzi, di ubriachi. Ogni tanto in città si incrociavano, allora camminavano per le strade gelide e alla sera l’inglese lo invitava a cena nella mensa di Via Ugo Bassi dove cercava di aiutarlo nella paranoia distruttiva che gli creava la presenza di altre persone.
“Visto che hai il frigorifero, ho qualcosa per te” disse aprendo lo zaino. Prese le scatolette, il pane, le mele, il formaggio, le due bottiglie.
“Ehi, grazie, inglese. Il vino ce lo beviamo subito, che dici?”
Si frugò in tasca, tirò fuori un piccolo coltello a serramanico che usò per fare leva sotto al tappo a corona.
“Giac, mi sa che per oggi ho bevuto abbastanza.”
“Eh? Ma no, solo un bicchiere, non vorrai farmi bere da solo!”
Stappò la bottiglia, ma d’un tratto si immobilizzò, con lo sguardo fisso a terra. Sembrava teso come un cane da caccia, concentrato. Allungò un braccio, lentamente, prese il bicchiere di plastica che stava sul tavolino. Si inginocchiò, col bicchiere in mano capovolto. L’inglese seguì la linea della sua attenzione e individuò un ragno di discrete dimensioni sull’erba tagliata, col corpo giallastro, le zampe corte. Con un movimento fulmineo Giac coprì il ragno col bicchiere, poi inserì sotto il bordo un pezzo di cartone che portava sempre con sé, per le sue prede. Alzò il bicchiere così tamponato e lo agitò a lungo, come i baristi quando preparano i cocktails. Lo rovesciò, tolse il cartone e con una sorta di lenta curiosità, come i giocatori di poker quando scoprono le loro carte, guardò dentro. Sorrise, socchiuse gli occhi, si portò il bicchiere alla bocca e, con un gesto repentino, inghiottì il ragno. Restò con gli occhi chiusi, la faccia rivolta verso il cielo, finché iniziò a masticare piano, con movimenti circolari della mascella, senza aprire gli occhi.
L’inglese distolse lo sguardo.
Si girò verso il fiume, che si intravedeva gonfio al di là dell’intrico di canne, l’edera e la vitalba che ricoprivano gli alberi fino a soffocarli. Quello era uno dei motivi per cui Giac era seguito dai servizi sociali. Soffriva, affermavano, di una patologia che lo spingeva a divorare gli insetti. Sindrome di Renfield, dicevano. In realtà non mangiava insetti, ma solo ragni, e aveva una motivazione a suo modo lucida. Un giorno gliene aveva parlato, quando manifestò sorpresa assistendo per la prima volta alla scena.
“Io mangio due ragni alla settimana, talvolta tre” aveva detto. “Sono grato ai ragni, perché mi regalano la loro essenza. Assorbo la loro natura di aracnide, che scorre in me, nel mio sangue, sulla mia pelle. E gli insetti del bosco lo sanno. Per questo mi rispettano. Sentono l’aracnide. Mi lasciano in pace.”
Ed era vero. Giac sembrava immune alle punture di insetto. Neanche le zanzare con le zampe tigrate lo aggredivano. Questo gli permetteva di vivere in quel tratto di golena in estate. Un anno l’inglese era rimasto a Bologna fino al primo agosto. La golena del fiume, con la cappa di umidità, la temperatura di 40 gradi e gli insetti sembrava un tratto di giungla equatoriale.
Giac, il ragno.
Si girò. Giac, terminato il rito, aveva riempito due bicchieri di vino rosso.
L’inglese pensò alla patologia che gli avevano attribuito. Anche lui aveva mangiato insetti. Durante le marce congiunte con gli incursori del SAS nella giunga di Sumatra cercavano i tronchi caduti sotto ai quali proliferavano certi grassi bruchi gialli dal sapore dolciastro. Le cicale arrostiste erano croccanti come i gamberetti e i grossi ragni pelosi erano particolarmente ricchi di proteine.
Anche lui soffriva della Sindrome di Renfield?
Prese un bicchiere, chiedendosi se era quello che aveva contenuto il ragno. Bevve un sorso. Era un vino corposo, secco, quasi amaro.
Giac sistemò le bottiglie nel frigo. Poi sparecchiò e infilò i resti in un sacco di plastica.
“Chissà per quanto tempo mi lasceranno in pace” disse.
L’inglese non rispose. Ogni anno Giac se lo chiedeva.
“Stamattina è stata qui quella donna dei servizi sociali”.
Lo guardò di sbieco. Con quella luce, con un riflesso del sole nelle pupille contro lo sfondo scuro delle piante, l’inglese vide uno sguardo da aracnide. Vide il ragno nei suoi occhi.
“Beh, dice che il prossimo anno forse avrò una casa. Ma io… io non voglio una casa!”
L’inglese non replicò. Capiva le sue motivazioni. Neanche lui voleva una casa. Sempre lo stesso cubo dove rinchiudersi ogni sera. Dove svegliarsi ogni mattina. Aprire gli occhi e sentirla, sul tetto.
C’era sempre, sul tetto.
Ascoltare il suo fruscio, la stoffa che vibra frustata dal vento.
La bandiera nera della sventura.
“Vogliono a tutti i costi portarmi via da qui! Vogliono sottopormi al… come cazzo si chiama, TSO!”
“Che sarebbe?”
“Trattamento sanitario obbligatorio. Arrivano i pompieri, l’ambulanza, i poliziotti. Tutti per me. Vaffanculo.”
“Beh, potresti fare così” disse l’inglese. “In inverno stai nella casa, come essere al dormitorio, e l’estate torni qui.”
“Ma è proprio questo il punto!” esclamò Giac. “Non vogliono che stia qui. Per loro è inconcepibile.”
L’inglese guardò in direzione del gigantesco fico, vicino alla recinzione che delimitava la golena. Sotto la chioma compatta, nell’intrico di rami che scendevano fino a terra, Giac aveva ricavato la sua caverna. Tagliando i rami interni aveva creato lo spazio per una tenda a igloo, mimetizzata da foglie e rampicanti, invisibile dall’esterno. Ogni giorno al calare del sole si ritirava nella tana e vi restava fino all’alba. La postazione si trovava sopra un piccolo rilievo, teoricamente fuori portata dalle piene.
“Giac, il problema, per loro, è che tu non dia nell’occhio.”

Non dare nell’occhio.
Mai.
Era la teoria del Crotalo Muthafucka
uno specialista.

“Per dire, se ti beccano che fai razzie negli orti…”
“Ma non lo faccio più da due anni!” lo interruppe Giac. “Mi regalano tutto, ho più di quanto mi serve. Io sono il buon selvatico. Tra un po’ porteranno i bambini a vedermi, come allo zoo.”
L’uomo ragno.
L’uomo selvatico.
L’inglese ripose il bicchiere sul tavolino, mentre Giac cercava di richiudere la bottiglia.
“Non si chiude con questo tappo. Vuol dire che la berremo stasera a cena.”
L’inglese guardò alle sue spalle, verso i ponti della ferrovia.
Si udiva, in lontananza, il fragore della cascata.
L’acqua precipitava schiumando sui gradoni sotto le arcate.
“Stasera la berrai tu. Io devo andare.”
Giac sistemò la bottiglia accanto alla tenda che proteggeva il frigorifero.
“Devi andare? Devi sempre andare tu. E dove?”
Dove? L’inglese finse di non avere sentito.
“Invece tu resti qui, per un po’. Ho bisogno del tuo aiuto.”
Balzò in piedi, scattante sotto ai vestiti larghi e fangosi. Guardò verso il fiume, con le mani sui fianchi. “Oggi è la giornata del pesce. Tu vieni con me a tirare su la lenza. Lascia lo zaino qui, nessuno lo tocca.” Spostò gli arbusti, scoprì un varco vicino al baule. L’inglese sospirò rassegnato. “Andiamo, ora, vediamo cosa mi ha riservato fratello fiume.”
Si incamminò verso la boscaglia imboccando la traccia di un sentiero che spariva nell’erba alta, seguito dall’inglese. Penetrarono nell’intrico di erbacce, ortiche, Giac come apripista incurante dei semi uncinati che si attaccavano ai vestiti e ai capelli, l’inglese dietro, spinto dai ricordi di altre boscaglie, altre sterpaglie, fino al fiume dove l’acqua correva veloce con piccoli vortici e onde schiumeggianti. La sponda era fangosa. Giac saltò nell’acquitrino affondando con gli enormi scarponi n. 48, regalo di un pensionato di tre taglie più grosso.
L’inglese si fermò, preoccupato per gli amati anfibi.
“Vieni, devi aiutarmi a tenere la lenza in acqua.”
Si inginocchiò accanto a un paletto infisso nella mota, saggiò la tensione di un filo di nylon che mandava impercettibili riflessi.
L’inglese si tolse anfibi e calzini e camminò sul fango gelido a piedi nudi. Raggiunse Giac, che stava recuperando la lenza. Dall’acqua emerse, sguazzando furiosamente, un pesce verdognolo lungo quanto una mano.
“Ecco, tieni ferma la lenza in modo che possa staccarlo” disse Giac.
L’inglese afferrò la lenza e la tenne in tensione, mentre Giac, con cura meticolosa, liberava la bocca del pesce. Poi lo gettò in acqua.
“Dico, perché lo liberi se l’hai appena pescato?” chiese l’inglese.
“Perché è troppo piccolo! Recupera la lenza ora.”
L’inglese tirò la lenza, arrotolandola ai suoi piedi come aveva fatto Giac. Emerse un altro pesce, più o meno delle dimensioni del primo, che fu liberato. Continuò a recuperare mentre la lenza vibrava, sembrava attaccata a qualcosa di pesante. Tirò finché, con gran sguazzare, apparve un grosso pesce squamoso di forma tozza.
“E’ una carpa!” esclamò Giac. “Tienila in tensione che la stacco.”
Appoggiò il pesce sulla sponda, poi si abbassò mettendo il naso quasi a contatto con la bocca della carpa, come se volesse baciarla. Lentamente estrasse l’amo. Buttò la carpa tra l’erba, dove iniziò a dibattersi goffamente.
“Forza, tira ora, ce n’è almeno un altro!”
Riprese a recuperare la lenza vibratile, che si spostava verso il centro del fiume. Due giri e venne fuori un pesce scuro, con la testa enorme.
“Un pesce gatto! Bello! Tienila ferma!”
Giac lo liberò, facendo attenzione a non ferirsi con le pinne acuminate del pesce gatto. Lo lasciò scivolare accanto alla carpa, poi recuperarono tutta la lenza, rimettendo in acqua altri due pesci.
Giac sembrava frenetico, spinto da una grande fretta di inginocchiarsi di fronte ai due pesci agonizzanti. L’inglese lo vide abbassarsi toccandoli con la fronte, mentre prendeva il coltello dalla tasca e a bassa voce bisbigliava:

“Grazie, grazie di avermi donato la vostra libertà.”

Poi sollevò la carpa tenendola per le branchie e le conficcò la lama del coltello in gola, sventrandola con un secco fendente. Strappò le interiora ancora pulsanti, le gettò in acqua, mentre il pesce piegava la coda in un ultimo guizzo. Ripeté l’operazione col pesce gatto, con la testa bassa, le sopracciglia aggrottate, e da quella posizione, con quella luce, l’inglese vide di nuovo il volto di un aracnide, gli occhi di un ragno. E quando parlò udì la voce di un aracnide.
Aveva voce un aracnide?

“Inglese, per piacere
metti la lenza dentro a quel sacchetto
così non crea danni agli animali
che passano sulla sponda.”
(con voce di aracnide)

L’inglese eseguì. Intanto Giac lavava i pesci.
Tornarono nella selva, l’inglese scalzo, con gli anfibi in mano, saltellando sulle radici e sui rovi, Giac avanzando come un machete umano fendendo l’erba, coi due pesci in mano.
Sbucarono nello spiazzo dove Giac mangiava. Infilò i due pesci in frigorifero, mentre l’inglese si asciugava i piedi infangati con la carta da cucina.
“Andiamo ad accendere il fuoco ora!” disse.
Si buttò a capofitto nella boscaglia, girò a sinistra aprendosi la strada a calci in uno sbarramento di rovi finché uscirono in prossimità della sua caverna. Sulla destra, a una decina di passi, spostò dei rampicanti, scoprì la collinetta di terra dove aveva sistemato un forno, ricavato da un pozzetto per fognatura. Di fianco al forno c’era una piccola catasta di legna da ardere, rami e tronchi portati dalla piena. Erano stati tagliati a misura, pezzi regolari.
“I pensionati” disse Giac prevenendo la sua domanda. “Sono venuti con una sega a motore a tagliare i rami.”
Andò nell’antro sotto al fico, tornando con carta di giornale e una scatola di fiammiferi. Posizionò nel forno dei rami secchi e li accese con la carta. Un fumo bianco uscì dalla copertura, dove era stato aperto un buco. Giac faceva vento col giornale. Presto le fiamme iniziarono a guizzare. Quando il forno fu sufficientemente caldo inserì due grossi ciocchi.
“Adesso vai a prendere i pesci, con due piatti. Tra un po’ li mettiamo dentro. Impiegheranno circa due ore a cuocere a fuoco lento.”
L’inglese eseguì.
Tornò alla postazione del frigorifero, dove c’era anche il suo zaino.
Poteva andarsene ora, tornare verso la città. Aveva passato fin troppo tempo con Giac. Era rimasto fermo troppo a lungo. Guardò l’uomo inginocchiato accanto al forno, l’uomo ragno di fango che agitava il giornale, allungando il collo.
L’eremita.
Una specie di ragno ermafrodita.

Giac stesso lo disse
mentre erano seduti accanto al forno
a gambe incrociate.
Gli aveva offerto il pesce gatto
per cui l’inglese aveva capito
che era la carne migliore.
“No, voglio la carpa”
aveva detto l’inglese.
“Ma la carpa è piena di spine.
Tu prendi il pesce gatto, alla carpa ci penso io.”
“Voglio la carpa, punto e basta.”
Ora stava cercando di mangiare quella carne stopposa
con un forte sapore di fango
disseminata di centinaia di spine di ogni dimensione.
“Se solo potessi costruire una capanna.”
L’inglese valutò che non c’era altro di commestibile
nel mezzo pesce che era avanzato.
Addentò il pane arabo
arrostito nel forno.
Bevve un bicchiere del vino secco Sangiovese.
“Sarei a posto, con una capanna.
Starei qui anche in inverno.
Al diavolo la casa, la città, il dormitorio.”
Gli uccelli cantavano da ogni direzione
col massimo dell’energia
un concerto prima del calo serale.
“Certe volte…”
disse Giac, con lo sguardo fisso sulle braci morenti
“penso: e se avessi… qualcuno con me?”
“Qualcuno?”
“Sì… un… una compagna, qui con me.
Talvolta ci penso, e vuoi sapere cosa concludo?”
“Sì.”
“Che è impossibile.
Nessuna donna vivrebbe come me.
E vuoi sapere un’altra cosa?”
“Dimmela.”
“Non m’importa.
Non ne sento il bisogno.
Mi stupisco da solo, ma è così.”
Un debole riflesso rosso
sulla sua faccia marrone
solcata da reticoli di rughe.
“Inglese, vuoi sapere cosa penso?”
“Dimmi cosa pensi, Giac.”
“Penso che noi umani siamo fuori posto.
Siamo l’unica specie che non può vivere in inverno senza costruire un cubo di pietra o di legno dove stare col corpo ricoperto di stracci o di pellicce rubate agli animali che invece vivono così come sono nati in tutte le stagioni.
Perché noi no?
Che diavolo significa?”
“Forse non significa nulla, Giac.
Non c’è per forza un significato.”
“E invece deve esserci!
Com’è possibile che siamo così deboli e indifesi?
Non ha senso.”
“Forse un tempo eravamo diversi.”
“E chi lo dice? Quelle storie sulle scimmie?
Se fosse vero ci saremmo evoluti al contrario
verso la debolezza e la malattia.
Noi siamo fuori dal mondo.
Io cerco di vivere come loro”
disse, indicando il bosco.
“Ma non è possibile.
Se resto qui in inverno muoio.
Invece i topi, i serpenti scavano un buco in terra
e qui passano l’inverno.
Gli uccelli stanno sui rami.
Alcuni muoiono, altri no.
E comunque non devono uccidere un altro animale
per rubargli la pelle.
Vuoi davvero sapere cosa penso, inglese?”
“Voglio saperlo, Giac.”
“Noi non siamo di qua.
Questo non è il nostro dannato mondo.”
“Cioè siamo venuti dallo spazio?
Vuoi dire questo?”
“Deve essere così.
Altrimenti qui regna la follia.”
“E’ una teoria, Giac.”
“E’ così. E io sto cercando di mutare, capisci?”
“Credo di sì.”
“Sto cercando, e lo sento.
Sento che sto mutando.
Lo sento, capisci?
Per questo non esiste
una donna della specie umana
che potrebbe vivere con me.
Io potrei vivere con una cagna
o una pecora
ma cosa sarebbe di loro durante l’inverno?
Dovrei abbandonarle.”
Restò immobile, in una fissità totale, per molti minuti.
Gli uccelli ora tacevano
nella quiete della sera che si annunciava.
Solo qualche trillo lontano
dal folto del bosco.
“Ora vado, Giac.”
Ancora un minuto di immobilità nell’aracnide
prima di girarsi
e rispondere.
Nei suoi occhi era sceso come un velo
rendendoli vitrei, opachi.
“Te ne vai, inglese? Tu te ne vai sempre.
Sei fuori posto, sempre. Come tutti. Come me.”
“Vero.”
Si alzò, facendo crocchiare le giunture delle caviglie e dei ginocchi.
“Perché non dormi qui?
Ho una tenda monoposto.
Ho visto che hai il sacco con te.”
Gli occhi avevano ripreso luce
roteavano verso il bosco già buio.
D’un tratto, un pensiero:
Potrebbe piantarmi il coltello nella gola
dopo avermi ringraziato
e mangiarmi per prendere la mia essenza
o quello che è?
Concluse che sì, avrebbe potuto farlo.
Anche se forse non l’avrebbe fatto.
“Non posso, Giac. Ci vediamo presto.”
Restò in piedi di fronte a lui, sovrastandolo.
Anche Giac si alzò
sbattendo le palme sui pantaloni chiazzati di fango.
“Allora torna a trovarmi.
Se vieni in giugno avrò raccolto la frutta.”
Lo sapeva.
La golena era disseminata di alberi da frutto
ciliegi, albicocchi, fichi.
“Verrò, puoi giurarci.”
“Ti aspetto allora.”
Le braccia lungo il corpo
la faccia marrone immobile.
Osservò l’inglese girarsi e camminare
verso la postazione del pannello fotovoltaico
dove recuperò lo zaino.
Poi Giac il ragno guardò il fiume,
che aveva già catturato la notte
e la tratteneva nella sua rete di foglie e rami e spine
sulla superficie magnetica dell’acqua nera.

[In apertura: Salgado; all’interno: Ricardo Stuckert]

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I libri e la morte https://www.carmillaonline.com/2013/06/21/i-libri-e-la-morte/ Fri, 21 Jun 2013 00:44:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6790 di Marilù Oliva

tonyRosanna Rubino, Tony Tormenta, Fanucci Editore, 2013, pag. 235, 12.90 euro.

Libro d’esordio di Rosanna Rubino – architetto che vive nel milanese – Tony Tormenta è un thriller riuscito che mi ha ricordato il buon Stephen King, pur mantenendo una spiccata originalità. Il protagonista è un ragazzino atipico, con un potere e un’esistenza che lo relegano nella suggestiva schiera delle persone speciali. Ho ritrovato alcuni dei temi affrontati dallo scrittore di Portland – penso a Carrie, ad esempio, dove la psicocinesi conduce alla vendetta personale, epilogo di tensioni scaturite dai maltrattamenti subiti [...]]]> di Marilù Oliva

tonyRosanna Rubino, Tony Tormenta, Fanucci Editore, 2013, pag. 235, 12.90 euro.

Libro d’esordio di Rosanna Rubino – architetto che vive nel milanese – Tony Tormenta è un thriller riuscito che mi ha ricordato il buon Stephen King, pur mantenendo una spiccata originalità. Il protagonista è un ragazzino atipico, con un potere e un’esistenza che lo relegano nella suggestiva schiera delle persone speciali. Ho ritrovato alcuni dei temi affrontati dallo scrittore di Portland – penso a Carrie, ad esempio, dove la psicocinesi conduce alla vendetta personale, epilogo di tensioni scaturite dai maltrattamenti subiti dalla protagonista, o la questione dell’emarginazione o quella del bullismo. Ma, come prima dicevo, la scrittrice dà prova di una sua peculiare voce: scattante, sciolta, con bei dialoghi snelli e una trama che si dipana onestamente fino alla fine.

La morte qui sembra solo quasi annunciata eppure, per una strana alchimia di atmosfere, i suoi continui rimandi la rendono onnipresente. Anche se compare di rado come trapasso vero e proprio, viene continuamente invocata e non importa se a farlo è il fossile di un mammut con le zanne impresse nella roccia, zanne ancora appuntite come frecce, simbolo imperituro di Mammoth Rock o simulacri di animali che realmente pascolano, come la vacche pazze di paura che strabuzzano gli occhi nell’aria bollente o i cavalli spossati:

I cavalli sono abbandonati.

I cavalli se ne stanno malfermi sulle zampe scheletriche. Si muovono appena. Fiutano la terra alla ricerca di erba. Scuotono le orecchie per scacciare le mosche. Sollevano di poco la testa quando l’auto li supera sfrecciando sulla Interstatale 83, diretta al penitenziario.

Gli allevatori li hanno mollati nei campi l’estate scorsa, quando la siccità ha arrostito le praterie e il costo del fieno è schizzato alle stelle, e ora se ne vedono a branchi disseminati ai margini delle strade.

I personaggi sembrano usciti da un sogno.

Tony Tormenta crea empatia a partire dal primo incontro, che lo vede sottoposto alle angherie di bulletti. Son solo dei numeri – Numero Uno, Numero Due e Numero Tre e, oltre a fare i gradassi, amano sgommare sulla loro Camaro rossa. Tony lo chiamano Merda Secca. Lui tenta di scappare, ma il messaggio di fondo è che i fastidi e i guai prima o poi vanno affrontati.

C’è la sua mamma, tenerissima Caroline, genitrice giudiziosa. Tra i comprimari spicca però Marla, ragazza albina dagli occhi azzurri e dalle labbra rosse, essenza eterea, quasi un fantasma che, in virtù di questa sua sottigliezza fisica, acquisisce un irrinunciabile spessore narrativo:

Il suo corpo ossuto galleggia sotto il lenzuolo. Ho la sensazione che possa sparire da un momento all’altro e sprofondare nel materasso che implode, risucchiato dall’imbottitura tra nuvole di lanugine e piume d’oca.[…]

I capelli legati sulla nuca espongono il viso di Marla alla luce. E la luce graffia la pelle, tesa sugli zigomi sporgenti. Le labbra appaiono più carnose del solito. Il cranio è tutt’uno con la fronte fino alle sopracciglia chiare, quasi invisibili sulla pelle lattiginosa.

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Simone Caltabellota, Sa Reina (La Regina), Ponte alle Grazie, 2013, pag. reina176, 13 euro.

Nella regione del Sulcis troneggia un ulivo leggendario. Si chiama Sa Reina – La Regina – e già dal nome, eponimo del titolo, si capisce che non si tratta di un albero qualsiasi: ha attraversato millenni e vanta fama di essere il più antico del Mediterraneo. Chi calpesta le zolle attorno alle sue radici deve fare i conti col luogo e col tempo. Capita a Davide, il protagonista, che si avventura in questo viaggio sardo insieme a due amici: Lucien, un rocker inglese cinquantenne appassionato di civiltà prenuragiche, e Leo, il cuore spezzato da un amore finito.

I posti sono familiari a Davide: qui è cresciuta una parte di lui, nonostante vivesse a Roma, qui tornava con i suoi d’estate. Ecco perché – nel momento del presente narrativo – il passato si fa avanti e spodesta la successione temporale ordinaria, sovrapponendo all’hic ritagli di vita remota, lampi di quotidianità coi cari, di rabbie anche, che si incastreranno, alla fine, alle vicende. Il tutto grazie a un raffinato rimbalzo di dimensioni che costituiscono un percorso significativo nella produzione di Simone Caltabellota (penso anche a Il giardino elettrico, Bompiani, 2010, della cui recensione che trovate qui riporto poche righe: Ragazzi e trentenni, fantasmi e innamorati si muovono in una Roma magica e misteriosa, immobile, palcoscenico onirico delle loro vite, dei loro amori, dei loro suicidi. Il luogo è in realtà un non luogo suggestivo, quello deputato a epicentro in cui si toccano esistenze spirituali e fisiche, energie sottili: lì è, appunto, il giardino elettrico).

Moltissimi gli elementi sciamanici rintracciati nel libro che, anzi, si può catalogare come romanzo di viaggio, di formazione, di iniziazione – molteplici i rimandi: la natura e il suo selvaggio, le piante, la figura del saggio, la metamorfosi (in questo caso taurina) –, ma soprattutto romanzo orfico, anche quando il valico tra il mondo dei vivi e l’oltretomba sembra solo scolpito nel paesaggio:

Le Tombe dei Giganti, spiega, sono formate da due elementi principali sempre presenti: un portale di pietra alla cui base si apre una cavità, a volte poco più che una fessura, orientata verso il punto in cui sorge il sole, e dietro di esso una camera tombale dalla forma allungata, una sorta di bozzolo destinato a custodire i corpi degli eroi, cioè i Giganti, in attesa che si sveglino di nuovo e rinascano.

Poi c’è la musica. Perché se il ciclo di morte e resurrezione viene accostato a quello del rock’ n’ roll, il rimando al genere riprende il tema sciamanico del ritmo dell’universo. E sciamanica è la sostanza allucinogena, l’erba sardonia altrimenti conosciuta come “prezzemolo del diavolo”: piccolissimi frutti che possono rivelarsi letali se presi in dosi sbagliate, ma senza dubbio viatico per esperienze ultrasensoriali. E allora il tempo può davvero compiere balzi e “cadere rovinando”, condurre al precipizio. Ma per compiere un’operazione del genere, occorre la forma giusta. Essendo la sostanza così tellurica e visionaria al contempo, è necessaria una scrittura che si sappia piegare ai flussi onirici pur mantenendo la solidità della materia, soprattutto quando questa è in filo diretto con la natura: vento che si alza, luce che vibra, campi distesi come coperte grinzose. Delle volte è semplicemente una domanda, un ballo o il desiderio di un bacio. È necessario mantenere l’equilibrio, quindi, con una materia letteraria del genere. Ecco, Caltabellota ci riesce con maestria e grazia. Restituisce intatte nelle loro suggestioni queste realtà a metà tra sogno e concretezza, magia e un pizzico di tecnologia: qui si muovono i protagonisti, coi loro cellulari e la loro inesperienza, persi e ritrovati in una terra che tanto tempo fa era abitata da Eroi e Giganti. E l’autore stesso – 44 anni, già direttore editoriale di Fazi, fondatore di Lain e creatore della label musicale Sleeping Star, fa parte del comitato editoriale di Elliot Edizioni – ci conferma questa nostra lettura:

L’idea di un Tempo non solo lineare è qualcosa in cui credo assolutamente. Del resto la saggistica scientifica più recente ne ha fatto ormai un serio argomento di discussione e studiosi e filosofi come Ioan Petru Culianu già oltre venti anni fa hanno iniziato a presentare l’ipotesi che la Storia come la conosciamo sia semplicemente una convenzione, perché in realtà noi la cambiamo ogni volta che la ricostruiamo in modo differente, scegliendo di sottolineare alcuni eventi o passaggi piuttosto che altri.

Ultima cosa e mi perdonino i sardi per questa nota forse per loro ovvia: Sa Reina esiste davvero. Si trova nel Bosco degli Ulivi S’Ortu Mannu, a Villamassargia e ha una circonferenza di 16 metri. Se cercate su google troverete anche la foto, che è poi la stessa dell’albero in copertina.

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accompagnatorePeter Drehmanns, L’accompagnatore, (trad. Laura Pignatti) Meridiano Zero, 2013, pag. 270, 16 euro.

La morte è solo destinazione ultima, in questo prezioso libro di Peter Drehmanns suddiviso in tre momenti, corrispondenti ai tre viaggi che vedono il narratore scortare tre clienti – la signora R., il signor M. e la signora W. – verso la soluzione di pentobarbital che toglierà loro la vita. Protagonista è il “corriere dei cadaveri, il fattorino dei morti, lo spazzino, il deportatore”, colui che scorterà chi le persone che desiderano finire in un’urna o una bara. Si tratta di suicidio assistito, non di eutanasia. É gestito dall’agenzia elvetica Sententia – il suo fondatore, Max Dürmann, la considera un’associazione caritatevole – e garantisce, per chi considera inutile o invivibile la propria vita, un decesso dignitoso e indolore (agenzia che, tra parentesi, esiste davvero sotto diverse spoglie).

Deve mostrarsi affabile, l’accompagnatore, ma nemmeno troppo. Sue mansioni si possono riassumere nella parola svizzera Grabgestaltung: scegliere il contenitore finale del corpo o delle ceneri, i nastri viola, controllare l’abito della salma e i documenti per il trasporto. Oltre alla facciata di questo ruolo, non si dimantichi il fardello che mai appare:

Naturalmente ci sono persone che trovano ributtante il mio lavoro. Che si sono fatte l’idea che io ci guadagni sulla pelle di gente titubante. Mentre ciò che faccio in verità è una prestazione di servizi più o meno nobile. […] Io mi occupo di segnaletica, do una mano a trovare l’uscita più comoda. Non posso dire alla gente come deve vivere, tutt’al più posso fare in modo che non deragli. Accompagno le persone dove vogliono andare. I conflitti con i clienti sono rari. Questo probabilmente è merito della mia equanimità e del mio modo di fare calmo e risoluto. […] A volte io stesso mi disprezzo, quando mi guardo allo specchio e vedo il mio muso imperturbabile. Allora invidio gli indecisi per la loro passione, per la loro follia, che dà un senso alla loro disperazione.

La morte si insinua nel romanzo come discreta attesa, come approdo finale di vite che scorrono sospese e non importa che questo sia l’ultimo tragitto: la non-appartenenza è la loro cifra, la non-esitenza l’unica via di scampo. Ecco perché quest’autore olandese nato nel 1960 – che è anche poeta, critico letterario e traduttore – compie una scelta stilistica doppia: da un lato disegna la concretezza della materia – ed è fatta di cibo, necessità quotidiane, stoffe, carne –, dall’altro l’ipoteca del pensiero, agevolata dalla voce della prima persona.

L’accompagnatore non si intromette, non cerca deviazioni né redenzioni. Con precisione asettica guida la Volvo così come ossequia, quando può, i desideri dei clienti, delle volte li indovina. Perché poche ora prima di esalare l’ultimo respiro, quello che chiede il morituro è quasi un comando:

Di ritorno all’albergo augurai una buona notte alla signora R. Ma come, di già? protestò. Sì, perché domani sarà una… Una giornata lunga? mi interruppe in tono sarcastico. Una giornata stancante, precisai. Una giornata con conseguenze a breve termine che si sarebbero protratte a lungo nel tempo, pensai.

In ascensore si appoggiò contro di me,  la carne soda dei suoi seni contro il mio braccio. Aveva paura, disse. Mi stava appiccicata addosso anche con lo sguardo. Io le assicurai che sarebbe andato tutto bene, che domani sarebbe stato il giorno più bello della sua vita.

 

 

 

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