fantasy – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Pantera, magia e rivoluzione nel vecchio west di Valerio Evangelisti /1 https://www.carmillaonline.com/2023/10/17/pantera-magia-e-rivoluzione-nel-vecchio-west-di-valerio-evangelisti-1/ Mon, 16 Oct 2023 22:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79284 di Fabio Ciabatti

Il messicano Pantera, stregone e pistolero a pagamento, protagonista di avventure che attraversano gli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento, è uno dei personaggi più intriganti e noti usciti dalla penna di Valerio Evangelisti. Pantera ha il fascino tenebroso del cavaliere oscuro che però, alla fine, si risolve per fare la cosa giusta. È probabilmente l’unico eroe nella narrativa di Evangelisti, almeno se intendiamo questo termine in senso stretto, cioè come protagonista moralmente positivo di avventure straordinarie che affronta con capacità fuori dal comune. Ma di che tipo [...]]]> di Fabio Ciabatti

Il messicano Pantera, stregone e pistolero a pagamento, protagonista di avventure che attraversano gli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento, è uno dei personaggi più intriganti e noti usciti dalla penna di Valerio Evangelisti. Pantera ha il fascino tenebroso del cavaliere oscuro che però, alla fine, si risolve per fare la cosa giusta. È probabilmente l’unico eroe nella narrativa di Evangelisti, almeno se intendiamo questo termine in senso stretto, cioè come protagonista moralmente positivo di avventure straordinarie che affronta con capacità fuori dal comune. Ma di che tipo di abilità parliamo?
La domanda è di particolare interesse perché questo personaggio ha una peculiarità che forse lo rende più unico che raro nel panorama letterario: le sue vicende appartengono a due generi narrativi completamente diversi. I primi due libri in cui compare,
Metallo urlante e Black Flag (pubblicati rispettivamente nel 1998 e nel 2002), possono infatti essere ascritti al genere fantastico, mentre il terzo, Antracite (pubblicato nel 2003), appartiene al genere del romanzo storico.
Questa capacità di rompere la barriera tra diversi generi conferma quanto sostiene Alberto Sebastiani: l’intera opera di Valerio Evangelisti costituisce una One big novel in cui si trovano continui rimandi tra vicende e personaggi presenti nei diversi romanzi. Ma soprattutto, le opere dello scrittore emiliano-romagnolo, pur molto differenti quanto a genere, trama, ambientazione storico-geografica, presentano una  profonda unità tematica: l’eterno conflitto tra chi detiene il potere e chi gli resiste.1 Dal canto mio, credo che la figura di Pantera ci possa dire qualcosa di significativo sull’universo letterario di Evangelisti e sulla sua concezione dell’immaginario, proprio per la sua caratteristica di eroe cross-genere.

Secondo Tzvetan Todorov “il fantastico rappresenta un’esperienza dei limiti” e per questo “un inventario di possibili”.2 I confini tra spirito e materia, tra soggetto e oggetto, tra parola e cosa vengono continuamente trasgrediti, senza essere ignorati, come accade nel pensiero mitico. La barriera tra reale e l’immaginario si fa porosa. Sempre Todorov sostiene che la letteratura fantastica ha nel Novecento perso sostanzialmente la sua funzione: da una parte non abbiamo più bisogno di figure come il diavolo per parlare di un desiderio sessuale sfrenato perché la psicanalisi ha rotto i tabù in questo ambito; dall’altra, non viviamo più nell’Ottocento positivista, con la sua realtà oggettiva ed immutabile completamente esterna al soggetto, di cui il fantastico possa essere la cattiva coscienza.
Il giudizio del critico letterario deve aver qualche fondata ragione se è vero che il fantastico, nell’Italia del dopoguerra, trova rifugio nel fantasy, un territorio letterario presidiato nel nostro paese dalla sottocultura fascista fino all’irruzione, agli inizi degli anni ’90, del primo libro del ciclo di Eymerich, scritto da Evangelisti. Come ci racconta Domenico Gallo,3 si tratta di un territorio dell’immaginario che la destra voleva caratterizzato dall’indomito ed eterno risorgere del mito, mai definitivamente sconfitto dalla cultura moderna, ma solo temporaneamente vinto dall’illuminismo, dal razionalismo e poi dal marxismo. Il fantasy, l’horror, il sovrannaturale dovevano essere gli ambiti in cui si trattava di elementi come la celebrazione della divisione in caste, la lotta alla democrazia, il rapporto diretto con la divinità, il concetto di prescelto, l’esaltazione della lotta e la gerarchia della società. Il fantastico, possiamo commentare, da esperienza del limite diventava limite dell’esperienza: non più strumento letterario per dischiudere i possibili, ma struttura narrativa che restringe la capacità di immaginare mondi alternativi alla resurrezione di un passato mitico. L’eterno ritorno della vecchia merda.
Ma la letteratura fantastica può assumere un senso diverso da quello che ha storicamente rappresentato, ben al di là della paccottiglia fascistoide. In fin dei conti se il soprannaturale, o quello che appare come tale, esprime la trasgressione di una legge (naturale e/o morale), e per questo un’esperienza del limite, come sostiene lo stesso Todorov, occorre capire quale sia oggi il sistema di regole prestabilite che risulta impossibile negare, pena l’aprirsi di profonde crepe nell’immaginario che sorregge il nostro mondo. In effetti l’obiettivo, tutto politico, dell’opera letteraria di Evangelisti è proprio quello di combattere quella che definisce la colonizzazione dell’immaginario, in modo da poter valicare le colonne d’Ercole del realismo capitalista che oggi ci impedisce anche solo di sognare altri mondi possibili.

E qui torniamo al nostro Pantera, con la sua magia e la sua religione popolata di spiriti ancestrali che si scontra con un nuovo mondo in formazione caratterizzato dall’“assenza di ideali, di sentimenti e di un futuro plausibile”, come scrive Evangelisti alla fine della storia del messicano in Black Flag. Salvo aggiungere, subito dopo, “O forse un futuro c’era: d’oro e di ferro. Comunque di metallo”.4 Ma in che modo il mondo sovrannaturale di Pantera ci aiuta a fare un’esperienza del limite? Da un punto di vista antropologico, sostiene Michael T. Taussing, lo studio dello strano e dell’esotico ci può mettere di fronte a quanto veramente strana sia la nostra stessa realtà. Non si tratta di assumere come vere le concezioni altre contrapponendole alla falsità delle nostre, ma di prendere sul serio il contrasto tra differenti visioni del mondo al fine di denaturalizzare i nostri stessi feticci.5
La magia di Pantera rispetto al mondo moderno appare come un arcaismo, memoria e tradizione di un passato che fatica a diventare una guida per il presente. L’attrito tra i differenti strati temporali genera una tensione la cui risultante appare inizialmente sospesa tra il mero rifugio nel passato e la creazione di nuove e inedite possibilità. Pantera, infatti, non ha molto da dire su ciò che accadrà al suo mondo o su ciò che pensa sia auspicabile per i tempi a venire. “Quando ho combattuto con Juan Nepomuceno Cortina – si limita a osservare in Black flag – l’ho fatto per difendere gli ejidos, le terre comuni. Non so altro”.6 Le lotte di Pantera in territorio messicano vengono appena accennate e sembrano quasi racconti di un mitico passato da cui trarre semplici insegnamenti. In realtà, storicamente, appartengono alla modernità ma, geograficamente, provengono dai suoi bordi estremi. Ed è proprio dalla periferia del nostro mondo che è più facile fare esperienza dei suoi  limiti.
Pantera è appunto un personaggio periferico rispetto all’ambiente in cui si svolgono le sue avventure. Talmente periferico da risultare difficilmente categorizzabile: viene ripetutamente considerato un “negro” e lui risponde, talvolta rassegnato talaltra irritato, che è un messicano, anche se in realtà è un meticcio figlio di uno schiavo nero e della moglie del suo padrone. Frequentemente viene appellato come uno stregone o un prete, ma lui rifiuta entrambe le qualificazioni sostenendo di essere un uomo di religione, la sua religione, sebbene sia anche un pistolero a pagamento. In lui sacro e profano si mescolano e si scontrano. La morte e la vita gli sono altrettanto indifferenti. Pantera vive nell’instabile congiuntura tra un inquietante mondo straordinario in cui si possono udire le voci degli spiriti della natura, potenti e selvaggi, e un mondo ordinario, altrettanto minaccioso, in cui l’urlo del metallo sovrasta tutte le altre voci. 

Per prima cosa bisogna notare che le strutture narrative dei tre romanzi in cui compare Pantera sono molto diverse. Il primo, Metallo urlante, è composto da quattro lunghi racconti, sostanzialmente autosufficienti, anche se tenuti insieme da un esile filo narrativo: Venom, Pantera, Sepoltura e Metallica. Il primo, che fa da cornice, si divide a sua volta su due livelli temporali: abbiamo da una parte le vicende dell’inquisitore Eymerich, dall’altra una storia ambientata in un XXI secolo piagato da due virus che deteriorano la carne, sostituita da parti metalliche, e da una guerra che vede succedersi manifestazioni mostruose. E in questo livello che apprendiamo come tutte le diverse storie narrate nel libro si collegano tra di loro. Vengono infatti citate per brevi accenni in una ricerca “storica” condotta per capire come si sia arrivati “a fare sì che ferro, acciaio e oro riuscissero ad agganciare le proprie molecole a quelle della pelle, aprendo le quinte di una nuova razza umana, tanto possente quanto sterile”.7 In questo contesto apprendiamo che Pantera “Ebbe a che fare con il mesmerismo, che rappresentò, se vogliamo, una prima forma di dialogo tra l’uomo e il metallo”.8
Il secondo romanzo, Black flag, presenta una struttura molto simile a quella tipica dei romanzi del ciclo di Eymerich. Prendendo a prestito la terminologia coniata da Sebastiani,9 abbiamo un tempo base (quello normalmente riservato all’inquisitore aragonese), ambientato durante la guerra civile americana che vede come protagonista Pantera e che occupa di gran lunga il maggior numero di pagine. Abbiamo poi altri due livelli temporali: uno a noi storicamente vicino, l’invasione statunitense di Panama, che fa da cornice, e l’altro proiettato in futuro distopico, allo scoccare del capodanno del 3000. Le storie che si svolgono nei tre livelli sono molto più intrecciate di quanto accada con i racconti di Metallo urlante: da una parte nei livelli I e II vediamo dipanarsi le terribili conseguenze storiche di ciò che è accaduto nel tempo base; dall’altra troviamo delle spiegazioni parascientifiche di fenomeni e vicende che, nel corso delle avventure di Pantera, potrebbero sembrare sovrannaturali.
La struttura di Antracite, infine, è più tradizionale, nel senso del romanzo di stampo realistico. La trama riguarda esclusivamente le vicende del protagonista, Pantera, seguendo il filo cronologico delle sue avventure. 

Un’ulteriore differenza tra i tre romanzi riguarda il rapporto tra le vicende narrate e il contesto storico di riferimento. In Metallo urlante le avventure di Pantera si svolgono in una sorta di luogo sospeso nello spazio e nel tempo. Praticamente assente ogni riferimento a ciò che accade al di fuori di Tucumcari, villaggio del selvaggio west statunitense dove si svolge la storia. Un isolamento sottolineato dal fatto che “nessuno riusciva ad abbandonare l’area condannata, il cui perimetro veniva circondato da una cortina invisibile, ma assolutamente impenetrabile”10 non appena si mettevano in cammino i dieci giganteschi e mostruosi cavalieri che Pantera era stato chiamato a fermare con i suoi poteri magici. Tucumcari più che un luogo reale è, come sostiene ancora Sebastiani, un luogo dell’immaginario che non a caso Evangelisti riprende dall’ambientazione di Per qualche dollaro in più di Sergio Leone.
In
Black flag il contesto storico è ben presente, la guerra civile americana, ma le vicende narrate sono tutto sommato marginali rispetto allo svolgersi della del conflitto bellico benché finiscano per assumere un significato che trascende la loro effettiva incidenza sugli avvenimenti politico-militari dell’epoca. Con Antracite, infine, siamo catapultati direttamente nel centro della Storia con la “s” maiuscola, cosa particolarmente evidente nel finale quando Pantera viene coinvolto nelle vicende della comune di Saint Louis, sebbene controvoglia.

Il coinvolgimento, suo malgrado, nelle vicende altrui è una caratteristica tipica di Pantera, che, per certi versi, rappresenta il classico eroe riluttante. Uno di quelli, cioè, che sono “bisognosi di essere motivati o spinti all’avventura da forze esterne”.11 A differenza di questo cliché, però, il messicano è tutt’altro che passivo ed esitante. I dubbi li vedremo affiorare soprattutto in Antracite, senza che questo scalfisca la sua natura di uomo deciso, votato all’azione.
In ogni caso Evangelisti, come suo solito, gioca sapientemente con gli stereotipi dei generi paraletterari che utilizza: come nel più tipico western, Pantera è un eroe solitario. Talmente solitario che le uniche donne per lui interessanti erano le prostitute, perché poco impegnative. Quando durante qualche conversazione viene chiamato “amico”, anche per semplice cordialità, lui risponde invariabilmente che non ha amici. Quando qualcuno gli dice che non è una cattiva persona, può irritarsi oltremodo anche se non riesce a capirne il motivo. Pantera è un uomo d’azione, che rifugge l’introspezione, anche quando si trova casualmente a lambire i segreti della sua psiche. Gli capita, per esempio, quando, dopo aver affermato per l’ennesima volta di non avere amici, aggiunge subito dopo “Io sono solo”. In quel momento intuisce “di avere detto una verità che trascendeva l’occasione, ma non era solito perdere tempo a interrogarsi su se stesso, specie in momenti come quello”.12 Cioè i momenti di pericolo che esigono l’azione.
Però, come i più tipici pistoleri, Pantera un amico ce l’ha. Quando in Black flag viene disarmato “Il contatto delle dita con la cintura gli fece rimpiangere il revolver. Per un uomo come lui, quella mancanza equivaleva alla perdita dell’unico amico che avesse al mondo”.13 Un revolver che, a differenza dell’iconografia classica del cowboy, porta di solito infilata nella cintola sotto la palandrana. A chi si meraviglia del fatto che non abbia con sé pistole, risponde con un sorriso beffardo “Sì che le porto […] Piuttosto non porto né cinturone né fodero. Quella è roba che va bene per le donne e per i borghesi”.14 Della serie: i veri uomini del vecchio west sono meno pittoreschi di come ve li hanno sempre raccontati. E ancora, come nei più classico dei racconti della frontiera, la storia di Metallo urlante si conclude con l’eroe che si allontana cavalcando il suo destriero verso l’orizzonte infinito. Soltanto che l’ultima galoppata Pantera la fa quando, ferito a morte, si è trasformato in orisha, uno spirito: “Preso da un’incontenibile euforia, lanciò il cavallo verso il deserto, senza bisogno di usare gli speroni. La sua esistenza di orisha sarebbe stata un’unica, interminabile cavalcata”.15
Un utilizzo al limite della parodia degli stereotipi paraletterari, in questo caso dell’horror, lo vediamo all’inizio di
Black flag quando, assoldato per uccidere un uomo lupo, gli viene chiesto se ha trovato le pallottole d’argento, tipica arma per eliminare i licantropi. “Si ma è un’idiozia – rispose Pantera alzando le spalle – È un metallo troppo tenero. Non fora e il proiettile si deforma al momento dello sparo”.16 E infatti, quando proverà ad utilizzare queste munizioni, “Poco mancò che la carabina gli esplodesse tra le mani. Per fortuna l’argento fuso fu espulso dall’esplosione, e ricadde a pochi metri da lui. Pantera imprecò contro la magia cristiana”.17 Scoprirà più avanti che per uccidere gli uomini lupo le pallottole dovevano essere fatte non di argento ma di antimonio. 

Ma prima dovranno accadere molte cose. Quando tenta di uccidere l’uomo lupo, Kroger, Pantera viene tradito dalle stesse persone che l’avevano ingaggiato. Ferito, viene catturato dai bushwackers, milizie irregolari sudiste dedite a una cruenta guerriglia che non si fa scrupolo di fare strage di civili. Pantera, pur cercando di mantenersi defilato, finirà per unirsi a loro, soprattutto perché, inconsapevolmente, vuole risolvere l’enigma dell’uomo lupo, aggregato ai guerriglieri: “Lo aveva creduto un demone incarnato e finiva per scoprirlo un essere fragile, spaventato da ogni cosa ma soprattutto da se stesso”.18
Al seguito dei bushwackers c’è anche il francese Anselme Bellegarrigue, anarcoindividualista al limite della farneticazione con il suo vaneggiare di una nuova umanità composta da lupi solitari, forgiati nel ferro e nell’oro, interessati solo alla loro proprietà individuale libera da ogni vincolo statale, dediti alla distruzione del vecchio mondo senza alcuno scrupolo umano o sociale. Idee che vanno al di là dello già spietato conservatorismo sudista, raffigurato dal bushwacker Hamp Wyatt, per il quale lo schiavismo rappresenta un principio che si riassume in autorità e disciplina, un’istituzione necessaria per affermare  gerarchie e ruoli ben definiti, da estendere eventualmente a tutti i salariati.
Tornando a Bellegarrigue, egli non è soltanto un teorico ma anche una sorta di scienziato pazzoide, cultore del mesmerismo che intende utilizzare per plasmare l’uomo del futuro secondo i dettami della sua agghiacciante filosofia, a cominciare dai crudeli esperimenti cui sottopone il riluttante Kroger per trasformarlo in una perfetta macchina per uccidere. I proiettili di antimonio sono una sua scoperta e sarà lui stesso a consegnarli a Pantera.

Il mesmerismo, dunque, compare anche in Black flag. La sua funzione narrativa è la stessa: la possibilità di interpretare in termini parascientifici i fenomeni apparentemente sovrannaturali consente alla narrazione di mantenersi nel registro del fantastico e cioè, secondo la definizione del già citato Todorov, su un livello di incertezza e di indecidibilità circa la natura dei fenomeni straordinari cui assistiamo nel corso del racconto. Realtà o sogno, percezione veritiera o mera illusione, fenomeno sovrannaturale o fatto semplicemente “strano” benché spiegabile senza violare le ordinarie leggi scientifiche?
Se rimaniamo all’interno delle prime due storie di Pantera dobbiamo sospendere il giudizio. Ma se teniamo conto di quanto ci viene raccontato nei differenti livelli temporali in cui si articolano Metallo urlante e Black flag il dilemma può essere sciolto. Evangelisti assorbe le energie narrative che sgorgano dall’elemento soprannaturale senza lasciare spazio al misticismo cui è spesso associato. In altri termini Evangelisti spariglia le carte ibridando atmosfere tipiche del fantasy e dell’horror con la fantascienza. Le anomalie che sovvertono il nostro ordine metafisico perdono il loro alone mistico perché possono essere spiegate attraverso teorie parascientifiche per le quali, normalmente, lo scrittore utilizza i risultati di rami marginali della scienza realmente esistiti.
Il caso più famoso nella narrativa di Evangelisti è quello della fisica psitronica che torna ripetutamente nei romanzi di Eymerich. Non è importante il fatto che questi rami della scienza siano stati abbandonati e oggi siano considerati fallaci. L’importante è il meccanismo narrativo che toglie il terreno sotto i piedi ai cantori del mito tecnicizzato: ciò che è inspiegabile, sovrannaturale, diabolico o mitico in un determinato paradigma di conoscenze può trovare spiegazione razionale se inquadrato in un paradigma differente. 
Insomma, il mondo definito dai parametri della razionalità dominante è solo uno dei mondi possibili. E decisamente non il migliore.19

Tornando al mesmerismo e alle vicende che riguardano direttamente Pantera, va rilevata una differenza tra i due racconti. In Metallo urlante il messicano passa da un atteggiamento di iniziale ostilità nei confronti di questa scienza a una sorta di agnosticismo che non esclude la sua capacità di produrre spiegazioni e effetti concreti. Il cambiamento nasce dall’aver constatato la buona fede di Rosenthal, il sedicente medico che esercita questa disciplina a fini curativi. Si tratta, neanche a dirlo, di un personaggio eccentrico ed emarginato, considerato dai più un mero imbonitore, ma mosso da buone intenzioni sia nella sua pratica “scientifica” sia nel suo atteggiamento nei confronti del suo prossimo, in particolare di Cindy, una ragazza ingenua al limite della stupidità, utilizzata da tutti gli uomini di Tucumcari come sfogo sessuale gratuito. D’altra parte la metafisica di Pantera, se così possiamo chiamarla, è politeista e non può escludere la presenza di forze e divinità diverse da quelle da lui venerate. Il suo è essenzialmente un multiverso.
Ciò nonostante, in Black flag, la sua relazione con il mesmerista Anselme Bellegarrigue, diventa esplicitamente antagonistica. Ciascuno cerca di spiegare le credenze dell’altro alla luce delle proprie. Per Bellegarrigue, così come per Rosenthal, il magnetismo può dare conto scientificamente di tutti i fenomeni apparentemente sovrannaturali che Pantera è in grado di produrre, compresa l’apparizione nel cielo di un gigantesco lupo che terrorizza l’accampamento dei bushwacker. Per il francese si tratta soltanto di un’allucinazione collettiva determinata da un livello assurdo di fluido magnetico. Pantera, dal canto suo, quando entra nella carrozza laboratorio di Bellegarrigue, per quanto avesse “dimestichezza con ogni genere di prodigi, non riuscì a reprimere un brivido. C’erano spiriti in quell’abitacolo. Spiriti non buoni”.20. Il messicano era convinto che “Anselme Bellegarrigue conosceva il modo per evocare gli Ndoki, gli spiriti più maligni. Trovava scuse razionali al proprio potere solo per ingannare meglio il prossimo”.21
L’atteggiamento che assume Pantera nei confronti del mesmerismo, dunque, non è dettato dal contenuto in sé di questa pretesa scienza, ma dalle intenzioni di chi la pratica. Il messicano, in
Metallo urlante, è pronto ad accettare l’aiuto di Rosenthal. Quando il francese propone di utilizzare una bacchetta per potenziare gli effetti della cerimonia “magica” di Pantera, quest’ultimo, di fronte alle spiegazioni sul funzionamento del fluido mesmerico, si limita a commentare: “Non capisco una parola di quello che dice, ma le credo”.22 Allo stesso modo, in Black Flag, non rifiuterà l’appoggio sovrannaturale dell’indiano Vecchia Pipa, sebbene quella di Pantera appaia anche in questo caso come un’agnostica apertura di credito: “Non ci sarà da danzare Pipa. Però partecipa pure. Gli spiriti malvagi della tua gente sono gli stessi presenti dappertutto. Tu li scaccerai a modo tuo, io a modo mio”.23

1- continua. Prossima puntata sabato 21 ottobre


  1. Cfr. A. Sebastiani, Nicolas Eymerich. Il lettore e l’immaginario in Valerio Evangelisti, Odoya, Milano 2018. In particolare vedi Cap. 1. 

  2. Cfr. T. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 2022. 

  3. Cfr. D. Gallo, “La battaglia del mito e della scienza. Valerio Evangelisti e la fantascienza come pratica radicale”, in S. Moiso e A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis, Milano 2023. 

  4. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 2002, p. 208. 

  5. Cfr. M. T. Taussing, Il diavolo e il feticismo della merce, DeriveApprodi, Roma 2017. 

  6. V. Evangelisti, Black flag, cit. p.123. 

  7. V. Evangelisti, Metallo urlante, Einaudi, Torino 1998, pp. 38-39. 

  8. Ivi, p. 23. 

  9. Cfr. A. Sebastiani, cit., p. 38. 

  10. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit, p. 105. 

  11. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma 1999, p. 43. 

  12. V. Evangelisti, Black flag, cit, p. 27. 

  13. Ivi. p. 33. 

  14. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit., p. 66. 

  15. Ivi. p. 137. 

  16. V. Evangelisti. Black flag, cit., p. 16. 

  17. Ivi. p. 21. 

  18. Ivi. p.143. 

  19. Cfr. D. Gallo, “La battaglia del mito e della scienza. Valerio Evangelisti e la fantascienza come pratica radicale”, cit. 

  20. V. Evangelisti, Black flag,  cit., p. 115. 

  21. Ivi. p. 118. 

  22. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit., p. 129. 

  23. V. Evangelisti, Black flag, cit., p. 174. 

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Un enigma letterario: la trilogia di Gormenghast https://www.carmillaonline.com/2023/01/17/un-enigma-letterario-prime-riflessioni-sul-tito-di-gormenghast-di-mervyn-peake/ Tue, 17 Jan 2023 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75520 di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].» «Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto. […] [...]]]> di Sandro Moiso

Mervyn Peake, Gormenghast. La trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, pp. 1170, euro 28,00

«Senza Tito, il castello non avrà un futuro, quando io non ci sarò più. Devo ricordarvi che spetta a voi, come sua balia, instillare in lui fin da ora l’amore per il castello dove è nato e di cui è l’erede e il rispetto per tutte le leggi, scritte e non scritte, che regolano il mondo dei suoi avi […].»
«Ma non ha che due mesi, povero cosino!» interruppe la balia con voce di pianto.
[…] «E ora fammi vedere mio figlio» disse il Conte, lentamente.
«Mio figlio Tito. È vero che è brutto?» (Tito di Gormenghast – Mervyn Peake)

E’ un paesaggio a dir poco desolato quello che circonda il castello dei Conti de’ Lamenti, dominato dall’aspro e altissimo monte Gormenghast e costituito da lande in cui dominano la polvere e la pietra oppure terreni paludosi sconfinati e in cui la vegetazione è costituita da cactus, foreste di rovi impenetrabili e boschi di alberi ritorti e minacciosi. Lo stesso castello millenario che prende il nome dal monte soprastante sembra costituire, con la sua struttura labirintica e tentacolare definita da secoli di bizzarrie architettoniche volute da settantasei generazioni della stessa famiglia nobiliare, una diretta emanazione e continuazione delle rocce e delle cavità che caratterizzano la montagna.

Gli abitanti del gigantesco maniero sono tutti grotteschi nelle movenze e nell’aspetto, sia che si tratti dei rappresentanti della aristocratica famiglia che dei servitori. Storpi, magrissimi, gobbi, grassi oltre ogni dire, deformi oppure dotati di nasi lunghissimi e volti equini. Portatori, tutti, delle stimmate del proprio egoismo incise nelle posture assunte e nel fisico. Il conte Sepulcrio e la gigantesca contessa Gertrude, la figlia pre-adolescente Fucsia e le zie gemelle, sorelle del conte, Clarice e Cora; la piagnucolosa balia settuagenaria Mamma Stoppa, il segaligno e torto (nel corpo e nell’animo) maggiordomo Lisca, il grasso sadico e perverso capo-cuoco Sugna, il dottor Floristrazio e la sorella Irma, insieme all’autentica anima nera rappresentata dal giovane Ferraguzzo, ragazzo di cucina che grazie alla sua mente perspicace e freddamente calcolatrice scala le più infide e infime trame delle gerarchie di un mondo che non vuole conoscere e riconoscere altro da sé. Tutti intenti a danzare un mostruoso e sgraziato minuetto ritmato da regole e leggi, riti e doveri improbabili che soltanto il vecchissimo Agrimonio, maestro di cerimonie, e successivamente il figlio Barbacane, zoppo e perennemente in guerra con tutti coloro che lo circondano, conoscono e dettano quotidianamente. Al Conte e a tutta la servitù.

Ma anche gli abitanti del piccolo e malsano borgo che si è sviluppato vicino alle pareti e alle rocce del castello non sono da meno. L’unica loro attività sembra essere quella di intagliatori di sculture di legno, attività artigianale riservata esclusivamente agli individui di sesso maschile che viene valutata annualmente dal Conte stesso e premiata con l’esposizione delle opere migliori in una galleria dimenticata del castello, e mai visitata da nessuno, custodita dal sonnolento e indolente Stoccafisso. Uomini e donne del borgo conservano però una certa grazia e bellezza fino al compimento del diciannovesimo anno di età, momento in cui la pelle incartapecorisce e la bruttezza della vecchiaia prende il posto dell’aura della giovinezza.

Tra gli stessi non vi è nessuna forma di comunitarismo, se non quello rappresentato dalla dipendenza dal castello e dai suoi nobili proprietari. Anzi la rivalità, sul piano artistico e personale può raggiungere livelli di odio e violenza abissali. Come dimostra la vicenda di Keda la, momentaneamente, bella e giovane vedova del più famoso, e vecchio, scultore del borgo senza nome, divisa tra l’amore per due giovani e abili intagliatori rivali, Rantel e Braigon. Un triangolo amoroso destinato ad una drammatica e sanguinosa conclusione. Anche se una bimba, partorita in seguito da Keda, ne rappresenterà il frutto dopo la tragica scomparsa dell’ormai invecchiata madre.

Nella Presentazione anteposta all’attuale edizione italiana della trilogia, Anthony Burgess1 avverte i lettori che «sarebbe pericoloso scandagliare troppo a fondo in Titus Groan (Tito di Gormenghast nella traduzione italiana – NdR) alla ricerca dell’allegoria. Esso rimane sostanzialmente il frutto di una fantasia chiusa in se stessa dove l’evocazione di un mondo parallelo al nostro è condotta con uno spessore di dettagli quasi paranoico»2.
Eppure, eppure…

Forte rimane la tentazione di interpretare il gotico sogno di uno scrittore, Mervyn Peake (1911- 1968)3, tormentato per gran parte della vita da depressioni e crisi che lo avrebbero progressivamente portato all’irreversibile malattia mentale e alla morte, in chiave simbolica e allegorica, anche perché la monumentale trilogia del “mondo” di Gormeghast e il suo giovane principe Tito, può davvero essere considerata come uno degli enigmi della letteratura fantastica del Novecento. Il cui motivo del contendere non è offerto soltanto dalle numerose e svariate interpretazioni che è possibile dare di un testo che considerare labirintico è ancora troppo poco e la cui scrittura dipinge sotto gli occhi del lettore strati su strati di situazioni rinviabili ad infiniti tòpoi, personaggi e situazioni della letteratura gotica, grottesca o orrorifica.

L’impressione che se ne ricava a prima vista è di una scrittura ‘gotica’, ma il termine è inadeguato. Leggendo Titus Groan abbiamo l’impressione di imbatterci, a ogni piè sospinto, in indizi che potrebbero portarci a intravvedere la luce di un genere letterario, ma ogni volta finiamo col dover riconoscere che la pista è falsa. Prendiamo i nomi dei personaggi: tutti starebbero benissimo in un romanzo di Dickens o in un racconto umoristico per bambini. Nomi comici, dunque, ma di una comicità che rifiuta sia la facile risata sia la levità del fantastico: la massiccia corposità architettonica tiene tutto ben ancorato a terra e, a dispetto dei nomi, il lettore dovrà prendere i personaggi molto sul serio4.

E la stessa difficile collocazione dell’opera (Fantasy? Gotica? Diario indiretto di una “lucida” e progressiva follia? Espressione del malessere di un secolo, il Novecento, che già Kafka aveva anticipato?) a costituire una parte dell’enigma. Difficoltà data sia dalla sua struttura che dal progressivo peggioramento delle condizioni della salute mentale del suo autore sia, ancora, dal suo inserimento in un catalogo, quello di Adelphi, voluta da Roberto Calasso, un intellettuale magmatico e controverso, che nel corso di un cinquantennio ha fatto conoscere ai lettori italiani titoli e autori, spesso osteggiati da altri editori oppure dalle consorterie politico-culturali cattoliche e tardo zdanoviste o, ancora, fasciste.

Autori che spesso praticavano una letteratura di carattere fantastico, passando per il noir, la fantascienza di Theodor Sturgeon, la letteratura americana del Sud immaginato e descritto da William Faulkner, le opere di Antonin Artaud e Nietzche, la Mitteleuropa di Joseph Roth e Karl Kraus, le grandi mitologie e religioni, il nichilismo e i testi iniziatici (o supposti tali). Un direttore e un indirizzo editoriale che è stato sempre poco amato, se non apertamente osteggiato, sia dalle correnti estreme della Destra politica e cattolica che dalla Sinistra osservante dell’ortodossia più dogmatica e d’antan.
Lasciamo, però, ancora una volta che a parlare sia Anthony Burgess:

Titus Groan, primo volume di una trilogia, apparve nel 19465. L’autore aveva trentacinque anni. Le reazioni dei critici furono assai favorevoli, in alcuni casi addirittura entusiastiche. Le avventura del protagonista e l’elaborazione del suo mondo proseguirono in Gormenghast (1950)6 e in Titus Alone (1959)7 i quali però, benché ammirevoli, non erano destinati ad avere la stessa risonanza del primo romanzo: il 1946, anno dell’austerità, era quanto mai ben disposto verso i banchetti a base di fantastico. Ma il successo di critica non significò un vasto successo di pubblico. Titus Groan fu idolatrato, ma solo da pochi fedeli. Il nome di Peake viene citato di rado nelle storie del romanzo contemporaneo.
[…] Peake si è attirato lodi, ma anche sospetti. Le sue opere in prosa non sono di facile classificazione, possiedono la stessa individualità degli scritti di, poniamo, un Peacock o un Lovecraft8.

Sospesi tra le atmosfere delle opere di Franz Kafka (dalla Metamorfosi a Il processo oppure Il castello) e, a tratti del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Ionesco, dando vita ad un universo in cui non esistono il Bene e il Male e nemmeno un Dio, ma in cui a valere sono soltanto i riti, le tradizioni e le regole che si tramandano di generazione in generazione, divenendo sempre più assurde e incomprensibili ma pur sempre irrinunciabili per i detentori del Potere e il suo mantenimento, i tre romanzi di Mervyn Peake potrebbero costituire per chi, come il sottoscritto, non ha mai particolarmente amato l’opera di Tolkien, una valida alternativa al Signore degli Anelli, altra monumentale trilogia della letteratura fantasy e fantastica.

A far da contraltare all’opera di J. R. R. Tolkien può contribuire il fatto che in quella di Peake l’eroe è quasi del tutto assente o, perlomeno, al termine del primo romanzo non ha ancora compiuto il secondo anno di età, costituendo per le quattrocentosessanta pagine che lo compongono più un oggetto della storia narrata che il soggetto. Ancor di più, però, a fare del Gormenghast un’alternativa al Lord of the Rings contribuisce il fatto che mentre nel secondo gli eroi devono riportare o ricostruire l’ordine sconvolto dal ritorno di Sauron e del Male che rappresenta, nel primo è proprio l’invadenza e il predominio dell’ordine dato a costituire la causa del disagio e dello scontro tra i diversi interpreti del dramma.

Il mondo di Gormenghast, a differenza della Terra di mezzo, non è un luogo pacifico dove gli appartenenti alle varie razze umane o diversamente umane (elfi, nani, hobbit, uomini) potrebbero, soltanto con un po’di buona volontà, collaborare pacificamente e condurre tranquillamente le loro bonarie (hobbit), scorbutiche (nani) e illuminate (elfi) esistenze a fianco degli uomini se non fosse per il ritorno di un Male antico e odioso, destinato a riportare il buio là dove dovrebbe risplendere soltanto la luce.

No, quello disegnato da Peake è un mondo di conflitti, più o meno malcelati, dove solo la tradizione, le leggi e i riti più antichi possono impedire la “naturale” dissoluzione di un ordine che costituisce non soltanto “una certa qual massiccia corposità architettonica”, ma anche l’intero orizzonte in cui tutti i personaggi si muovono, senza alcun riguardo o curiosità per ciò che potrebbe estendersi oltre i suoi confini.

Non vi è divisione tra Bene e Male nel Titus Groan, non vi è religione o magia se non quella della celebrazione dei riti fini a se stessi. Non c’è sacralità né, tanto meno, un’autorità morale o spirituale superiore, cui far riferimento. Non ci sono neppure una vera scienza o un vero raziocinio, esiste soltanto la Legge, che non è possibile interpretare, ma soltanto seguire. Tanto che la vecchia biblioteca, dove il conte Sepulcrio passa la maggior parte del suo tempo, prima del suo incendio e della sua distruzione, è composta per la maggior parte da testi scritti dagli antenati dello stesso.

Un tempo fermo, apparentemente immobile, che solo Tito potrà forse, un giorno, scuotere o abbandonare. Ma questo al termine del primo romanzo del ciclo non è ancor dato sapere. L’ordine e la pace, in tale contesto, non costituiscono una conquista, ma un”obbligo” noioso e mortifero. Siamo ad anni luce di distanza dall’epica tolkeniana. In un mondo in cui il sole sorge ad est e tramonta a ovest, esiste il petrolio e insieme ad esso molti altri oggetti del viver quotidiano inglese tra XIX e XX secolo.

Il dubbio che sorge, nel lettore, è costituito dal fatto che, al di là di quanto affermato da Burgess nella Presentazione, quella dipinta da Peake sia un’allegoria della società inglese successiva al secondo conflitto mondiale: un ordine che ha perso pezzi importanti del proprio impero, ma che vuole mantenersi immutabile con suoi riti e le sue tradizioni. Come anche i recenti funerali della regina Elisabetta II e la saga infinita della famiglia reale (Carlo ora Carlo III, Diana, Camilla, Harry, Meghan, William e consorte) sembrano ancora confermare (grazie anche alle serie televisive prodotte da Netflix).

Se sia davvero così non è dato sapere con certezza, ma certo la carica nichilista ed eversiva contenuta non soltanto nelle pieghe del romanzo fa sì che lo stesso finisca coll’acquisire un significato devastante nei confronti dei sistemi di potere, anche per l’attuale vigente in un Occidente che non vuole riconoscere ordine altro dal proprio, che lo pone in uno spazio ben diverso e provocatorio rispetto a quello che, anche a sinistra, si è voluto definire per l’opera di Tolkien nel suo insieme. Tanto che anche lo stesso Burgess è costretto ad ammettere che nelle pagine del romanzo:

Dappertutto, anche nei voli più romanticamente fantastici, si sente questa fredda padronanza dell’intelligenza che tiene in vita, come un generatore, il mondo immaginario e ne esclude quello reale. Ma è poi vero che il mondo reale ne sia escluso?
Prima di dare una risposta, occorre ritornare all’anno della pubblicazione di Titus Groan, il primo dopo una guerra lunga e orribile. Il connubio tra lo scheletro di Agrimonio e il teschio di vitello, la zampa del gatto che strappa dalla guancia di Ferraguzzo, sotto l’occhio destro, un «brandello scarlatto», il duello tra Lisca e Sugna nella Sala dei Ragni, non sono i particolari gratuiti di un romanzo gotico quanto piuttosto i riverberi di un’epoca di orrori. Il rogo che distrugge secoli di tradizione e la follia di un conte privato per sempre del sostegno di un rituale sembrano simboleggiare la fine di un ordine di secoli, ma questa volta autentico, storico9.

Allora, soltanto per giungere a una prima conclusione, il vero enigma del Gormenghast sta forse proprio nel chiedersi perché tanta cultura pretesa alternativa o di sinistra abbia speso tanto tempo nel contendere alla destra un ciclo sostanzialmente tradizionale come quello del Signore degli Anelli e abbia tralasciato di prestare attenzione a un ben più feroce e sovversivo esempio di critica dell’ordine esistente come quello rappresentato dal ciclo comunque epico di Peake. Forse perché la tradizione manichea che accomuna certa destra e certa sinistra, con la rigida divisone tra Bene e Male, è destinata ad essere l’ultima a morire? Speriamo, sinceramente, di no.


  1. Anthony Burgess, pseudonimo di John Burgess Wilson (Manchester, 1917 – Londra, 1993), è stato scrittore, critico letterario, poeta, drammaturgo, sceneggiatore, giornalista, saggista e traduttore. E’ considerato uno dei più importanti autori inglesi del secondo dopoguerra e tra le sue opere più significative vanno annoverate: Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1962), Notizie dalla fine del mondo o La fine della storia (The End of the World News: An Entertainment, 1982) e la Trilogia malese (Malaysian trilogy, 1958-1960). Nei suoi romanzi uno dei temi centrali è costituito dall’uomo schiacciato dalla violenza, vittima di condizionamenti ideologici e oppresso dagli apparati dello Stato. Nella Trilogia malese ha descritto il crepuscolo nel quale si è chiusa la dominazione inglese nelle colonie dell’Estremo Oriente.  

  2. A. Burgess, Presentazione in M. Peake, Gormenghast. La Trilogia, Adelphi Edizioni, Milano 2022, p. 13  

  3. Mervyn Peake fu, oltre che scrittore, poeta, pittore e affermato illustratore di libri per l’infanzia e non soltanto, come dimostra la tavola qui accanto in cui sono raffigurati alcuni personaggi del suo romanzo: Ferraguzzo, Fucsia, Signa e Lisca  

  4. A, Burgess, op. cit., pp. 10-11  

  5. In Italia per la prima volta nel 1981 per Adelphi e con il titolo già precedentemente citato: Tito di Gormenghast  

  6. In Italia: Gormenghast, Adelphi 2005  

  7. In Italia: Via da Gormenghast, Adelphi 2009  

  8. A. Burgess, op. cit., p. 10  

  9. Ibidem, p. 13  

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“The 100”, riusciranno gli adolescenti a salvare il mondo? https://www.carmillaonline.com/2022/03/23/the-100-riusciranno-gli-adolescenti-a-salvare-il-mondo/ Wed, 23 Mar 2022 22:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71142 di Paolo Lago

Delle sette stagioni della serie tv di fantascienza post-apocalittica The 100, dilatatasi fra il 2014 e il 2020, quelle più interessanti sono sicuramente le prime due o tre. Poi, a partire circa dalla quarta stagione il racconto diventa un po’ scialbo, ripetitivo e si ha l’impressione che metta troppa carne al fuoco, cercando di riallacciarsi a temi fin troppo abusati (che si allontanano da quelli iniziali) come, ad esempio, la colonizzazione di altri pianeti da parte dei terrestri.

I primi momenti narrativi sono incentrati sulla vita a bordo dell’“Arca”, una stazione [...]]]> di Paolo Lago

Delle sette stagioni della serie tv di fantascienza post-apocalittica The 100, dilatatasi fra il 2014 e il 2020, quelle più interessanti sono sicuramente le prime due o tre. Poi, a partire circa dalla quarta stagione il racconto diventa un po’ scialbo, ripetitivo e si ha l’impressione che metta troppa carne al fuoco, cercando di riallacciarsi a temi fin troppo abusati (che si allontanano da quelli iniziali) come, ad esempio, la colonizzazione di altri pianeti da parte dei terrestri.

I primi momenti narrativi sono incentrati sulla vita a bordo dell’“Arca”, una stazione spaziale sulla quale si sono rifugiati gli unici terrestri sopravvissuti a una guerra nucleare, avvenuta molti anni prima. I governanti dell’Arca decidono di inviare sulla Terra cento detenuti minorenni per testare le condizioni di vita sul pianeta e capire se è ritornato abitabile dopo le devastazioni atomiche. Come già accennato, le prime stagioni della serie, tratta dai romanzi di Kass Morgan, propongono alcune tematiche interessanti. Innanzitutto, l’idea che gli unici a poter salvare la Terra possano essere degli adolescenti. In uno scenario post-apocalittico e eco-distopico, i boschi e la natura selvaggia si sono riappropriati delle vecchie città umane, ridotte a cumuli di macerie o di edifici abbandonati. In tali spazi si muovono i cento adolescenti provenienti dall’Arca e dovranno vedersela, oltre che con una natura ostile a loro totalmente estranea (essendo nati e cresciuti nello spazio), con una popolazione terrestre che ha ricolonizzato il pianeta; scopriranno quindi di non essere gli unici sopravvissuti. Mentre gli adulti restano nello spazio, gli adolescenti si muovono e agiscono nell’ambientazione terrestre: ad essi è infatti demandata una speranza di salvezza e di sopravvivenza della specie umana. Non è un caso che, nella realtà, ad attuare le più significative lotte contro il cambiamento climatico, per una sopravvivenza futura, siano proprio i giovanissimi e gli adolescenti. Come scrive Carla Benedetti nel suo pamphlet La letteratura ci salverà dall’estinzione, “i giovanissimi, che rinnovano oggi la preoccupazione per la vita futura sulla Terra e ricominciano a lottare per una giustizia climatica, e per tutto ciò che può cambiare il corso delle cose, non hanno ancora sviluppato quella indifferenza che talvolta la frustrazione e il senso di impotenza inducono negli adulti, e che, come un analgesico, permette loro di accettare, magari con amaro realismo, quello che non si ritiene di poter cambiare”1. Gli adolescenti sono capaci, secondo la studiosa, di farsi “acrobati del tempo”, cioè di riuscire a immedesimarsi nella vita dei figli dei propri figli, senza pensare egoisticamente solo alla propria generazione.

Del resto, quello dell’egoismo è un altro dei temi problematizzati dalla serie. Nel corso della narrazione incontriamo diversi gruppi sociali che si fanno la guerra tra di loro. A questa dinamica non sfuggono neppure i “cento” provenienti dall’Arca e quelli che si configureranno come i loro leader, Clarke e Bellamy, dovranno più di una volta affrontare l’angosciosa decisione su ‘chi salvare’. Fare il bene solo della “propria gente” o riuscire a salvare tutti quanti, anche coloro che appartengono a tribù e gruppi diversi? È questo uno dei dilemmi lancinanti che attraversano soprattutto le prime due stagioni. E poi c’è il tema della guerra, del conflitto, dello scontro fra clan, un tema che percorre ossessivamente tutte le stagioni della serie. Clarke e Bellamy si battono per cercare di evitare la guerra fra la loro gente (nel frattempo anche gli adulti sono riusciti a raggiungere la Terra) e le altre popolazioni di terrestri. Ognuno, di fronte a una problematica e a una nuova catastrofe, cerca infatti di salvare se stesso o il proprio gruppo sociale. Mors tua, vita mea: è questo il refrain che percorre come un brivido l’intero impianto narrativo di The 100. Pur dilaniati dalle loro angosciose scelte, che spesso possono non essere quelle giuste, gli adolescenti sapranno però rimediare là dove gli adulti hanno fallito nel crudele governo dell’Arca, in cui per un crimine anche di poco conto gli abitanti potevano venire condannati ad essere eiettati nello spazio. La guerra appare come un gioco terribile al quale desiderano lasciarsi andare comandanti e sovrani cupi e assetati di vendetta, intenti soltanto a salvaguardare i propri loschi giochi di potere.

E le guerre, nell’ambientazione post-apocalittica di The 100 (ma anche nella realtà) possono avere esiti terribili e fatali, come quelli di annientare gli unici spazi abitabili rimasti sul pianeta. Come scrive Susan Sontag, con un riferimento ad alcuni classici cinematografici, “i film di fantascienza sono intensamente moralistici. Il messaggio tipico concerne un’utilizzazione giusta, o umana, della scienza, contrapposta all’uso folle e ossessivo che di essa può farsi”2. Un messaggio che – continua la studiosa – i film di fantascienza “hanno in comune con i classici dell’orrore degli anni Trenta come Frankenstein, The Mummy, Island of Lost Souls, Dr. Jekyll and Mr. Hyde3. Diverse situazioni di The 100 mostrano un uso abnorme e ‘mostruoso’ della scienza: ad esempio, gli abitanti di Mount Weather, non potendosi esporre all’aria aperta a causa dell’ipersensibilità della loro pelle, all’interno del bunker nel quale sono condannati a vivere, appaiono intenti a utilizzare il midollo osseo di altri terrestri catturati nonché di alcuni del gruppo dei “cento” per curare le ferite da radiazioni che i loro corpi ricevono quando sono esposti. Anche questi terribili esperimenti, che possono far pensare a quelli attuati dai nazisti nei campi di sterminio, sono volti unicamente a preservare il proprio gruppo sociale.

La grande apocalisse, quella che ha spazzato via la vita sulla Terra un centinaio di anni prima delle vicende raccontate nella serie, è stata provocata da un computer che, per risolvere il problema del sovraffollamento terrestre, ha dato il via a un bombardamento nucleare. Il disastro atomico originario, perciò, non appare scatenato da una guerra umana ma da una realtà virtuale computerizzata che ha trasformato quella che era una semplice simulazione in una vera e propria guerra reale (con modalità simili, per certi aspetti, a quelle narrate in Wargames – Giochi di guerra, 1983, di John Badham, in cui una simulazione al computer è sull’orlo di scatenare una guerra nucleare fra Stati Uniti e Unione Sovietica negli anni della Guerra Fredda). L’inconsistenza digitale, la virtualità, lo spettacolo fine a se stesso – elementi che nella nostra realtà caratterizzano i mezzi di informazione televisivi e della Rete, capaci anche di trasformare in una sorta di crudele videogioco il conflitto in corso in Ucraina – hanno provocato una vera e propria catastrofe atomica. La distruzione della Terra raccontata dalla serie sembra essere avvenuta come l’estrema conseguenza di una realtà virtuale, connotata da disinformazione o informazioni alterate, pervasivamente espansa fin negli interstizi della percezione umana.

La catastrofe ha lasciato dietro di sé panorami post-apocalittici nei quali, come dolorosi lasciti di un tempo che non esiste più, frammenti di un passato crudele, svettano le poche vestigia umane rimaste, come la torre della città di Polis, un grattacielo ormai semidistrutto. Dietro la rappresentazione di queste vestigia – non troppo diverse dai ruderi della Statua della Libertà che alla fine de Il Pianeta delle Scimmie (The Planet of the Apes, 1968) di Franklin J. Schaffner emergono dalla sabbia – c’è una vera e propria “estetica della distruzione” che, secondo Sontag, rappresenta le “particolari bellezze che si possono reperire nella catastrofe e nel caos”4. In mezzo alle lande devastate e ai boschi che si sono riappropriati della Terra dopo la catastrofe, l’umanità superstite è preda di una vera e propria regressione tecnologica. Non ci sono più i veloci mezzi di trasporto che permettevano spostamenti in breve tempo da una parte all’altra del globo. Nel futuro narrato da The 100, lo spazio si è rivestito nuovamente di tutta la sua distanza, ogni viaggio diventa un percorso lento e avventuroso. La contemporaneità è infatti sottoposta a un pervasivo “inquinamento delle distanze”, per utilizzare un’espressione di Paul Virilio. Secondo lo studioso francese, quella attuale è un’epoca in cui, al pari di certe “sostanze”, anche le stesse “distanze” sono inquinanti: queste ultime, tramite gli iperveloci mezzi di spostamento contemporanei, vengono sottoposte ad una drastica contrazione la quale degrada l’estensione del nostro habitat5. I mezzi che solcano gli scenari futuri delle narrazioni distopiche e post-apocalittiche, spesso, non sono caratterizzati da una ‘velocizzazione’ ulteriore rispetto a quelli attuali, ma da una maggiore lentezza, dovuta a inarrestabili processi di regressione tecnologica. La stessa discesa dei “cento” dall’Arca e, successivamente, degli adulti, viene effettuata su capsule e razzi allestiti come una sorta di mezzi di fortuna, lenti e disastrati: siamo ben lontani dal vedere le scintillanti e avveniristiche astronavi di molti film di fantascienza. La stessa Arca, costituita dall’unione di vecchie stazioni orbitanti, ha un aspetto dimesso, intriso di un’estetica riconducibile per certi aspetti allo steampunk. Altri spazi mostrano interessanti commistioni fra ‘arcaico’ e moderno, con rimandi non solo al genere fantasy ma anche al mondo classico (ad esempio, verrà ricreata un’arena per i giochi gladiatori di fronte al giudizio della crudele “Blodreina”, la quale appare spesso intenta a leggere le Metamorfosi di Ovidio). La stessa lingua parlata dai clan terrestri, costituita da parole a base inglese, appare come una curiosa via di mezzo fra un pidgin e un creolo.

The 100 è quindi interessante soprattutto perché, lungi dal proporre facili soluzioni venate di melensi buoni sentimenti, come fanno molti film o serie tv confezionati appositamente per il pubblico medio statunitense, sfodera sempre nuove problematiche, nuovi conflitti che lacerano le coscienze e le decisioni dei personaggi. Come già accennato, le scelte che questi ultimi devono affrontare non sono per niente facili ed entrano in gioco problemi e lacerazioni più ampie: come agire per evitare i conflitti e le guerre? Salvare solo la “propria gente” o anche tutti gli altri? E soluzioni facili non ce ne saranno: i fanatismi, l’esasperazione, la follia, nella fantascienza come nella nostra realtà, sono sempre dietro l’angolo.


  1. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi, Torino, 2021, pp. 101-102. 

  2. S. Sontag, Immagini del disastro, in Ead., Contro l’interpretazione, trad. it. Mondadori, Milano, 1998, p. 325. 

  3. Ibid

  4. Ivi, p. 320. 

  5. Cfr. P. Virilio, Velocità di liberazione, trad. it. a cura di U. Fadini e T. Villani, Mimesis, Milano, 2000, p. 81 e seguenti. 

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Al di là del portale del fandom https://www.carmillaonline.com/2021/10/31/al-di-la-del-portale-del-fandom/ Sun, 31 Oct 2021 21:26:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69016 di Franco Pezzini

Howard Phillips Lovecraft, I taccuini di Randolph Carter, a cura di Marco Peano, trad. di Mario Capello, euro 19, pp. XVIII-254, Einaudi, Torino 2021.

D’accordo, la prima domanda può essere: serviva davvero, una nuova traduzione di questi testi? La raccolta presenta l’intera saga dell’onironauta di Lovecraft, cioè i suoi racconti La testimonianza di Randolph Carter, L’indicibile, La chiave d’argento, il romanzo La cerca onirica di Kadath l’ignota, e un racconto a quattro mani, Al di là del portale della chiave d’argento scritta assieme a Edgar Hoffmann Price – tutti testi [...]]]> di Franco Pezzini

Howard Phillips Lovecraft, I taccuini di Randolph Carter, a cura di Marco Peano, trad. di Mario Capello, euro 19, pp. XVIII-254, Einaudi, Torino 2021.

D’accordo, la prima domanda può essere: serviva davvero, una nuova traduzione di questi testi? La raccolta presenta l’intera saga dell’onironauta di Lovecraft, cioè i suoi racconti La testimonianza di Randolph Carter, L’indicibile, La chiave d’argento, il romanzo La cerca onirica di Kadath l’ignota, e un racconto a quattro mani, Al di là del portale della chiave d’argento scritta assieme a Edgar Hoffmann Price – tutti testi nel complesso famosi. Al netto però di qualunque considerazione sull’utilità sociale della traduzione di un classico (come tale in sé noto, ma merita sempre d’essere riproposto) e sulla politica editoriale di voler avere in catalogo una propria versione, mi pare che la risposta debba essere positiva. Intanto il volume è molto bello, elegante come appunto ci si attende per un classico; la traduzione, buona e godibile, è condotta sull’edizione a cura dell’espertissimo Joshi, The complete fiction di Barnes & Noble 2011 (e non sulle precedenti, criticate per refusi e imprecisioni); a volgere i racconti in italiano è un bravo traduttore estraneo al sottomondo fandom, che giustamente li ha trattati come classici della letteratura anglosassone; e a curare il tutto è un competente curatore come Marco Peano, già studioso attento dell’epistolario, e che qui corona l’insieme con una bella Prefazione. Alcune soluzioni del traduttore faranno storcere un po’ il naso a quanti si erano abituati a rese consolidate – i “tuttossa della notte” al posto dei magri notturni –, ma da un lato quelle non costituivano verità rivelata, e dall’altro si tratta in fondo del voler tornare alla sorpresa di un testo con gli occhi di una nuova generazione. In sostanza, lasciamo le lamentazioni a consumarsi, e godiamoci questa bella edizione.

Su Lovecraft, e anche su questi racconti, le piste di ricerca fertili sarebbero ancora davvero tante: a partire dal suo rapporto con le fonti. Dove, per favore, evitiamo di considerare tutta una serie di autori eccellenti come meri ispiratori e altri come puri epigoni: Lovecraft è stato grandissimo, ma sarebbe il primo a trovare insensato tale riduzionismo grottesco e provinciale di maestri come Machen, Bierce o lo stesso immenso Poe (per citare solo qualche patriarca). Dividere tout court la storia del fantastico in prima e dopo Lovecraft, come se lui dovesse essere il centro focale di tutto, atteso quasi messianicamente, significa brandire un’impostazione critica un po’ imbarazzante, da tifo tra squadre di paese: non lo si fa (giustamente) per il resto della letteratura, ha davvero senso proporre una partizione “a podio” nella letteratura fantastica?

Tanto più che, ad analizzare con attenzione i testi, scopriamo i fili che corrono da un’opera all’altra, da un autore all’altro, e rendono HPL parte vitale di un lungo cammino che certo non si esaurisce in lui. Kadath l’ignota è per esempio solo una tappa avanzata, ciclopica di quella serie di arcicastelli – d’Otranto, di Udolpho, Metzengerstein, Casa Usher eccetera, fino al Castello Dracula, a quello di Kafka e ad altri – il cui statuto incerto di luoghi fisici e insieme del sogno si relaziona agli orizzonti e paradigmi delle rispettive epoche. Il tema dell’identità plurima come cifra paradossale di orrore si colloca in un’epopea del fantastico come letteratura di crisi dell’identità esplorata fin dal Settecento, emblematica dell’Ottocento ed esondante nello stesso mainstream del Secolo breve. Il rapporto tra gruppi di dèi, qui continuamente richiamato non tanto a fornire coordinate fantateologiche quanto spunti poetici, sembra richiamarsi alle dinamiche di testi come la lirica Il Verme Conquistatore di Poe, con la messinscena di “Mimi fatti a sembianza di Dio in alto / [che] borbottano e brontolan piano” e volteggiano, “vani fantocci […] al comando di vasti esseri informi [“vast formless things”, nella prima versione “vast shadowy things”], / che spostano lo scenario qua e là” eccetera. Come non è Lovecraft a inventare gli pseudobiblia o le città simbolo d’inconcepibile alterità, pur giocando sull’uno e sull’altro topos con straordinaria bravura.

Ancora: Lovecraft, che non è certo un maestro sul piano ideologico come qualcuno pretenderebbe a fini strumentali, è invece un buon maestro di scrittura – alla faccia di quanti ne hanno demolito lo stile (penso a certe frecciate del pur bravo Colin Wilson, che lì però cade malamente), spesso sulla base di edizioni inaffidabili o magari di confusioni con il vorrei-ma-non-posso epigono Derleth. Il primo dei testi qui antologizzati, La testimonianza di Randolph Carter, trasformazione in novella – com’è noto – del resoconto di un autentico sogno dell’autore, mostra come il materiale onirico possa felicemente fornire il tessuto completo (e non solo uno spunto ispiratore di singole scene, come per Walpole, Mary Shelley, forse Stoker) a un testo narrativo suscettibile a quel punto di criteri di giudizio diversi, non asfitticamente psicologistici ma letterari. L’indicibile, forse meno forte sul piano della narrazione, si configura però come una vera e propria lezione teorica di scrittura e riflessione critica sull’uso del non-detto in chiave enfatica e perturbante, contro le critiche e i sofismi di alcuni lettori. La chiave d’argento, con le sue dimensioni liricamente nostalgiche, colloca la filosofia di vita di Lovecraft/Carter all’interno di una crisi consumata verso una serie di valori del mondo americano del tempo, nel cui contesto intellettuale il racconto va anzitutto valutato. Come per Poe, anche se in modo diverso per il mutare dell’America e il differente profilo soggettivo, il pensiero di Lovecraft va rapportato a un orizzonte di giornali, pubblicazioni amatoriali e non, scoperte e nuove ipotesi scientifiche, conferenze, dibattiti e polemiche – da lui seguiti magari a distanza, o anche al filtro dei sui contatti. Avvicinarlo a figure della piazza europea (magari sull’onda di pretese vicinanze alla “Tradizione”, e di sporadiche sue letture) risulta una forzatura: togliere Lovecraft dal suo mondo significa fraintenderlo completamente. La chiave d’argento, scritto nel 1926 – nel corso di quegli anni ruggenti che a lui interessano in fondo poco – verrà pubblicato all’inizio del 1929: di lì a qualche mese si scateneranno forze mostruose, gli Altri Dèi di una finanza che inabissa gli Stati Uniti come una fantastica R’lyeh, aprendo le porte alla follia (povertà, suicidi, disoccupazione, deflagrazione sociale) e ai mostri (però quelli gotici, il cui cinema eromperà proprio su quell’onda, irrorato dalle fantasie dei transfughi dell’espressionismo tedesco). Il cosmo/caos di Lovecraft incombe dall’alto sulle teste dei lettori ma in robusta parte anche nel profondo delle loro interiorità: quando Fruttero e Lucentini inseriranno vari racconti del Nostro nel bellissimo Storie di fantasmi (Einaudi, 1960) suggeriranno in fondo questo.

La cerca onirica di Kadath l’ignota, con il godibilissimo affresco di un’odissea negli Spazi Ulteriori, delinea a sua volta un tipo di fantasy che purtroppo non trova sufficienti estimatori da poter costituire un modello diffuso (mentre pensiamo al brulicare, anche in Italia, di autori fermi a elfi, orchi e talismani – come se dopo Tolkien avesse ancora senso). Certo, il romanzo brulica di ispirazioni a classici precedenti (il Nyarlathotep in scena viene direttamente dall’Eblis del Vathek, i riferimenti ai fuochi di figure faunesche da Pomponio Mela tramite Poe, eccetera), ma giocati in modo così festosamente originale e brioso da non esaurirsi mai nel puro citazionismo. Lì HPL capitalizza la narrativa d’avventure esotiche antiche e vittoriane, le letture delle Mille e una notte e i relativi controcanti europei settecenteschi, e le stesse suggestioni fantarcheologiche rimbalzanti in una certa pubblicistica d’epoca (i continenti perduti di Ignatius L. Donnelly, i Maya di Augustus Le Plongeon, eccetera). Non stupisce per esempio che in Al di là del portale della chiave d’argento emerga il richiamo al colonnello Churchward, “scopritore” del continente perduto di Mu… In effetti quest’ultimo testo è il più problematico della raccolta, perché abbina al timone il materialista Lovecraft e un interessato all’esoterismo come Price: ciò che potrebbe permettere di ravvisare nel nesso tra l’eroe Carter e l’occultista creolo Etienne-Laurent de Marigny, il “più grande mistico, matematico e orientalista del continente”, qualche confusa memoria del mago mulatto Paschal Beverly Randolph, figura emblematica di occultista tra l’America e l’Oriente.

Possiamo restare perplessi scoprendo come venga qui considerato il massimo di orrore e straniamento lo scoprirsi del protagonista come identitariamente presente in realtà diverse del cosmo: forse oggi siamo più abituati all’ipotesi degli universi paralleli, o all’idea che “percentuali” di noi si trovino in giro variamente sparigliate nella realtà (anzi Carter, come scrittore, dovrebbe non considerarla una prospettiva così nuova). Ma non stupiamoci, è cambiato il mondo e il titano Lovecraft è solo una tappa nel lungo cammino della storia del fantastico: inventa o spesso recupera e valorizza topoi, ci gioca con bravura (pienamente) letteraria e con il suo corpus di racconti edifica i pilastri di un’intera mitologia, che d’altra parte poggiano la base nel piccolo orbe della sua Nuova Inghilterra.

Tutto ciò non a ridurre o banalizzare l’importanza di Lovecraft, tutt’altro: ma a contestualizzare un po’ la naïveté di un certo tipo di devozione fiorente su internet e in millanta eventi sul fantastico, un (Carducci permetterà)  lovecraftismo degli stentatelli votato al culto compulsivo di lui a botte di interventi sussiegosi, analisi letterarie migliorabili – non mancano studiosi seri, ma certo in percentuale ridotta rispetto a fiumane di autoproclamati esperti –, riferimenti a opere critiche datate e discutibili, mentori da non inimicarsi, affermazioni storiche banalizzanti (“normale che fosse razzista, tutti allora lo erano”). E imitazioni non esaltanti, in chiave di fanfiction: mentre, osservava giustamente il critico Davide Mana, i discepoli migliori di HPL non sono quelli che lo scimmiottano o pretendono di continuarlo, ma quelli che lo tradiscono, si ispirano a lui per reimmaginare completamente il quadro, mostrano di averne appreso la lezione e la valorizzano per analogia.

Che HPL sia anche un effervescente fenomeno pop non stupisce e non c’è nulla di male, c’è spazio per tutti – anche se non è detto che ogni entusiasta abbia tout court qualcosa di sensato da proclamare. Ottimi i carotaggi monotematici, ma vanno raccordati a un orizzonte culturale ampio e insieme puntuale, senza scorciatoie esoteriche dove non congrue (anche se permettono di fare sfoggio d’erudizione in taluni ambienti) e con un’attenzione comunque al mondo concreto su cui Lovecraft teneva i piedi, pur vagheggiando cosmi lontani. Quella è la Nuova Inghilterra delle Città del tramonto, in fondo: e una meta può essere il tipo d’approccio, esemplare per rigore e quantità di dati offerti, con cui brilla per esempio la Edgar Allan Poe Society di Baltimora votata al suo grande predecessore. Qualcosa che su Lovecraft in parte c’è, ma soprattutto nella critica anglosassone, mentre da noi – basta farsi un giro sul web – a grandi numeri prevale l’ossessione antimodernista, in loop come un uroboro. Davvero meritevole invece l’uscita, in tre volumi in Italia per un piccolo editore, dell’opera dell’espertissimo S.T. Joshi, Io sono Providence. La vita e i tempi di H.P. Lovecraft (Providence Press, 2020-21), col pregio di aprire finalmente le finestre e far entrare un po’ di aria fresca nel mondo delle letture lovecraftiane nostrane, grazie al rigore asciutto degli studi anglosassoni.

Dissodare i testi, analizzarne il linguaggio, individuare i precedenti filologici, linguistici o tematici, che non costituiscono mai dati aridi ma rimandano a letture concrete e sogni… Se vogliamo davvero onorare Lovecraft, anche nell’Italietta intignata nei livori verso i grandi editori e la critica “alta”, cominciamo insomma a trattarlo da classico qual è, apriamo alla realtà storica del suo mondo e delle sue letture (non quelle che avrebbe potuto condurre, sulla base della bibliotechina personale dell’autoeletto esegeta), e allo specifico letterario dove ha dato il suo meglio. Se poi con Schopenhauer possiamo giustamente elogiare i dilettanti, che hanno mostrato di apprezzare Lovecraft anche quando una critica accademica ancora non lo capiva, non possiamo dimenticare che anche nello studio della letteratura, anche non essendo accademici, occorre dedicare ai soggetti un rigore – anzitutto nell’approccio, se non proprio nelle forme – che a quello dell’accademia si avvicini. Bene la buona divulgazione, specie se poi permetta qualche guizzo minimamente originale nell’impostazione, ma anche quella richiede rigore. Bene lo sforzarsi di cogliere la novità di Lovecraft, non in grazia di un ipse dixit reazionario, ma per la gioia continua di una possibile riscoperta, che è uno degli aspetti caratterizzanti i classici. Necessario dunque saper anche uscire dal portale serrato del fandom, con relative grandezze (che pur ci sono) e limiti.

L’edizione in questione, pur non avendo pretese di edizione critica, fa in fondo proprio questo, trattare seriamente Lovecraft come un classico angloamericano in quanto tale (non solo “del fantastico”). E su un autore grandissimo tanto maltrattato da critica ostile e devozioni asfittiche, pare un riconoscimento importante.

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His Dark Materials: Lyra e la Repubblica dei Cieli https://www.carmillaonline.com/2020/03/03/his-dark-materials-lyra-e-la-repubblica-dei-cieli/ Mon, 02 Mar 2020 23:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58040 di Walter Catalano

Tra il 1995 e il 2000 Philip Pullman, scrittore britannico fino ad allora prevalentemente dedito alla letteratura per bambini e young adults, compone una trilogia fantasy che, unendo l’avventura fantastica a una riflessione teologica e filosofica leggibile a più livelli di complessità, diventerà un intramontabile long seller superando nell’apprezzamento dei lettori, oltre che nella valutazione dei critici, perfino la quasi contemporanea saga dell’Harry Potter di J.K. Rowling. Stiamo parlando di His Dark Materials, da noi Queste oscure materie, composta da “Northern Lights” (La bussola d’oro), “The [...]]]> di Walter Catalano

Tra il 1995 e il 2000 Philip Pullman, scrittore britannico fino ad allora prevalentemente dedito alla letteratura per bambini e young adults, compone una trilogia fantasy che, unendo l’avventura fantastica a una riflessione teologica e filosofica leggibile a più livelli di complessità, diventerà un intramontabile long seller superando nell’apprezzamento dei lettori, oltre che nella valutazione dei critici, perfino la quasi contemporanea saga dell’Harry Potter di J.K. Rowling. Stiamo parlando di His Dark Materials, da noi Queste oscure materie, composta da “Northern Lights” (La bussola d’oro), “The Subtle Knife” (La lama sottile), “The Amber Spyglass” (Il cannocchiale d’ambra). Il titolo rimanda ad un verso del Paradiso perduto di John Milton messo ad epigrafe del primo volume:

«In questo abisso selvaggio,
Il grembo della natura e forse la sua tomba,
Né di mare, né terra, né aria, né fuoco,
Ma tutti questi al concepimento mischiati
Confusamente, e quindi sempre in conflitto,
Finché il creatore onnipotente ordini loro
Da queste oscure materie di creare altri mondi,
In questo abisso selvaggio il cauto demonio
Sta ai margini dell’inferno e intanto osserva,
Ponderando la sua traversata…»

Il riferimento poetico ovviamente non è casuale, perché l’opera è un’aspra critica nei confronti della religione, soprattutto del cristianesimo, e una difesa dell’ateismo, del panteismo e di un radicale laicismo, che l’autore concepisce in aperta polemica contro Le cronache di Narnia di Clive Staples Lewis, ciclo letterario da lui considerato meramente propagandistico e nocivo per lo sviluppo intellettuale dell’infanzia. Pullman ha studiato ad Oxford, città dove è ambientata la sua trilogia, e Università presso la quale furono docenti sia Lewis che Tolkien, i fondatori di quell’High Fantasy, epico, mistico, e arcaicizzante, a cui invece egli contrappone una rilettura Low Fantasy, moderna e iconoclasta. Anche Tolkien, pur amico di Lewis e membro come lui del gruppo degli Inklings, ebbe in verità a criticare, sebbene con minor acrimonia, il ciclo di Narnia, rinfacciandogli la caoticità spesso incoerente del Secondary World evocato e soprattutto i riferimenti diretti alla religione: una storia fantasy non si scrive per fare proselitismo.

Così Queste oscure materie inizia con una bambina che si chiude in un armadio, proprio come ne Il leone, la strega e l’armadio, primo romanzo pubblicato della saga di Narnia, ma il Bildungsroman metafisico dell’undicenne Lyra Belacqua sarà antitetico a quello dei giovani protagonisti di Lewis. Lyra, la classica orfanella dickensiana – almeno così appare all’inizio della storia – vive ospite al Jordan College, in una Oxford che però non è esattamente quella del nostro mondo, qui la tecnologia si è evoluta in modo diverso, esistono macchine, apparecchiature elettriche e si vola, ma solo con dirigibili e mongolfiere – un’ambientazione piuttosto vicina allo steam punk – ; i canali fluviali sono attraversati dalle barche dei Gytziani – un popolo nomade erede di un’antica saggezza, modellato sui Sinti e i Rom – ; in Lapponia e nell’Artico vivono streghe con poteri straordinari (come volare su di un ramo di pino-nuvola, o diventare invisibili assumendo un aspetto così insignificante da rendere impossibile essere notati) e bellicosi orsi corazzati parlanti, ma, soprattutto, ogni essere umano di quel mondo è accompagnato per tutta la vita e inseparabilmente da un daimon: la propria anima proiettata all’esterno in forma totemicamente animale e di sesso inverso rispetto al possessore (l’animale è sempre fluttuante e mutevole per i bambini, ma si stabilizza in una forma definitiva alla fine della pubertà). Come i loro “padroni” anche i daimon hanno un nome: quello di Lyra si chiama Pantalaimon.

Venuta fortunosamente in possesso di un Aletiometro (dal greco Alétheia: Verità), strumento simile ad una bussola d’oro in grado di rispondere veridicamente a qualsiasi domanda tramite un complesso sistema di simboli che la bambina interpreta invece intuitivamente senza alcuno studio, Lyra viene a scoprire l’esistenza della Polvere, una misteriosa particella invisibile se non fotografata con speciali filtri e che si deposita sugli esseri umani, in particolare sugli adulti: un’organizzazione religiosa chiamata Intendenza Generale per l’Oblazione, diretta da Marisa Coulter (che si rivelerà in seguito come la madre di Lyra), si occupa di studiare il fenomeno compiendo oscuri esperimenti sui bambini e, per evitare che si sviluppino interpretazioni diverse da quelle decise da loro, vale a dire eresie, fa imprigionare Lord Asriel, il luciferico esploratore polare, idolatrato zio ma in realtà padre di Lyra. L’Aletiometro, in possesso della ragazzina funziona proprio comunicando con la Polvere, per questo la Chiesa, e con essa tutti gli esponenti del Magisterium – l’organizzazione politico-religiosa che detiene il potere (iconograficamente ricalcata sulla chiesa cattolica, ma ideologicamente più simile al calvinismo) – compresa la signora Coulter, credono che la Polvere sia la prova fisica del peccato originale e che perciò vada debellata e distrutta per mezzo dell’intercisione, cioè l’amputazione del daimon dai bambini prima della fine della pubertà, rendendoli incapaci di provare sentimenti e senza volontà “come zombi” ma proteggendoli così dall’influenza del peccato. Lyra, nel primo romanzo, cercherà di salvare i bambini rapiti dagli Ingoiatori di cui sua madre è il capo, con l’aiuto dei Gyziani, delle streghe di Serafina Pekkala, dell’aeronauta texano Lee Scoresby, e dell’orso corazzato Iorek Byrnison. Nel secondo volume della trilogia, La lama sottile, la fisica Mary Malone, proveniente dal nostro mondo, con cui Lyra entra in confidenza, sta svolgendo esperimenti sulla Polvere: ha scoperto che questa si deposita anche sui manufatti degli uomini e che vi rimane sopra per millenni. Malone scoprirà che la Polvere non è altro che la materia che forma gli Angeli e di cui si alimenta l’intelligenza umana. Nell’ultimo volume, Il cannocchiale d’ambra, incontreremo uno strano popolo, i Mulefa – quadrupedi ungulati ma non vertebrati con gli arti disposti a losanga e muniti di una proboscide prensile – che vivono in simbiosi con la Polvere, da loro chiamata Sraf (come il riverbero del Sole sull’acqua) e sono in grado di vederla ad occhio nudo e intuirne la reale importanza: senza la Polvere niente ci differenzierebbe dagli animali ed è necessario preservarla ad ogni costo, insieme al nostro libero arbitrio, simboleggiato per i Mulefa nel sacro simbolo del Serpente – il Tentatore nell’Eden – l’unico vertebrato del loro mondo. Per questo non è sufficiente solo combattere il Magisterium, ma è necessario abolire quell’Autorità Divina che ci rende senza volontà e più facilmente assoggettabili al suo controllo. Lyra, con l’amico e in seguito innamorato Will Parry – venuto dalla Oxford della nostra dimensione – riuscirà infine a preservare la Polvere salvando l’intero ventaglio delle specie pensanti di tutti i vari universi paralleli.

Per riuscire nell’impresa, Lyra e Will – qui Pullman segue gli archetipi mitologici della grande tradizione epica classica – come Odisseo o Enea, dovranno sperimentare la Nekyia, la discesa da vivi nell’Ade, dove libereranno finalmente le ombre imprigionate dei morti disperdendole nella natura e negli elementi, di nuovo alla luce del sole…”Quando eravamo vivi ci dicevano che, una volta morti, saremmo andati in cielo. E dicevano che questo cielo era un luogo di gaudio e gloria celeste, dove saremmo rimasti in eterno in compagnia di santi e angeli che lodano l’Onnipotente, in stato di beatitudine. Questo dicevano. Ed è questo che ha indotto alcuni di noi a dare la vita, e altri a passare anni in preghiera solitaria, mentre tutte le gioie dell’esistenza si sprecavano attorno a noi senza che noi le conoscessimo. Ma la terra della morte non è un luogo di premio o un luogo di castigo. E’ il luogo del nulla. Accoglie tanto i buoni quanto i malvagi, e tutti languiamo per sempre in questa penombra, senza speranza di libertà, o di gioia, o di sonno, o di riposo, o di pace. Ma ora questa ragazzina è venuta a offrirci una via d’uscita, e io la seguirò. Anche se ciò significasse l’oblio, amici, lo accoglierò a braccia aperte, perché non sarà comunque il nulla; saremo di nuovo vivi in migliaia di steli d’erba, in milioni di foglie, cadremo con le gocce di pioggia e spireremo nella fresca brezza, scintilleremo nella rugiada sotto le stelle e la luna fuori di qui, nel mondo fisico che è la nostra vera casa come sempre fu”.

 I due ragazzi per compiere la loro missione vengono in possesso dei vari oggetti di potere che danno il titolo ai rispettivi volumi, dopo la bussola d’oro, la lama sottile,  un coltello che permette di aprire portali da un universo all’altro e che può tagliare qualsiasi materiale e distruggere qualunque essere, perfino gli Angeli o lo stesso Dio. Nell’aprire finestre tra i mondi genera però gli spettri. E’ il coltello che sceglie il proprio possessore: la perdita dell’anulare e del mignolo della mano sinistra accomuna come segno distintivo tutti i portatori del coltello. Will riceverà il prezioso oggetto –  chiamato anche Esahettr, cioè “distruttore di Dio” – da Giacomo Paradisi, il precedente possessore, che lo riconosce come suo successore proprio da questa identica menomazione. Per ultimo il cannocchiale d’ambra è uno strumento costruito da Mary Malone nel terzo libro della trilogia: permette di vedere la Polvere come pulviscolo luminoso.

L’ultima battaglia sarà una sorta di rivincita del Lucifero del Paradiso perduto contro l’Autorità. Enoch, conosciuto anche come Metatron, è il Reggente del Regno dei cieli avendo imprigionato Dio, in preda alla demenza senile, in una lettiga di cristallo, e avendone preso il posto come capo degli angeli. Nell’ultimo libro Metatron combatterà contro i ribelli al Regno dei cieli, comandati da Lord Asriel e Marisa Coulter, padre e madre di Lyra, finalmente riuniti e riscattati dalle precedenti malefatte, decisi a liberarsi del potere divino per essere liberi. Attireranno con uno stratagemma che fa leva sulla sensibilità alle tentazioni della carne tipica degli angeli, il Reggente del Regno dei Cieli, nelle profondità di un abisso infernale, creato in seguito all’esplosione di una bomba interdimensionale, e riusciranno faticosamente a precipitarvelo con l’aiuto dei loro daimon, cadendo però entrambi giù con lui. Lyra e Will nel frattempo, si sono imbattuti nel vecchio Dio sulla lettiga-gioiello di cristallo in cui è prigioniero: è l’Autorità, un angelo molto anziano, il primo ad essersi formato dalla Polvere, nonché Re degli angeli a cui fa credere di essere il loro creatore, così come di tutto l’universo:  è il Dio della tradizione giudaico-cristiana, Autorità, Dio, Padre, Adonai ecc., ed ha creato le chiese nei vari mondi per poter controllare meglio gli esseri umani: “Will vide le mani della ragazzina schiacciarsi contro il vetro, cercando di raggiungere l’angelo e di rincuorarlo, perché era tanto vecchio, e tanto spaventato, e piangeva come un bambino acquattandosi nel cantuccio più lontano. […] I ragazzini aiutarono il Vegliardo a uscire da quella cella di cristallo; non fu difficile, perché era leggero come carta, e li avrebbe seguiti ovunque, non avendo una volontà propria e reagendo alla semplice gentilezza come un fiore al sole. Ma all’aria aperta non c’era niente che potesse impedire al vento di nuocergli, e con loro sgomento la sua forma cominciò a disgregarsi e dissolversi. In pochi istanti era svanito completamente, e il loro ultimo ricordo fu l’espressione di quegli occhi che ammiccavano accompagnata da un sospiro di profondo e stanco sollievo”.

 Alla fine del terzo libro Lyra e Will ormai non più bambini scoprono di essere innamorati, ma i loro daimon, ritrovati dopo il ritorno dal mondo dei morti e dopo che anche Will ha incontrato il suo (perché anche nel nostro mondo gli uomini hanno i daimon, ma dentro, non fuori) fanno loro sapere che non potranno restare insieme: i daimon infatti si ammalano e muoiono in poco tempo con i loro possessori se vivono troppo a lungo in un mondo diverso da quello d’origine. Poichè nessuna finestra può essere lasciata aperta per evitare la dispersione della Polvere (tranne una, e i due ragazzi decidono che sarà quella del mondo della morte), devono dirsi addio per sempre senza alcuna possibilità di rivedersi ancora. Will distruggerà il coltello per evitare tentazioni e ulteriori danni e tornerà nella sua Oxford insieme a Mary Malone. Così il Regno dei Cieli è ormai distrutto, il Paradiso perduto è stato riconquistato ed è sulla Terra. La frase finale dell’ultimo romanzo, pronunciata da Lyra, sarà: “Costruiamo la Repubblica dei Cieli !”.

Commenterà Pullman in un’intervista: «Il Regno dei cieli ci prometteva una serie di cose: ci prometteva la felicità, uno scopo per le nostre vite, l’impressione di avere un posto nell’universo, di avere un ruolo e un destino che erano nobili e splendidi: e così eravamo connessi alle cose. Non eravamo alienati. Ma ora che, almeno per me, il Re è morto, scopro di avere ancora bisogno di quelle cose che il paradiso mi prometteva, e non sono disposto a vivere senza quelle cose. Non credo che continuerò a vivere dopo che sarò morto, dunque se voglio ottenere quelle cose devo cercare di farle accadere – e incoraggiare altre persone a farle accadere – qui sulla terra, in una repubblica nella quale siamo tutti cittadini liberi e uguali, e responsabili

Una saga fantasy decisamente complessa e sui generis dunque, difficilmente inquadrabile entro gli orizzonti spesso angusti della “narrativa per ragazzi”. La polemica religiosa e la critica della teocrazia non cesseranno di interessare Pullman che nel 2010 pubblicherà Il buon Gesù e il cattivo Cristo (The Good Man Jesus and the Scoundrel Christ), sorta di Vangelo apocrifo immaginario il cui incipit è già da solo abbastanza emblematico: “Questa è la storia di Gesù e di suo fratello Cristo, di come nacquero, di come vissero e di come morì uno di loro. La morte dell’altro esula da questa narrazione”. Lo scrittore tornerà più volte al mondo di Lyra con La Oxford di Lyra (Lyra’s Oxford) del 2003, racconto sequel della trilogia dove la protagonista è ormai una ragazza di 15 anni e con una seconda trilogia ancora non conclusa: Il libro della polvere (The Book of Dust), questa volta non un sequel ma un “equel“, poiché la narrazione si svolge sia prima che dopo le vicende della trilogia principale. Il primo libro, La belle sauvage, del 2017, racconta le vicende di Lyra Belacqua, neonata, 12 anni prima di La bussola d’oro; il secondo libro, The Secret Commonwealth, uscito nel 2019, dove Lyra ha già vent’anni, non è stato ancora tradotto in italiano. La seconda trilogia, più cupa della precedente, avrebbe, secondo l’autore dovuto intitolarsi “His Darker Materials”.

Una saga di tale rilevanza intellettuale e spettacolarità visionaria non avrebbe potuto restare immune da tentativi di trasposizione per immagini, infatti il regista statunitense Chris Weitz, già nel 2007, tenterà l’impresa con La bussola d’oro (The Golden Compass), interpretato da una splendida Nicole Kidman nel ruolo di Marisa Coulter, Dakota Blue Richards in quello di Lyra, Daniel Craig come Lord Asriel, Eva Green come Serafina Pekkala, Sam Elliott come Lee Scoresby e Christopher Lee come capo del Magisterium. Nonostante il cast imponente e un budget più che ragguardevole il film, pur apprezzato da Pullman, edulcora hollywoodianamente le asperità della narrazione, semplifica e banalizza certi snodi e soprattutto smussa la polemica antireligiosa. Sebbene abbia incassato benino, il film scontenta i fan per queste carenze e viene comunque attaccato aspramente da gruppi religiosi e fondamentalisti: la produzione pertanto non ritiene opportuno proseguire, come inizialmente progettato, la realizzazione dei successivi episodi. Difficile credere che la conclusione del ciclo, con la defenestrazione di Dio, entità decrepita, fragile e stremata, potesse non venire considerata blasfema e non subire tagli o modifiche ancora più depauperanti.

Nel 2019 invece, tornati i diritti in mano all’autore, la coproduzione anglo-statunitense Bad Wolf and New Line Productions, per BBC One e HBO, realizza finalmente la serie televisiva His Dark Materials, basandola, questa volta in modo fedele e integrale, sull’omonima trilogia di Philip Pullman, che compare come produttore esecutivo. I primi otto episodi – sceneggiati da Jack Thorne, già autore di Shameless, Skins, This Is England  – riprendono tutto il primo tomo, La bussola d’oro, con alcuni elementi tratti anche da Il libro della polvere e l’anticipazione della storia parallela di Will Parry nel nostro mondo, prima dell’incontro con Lyra, che nella versione letteraria appare solo nel secondo volume La lama sottile. I registi Tom Hooper (Premio Oscar per Il discorso del re), Dawn Shadforth e Otto Bathurst (che ha vinto un Bafta per il suo lavoro nella serie TV Peaky Blinders e che ha diretto l’episodio di Black Mirror intitolato Messaggio al Primo Ministro) hanno già messo in lavorazione la seconda stagione: la fretta è dovuta all’età della protagonista, la quindicenne anglo-spagnola Dafne María Keen Fernández (già vista in Logan-The Wolverine), che potrebbe presto essere troppo cresciuta per risultare credibile come bambina. Gli altri attori principali, tutti efficaci sebbene meno iconici dei corrispettivi del film di Weitz, sono Ruth Wilson (Luther, The Affair) come Marisa Coulter, James McAvoy (il Fauno del primo adattamento de Le cronache di Narnia) come Lord Asriel, Ruta Gedmintas come Serafina Pekkala e Lin-Manuel Miranda come Lee Scoresby.

Le scelte scenografiche rendono più contemporanea e meno vittoriana/Steam Punk l’ambientazione – oltre a Zeppelin e aerostati vediamo anche un elicottero ed un grado maggiore di “modernariato” nell’oggettistica – mentre gli intermezzi su Will nella Oxford “reale”, in parallelo con quelli sul mondo visionario di Lyra, creano talvolta un qualche spiazzamento, sono assai intriganti invece gli effetti CGI per l’animazione dei daimon (il prevalentemente furetto di Lyra, la scimmia bionda della Coulter, il leopardo delle nevi di Lord Asriel, la lepre artica di Lee Scoresby, il grifalco di Serafina Pekkala, ecc.). Il risultato è complessivamente ragguardevole e infinitamente superiore al fantasy routinario del film di Weitz, anche se in questa prima stagione non si è forse raggiunto ancora un vero equilibrio nella selezione dell’immensa mole di materiali della saga letteraria in rapporto al target da raggiungere: la serie rischia di risultare troppo inquietante per i bambini e troppo semplicistica (rispetto alle componenti filosofiche e teologiche del testo) per gli adulti. Il dubbio sorge soprattutto in previsione dell’adattamento del terzo e ultimo volume, Il cannocchiale d’ambra, il più metafisico e difficile da affrontare. Ma c’è tempo ancora e le premesse sembrano comunque molto promettenti.

 

 

 

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Tolkien 2019: i mostri, gli eroi, i critici colpiscono ancora https://www.carmillaonline.com/2019/07/18/tolkien-2019-i-mostri-gli-eroi-i-critici-colpiscono-ancora/ Thu, 18 Jul 2019 21:13:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53677 di Franco Pezzini

Wu Ming 4, Il fabbro di Oxford. Scritti e interventi su Tolkien, prefaz. di Edoardo Rialti, pp. 194, € 17, Eterea, Roma 2019

Senza piaggerie – di cui l’autore del libro non ha bisogno – studi come questo sono un esempio eccellente del tipo di critica oggi necessaria in materia di fantasy (e non solo, ma limitiamoci al particulare). Benvenute le opere compilative ad ampio raggio, che se felicemente realizzate possono essere preziose per inquadrare il fenomeno nella sua latitudine; benvenuto anche un certo approccio ruspante in chiave fandom. Ma [...]]]> di Franco Pezzini

Wu Ming 4, Il fabbro di Oxford. Scritti e interventi su Tolkien, prefaz. di Edoardo Rialti, pp. 194, € 17, Eterea, Roma 2019

Senza piaggerie – di cui l’autore del libro non ha bisogno – studi come questo sono un esempio eccellente del tipo di critica oggi necessaria in materia di fantasy (e non solo, ma limitiamoci al particulare). Benvenute le opere compilative ad ampio raggio, che se felicemente realizzate possono essere preziose per inquadrare il fenomeno nella sua latitudine; benvenuto anche un certo approccio ruspante in chiave fandom. Ma se non andiamo a incalzare nel rispetto della relativa complessità i singoli testi, la genesi, le fonti, le convinzioni di un autore – anche quando non dice ciò che ci piacerebbe sentire, e tenendo distinti la sua soggettività storica e l’impatto di opere che vanno oltre lui – ci fermeremo alla rifrittura delle stesse banalità e dei soliti travisamenti. In un tempo come il nostro in cui la banalizzazione è premiata, e il successo diluviale di un genere popolare come il fantasy vede un inevitabile scarto tra quantità e qualità delle voci, sia in termini di narrativa che di riflessione sulla medesima (gli autori si propongono spesso come critici tramite web e social), Il fabbro di Oxford è un prezioso richiamo alla complessità.

Dove attenzione, non si sta denigrando il fantasy, come d’uso a suon di semplificazioni tra certi progressisti snob: è un genere che ha offerto anche opere di qualità altissima, talora squisitamente letteraria e capace – a prescindere dal divertimento del lettore, che può essere un valore – di sollevare anche grandi questioni individuali e collettive. La domanda può semmai riguardare, come sempre, le motivazioni con cui il singolo autore si avvicina a un genere e l’abilità tecnica che può vantare. L’originalità e lo spessore. La capacità di porsi domande e di impostarle sul piano narrativo. Il rapporto con le “mode” d’epoca (visto che il fantasy è palesemente di moda). Le stesse sfide sollevate da un genere che sembra più facile da gestire (in teoria non richiede ricerche complesse come il romanzo storico, né costruzioni logiche rigorose come il giallo classico, eccetera) e dove la riproposta continua di alcuni topoi – a ricalco di certi plot fiabeschi, di strutture mitiche eccetera – è forse più facilmente apprezzata dai fan. Dove il rischio di semplicismo si gioca anche nel rapporto con ideologie che sul feticcio dell’eroico amano condurre le danze: si pensi ai possibili – ma non necessari – cortocircuiti con certo neoceltismo, neoteutonismo eccetera di marca reazionaria. Aggiungiamo il fatto che una parte cospicua del fantasy più interessante prodotto all’estero fatica ad approdare in Italia, dove si tende a proporre in traduzione – da cui ovvie imitazioni – il classico usato sicuro. Rinvio sul tema agli itinerari battuti da Davide Mana, esperto di fantasy anglosassone.

Ma torniamo al punto di partenza. Per capire la vera originalità dei maestri di un genere occorre esplorare le pieghe delle loro opere: e nel caso di Tolkien il legame tra lo scritto e gli studi che portava avanti (il suo “lavoro”), le ruminazioni su valori e lettura della realtà, le riflessioni con amici intellettuali (e non), le esperienze familiari, belliche e professionali, è talmente coeso che difficilmente si può parlare di una vera fuga dalla realtà stessa. Semmai, come vedremo, di una tensione all’oltre da sé – previa però immersione nel sé – con un linguaggio amato e nobile, legato a letterature di un certo passato: e tali echi veicolano in modo efficace, grazie a una personalissima frequentazione quotidiana, un intero orizzonte interiore e relative urgenze. Senza colpa di nessuno, è chiaro che la verifica di impianto e motivazioni di legioni di scrittori fantasy che oggi in Italia premono sui social mostrerebbe situazioni un po’ diverse. E veniamo al volume.

Di fronte a una miscellanea, come è questo testo di Wu Ming 4, c’è chi può storcere il naso: e sbaglierebbe. I temi monografici della raccolta finiscono col risultare illuminanti a più ampio raggio; l’interesse non si esaurisce nella singola questione, ma getta luci sull’intero panorama senza pretendere di esaurirlo (cfr. la definizione del lavoro critico di C.S. Lewis citata da Edoardo Rialti nella bella prefazione); quelli che paiono “dettagli” rappresentano spesso essenziali distinguo.

Consideriamo quanto compulsivamente, da un lato, un’estrema destra italiota continui ad allungare le mani su autori come Tolkien, in chiave astorica e campando proprio di categorie ambigue (come il cosiddetto antimodernismo, macrocontenitore che guarda in realtà a posizioni diversissime, ma che fa gioco omologare a forza sotto l’ombrello del guru di Rivolta contro il mondo moderno). Le geremiadi sarcastiche e insieme lamentose circa una “guerra di Tolkien” che vedrebbe la sinistra – i soliti comunisti – intenta a mangiarsi, oltre ai bambini, anche i simboli, negando spazio alla relativa istanza, sono proclamate a colpi di banalizzazioni. Non ultime quelle sul valore autentico del simbolo: una dimensione fondamentale, ma da ravvisarsi e interpretarsi dove e come l’autore e la sua cultura specifica lo richiedono, non sulla base di categorie astratte e (sotto sotto) dell’ideologia dell’interprete. Un semaforo rosso non è un richiamo simbolico alla funzione militare di Dumézil o all’avanzata del comunismo.

E quanto per contro tra certa sinistra – o presunta tale – tenda a riproporsi la citata e vetusta critica snob che, svalutando a prescindere una serie di istanze come escapistiche e non entrando in profondità tra le pieghe delle esperienze letterarie, non aiuta a formare i lettori alla complessità. Beninteso, sul piano del gusto personale è legittima la varietà di pareri; e non ha neppure senso che il fantasy “alla Tolkien” debba dettare la linea di un genere in fondo molto più variegato. Ma torniamo alla complessità, su un autore di spessore che richiede comunque gli strumenti di una buona critica letteraria e di un bacino di studi specifici (come avviene in generale con l’analisi della letteratura alta) per poter essere affrontato efficacemente. Persino autori lucidi come il grande Michael Moorcock hanno tranciato su Tolkien giudizi non condivisibili e un po’ superficiali (sia pure in pezzi in sé brillanti e interessantissimi come questo, tradotto da Massimo Scorsone che – sia detto per inciso – per i Draghi Mondadori si avvia ora a presentare una bella edizione di romanzi moorcockiani). Letture come il presente saggio di Wu Ming 4 fanno insomma un gran bene non solo alla causa di Tolkien, del fantasy e in generale della letteratura ma, tanto più oggi, tanto più in questa Italia, sono una lezione preziosa per superare giudizi facili e premasticati.

In questo ideale prosieguo al bellissimo Difendere la Terra di Mezzo dell’autore (Odoya, 2013, nuova edizione 2018) troviamo testi d’interventi, lezioni, risposte a opere – di vario impatto pubblico – uscite sul tema tolkieniano. Materiale molto vario, dalla comunicazione accademica alla ripresa di contributi volutamente non “tecnici”: dove però il critico riesce a mantenere una coerenza anche stilistica con rigore di contenuti (ricchissimi) e limpidezza di forma. A smarcare dagli angolini chiusi del fandom attraverso lo sguardo a un intero panorama sulla letteratura del Novecento – con cui Tolkien dialoga o di cui almeno condivide crisi o reazioni – e insieme a fornire pagine dalle incalzanti argomentazioni e dall’inattaccabile comprensibilità.

Cercando di riconoscere un ordine virtuale al flusso con cui i contributi della raccolta sono proposti, potremmo accorparli in tre sezioni.

Una prima sezione riguarda in generale, potremmo dire, i ferri del mestiere di Tolkien: dove in poche pagine si offre conto della marcia in più di un simile titano. Vi troviamo Costruire con la materia nordica: citazione creativa, riscrittura, reinterpretazione, fulminante lezione di scrittura che identifica tre sofisticatissime chiavi del narrare tolkieniano, e fa capire anche meglio il tipo di distanza da imitatori privi di una certa coscienza letteraria. Segue un focus su Lo Hobbit come strano romanzo di formazione, che sgrana i topoi di un racconto esemplare mostrando l’intelligenza di utilizzo, le simmetrie, la capacità di rileggere originalmente. E infine il delizioso intervento “Do you believe in fairies?” che è a sua volta un pezzo di letteratura nel ricostruire l’innervarsi nell’opera di Tolkien di spunti, echi di scoperte archeologiche, dialoghi personali, reinvenzione di figure folkloriche, a dare il senso di una vertiginosa esperienza immaginale e di un panorama culturale densissimo. Chi pretenda oggi di scrivere romanzi “alla Tolkien” (posto che abbia un senso, il sottoscritto dubita) dovrebbe dedicare a queste pagine una ruminazione prolungata.

Una seconda sezione concerne, a proseguire il discorso sulla costruzione narrativa, alcune figure-chiave dell’opera tolkieniana. Si parte con Aragorn, il re che ritorna: il viaggio di un eroe moderno, di nuovo in fitto dialogo con opere letterarie molto frequentate da Tolkien (Beowulf ma non solo) e con sue esperienze personali, per esempio di guerra. Si passa poi a Beorhtnoth – La volontà di uno solo e la sventura di molti – nell’ambito della strana opera che lo riguarda, mix di analisi filologica e invenzione narrativa tessuti attorno a un poemetto medioevale anonimo e mutilo, La Battaglia di Maldon (X-XI sec.), che Tolkien aveva riletto criticamente a smontare una certa retorica bellicista anche contemporanea. Troviamo quindi L’ombra del guerriero: guerra e antimilitarismo nella Terra di mezzo, dove in questione è in generale la figura dell’uomo che combatte, anche se poi si prendono in considerazione i profili specifici di Faramir e dello stesso Frodo. A chiusura, Lúthien e le altre: i personaggi femminili: non molti di numero e non protagonisti (più per motivi letterari legati alla tipologia delle fonti che per un presunto maschilismo di Tolkien) ma di grande interesse. Si pensi a Galadriel, Éowyn, Arwen ma anche all’unico personaggio femminile negativo del Signore degli Anelli, cioè “Her Ladyship” – come la chiamano gli orchi – il mostruoso ragno Shelob.

Un ultimo gruppo di testi affronta temi monografici che hanno visto dibattiti più o meno vivaci. Così La riscossa della Contea o la rivolta moderna riprende la riflessione sulla politica, l’economia (merce, denaro), la categoria-rivolta nelle vicende che portano gli hobbit ad abbattere Saruman; I mostri, gli eroi e i critici demolisce con acutezza il saggio di Alessandro Dal Lago Eroi e mostri: il fantasy come macchina mitologica (il Mulino, 2017) con le sue posizioni appunto semplificanti e superate; Un tomista nella Terra di Mezzo critica con motivazioni condivisibili – ma apprezzamenti anche positivi – gli esiti di un altro saggio, Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien di Claudio Antonio Testi (Edizioni Studio Domenicano, 2014), che innova con intelligenza il panorama delle letture cattoliche sull’opera tolkieniana, superando l’approccio confessionistico.

Lascio volutamente in chiusura, forzando l’ordine dell’indice, un cenno all’introduzione. Intitolata un po’ provocatoriamente Il demiurgo reazionario e siglata dalla citazione di una bozza di lettera di Tolkien, “Assegnare ‘etichette’ agli scrittori, vivi o morti, è un comportamento insensato, in ogni circostanza, un passatempo infantile per menti piccine”, eccetera: dove l’autore riprende qualche riflessione del libro precedente sulle banalizzazioni ormai storicamente inaccettabili, da sinistra come da destra, nell’approccio a quella che resta buona letteratura, “cioè quella che attraverso la finzione coglie frammenti di verità”. Banalizzazioni che convergono nell’equivoco, pur offrendo interpretazioni ovviamente diverse.

Affronta quindi il discorso sulla critica alla contemporaneità in Tolkien e sottolinea come l’opera di lui non fornisca mai “risposte didascaliche o fideistiche, ma sempre complesse”: un riflettere sofferto, ma fiducioso sul fatto che le grandi narrazioni possano aiutare a reagire alla perdita di senso del mondo. Da ciò la sua narrativa, dove emerge un’“ostilità per l’industria, il controllo statale, la perdita del rapporto con il paesaggio, il razzismo, la guerra e il militarismo, che sono fenomeni della storia contemporanea” (ciò che stronca una certa sua omologazione facile, fumogena, all’antimodernismo fascistoide). E con una tensione appunto sull’oltre da sé: “Per questo non dovrebbe meravigliare che nell’epoca del pensiero unico e del sé ipertrofico, dominata dall’eterno presente della merce e dalla catastrofe ambientale, quella narrativa continui a ispirare nuovi livelli di lettura”.

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Psicosociologia di Game of Thrones https://www.carmillaonline.com/2019/06/15/psicosociologia-di-game-of-thrones/ Fri, 14 Jun 2019 22:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52934 di Walter Catalano

Game of Thrones è ormai assurta, nel bene e nel male, all’Olimpo delle serie epocali – con Breaking Bad, Boardwalk Empire, The Sopranos, Mad Men, e poche altre. Forse meno perfetta di quelle ricordate, eppure ancora più amata e odiata, condivide con Lost, e – con le dovute differenze – Twin Peaks, i picchi emotivi del disprezzo o dell’esaltazione da parte del pubblico. Il marketing e il pompaggio mediatico che hanno accompagnato la sua storia sono stati, crescendo nel corso del tempo, abnormi: gadget, [...]]]> di Walter Catalano

Game of Thrones è ormai assurta, nel bene e nel male, all’Olimpo delle serie epocali – con Breaking Bad, Boardwalk Empire, The Sopranos, Mad Men, e poche altre. Forse meno perfetta di quelle ricordate, eppure ancora più amata e odiata, condivide con Lost, e – con le dovute differenze – Twin Peaks, i picchi emotivi del disprezzo o dell’esaltazione da parte del pubblico. Il marketing e il pompaggio mediatico che hanno accompagnato la sua storia sono stati, crescendo nel corso del tempo, abnormi: gadget, giochi, fumetti, canzoni, documentari, quiz televisivi, perfino bottiglie di whisky pregiati personalizzati dalla HBO con le etichette delle varie casate di Westeros, e quant’altro.

Non passa giorno che la stampa e soprattutto internet non ci martellino con le immagini dei principali protagonisti (in larga misura attori giovanissimi e precedentemente sconosciuti, balzati da otto anni a questa parte alla ribalta internazionale) e con i gossip sui nuovi divi: John Snow (Kit Harington) si è sposato con Ygritte (Rose Leslie) e subito dopo la fine dello show è finito d’urgenza in rehab per depressione e alcolismo; Sansa (Sophie Turner), si è sposata anche lei ma con il frontman di una band teen pop, ha girato per New York indossando pantofole di pelo e si è lanciata nella sua ultima interpretazione – una di quelle schifezze blockbuster ispirate ai fumetti Marvel o Dc, è lo stesso, che proprio non sopporto – X Men: Dark Phoenix; Danaerys Targaryen (Emilia Clarke) è sopravvissuta, nel corso delle varie stagioni dello show, a due aneurismi cerebrali e ha istituito una fondazione per la raccolta di fondi in favore delle vittime di queste patologie; Tyrion Lannister (Peter Dinklage), l’acondroplasico più sexy del mondo, è stato il frontman di una band punk che si chiamava Whizzy: la sua cicatrice è vera e se l’’è fatta durante un concerto; ecc. ecc.

Sempre su internet anche le mitologie, le urban legends e le voci contrastanti sull’epopea si sono avvicendate e sovrapposte: i fan scontenti del finale insorgono e fanno una petizione perché l’ottava stagione della serie venga girata da capo; il prequel in lavorazione si intitolerà The Long Night e la protagonista sarà Naomi Watts; il prequel della serie si intitolerà Bloodmoon, le riprese sono iniziate a Belfast, si svolgerà cinquemila anni prima dell’epoca di Game of Thrones; George R. R. Martin ha appena finito i due ultimi libri della saga; George R. R. Martin non ha finito neanche The Winds of Winter, ma lo dovrebbe finire entro il 2020 e ci metterà anche gli unicorni; i finali dei libri saranno completamente diversi da quello della serie; i finali dei libri non saranno poi così diversi da quello della serie, ecc. ecc. Numerosi psicologi hanno perfino compilato una diagnosi psichiatrica per ognuno dei personaggi o per ognuna delle principali casate di Westeros: così Casa Stark sarebbe afflitta da sindrome maniaco-depressiva; Casa Lannister da disturbo narcisistico della personalità; Casa Baratheon da disturbo borderline per il ramo di Robert e disturbo ossessivo compulsivo per quello di Stannis; Casa Targaryen da disturbo bipolare di tipo I; e così via. Insomma mai una serie TV ha così capillarmente specchiato la psicopatologia della vita quotidiana dell’Occidente contemporaneo.

Il Trono di Spade (Game of Thrones) era stata avviata alla gloria dello schermo da David Benioff e D.B. Weiss, nel 2011, per il canale via cavo HBO, ispirandosi al ciclo narrativo di Le Cronache del ghiaccio e del fuoco (A Song of Ice and Fire) dello statunitense George R. R. Martin, saga composta dai romanzi A Game of Thrones (1996), A Clash of Kings (1999), A Storm of Swords (2000), A Feast for Crows (2005), A Dance with Dragons (2011), e dagli ancora inediti The Winds of Winter e A Dream of Spring. La serie, dai molteplici e complessi personaggi vagamente ispirati alle figure che si avvicendarono sulla scena storica della Guerra delle due rose inglese, è ambientata in un mondo immaginario costituito dal Continente Occidentale (Westeros) e da quello Orientale (Essos). Il centro più grande e civilizzato di Westeros è la città capitale Approdo del Re (Kingslanding) dove si trova il Trono di Spade dei Sette Regni, un sedile di ferro fatto di spade saldate e intrecciate fra loro, trono scomodo e pericoloso come il potere. La lotta acerrima per la conquista dell’autorità regale porta le più potenti e nobili famiglie del Continente Occidentale a scontrarsi o allearsi tra loro in un tortuoso gioco di potere, che coinvolge anche l’ultima discendente della dinastia regnante deposta, l’esiliata e giovanissima Daenerys Targaryen, nelle cui vene scorre sangue di drago e che potrà contare su draghi, oltre che uomini, al suo servizio. Gli intrighi politici, economici e religiosi dei nobili lasciano la popolazione nella povertà e nel degrado, mentre il mondo viene minacciato dall’arrivo dell’inverno – in questo mondo le stagioni possono durare anni – un inverno lunghissimo che preannuncia il risveglio di creature leggendarie e dimenticate, favorendo l’emergere di forze oscure e magiche. I personaggi principali sono per la maggior parte membri di casate nobiliari dei Sette Regni: la nobile Casa Stark comprende gli uomini del Nord, che proteggono i Sette Regni dalle minacce celate oltre la Barriera, ovvero i Bruti (Wildlings), un bellicoso popolo nordico senza legge e gli Estranei (White Walkers), leggendarie creature sovrannaturali e non umane. Della nobile Casa Baratheon fa parte il re sul Trono di Spade, ovvero il sovrano di tutti i Sette Regni, detestato dalla moglie fedifraga e incestuosa e dai due fratelli minori che ambiranno alla successione dopo la morte improvvisa del sovrano (in circostanze, inutile precisarlo, assai poco limpide). La nobile Casa Lannister è formata da uomini ricchissimi e influenti, imparentati con i Baratheon tramite il poco felice matrimonio dinastico. La nobile Casa Targaryen, un tempo regnante, è invece caduta in rovina dopo che il suo ultimo re sul Trono di Spade è stato spodestato dai Baratheon. Queste e molte altre casate prestano alternativamente giuramento di fedeltà fra loro tramite matrimoni e compromessi, spesso ricorrendo a tradimenti e omicidi, in una continua e spietata lotta per il potere.

In estrema sintesi la struttura di base iniziale della trasposizione filmica della saga, sostanzialmente fedele ai romanzi di Martin, si era articolata intorno a queste premesse. Lo show rispecchiava i libri anche per lo spessore conferito ai personaggi, complessi e psicologicamente convincenti, per la trama e i dialoghi efficaci e per l’alta qualità della produzione. Il ricorso abbondante al nudo e le numerose scene di violenza fisica e sessuale, elemento saliente nelle prime stagioni, avevano attirato varie critiche negative (c’è da puntualizzare però a tal proposito, che questo tipo di scene – caratteristica peculiare a quasi tutte le produzioni HBO – per quanto talvolta forti, non erano mai state troppo insistite né gratuite, ma sempre e comunque funzionali alla trama) e pertanto, di stagione in stagione, si è preferito ridurne la frequenza e accorciarle drasticamente, fino quasi a farle scomparire.

Una normalizzazione compiacente, una semplificazione riduttiva e una standardizzazione imbonitoria che è andata progressivamente prevalendo. Dalla quarta stagione in poi la serie ha cominciato a discostarsi con sempre maggiore decisione dalla versione scritta e Martin ha cessato di collaborare direttamente alla sceneggiatura pur dichiarandosi in genere soddisfatto dall’impostazione data alla vicenda (che presumibilmente dovrebbe rimandare, almeno a grandi linee, ai volumi non ancora terminati della saga). Come per il ciclo di romanzi anche per la serie filmata il centro dell’attenzione della vicenda voleva essere soprattutto politico e psicologico, con personaggi ricchi di sfumature e che si evolvevano nel corso della trama, senza trascurare ampie e suggestive aperture al magico, al soprannaturale e all’horror e massicce digressioni di pura azione, con epiche battaglie, sanguinosi assedi e feroci duelli. Il fragile equilibrio tra tutti questi elementi narrativi, il carisma degli attori e il sempre più ricco budget a disposizione, hanno reso questa serie la regina degli schermi internazionali: un fantasy adulto e sofisticato che metteva d’accordo pubblico e critica. Ma, dalla sesta stagione in avanti, qualcosa si è inceppato: i risultati hanno cominciato ad essere discontinui, i personaggi meno coerenti, le situazioni meno credibili, gli snodi più scontati. Volendo accontentare tutti si è finito per non accontentare, fino in fondo, nessuno.

Fra i molti articoli, in genere insulsi, che la stampa ha dedicato al programma, almeno uno centrava il problema individuando nell’approccio sociologico alle vicende e ai personaggi la caratteristica distintiva delle opere di Martin: era l’aderenza iniziale a questo aspetto a porre la serie fuori dai canoni prevedibili in cui invece l’approccio psicologico, tipicamente hollywoodiano, di Benioff&Weiss lasciati a sé stessi, l’ha fatta ricadere. La questione del controllo di Martin sul progetto e della divaricazione sempre più forte fra opera scritta e opera filmata, l’una da sempre più complessa, l’altra sempre più ridotta ai minimi termini, è culminata negli attesi e temuti explicit della stagione finale, l’ottava, in cui complessità e sociologia hanno ormai definitivamente abdicato nei confronti di semplificazione e psicologia.

Proprio la scelta della via più breve, la frettolosità della risoluzione improvvisa di certi conflitti portati avanti per stagioni intere, ha comprensibilmente deluso e infastidito molti spettatori. Il Night King e i suoi White Walkers non possono essere sgominati solo dalla banalissima pugnalata – seppure di acciaio valyriano – di Arya Stark; Danaerys non può impazzire improvvisamente e rinnegare in un sol colpo tutti i suoi ideali umanitari di liberatrice di schiavi sterminando col fuoco gli innocenti cittadini di Kingslanding; in più se le bastava un drago per distruggere la capitale, non avrebbe avuto bisogno di sprecare anni a radunare un inutile esercito; e i draghi poi, talvolta possono essere abbattuti come fagiani con un singolo, semplice freccione, talaltra invece sono invincibili e indifferenti al tiro di centinaia di balestre, secondo le convenienze; e non parliamo di Jon Snow, novello Targaryen, che sembra più morto di prima che lo resuscitassero da quando si è preso una cotta per la bella zia e si sveglia solo per vibrarle una pugnalata al cuore, a tradimento, mentre la bacia e chiude la questione nel modo più ovvio; quanto a Tyrion poi, non è più quello di una volta, ha perso sense of humour, cinismo e perspicacia machiavellica e, dopo essere passato alla castità, manca solo che diventi perfino astemio. Troppo affrettato l’arrostimento di Varys, l’eunuco cospiratore; troppo stereotipato il ritorno di Jaime Lannister tra le braccia di Cersei, la sorella-amante, per morire insieme sotto le macerie del palazzo reale distrutto, ma peggio ancora il precedente duello sulla riva del mare dove – ma guarda la combinazione – Jaime vede riemergere dall’appena avvenuto naufragio dell’intera sua flotta, proprio il rivale Euron Greyjoy che minaccia di sbudellarlo, quasi ci riesce, ma finisce invece immancabilmente sbudellato. Tutte le scorciatoie più trite sono state percorse spudoratamente dal duo di sceneggiatori che ora si appresta, secondo voci recenti, a firmare i prossimi episodi di Star Wars: in effetti la banalità mainstream di Star Wars è il naturale approdo di una scrittura così convenzionale.

Secondo i teorici del fantasy possiamo distinguere tra un high fantasy, stretto alla grande retorica classica dei poemi epici e cavallereschi: la tradizione letteraria “alta”, che s’identifica soprattutto con Tolkien, l’eroismo, la serietà o seriosità, il manicheismo di valori morali ben determinati, di una visione etica del mondo, ecc. – e un low fantasy, più moderno, meno legato alla letteratura classica, antieroico e amorale, talvolta parodistico e irriverente: il mondo degli eroi pulp. Il Conan di Howard ci rientra solo per alcuni aspetti, ma lo Sword&Sorcery di Fritz Leiber e il suo ciclo del Mondo di Nehwon e della città di Lankhmar, con le sue simpatiche canaglie Fafhrd e Gray Mouser, perennemente a caccia d’oro e di disponibili donzelle, ne rappresenta l’esempio più perfetto. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone il ciclo Queste oscure materie di Philip Pullman – composto dalla trilogia La bussola d’oro, Il cannocchiale d’ambra, La lama sottile – che rifiuta però il sarcasmo e l’ironia e rimanda invece a riferimenti letterari colti – la nekya dell’epica antica, la Commedia dantesca, il Paradise Lost di Milton – per sferrare un attacco filosofico contro la visione mistica e religiosa dell’high fantasy – rappresentata in particolare dall’aborrito ciclo delle Cronache di Narnia di C.S. Lewis – e costruire uno straordinario Bildungsroman metafisico in nome dell’ateismo, del panteismo, e di un luciferismo vittorioso che detronizzerà infine il despota divino per instaurare la Repubblica dei Cieli.

Anche Martin con il suo A Song of Ice and Fire va collocato, a seguito di questi illustri precedenti, entro lo stesso ambito low: un fantasy-noir in cui non ci sono eroi idealizzati ma uomini cinici e spesso spietati, agitati dalle passioni e dalla brama di potere, in cui le situazioni estreme, il sesso, la violenza – di solito taciute o edulcorate in un genere considerato a priori di fruizione young adult – vengono invece messe in evidenza e ostentate alla massima potenza. La stessa presenza del soprannaturale, per altro molto ridotta rispetto alla dose abituale propria del genere – sempre in sottotono rispetto all’intrigo politico e, appunto, alla sociologia – viene rappresentata al di fuori di qualsiasi senso forte di sacralità, anche nel caso del personaggio più mistico, Bran Stark, il Corvo con tre occhi, che nella serie tv (ma probabilmente anche nel finale dell’ultimo romanzo) regnerà su sei regni del Continente Occidentale (è escluso il settimo, il Nord, che la sorella Sansa rende di nuovo autonomo). Così anche le creature mitiche come i draghi (e, sembra dalle voci sul prossimo libro in uscita, anche gli unicorni) vengono, se possibile, secolarizzate: non dimentichiamoci che Martin giunge al fantasy dalla fantascienza.

Benioff&Weiss invece normalizzano, secondo più digeribili parametri hollywoodiani, anche questa tendenza low, riequilibrandola verso un maggior tono di high, che svolti verso l’epico (la consacrazione a cavaliere di Brienne di Tarth, le morti eroiche in battaglia di Jorah Mormon, Theon Greyjoy, Lyanna Mormont, Eddison Tollett, Beric Dondarrion, Sandor Clegane, ecc.), il romantico (le scene madri – bruciate un po’ dall’eccessiva fretta di arrivare alla conclusione – fra Jaime e Cersei Lannister e Jon e Daenerys Targaryen: “due cose belle ha il mondo: Amore e Morte…”), e il mistico (la figura sempre più ieratica di Bran Stark, il sacrificio di Melisandre, ecc.). A discapito della pregressa ambiguità morale della saga, le carogne (simpatiche e meno simpatiche) tendono invece, giunti al redde rationem, quasi tutte a chiudere in bellezza, mirando al riscatto e alla redenzione; i personaggi che peccano di Hybris, di dismisura, secondo le strutture classiche della tragedia vengono puniti (Cersei, Jaime, Daenerys, Varys, lo stesso Jon Snow), mentre sopravvive chi ha conservato il limite e perseguito la Diche, la giustizia (Tyrion Lannister, Davos Seaworth, Samwell Tarly, Sansa Stark).

Questa Diche verrà esplicitata nell’assetto finale che il nuovo consiglio darà al regno: la monarchia assoluta che anche la “despota illuminata” Daenarys avrebbe mantenuto, diventa, dopo l’eliminazione della bella Targaryen, una monarchia costituzionale in cui un consiglio di rappresentanti delle casate maggiori dei regni eleggerà da quel momento in poi i successori del re sul trono (non più di spade perché l’ultimo drago sopravvissuto l’ha fuso con il suo fiato incandescente prima di portarsi via il cadavere della madre-regina, risparmiando l’amante-assassino, anche lui Targaryen, quindi sangue di drago) affidato per il momento al riluttante Bran Stark, più santone, veggente, savio, che monarca; Samwell Tarly tenterà addirittura, anche se la proposta viene bocciata, di spingere verso la democrazia proclamando il diritto non delle case nobiliari ma del popolo ad eleggere direttamente il sovrano. Questa messa in discussione finale del principio della sovranità sottrae per fortuna la saga ad ogni possibile fisima ancien régime, tipica dell’high fantasy per riportarci ad un sano e “sociologico” realismo low fantasy.

C’è ampio spazio ovviamente, in questo finale che ha lasciato quasi tutti delusi, per immaginare, oltre al fantomatico prequel già in lavorazione, altri spin-off più o meno fantasiosi, che vedono coinvolti quei personaggi abbandonati dalla conclusione della saga a un futuro aperto e indeterminato: Arya Stark, soprattutto, che emula di Colombo, salpa su un veliero diretto verso la sfera inesplorata dell’Orbe; o Jon Snow, esiliato per il suo crimine oltre la Barriera – ormai non più esistente – in mezzo ai Bruti che lo hanno adottato tra loro, in compagnia dei quali si dirige verso l’estremo Nord; perfino la defunta Daenerys il cui cadavere, prelevato amorevolmente dal figlio drago sopravvissuto, Drogon, viene trasportato via in volo: qualcuno rivela in chiusura al consiglio reale che il lucertolone volante è stato avvistato mentre veleggia in direzione di Essos, il Continente orientale, dove Danaerys ha compiuto le sue imprese, liberando gli schiavi, ed è ancora amata in molte città e dove le Streghe rosse hanno talvolta il potere di risuscitare i morti: non è facile accettare la scomparsa definitiva della bella regina, in fondo anche il suo nipote-amante-assassino è stato pugnalato al cuore una volta e la strega rossa Melisandre l’ha resuscitato (“C’è qualcosa di là ?” – gli chiederanno – “Non che mi ricordi” – ha risposto)… C’è chi resta e c’è chi parte quindi, e i cliff hanger, almeno potenziali, non mancano per gli affezionati orfani dei loro beniamini.

Inutile negare che la saga in questi anni ci ha emozionato, che ci siamo rispecchiati – anche troppo – nei personaggi e appassionati alle loro vicende, che ci siamo innamorati di Emilia Clarke (o di Kit Harington) e abbiamo odiato Lena Headey (o Iwan Rheaon), che abbiamo trepidato per Nikolaj Coster-Waldau o per Maisie Williams, riso con Jerome Flynn e pianto con Peter Dinklage e che, per forza, non ci saremmo accontentati, comunque, di un finale qualsiasi, anzi di qualsiasi finale. In realtà non volevamo che finisse, questa è la verità: se altre serie le abbiamo abbandonate da tempo, estenuanti, mentre proseguono indefinitamente, senza più niente da dire, nella noia più totale e nella perenne ripetizione degli stessi logori schemi (sto parlando, per esempio, di The Walking Dead, e del suo penoso spin-off, Fear the Walking Dead), Game of Thrones aveva mantenuto almeno un potenziale sempre alto che, ben dosato, avrebbe potuto nutrire ancora varie stagioni. Si è pensato di chiudere, invece, forse troppo repentinamente e non proprio in bellezza. Consoliamoci con i prossimi – se mai verranno – volumi che Martin tiene in serbo per noi.

A dimostrazione finale di quanto l’immaginario simbolico e la sociopsicologia di Game of Thrones abbia ormai permeato capillarmente le nostre vite, un esempio recente e significativo: durante il travagliato comizio che il sovranista Matteo Salvini ha cercato di tenere a Firenze, città di tutta Italia che maggiormente ha resistito al montante inquinamento della fogna leghista, la prima fila del corteo dei manifestanti, quella più esposta alle numerose “cariche di contenimento” degli sbirri tanto cari al Ministro dell’Interno, brandiva baldanzosamente uno striscione in lettere cubitali su cui spiccava una parola in Alto Valyriano, l’ordine con cui la Regina dei Draghi aizzava i suoi rettili volanti, consegnando i despoti delle città della Baia degli Schiavisti all’ira purificatrice del fuoco: “Dracarys” !

 

 

 

 

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In un distopico XXIII secolo, quando la Puglia sarà una megalopoli infernale https://www.carmillaonline.com/2017/02/26/36752/ Sat, 25 Feb 2017 23:18:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36752 di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione. APULEIA. Duemila chilometri quadrati [...]]]> di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione.
APULEIA.
Duemila chilometri quadrati incluse le piattaforme su ben due mari e alcune isole coperte da tensostrutture che le fanno apparire dei circhi galleggianti.
La città è saldata alla crosta terrestre e artigliata al cielo. Lo spazio aereo è solcato da elicotteri, dirigibili, elicomobili e aerei a reazione destinati verso stazioni orbitanti e colonie del sistema solare e dello spazio interstellare (p. 19).

In questo spazio che ammicca alla Los Angeles di Blade Runner, si muovono i protagonisti della storia, i detective privati Sisifo Re, il cui volto è coperto da una maschera da clown e che, come i precox di Minority Report di Philip K. Dick (nonché, cinematograficamente, di Steven Spielberg), possiede la facoltà di prevedere i delitti e Oscar Orano, detto Oh-Oh, il narratore intradiegetico di buona parte delle avventure. I due vengono ingaggiati dalla bellissima Selina Corbeves per indagare sull’omicidio del proprio marito, che ancora dovrà essere commesso. Intanto, dopo la deposizione e l’uccisione del dittatore, ad Apuleia si è scatenata una micidiale guerra civile fra le due fazioni capeggiate dai figli del tiranno caduto, che miete vittime e distruzione nelle strade.

La città è rappresentata come uno spazio abnorme che disintegra gli stessi concetti della metropoli postmoderna: la mescolanza più ostentata di stili architettonici – grattacieli, edifici-cattedrali, enormi pale eoliche, «condomini uno uguale all’altro, un vero incubo di cemento armato grigio» costruiti «a ridosso di vecchie caverne neolitiche» (p. 51), piattaforme spaziali, circhi galleggianti, fabbriche abbandonate, una vecchia torre saracena – è resa uniforme e annientata, nei suoi stessi nuclei basilari legati all’estetica postmoderna, dalla distruzione, dal sangue che scorre a fiumi nelle strade, dal vero e proprio inferno che regna dovunque. Si legga, ad esempio, questa descrizione della città:

Quaranta milioni di esseri viventi che strisciano sul catrame bagnato leccando l’asfalto e mormorando preghiere laiche. Vermi sclerotizzati che sbavano sul calcestruzzo finendo nei rotori dei seduttivi elicotteri. Territorio come lastre funebri, tumuli di marmo venato di acrimonia. Quartieri saldati uno all’altro da un’architettura schizofrenica e dalle mani dei profanatori della madre terra (p.15).

La distruzione e l’orrore livellano e annientano quell’estetismo postmoderno che, secondo Fredric Jameson, appartiene alla «logica culturale del tardo capitalismo». L’autore, infatti, ci presenta gli orrori e le devastazioni, dipinte come in un fumetto fantasy-horror, come una deriva dello stesso meccanismo neocapitalista. Le distruzioni, le uccisioni, gli orrori vengono perpetrati solo e soltanto in nome di un potere che, grazie all’orrore e alla morte, riesce costantemente ad autogenerarsi: «Il potere genera potere, non lo abbatte. I figli del tiranno avranno carne e terra in abbondanza. Le corporation più importanti non vedranno diminuire i loro traffici interni ed esterni alla terra. Le colonie hanno paura e un po’ di paura non guasta» (p. 65). I figli del deposto dittatore seminano morte e distruzione per nuovo potere e nuovi affari:

Nessuno. Nessuno fermerà nessuno. L’esercito combatterà il minimo indispensabile e le forze in campo si distruggeranno a vicenda. I figli del tiranno appariranno quando sul terreno non ci sarà che morte finale e desolazione. Si mette in conto la distruzione della più grande città terrestre per una svolta, per la nuova era. Il tiranno aveva puntato su Apuleia, i figli del tiranno vivranno lontano da qui, avranno femmine nordiche o nere, commerceranno con il punto di Lagrange L1 e L2 e con le basi lunari. Le corporation fonderanno altre colonie e lì prolifereranno gli affari. Il sangue degli infetti abitanti di Apuleia sarà un vessillo da sbandierare in faccia a futuri moti insurrezionali. Tutti muoiono se osano ribellarsi al potere (ibid.).

Se il potere, in sé, non potrà essere abbattuto e continuerà a mietere vittime anche sulle colonie interstellari, i singoli esponenti del potere possono essere eliminati e trovare la morte, grottescamente, in mezzo ai simboli della loro ricchezza. Così accade, ad esempio, al potente Egisto Crovo che viene ucciso nel suo ufficio e il cui sangue bagna «gli incartamenti dei suoi lucrosi affari» (p. 74), mentre «il tronco del suo corpo è appeso al lampadario fatto di migliaia di gocce Swarovski» (ibid.).

All’interno di questo mondo devastato da lotte per il potere, Sisifo Re e Oh-Oh si muovono in varie dimensioni: se Sisifo sfugge all’orrore – un po’ come il Billy di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut – viaggiando nel tempo grazie ad uno squinternato macchinario, Orano si catapulta in dimensioni parallele per mezzo di un trasmettitore tascabile i cui sensori sono innestati nella sua corteccia cerebrale. Nella dimensione parallela, non meno devastata dall’orrore di quella reale, Sisifo Re è un tenente di polizia, Orano un sergente, il suo assistente, mentre Selina Corbeves si trasforma addirittura nel capo della polizia. Nonostante queste ‘fughe’ nel tempo e nello spazio, l’orrore e la devastazione imperversano su Apuleia non meno delle bombe alleate sulla Dresda di Vonnegut. Sulla megalopoli e sui vari quartieri periferici – ribattezzati con neologismi, in alcuni casi legati a luoghi reali, come Brundisium o Otrantown – si è scatenata una vera e propria ridda di demoni, di zombie, di spettri, di «gnomi deformi» e «nani pazzi», di stregoni «dauniani», di «stigiani», creature infernali il cui nome rimanda al fiume dell’Ade, lo Stige, di divoratori di cadaveri. Fin dalle prime pagine del libro gli scenari di un orrore splatter si ripetono in attoniti sipari infernali. Ad esempio:

Bagliori, fuochi, insegne in innaturale esplosione, gruppi armati che si scontrano nella notte. La zona sudoccidentale in mano alle bande di fedeli al tiranno. Donne crocifisse agli angoli delle strade. Bambini incandescenti. Tutti che fuggono da tutto. Le case forzate, le porte sventrate. I primi piani dei palazzi, vuoti: abbandonati. Sangue a secchiate (p. 24).

Diversi sono, nel testo, i diretti riferimenti all’Inferno. Per esempio, in uno dei suoi viaggi nella dimensione parallela, Oh-Oh compie una vera e propria catabasi, una discesa all’inferno, nel «regno dei morti del Corvisea» (p. 67), mentre durante la loro fuga finale, i due protagonisti si ritrovano in un «tetro girone dantesco» (p. 213). Una vera e propria ‘cattedrale’ infernale è l’istituto di psichiatria e bioantropologia, divenuto un gigantesco obitorio dove regnano incontrastati il professor Guglielmo Federico Zoro, «l’ultimo dei lombrosiani sulla terra» (p. 29) e il suo assistente, il gobbo Roald Amundsen (che ha lo stesso nome dell’esploratore norvegese del Polo Sud). Dal professor Zoro, Sisifo e Oh-Oh si recano per avere consigli riguardo alle loro indagini.

Il pastiche e la mescolanza sembrano essere i punti di forza del romanzo di Argentina; oltre alla già citata mescolanza architettonica ed estetica che investe anche le descrizioni degli interni degli edifici – come lo stesso istituto del professor Zoro o l’ex sanatorio di San Bartolomeo – la città di Apuleia è presentata come uno squinternato melting pot di razze e culture differenti, in un curioso ibrido fra antichità e modernità: «Polacchi, dervisci, ugonotti, lettoni, turcomanni, afrogiamaicani, ittiti, siberiani… li puoi trovare tutti se osservi bene e se conosci un po’ di etnologia» (p. 45). La stessa lingua è oggetto di ardite mescolanze: a neologismi e vocaboli inglesi si alternano riferimenti al mondo classico e citazioni dall’epica, come «Cantami o diva», o «arma virumque cano».

Questo stile rapido, incline al pastiche e all’ibridazione grottesco-carnevalesca, racchiude, nel profondo, un cuore triste e malinconico: Sisifo, non a caso, nel nome rimanda direttamente al personaggio della mitologia greca condannato da Zeus a trascinare sulla cima di un monte una pietra destinata in eterno a ricadere giù. Nel libro, infatti, vi sono diversi riferimenti al mito, al fatto che anche Sisifo Re sta continuamente trascinando una pietra, la pietra di un dolore personale che non lascia tregua. Sotto il trucco da clown si cela un personaggio martoriato, oppresso dalla stanchezza e dalla depressione, ferito di fuori e di dentro, nella seconda parte della storia ostinatamente deciso a trascinare con sé il cadavere di un bambino ucciso durante gli scontri di Apuleia. Sisifo con in braccio il piccolo cadavere diventa un po’ l’emblema del dolore degli uomini oppressi da un potere violento che infligge guerre e distruzioni in nome del denaro e delle ricchezze. Anche Oh-Oh è presentato come un derelitto alla deriva in quel mondo apocalittico, soprattutto nelle parti in cui vengono narrate le sue avventure nella dimensione parallela: allora appare perennemente tormentato e martoriato dalla ricerca della sua amata Dori, perduta e mai più ritrovata. I due si muovono come nuovi picari nell’inferno metropolitano di Apuleia – che potrebbe benissimo rappresentare una metafora della nostra attuale società distopicamente rivisitata – insieme a una massa di esseri umani che hanno letteralmente toccato il fondo dell’abiezione e del dolore. E, una volta toccato il fondo, forse, i nostri personaggi non possono fare altro che risalire: forse, in fondo al baratro dell’odio e del dolore brilla ancora qualche barlume di speranza.

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La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/08/31/la-costruzione-dellimmaginario-seriale-contemporaneo/ Mon, 31 Aug 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24453 di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in [...]]]> di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano” (M. Foucault, Eterotopia, Mimesis 2010). Pertanto, la televisione, può essere individuata come “l’eterotopia per eccellenza”, nella sua continua giustapposizione, in un luogo reale, di spazi che generalmente sarebbero incompatibili. Il processo di costruzione di un nuovo immaginario dei mondi seriali, secondo la curatrice del volume, ricorre a spazi anomali entro i quali i personaggi agiscono al fine di “proteggere la dimensione di chiusura dell’eterotopia, in cui si collocano, restii (o impossibilitati) a concedere l’ingresso degli altri spazi al loro interno”. Due le forme assunte dalle eterotopie definite da Foucault: “eterotopie di crisi” ed “eterotopie di deviazione”. Nel primo caso si tratta di luoghi riservati a chi, in relazione alla società, si trova in stato di crisi, nel secondo si tratta invece di quegli spazi in cui vengono collocati i devianti rispetto alle norme imposte (cliniche psichiatriche, carceri…). Il volume ragiona su questa seconda forma, “indagando la scrittura e la costruzione di luoghi e personaggi altri”.

Nell’immaginario prodotto da alcune serie si hanno rappresentazioni del mondo che portano lo spettatore a vivere esperienze affettivo-sensoriali fantastiche in grado, in taluni casi, di essere strumento di comprensione della realtà. In altri termini si può dire che diventano dei miti in grado di inglobare lo spazio dello spettatore trasformandosi in luoghi di “creazione di risposte” relativamente alla società. Altre serie narrano il mito di fondazione di civiltà costituentesi sulla base di un nuovo ordine, derivato da un disordine maggiore sconfitto in maniera più o meno definitiva. Essendo le eterotopie, sempre seguendo Foucault, la contestazione di tutti gli altri spazi esercitata o attraverso l’illusione che denuncia l’illusorietà della realtà, o creando uno spazio perfetto ed ordinato quanto il nostro è disordinato e caotico, il saggio si propone di tracciare una mappa dei luoghi in cui prendono vita questi mondi. In tali spazi si collocano le cosiddette prison television series, come, ad esempio, OZ (HBO 1997-2003), Prison Break (Fox, 2005-2009) ed Orange Is the New Black (Netfix, dal 2013). Una società può far funzionare con modalità diverse un’eterotopia, come nell’esempio foucaultiano del cimitero: si tratta di uno spazio trasformatosi radicalmente nel corso del tempo, da “luogo integrato” allo spazio abitativo, a “luogo altro”, distinto sino a divenire simbolo del culto moderno dei defunti. Relativamente al rapporto luogo di sepoltura, defunti e città, Sara Martin individua il costituirsi di differenti mondi narrativi; dalle serie incentrate sugli zombie, come The Walking Dead (AMC, dal 2010) ed In the Flesh (BBC Three, dal 2013), alle storie di vampiri, come il vecchio Dark Shadows (AMC, 1966-1971), Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003) e True Blood (HBO, 2008-2014). Essendo le eterotopie connesse con la suddivisione del tempo, in diverse serie si assiste alla questione della rottura con il tempo tradizionale. Ad esempio, in Lost (ABC, 2004-2010) si ha una rottura tra il tempo dell’isola e quello fuori da essa ed in Person of Interest (CBS, dal 2011) i protagonisti ricorrono all’archivio visivo delle telecamere di sorveglianza, luogo in cui, al pari delle biblioteche e dei musei, il tempo “non smette di accumularsi”.

Nel suo intervento, Roy Menarini, sottolinea come da qualche tempo le serie televisive non soffrano più della sindrome di inferiorità culturale nei confronti del cinema. Lo studioso individua in Avatar (2009) di Jeames Cameron un esempio di riconquista di mercato, nei confronti della televisione, da parte del cinema, attuato attraverso il ricorso al 3D, come elemento di “valorizzazione della sala”. Anziché sfidare le serie televisive sulla complessità del racconto, il cinema sembra optare per una particolare “esperienza di visione” ed una generale “semplificazione simbolica”. Il cinema cerca, in altre parole, di conquistare per via tecnologica quanto non riesce più a garantire in termini narrativi. A proposito di questi ultimi, Menarini sottolinea come anche i registi cinematografici che, in un primo tempo, hanno insistito su “rompicapi narrativi”, come lo stesso Quentin Tarantino, siano passati a racconti più lineari. La produzione contemporanea statunitense, soprattutto di carattere spettacolare, ha optato per strategie commerciali volte ad intrecciare le serie televisive con i prodotti cinematografici, in transmedia storytelling in cui i due prodotti si dimostrano l’uno l’espansione dell’altro. In ciò la produzione della Marvel è maestra, con tanto di ulteriore prolungamento nei videogames. La serialità televisiva contemporanea, secondo l’analisi di Menarini, ha raccolto la nozione di drama offrendo spazio a soggetti solitamente propri del cinema indipendente di nicchia, ampliando ed intorbidendo i riferimenti culturali. Tale complessificazione dei prodotti audiovisivi si traduce, dal punto di vista imprenditoriale, in strategie di marketing e di targeting sempre più elaborate basate su algoritmi e software di profilatura degli utenti sempre più elaborati.

Marta Boni, nel suo scritto, ragiona circa la capacità dei racconti seriali di costruire mondi con geografie che si sovrappongono a quelle reali. Quando si parla di mondi, sottolinea la studiosa, si parla di un sistema complesso non riconducibile né ad una storia né ad un solo medium. “Una serie è un sistema complesso, provvisto di confini, che tiene insieme vari racconti e che, grazie alla ‘saturazione’ delle capacità cognitive dello spettatore attraverso la molteplicità, ottiene il risultato di costruirsi come mondo consistente, esplorabile a piacere e, come tutte le eterotopie, può essere il luogo in cui una società pensa i propri confini ed elabora la propria identità”. L’epopea mette in ordine un mondo così come alcuni mondi seriali inglobano lo spazio dello spettatore divenendo luoghi di “creazione di risposte sulla società”. Il mito, conclude l’autrice, si costruisce per sedimentazione, si sviluppa nella ridondanza e nella permanenza di frammenti nello spazio sociale, è un processo storico di costruzione della memoria collettiva ed i mondi seriali “emergono nel tempo come degli spazi flessibili al punto da diventare sistemi, o ‘ecosistemi’, delle presenze durevoli nell’universo mediale contemporaneo”.

game-of-thrones-daenerysMaria Comand si sofferma sui personaggi della serialità fantasy sottolineando come questi non costituiscano un caso diverso rispetto a quelli di altri mondi di fantasia, visto che per entrambi lo spettatore impiega i medesimi procedimenti di comprensione ed adesione. Nell’analizzare il dibattito che si è sviluppato attorno alla serie Game of Thrones (HBO, dal 2001), l’autrice mette in risalto come attorno ad alcuni personaggi si sia sviluppata una riflessione assai approfondita. Sulla figura di Daenerys Targaryen, ad esempio, si scontrano interpretazioni che vanno da chi, accusando la serie di sessismo (Myles McNutt ha a tal proposito coniato il termine sexposition), stigmatizza i comportamenti della ragazza perché “esprimerebbero una subordinazione a codici di comportamento androcratici, giacché usa il proprio corpo per emanciparsi”, a chi, invece, la considera “un’icona progressista-femminista, in virtù del suo intendere la leadership come espressione carismatico-empatica e come cura degli altri”. Secondo Comand, questo serrato dibattito prova, prima di ogni altra cosa, l’esistenza di Daenerys: “come soggetto del dibattito pubblico, nella vita immaginativa, simbolica e affettiva degli spettatori, questa donna Nata dalla Tempesta e Madre dei Draghi esiste”. Evidentemente, sostiene la studiosa, “l’incredibilità non implica automaticamente scarsa credibilità o l’incapacità di coinvolgere, incantare, suscitare sentimenti e interrogativi”, tanto che, con estrema naturalezza, si arriva a chiedersi se Daenerys Targaryen sia o meno femminista.

Alberto Brodesco analizza il rapporto tra teorie scientifiche e trame seriali che struttura un immaginario scientifico-mediale ove la cultura pop “trova nutrimento nella scienza che sfida il senso comune”. L’autore sottolinea come, a differenza del cinema del passato in cui la scienza solitamente compare attraverso la figura dello scienziato pazzo che valica il confine del consentito, la fiction contemporanea “mostra la scienza costretta dalla sua stessa episteme a spingersi al di là dei limiti della mente umana”. Per lo spettatore la legittimazione fornita dalla scienza regala alla narrazione un’atmosfera, in cui si fondono mistero e razionalità, utile al mantenimento di quell’ambiguità che rappresenta “uno dei cardini su cui si reggono le narrazioni estese”.

Decisamente approfondita risulta l’analisi della complessa struttura di Game of Thrones (HBO, dal 2001) realizzata da Luca Bandirali ed Enrico Terrone. Viene dai due indagato il ruolo narrativo dello spazio nel conflitto messo in scena dalla serie. In tale opera, sostengono gli autori, il legame strutturale tra spazialità, conflitto e forme di vita raggiunge livelli estremi di articolazione e proliferazione. Lo spazio qua è l’oggetto della contesa tanto che il mondo di Game of Thrones risulta cartografato con estrema cura. In uno dei quattro continenti, Westeors, suddiviso in sette regni, abbiamo il centro focale di tutta la vicenda. Chi tra i sette regni, perennemente in conflitto tra di loro, occuperà King’s Landing, ove si trova il trono, si troverà a governare su tutti gli altri. Al di là dei conflitti interni, i pericoli per Westeors vengono da nord, oltre la barriera, dai barbari bruti che premono sulla frontiera per fuggire dalla minaccia dei “non-morti” mentre, da sud, la minaccia viene dall’ultima discendente dei Targaryen, un casato spodestato restato senza stato. Da nord la minaccia ultima è rappresentata dai “non-morti”, mentre da sud da un esercito “ibridato con forme di vita non umane, i draghi”. Lo scontro finale pare destinato ad essere quello tra umani e non-umani.
Bandirali e Terrone analizzano dettagliatamente la complessa sigla iniziale della serie rilevandovi un’elaborata presentazione della struttura spaziale e narrativa. La sigla offre le esatte coordinate geografiche della serie e varia leggermente in base alle località maggiormente coinvolte nella narrazione della puntata. In essa compare anche un’enigmatica forma sferica: “Se la mappa rappresenta lo spazio geografico, il topos, come condizione fondamentale della narrazione (…) questa sfera rotante, con le sue effigi di draghi, cervi e antichi condottieri, sembra piuttosto voler condensare le altre dimensioni fondamentali della storia: l’epos come incombere di un passato leggendario, il kratos come pervasività delle relazioni di potere, e il telos come tensione verso un futuro nel quale si addensano progetti, obiettivi, speranze, timori”. Ulteriore approfondimento riguarda la complessa orchestrazione degli spazi e, secondo gli autori, quando la serie “abbandona la tipica verbosità del fantasy e mette in scena il potere dello spazio, raggiunge l’apice della propria rilevanza estetica in una fusione perfetta tra progetto narrativo, stilistico e ideologico”.

Alice Cucchetti si occupa dei fenomeni fandom legati alle produzioni seriali partendo da una definizione di fan inteso come “fruitore che opera sul proprio oggetto di culto un investimento emotivo, affettivo, performativo. Descriversi come fan di un prodotto (culturale oppure no) corrisponde a dare agli altri e a se stessi una definizione di sé. E di conseguenza riconoscere come simili le persone che condividono la stessa passione”. Con il termine fandom si indica, pertanto, una comunità di fan composta da cultori che “adottano un approccio attivo e dinamico nei confronti del testo”. Il materiale idolatrato viene saccheggiato dai fan e rimodellato secondo esigenze di carattere creativo ed emotivo che, non di rado, sfocia in una “produzione derivata” che integra l’oggetto di partenza o se ne distacca totalmente. Le produzioni culturali narrative si prestano alle dinamiche di fandom per diversi motivi, tra questi hanno un ruolo importante la spiccata componente d’evasione, il “potenziale di immedesimazione intimamente personale” e la possibilità di intervenire, sia come “sforzo immaginativo” che come “agire produttivo”, nella manipolazione del complesso “universo narrativo finzionale”. Risulta evidente come le produzioni seriali, televisive e non, amplifichino tali dinamiche. L’autrice ricorda come il primo fandom riconosciuto sia relativo al personaggio di Sherlock Holmes al punto di imporre ad Arthur Conan Doyle di “resuscitare” il protagonista dopo averlo fatto morire in un racconto del 1893. Sul celebre investigatore sono poi stati prodotti oltre duecento film e diverse serie televisive che hanno offerto ai fan ulteriore materiale su cui investire energie ed emozioni. Tra le produzioni televisive spicca per popolarità, la serie Sherlock (BBC, dal 2010), che vanta un fandom particolarmente attivo sul web. L’universo narrativo di Doyle, in effetti, contiene diverse caratteristiche utili alla creazione del fenomeno fandom: la dimensione seriale, la chiamata in causa del lettore/spettatore coinvolto nel metodo deduttivo anche grazie alla figura di Watson come suo alter ego ecc.
In generale, la serialità televisiva, sostiene Cucchetti, apre a forme di gradimento basate, oltre che sulla ripetizione e sulla variazione infinita, sulla competenza intertestuale del pubblico. Tale tipo di fruizione si è intensificato nel corso della cosiddetta “Golden Age seriale” caratterizzata da “narrazioni stratificate e complesse, una forte orizzontalità, una moltiplicazione dei personaggi e delle relative storyline, un approfondimento di temi trasversali, filosofici e/o morali. È una tipologia di racconto che pretende di essere fruita collettivamente”. Il fenomeno fandom non deve però essere percepito esclusivamente come attività “dal basso” visto che le produzioni non mancano di stimolare la nascita di tali fenomeni mettendo a disposizione materiale in abbondanza: “la grassroot convergence” interagisce con la “corporate convergence”.
Circa la “potenza di fuoco” che alcuni fandom sono in grado di dispiegare, l’autrice riporta il caso di Firefly (Fox, 2002), ove le veementi proteste dei fan per la cancellazione della serie dopo pochi episodi (trasmessi dall’emittente televisiva disordinatamente e con una collocazione di palinsesto infelice) hanno convinto la Universal Pictures a riprendere il discorso interrotto attraverso la realizzazione del lungometraggio cinematografico Serenity (2005). Caso, per certi versi, ancora più eclatante riguarda la serie Veronica Mars (UPN / CW, 2004-2007), teen drama poliziesco cancellato dopo tre stagioni. Il creatore della serie e l’attrice protagonista hanno chiesto direttamente alla comunità di fan di contribuire, attraverso un crowdfunding, al finanziamento di una nuova produzione. Lanciata la raccolta dei 2 milioni di dollari necessari sulla piattaforma Kickstarter, questi sono stati ottenuti dopo sole 24 ore ed, a fine raccolta, sono stati raggiunti più di 7 milioni di dollari. In entrambi i casi si capisce come, nonostante l’insuccesso della normale programmazione, “una nicchia di pubblico apparentemente ristretta ma motivata da una passione intensa è un’audience fruttuosa e potente quanto (e forse più) di una larga massa debole”. L’intervento di Alice Cucchetti si chiude toccando una questione importante circa lo sviluppo delle comunità di fan: come influirà sulla fruizione sociale del prodotto seriale la scelta di piattaforme streaming, come Netfix, di rilasciare tutti gli episodi della stagione contemporaneamente?

L’intervento di Veronica Innocenti passa in rassegna la serie televisiva Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003), preceduta dall’omonimo film per le sale cinematografiche di F. Rubel Kuzui del 1992. In entrambe le produzioni, sceneggiate da Joss Whedon, si narrano le vicende di una giovane californiana che, all’improvviso, scopre di essere la prescelta per difendere l’umanità da creature mostruose. Ibridazione, ribaltamento ed ironia nei confronti delle convenzioni di genere rappresentano i punti di forza di Buffy. La serie, caratterizzata da una forte instabilità delle identità dei personaggi e da una spiccata ibridazione dei generi, è strutturata su un sistema modulare ed, al pari di diverse altre produzioni seriali contemporanee, sostiene Innocenti, risulta contraddistinta da una “particolare sensazione di permanenza”. Abbandonati i sistemi tradizionali di narrazione procedurale, le forme testuali contemporanea si sono trasformate in “ecosistemi narrativi” caratterizzati per essere “sistemi aperti, abitati da forme narrative e personaggi che si modificano nello spazio e nel tempo (…); fondati su meccanismi di rimando e rimediazione; persistenti e resilienti, cioè durevoli e capaci di resistere alle perturbazioni (…); caratterizzati da una componente biotica preponderante, cioè da una materia narrativa viva e vitale, soggetta a processi di competizione, di adattamento, di cambiamento, di modifica”. Circa l’estensione del fenomeno Buffy ben oltre al medium televisivo, Innocenti sottolinea l’importanza del suo approdo nel mondo dei videogiochi, grazie al quale si allargano notevolmente le situazioni narrative e si permette al fruitore un ruolo decisamente più attivo. Il fruitore non si trova più a seguire una serie televisiva, ma, piuttosto, è chiamato ad “inseguirla” nei diversi ambiti mediali.

Il saggio di Paola Brambilla analizza Grimm (NBC, dal 2011), serie televisiva fantastico-procedurale ove il detective Nick Burkhardt, discendente dai “guardiani Grimm”, viene ad avere a che fare con creature demoniache. Grimm viene qua indagato “quale caso di evoluzione estetica e narrativa di una serie in relazione a fattori istituzionali e commerciali, legati alle esigenze dello scenario televisivo e mediale”. Dopo aver evidenziato come la forma iniziale della serie risulti influenzata dai meccanismi interni della broadcast television (che per sua natura è sottoposta ai controlli della Federal Communication Commision e deve prevedere i break pubblicitari, con ciò che ne consegue a livello di struttura narrativa), viene analizzata l’influenza sull’evoluzione stilistico-narrativa esercitata dal posizionamento nel palinsesto ed annesse strategie competitive. Elemento sfruttato al fine di accrescere la fidelizzazione risulta quello dell’incrementare il dialogo con i fan; ad esempio nella chiusura dell’ultima stagione compaiono sullo schermo note degli autori che, “strizzando l’occhio” al pubblico più affezionato recitano: “To be continued. Oh, come on. You knew this was coming”.

the-walking-deadLo scritto di Gabriele de Luca si occupa della rappresentazione dello straniero attraverso la figura del morto vivente in The Walking Dead (AMC, dal 2010). Prima di affrontare direttamente la serie, l’autore ricostruisce brevemente come la figura del morto vivente si presti a divenire nelle produzioni audiovisive contemporanee metafora “dello straniero, e più precisamente del migrante, quello irregolare, che si sposta clandestinamente, che viaggia senza i documenti necessari”. Analizzando le caratteristiche dello zombie, suggerisce de Luca, diviene possibile “riflettere sullo statuto attuale di questa figura” e sulla “rappresentazione dell’altro nei media contemporanei”.
Il classico dilemma circa la vera natura dei morti viventi torna anche in The Walking Dead: queste figure appartengono o meno al genere umano? I morti viventi della serie si presentano trasandati, pallidi, affamati e muti. “Gli zombie, come i migranti ridotti al silenzio dalle culture dominanti, sono muti, incapaci di articolare le proprie rivendicazioni, in grado a malapena di dialogare tra loro”. L’elemento che però sembra accomunare maggiormente zombie e migranti irregolari è la deindividualizzazione. I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come gli zombie, come folla, come orda che avanza col fine ultimo di sconvolgere la vita delle comunità civili. Tra le peculiarità della serie esaminata, de Luca individua il fatto che “la presenza dei walkers da stato d’eccezione diventa caratteristica costante di un mondo nuovo, rispetto al quale quello vecchio non è che un ricordo”. Una volta constatata l’impossibilità di sconfiggere il fenomeno dei morti viventi ed una volta scoperto che tutti, indistintamente, una volta morti si trasformano in zombie pur senza essere stati morsi da essi, ogni speranza di poter tornare alla vecchia società si spegne. La questione diventa allora quella di trovare forme di coesistenza, di costruire comunità nuove pur tra mille contraddizioni e difficoltà. L’elemento di novità introdotto dalla serie è che lo spunto narrativo dell’invasione dei morti viventi rimane presente ma viene pian piano relegato più sullo sfondo ed alla questione dello statuto degli zombie (umani/non-umani) “fa da contraltare un progressivo ed inesorabile assottigliarsi della barriera che separa uomini e zombie”. Anche gli esseri umani, via via, divengono sempre più lividi, sporchi, emaciati ed inclini ad impulsi violenti primordiali e l’assottigliarsi del confine che separa esseri umani e morti viventi è accompagnato da una “progressiva normalizzazione della situazione di eccezione”. L’accoglienza nei confronti di altri esseri umani si è data sul finire della terza stagione: all’interno della prigione-rifugio vengono accolti gli abitanti Woodbury, dopo che si è palesata la vera natura del Governatore. Resta da vedere se e come vi potranno essere modalità di apertura nei confronti dei walkers.

Les-Revenants-01Chiara Grizzaffi affronta la serie francese Les Revenantes (Canal+, dal 2012) in cui confluiscono i topoi di diversi generi, tra questi l’horror, il thriller ed il dramma. Seppure l’idea della serie derivi dal film omonimo realizzato nel 2006 da Robin Campillo, nella realizzazione seriale di Fabrice Gobert e Frédéric Mermoud, i cambiamenti sono parecchi. Venendo alla produzione di Canal+, le vicende narrate ruotano attorno ad un’immaginaria cittadina delle montagne francesi ai piedi di una diga, ove, pian piano, iniziano a far ritorno alle rispettive dimore personaggi deceduti da tempo. Il rapporto che si instaura tra questi personaggi che improvvisamente ritornano e gli abitanti della cittadina è al centro della vicenda. Altri elementi inquietanti si aggiungono, man mano, alla narrazione: la scoperta che il lago delimitato dalla nuova diga ricopre il vecchio paese sommerso da un’inondazione causata dal cedimento della precedente diga; il fatto che l’età di coloro che ritornano pare essere restata quella del momento della loro scomparsa mentre il resto del paese ha continuato ad invecchiare, l’inquietante figura della “guida spirituale” della comunità, i poteri che sembrano avere alcuni revenant, l’impossibilità di lasciare il paese da parte di chi tenta di andarsene e finisce poi per ritrovarsi sempre al punto di partenza, l’inspiegabile calo del livello dell’acqua del bacino delimitato dall’imponente nuova diga, la presenza di cadaveri di animali che sembrano essersi lanciati volontariamente nel lago, il fatto che alcuni dei revenant iniziano a manifestare piaghe di decomposizione sulla pelle dal sapore cronemberghiano ecc.
L’intera vicenda è contraddistinta, secondo Grizzaffi, da un tono perturbante; ciò che pur pare familiare allo spettatore, ben presto, a partire dalla sigla di testa, si presenta ad esso come estraneo. Se i primi episodi risultano “più intimisti”, gravitanti attorno al “conflitto psicologico” tra i personaggi, la trama sfocia, nell’approssimarsi all’epilogo, nel paranormale, lo scenario diviene post-apocalittico e la cittadina appare sempre più isolata dal resto del mondo tanto in termini spaziali che temporali, in una perturbante atmosfera sospesa in cui si mescola la temporalità bloccata dei ritornanti con lo scorrere del tempo dei cittadini che, pare, rallentare sempre più. Il finale pare zombie-oriented, con decine e decine di revenant che escono dalla foresta per dirigersi, tra le nebbie, verso l’abitato. Il rifiuto da parte dei vivi di consegnare Adèle ai revenant, porta allo scontro e l’ultima immagine ci mostra la città sommersa dalle acque.
La serie Les revenantes, sostiene acutamente Grizzaffi al termine del suo scritto, al di là dei riferimenti ai diversi generi (horror, thriller ecc.), “svela una complessità e una stratificazione maggiori: l’umanizzazione dell’orrore, il forte accento sui risvolti psicologici o sugli aspetti più banali del dolore e il rifiuto di motivare o spiegare la componente soprannaturale della trama, costituiscono una sfida per gli spettatori costretti a stare al gioco nonostante le regole – solitamente stabilite anche dalle coordinate di genere – in questo caso non siano chiare. (…) E, forse, tutto questo ci dice qualcosa anche sui tempi che stiamo vivendo: in un’epoca in cui l’oblio è un diritto da riconquistare e le tracce del nostro passato, soprattutto quelle digitali, sopravvivono anche alla nostra morte, rischiamo davvero di essere condannati al passato”.

Pietro Bianchi analizza la serie True Blood (HBO, 2008-2014) a partire dall’ambientazione: il profondo Sud rurale degli Stati Uniti. Tale mondo ha esercitato un certo fascino sull’immaginario americano, tanto che numerosi sono i film ambientati in tale località che riesce a mescolare eccessi e contraddizioni. Non è difficile immaginare come la rappresentazione del Sud rurale si sia alimentata di stereotipi propri della cultura urbana nordamericana che hanno finito con il costruirne un’immagine in cui le contraddizioni sono portate all’eccesso; di queste terre si elogia la genuinità e l’autenticità ma al tempo stesso ci si spaventa per l’arretratezza tecnologica e culturale. Bianchi sostiene che ”True Blood non ci vuol fare vedere il Sud, ci vuole far vedere l’immagine del Sud. Quell’immagine che l’ha reso un oggetto del desiderio delle élite colte e urbane americane e dei film di Hollywood degli ultimi anni. Il fatto che di questo luogo vengano mostrati con insistenza i tratti di eccesso sessuale, fisico, estatico; o che venga continuamente riaffermato il surplus di autenticità e veracità, costituirà il filo rosso dell’intera serie. La presenza dei vampiri serve infatti a raddoppiare all’interno dell’intreccio, quello che la rappresentazione del Sud costituisce all’esterno nell’immaginario contemporaneo”. Nella serie si sommano gli eccessi propri delle creature soprannaturali con le esperienze umane quando queste si fanno estreme. L’esperienza dell’andare oltre la propria umanità, secondo Bianchi, “non ha niente a che vedere con il registro del magico o del soprannaturale, ma con qualcosa di estremamente razionale e che la psicanalisi definisce ‘pulsione di morte’”. Nella serie la comparsa dei vampiri si accompagna “all’impossibilità di alcuni personaggi di riuscire a fari i conti con la distruttività del godimento”. Tale ragionamento porta l’autore a concludere che di “soprannaturale”, nella serie esaminata, c’è proprio la pulsione di morte, ossia “un principio di superamento dei limiti del vivente che tuttavia si trova al cuore dell’umano” e le creature soprannaturali (vampiri, licantropi ecc.) “sono un modo per dare manifestazione a ciò che di innaturale vi è nell’essere umano, non un modo per mettere a tacere l’umano con ciò che umano non è”.

person of interestLo scritto di Valentina Valente si occupa di Person of Interest (CBS, dal 2011), serie che mescola thriller spionistico ed aspetti avveniristici di derivazione fantascientifica ma esplicitamente ancorata a questioni che toccano il mondo reale ormai disseminato di telecamere di controllo a circuito chiuso e banche dati utili a tracciare i profili degli individui. La “Macchina” in grado di riconoscere e mappare gli individui sfruttando CCTV e banche dati, compare in quanto commissionata, in seguito all’11 settembre, dal governo statunitense, al fine di sventare attacchi terroristici. Grazie all’integrazione umana dei due protagonisti, la Macchina si rivela in grado di fornire informazioni riguardanti anche crimini non di carattere terroristico. Ed è di questo uso che si occupa Person of Interest. Nella serie si esplicita, secondo Valente, una distinzione tra chi, avendo accesso agli “strumenti della conoscenza e dello sguardo”, dunque detiene il potere, e chi, è inconsapevole. La Macchina costituisce la linea di separazione tra questi due mondi. Altro elemento su cui si sofferma tale analisi riguarda le caratteristiche dei luoghi entro cui si dipana la narrazione. La biblioteca-rifugio rappresenta il luogo della ricerca e della pianificazione, tale spazio è l’unico a presentarsi allo spettatore come sicuro, tanto che non viene quasi mai inquadrata la porta di accesso al fine di rafforzare l’idea di spazio inviolabile. Il commissariato di polizia che, normalmente viene presentato nei film e nelle serie televisive come spazio sicuro, in questo caso appare come luogo concepito per “impedire la riservatezza”; si tratta di un’ambiente corrotto, potenzialmente pericoloso. L’ambiente principale, continua Valente, è la città, New York. In questo caso lo spettatore ne prende visione principalmente attraverso la videosorveglianza. I dispositivi video “non sono soltanto oggetti diegetici che per un breve momento caratterizzano la narrazione (…) o sono semplicemente gli oggetti prevalenti per lunghi brani narrativi (…), ma connotano la configurazione visiva dell’intera opera”. I dispositivi di sorveglianza oltre ad essere “oggetto diegetico” rappresentano una “modalità di fruizione di immagini” a cui il pubblico contemporaneo è abituato, perciò “la loro varietà di topologia di immagine non è spiazzante, ma amplifica la complessità della collocazione dello sguardo nella frammentarietà della metropoli contemporanea”.

L’analisi di Rossella Catanese e Valerio De Simone passa in rassegna Bates Motel (Universal Television Group – The Wolper Organization – A&E, dal 2013), serie che sembra un prequel anomalo di Psyco (1960) di Alfred Hitchcock. Le storie narrate si svolgono attorno alla famiglia Bates, nel corso dell’adolescenza di Norman. L’anomalia, se si vuole intendere la serie come prequel di Psyco, consiste nel fatto che la collocazione temporale contraddice tanto l’opera hitchcockiana, quanto il remake realizzato da Gus Van Sant nel 1998, essendo, la serie, ambientata in epoca a noi contemporanea e non prima degli anni Sessanta, nel caso anticipasse Hitchcock, né prima degli anni Novanta, nel caso decidesse di rifarsi alla versione di Gus Van Sant. Inoltre, cambia la località: un piccolo paesino sulla costa dell’Oregon, White Pine Bay, al posto della cittadina californiana di Fairvale. Bates Motel, pertanto, non può essere indicato né come un vero e proprio prequel, né, tantomeno, come, ennesimo, remake. Secondo gli autori la serie è piuttosto considerabile una rielaborazione, una rilettura di ambientazione contemporanea di un’opera ormai diventa classica. Dalla seconda metà degli anni Duemila sono numerosi i casi in cui vengono riprese opere cinematografiche o vecchie serie di successo ed ambientate ai giorni nostri con diversi cambiamenti. La serie Bates Motel, secondo Catanese e De Simone, può essere definita un “double re-imagined”: viene infatti doppiamente ri-immaginato ciò che non è stato mostrato precedentemente per poi collocarlo ai nostri giorni al fine di accrescere “il processo di identificazione” dei teenager. bates_motel_06Al fine di marcare lo stato di isolamento di Norman, viene mostrato indossare abiti “retrò”, per certi versi atemporali, differenziandolo così dalla comunità dei suoi coetanei vestiti invece in maniera contemporanea. Ulteriore elemento su cui si sofferma l’analisi riguarda il ruolo della crisi economica nella serie. Mentre in altre serie la crisi che ha attraversato gli Stati Uniti nel 2008, sostengono gli autori, risulta rappresentata come “evento traumatico di passaggio”, nella serie in esame diviene un elemento essenziale. “In Bates Motel il processo che ha generato la crisi viene capovolto: a generare la crisi non sono le speculazioni dei professionisti della borsa, bensì le proteste di un gruppo di ambientalisti” che mettono in crisi il business del commercio di legname, fino ad allora perno dell’economia locale, aprendo le porte alle attività illegali che sommergono la cittadina. È lo stesso dimesso motel a divenire emblema della crisi economica, motel che già nella versione hitchcockiana esibisce, nelle intenzioni del regista, il “grigio squallore della working class, i sogni infranti del benessere negato”. L’analisi di Catanese e De Simone insiste sulla centralità del motel segnalando come sin da Psyco di Hitchcock il set, composto da motel ed annessa casa sulla collina, sia pensato come “concretizzazione del paesaggio interiore del protagonista”, e finisca per rappresentare “il terrore collettivo per l’abiezione degli omicidi seriali, trauma culturale per gli Stati Uniti degli anni Cinquanta”. Il motel, nell’analisi esposta dagli autori, diviene “un’eterotopia, un luogo privo di riferimenti geografici o culturali, che condensa gli elementi aleatori e precari di un’idea di estraneità”, l’orrore non è più confinato nella spettrale casa sulla collina ma “appare improvvisamente nella banalità quotidiana e anonima del motel”, mentre l’isolamento dei due edifici, casa/motel, sembra replicare, simbolicamente, “l’io diviso del protagonista e contemporaneamente la sua dipendenza dalla personalità materna”.

L’ultimo contributo del libro curato da Sara Martin, è di Mimmo Gianneri e si occupa di Battlestar Galactica (Sci Fi Channel, 2004-2009), versione re-imagined della serie televisiva di fine anni Settanta Galactica (Glen A. Larson Productions – Universal TV, 1978-1979). La serie andata in onda a partire dal 2004 si inserisce nelle produzioni che intendono riprendere in maniera allegorica la società statunitense dopo l’11 settembre: “la flotta coloniale è alle prese con le conseguenze di un attacco al proprio cuore che si rivela fin da subito un’offensiva al proprio modello culturale e alle proprie certezze ideologiche”. Dal punto di vista stilistico la serie decide di adottare uno stile “documentaristico” con ambientazioni realistiche ed un “paesaggio sonoro costituito da suoni diegetici”. La colonna sonora riveste un ruolo fondamentale nella comprensione della filosofia della serie, tanto che l’analisi di Gianneri si concentra principalmente sul sonoro a partire dalla scelta di preferire al cliché della musica sinfonica, tipico di tanta fantascienza, sonorità non occidentali, al fine di sottolineare simbolicamente “la composizione culturalmente eterogenea della flotta in fuga”. Nell’economia del soundscape, sottolinea lo studioso, “la musica percorre una strada parallela a quella del sonoro diegetico realistico e aptico in una vera e propria divisione dei ‘compiti’. Se il suono diegetico è il prodotto del sudore, della fatica quotidiana e, in ultima misura del lavorio del metallo arrugginito che circonda le navi-prigioni perse in cerca di una ‘casa’, la musica extradiegetica rappresenta una forza esogena di pacificazione” E le rare occasioni in cui il sonoro diegetico ed extradiegetico dialogano, rimandano alla presenza di un’entità superiore tanto che il ritrovamento della Terra pare fondarsi sulla “capacità di cogliere e interpretare, da una prospettiva terrena – fatta di tradimenti, morti e ferite interiori – i segni divini (cioè musicali) percepibili”.

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Tenebre e Ghiaccio, di Leigh Bardugo https://www.carmillaonline.com/2014/01/03/tenebre-ghiaccio-leight-bardugo/ Thu, 02 Jan 2014 23:21:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11450 Piemme, Milano 2013, pag. 283 € 17

di Mauro Baldrati

tenebreTenebre e Ghiaccio, il primo di una trilogia, fa parte della collana fantasy Freeway, rivolta soprattutto ai ragazzi. Questo titolo è adatto alla fascia anagrafica dei 14. Ma quali prerogative ha la narrativa fantasy per ragazzi, rispetto a quella per adulti? E’ più “leggera”? Più favolistica? Non essendo un addetto ai lavori preferisco cercare una risposta attraverso questo romanzo in particolare, senza intenti di generalizzazione sul genere.

I protagonisti: Sono effettivamente dei ragazzi, Alina e Mal, fratelli di adozione, entrambi orfani, cresciuti nell’orfanatrofio di un aristocratico filantropo. Alina è una bambina [...]]]> Piemme, Milano 2013, pag. 283 € 17

di Mauro Baldrati

tenebreTenebre e Ghiaccio, il primo di una trilogia, fa parte della collana fantasy Freeway, rivolta soprattutto ai ragazzi. Questo titolo è adatto alla fascia anagrafica dei 14. Ma quali prerogative ha la narrativa fantasy per ragazzi, rispetto a quella per adulti? E’ più “leggera”? Più favolistica? Non essendo un addetto ai lavori preferisco cercare una risposta attraverso questo romanzo in particolare, senza intenti di generalizzazione sul genere.

I protagonisti: Sono effettivamente dei ragazzi, Alina e Mal, fratelli di adozione, entrambi orfani, cresciuti nell’orfanatrofio di un aristocratico filantropo. Alina è una bambina magra, scontrosa, brusca nei modi, sarcastica; Mal è bello, solido, calmo e sicuro di sé. Li ritroviamo ragazzi arruolati nel “Primo Esercito”, lei come topografa, lui cercatore di piste. Alina è “lo stecco”, sempre magra, poco seduttiva, Mal è diventato un rubacuori, tutte le ragazze lo sbirciano, lo notano, cercano di sedurlo. Noi lettori sappiamo che Alina è non troppo segretamente innamorata – e gelosa – di Mal.

L’ambientazione: Terra immaginaria, Regno di Ravka, un tempo nazione potente e temuta, ora imprigionata dalla Distesa di Tenebra, un deserto di “sabbia morta” totalmente senza luce, avvolto in un buio impenetrabile e popolato di mostri alati che divorano qualunque essere vivente vi si avventuri. Sappiamo che la zona morta è stata creata in tempi antichi da un mago chiamato l’Eretico Nero, e i mostri erano essere umani trasformati. Il Regno di Ravka ha un re ubriacone, buono a nulla, e una sorta di Primo Ministro plenipotenziario chiamato l’Oscuro, misterioso, ambiguo, bello e affascinante come tutti i Grisha, la casta dei maghi che di fatto compone la corte. Ogni Grisha ha una specializzazione, chi è in grado di produrre fuoco, chi vento, chi è medico, chi costruttore di congegni. Ma ognuno lavora con tecniche magiche, senza utensili: il medico salda e ripara le ferite semplicemente col tocco delle mani, l’evocatore di fuoco alza le braccia verso il cielo, così quello del vento ecc. L’ambiente e l’epoca, benché immersi nella dimensione tipicamente fantastica del genere, sono ispirati alla Russia zarista di fine Ottocento/inizio Novecento, con lo zar, i nobili, e persino un personaggio abbastanza inquietante che evoca Rasputin.

La storia: Alina e Mal, ora giovani soldati, si trovano a bordo di un “solcadune” che deve attraversare la Distesa, per alcuni rilievi e studi del territorio. La nave scivola direttamente sulla sabbia, spinta dai venti evocati dai Grisha Chiamaturbini, azionata da una vela gigantesca. Quando è già immersa nella tenebra viene attaccata dai mostri volcra, con esiti disastrosi, nonostante la durissima battaglia che si scatena e la potenza guerriera dei Grisha. Tutto sembra perduto, Mal sta per essere sbranato, e Alina cerca di salvarlo, a prezzo della sua stessa vita. Ma d’un tratto accade qualcosa, un evento di cui non si rende conto: Alina sprigiona una luce potentissima che mette immediatamente in fuga i volcra, creature che possono vivere solo nel buio. Tutti i Grisha sono sbalorditi, e in primis l’Oscuro, perché sono convinti di avere finalmente scoperto una “evocatrice del sole”, una Grisha di enorme potenza, che L’Oscuro sta cercando da tempo perché sarebbe in grado di distruggere la tenebra evocando la luce magica, incontenibile, del sole. Così Alina viene immediatamente arruolata nelle schiere dei Grisha, e si trasferisce a corte, mentre Mal, per il momento, sparisce dalla circolazione.

E qui inizia una parte centrale di formazione, con Alina che cerca di scoprire il suo potere, di controllarlo, ma soprattutto di accettarlo. L’Oscuro, che la segue, anche se a distanza, è il faro, il punto di riferimento, con la sua aura di autorità suprema, col suo potere assoluto. Lentamente Alina fa progressi, scopre l’ambiente della corte, con aspetti persino grotteschi, dove regnano il lusso, il privilegio, l’invidia, la posa. In certi punti sembra di assistere a qualche scena de Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel. Il lettore si rilassa, ma al contempo si chiede: va tutto così bene ora? Alina progredisce, sta diventando potente, non c’è dubbio che prima o poi ce la farà ad “aprire” la Distesa di Tenebra. Inoltre è la favorita dell’Oscuro, del quale si sta pure innamorando. Dunque è questa una prerogativa della narrativa per ragazzi? Le cose si sistemano, emerge l’amore come forza motrice, ma a lungo andare la narrazione finisce per appiattirsi, l’avventura si stempera, e il racconto corre veloce verso il lieto fine?

Invece non è così. Non vanno sottovalutate la classe e la fantasia dell’autrice americana di origine israeliana Leigh Bardugo, che con una svolta improvvisa, un colpo di scena, ribalta tutto. Nulla è come sembra. Dietro la formazione di Alina c’è un progetto terribile, che la ragazza scopre per caso, e al quale cerca di sottrarsi con una fuga precipitosa e disperata, nel corso della quale ritroverà Mal. E a quel punto aspettiamo il secondo capitolo della trilogia Grisha, perché sarà pieno di promesse, di incognite, e soprattutto di nuove battaglie e avventure.

Tenebre e Ghiaccio non è prigioniero del genere, di nessun genere in realtà. E’ un romanzo di avventura, con una scrittura veloce, semplice, che se è una prerogativa della narrativa per ragazzi, finisce per diventare preziosa per gli adulti. Non esagera con l’horror e la violenza, anche se in realtà non manca nulla, i mostri sono veramente horror, e alcune scene addirittura splatter, senza reticenze. La violenza non è negata, né esaltata, semplicemente non vi è compiacimento. Così l’amore, idealizzato quanto basta, emerge come energia sentimentale dei ragazzi, che ha qualcosa di timido, e al contempo di selvaggio, di eterno e di sincero.

Insomma, a conti fatti, è un libro che si legge anche da adulti, senza accorgersi che è indirizzato ai quattordicenni. Oppure scova il quattordicenne che è in noi, chissà. In ogni caso, se siamo di fronte a un esempio riuscito di narrativa per ragazzi, questo romanzo rappresenta un’ottima lezione – di stile, di storia, e di ritmo – per gli scrittori (e i lettori) cosiddetti adulti.

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