fantasma – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I Put a Spell On You: Blues nero, lacrime bianche https://www.carmillaonline.com/2022/07/13/i-put-a-spell-on-you-blues-nero-lacrime-bianche/ Wed, 13 Jul 2022 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72480 di Sandro Moiso

Hari Kunzru, Lacrime bianche, Il Saggiatore, Milano 2018, pp. 332, 22,0 euro

Believe I buy a graveyard of my own Believe I buy a graveyard of my own Put my enemies all down in the ground (Charlie Shaw)

Argomento complesso il Blues, musica che si trova sulla linea di confine della civiltà africana: là dove ciò che rimane di residualmente africano trapassa nell’americano. Il Blues è l’indicibile di una società che, in apparenza, si vuole felice, ad ogni costo. Ma “avere i Blues” significa essere tristi, non per qualcosa [...]]]> di Sandro Moiso

Hari Kunzru, Lacrime bianche, Il Saggiatore, Milano 2018, pp. 332, 22,0 euro

Believe I buy a graveyard of my own
Believe I buy a graveyard of my own
Put my enemies all down in the ground

(Charlie Shaw)

Argomento complesso il Blues, musica che si trova sulla linea di confine della civiltà africana: là dove ciò che rimane di residualmente africano trapassa nell’americano.
Il Blues è l’indicibile di una società che, in apparenza, si vuole felice, ad ogni costo.
Ma “avere i Blues” significa essere tristi, non per qualcosa di specifico ma per un malessere più generale. La causa può essere il lavoro (il “monday” o “morning” blues), la malattia (spesso più dell’anima che del corpo), il pensiero (più che la paura) della morte come irrimediabile destino di ognuno e la susseguente paura di essere dimenticati (“See that my grave is kept clean”), l’amore tradito oppure molesto oppure, ancora, mancato o troppo vanamente desiderato.

Ha poco a che vedere con il ritmo o il tempo, che pur è quasi sempre riconoscibile, ma a cui è troppo spesso e sbrigativamente ridotto. Come afferma Philip Tagg, in uno scritto apparso alla fine degli anni Ottanta, ridurlo ad una espressione “tipicamente” afro-americana significa limitarlo all’interno di un ordine razziale dato1. Anche se è evidente che gli stilemi e i ritmi del blues si adattavano, e si adattano ancora, per mezzo del riarrangiamento, ad ogni interprete che cerchi di fare sua o di creare una nuova variante di ogni sua espressione. Aprendo così la via al Jazz, alle sue variazioni e improvvisazioni su un tema dato, e al rock.

Secondo Janheinz Jahn, autore di Muntu La civiltà africana moderna2, l’interprete di blues non canta a partire da se stesso ma per dare voce alla comunità, per questo motivo quelli che usualmente siamo abituati a chiamare bluesmen furono invece spesso dei “songster”, musicisti girovaghi, non sempre e soltanto afro-americani, che iniziarono ad apparire nel tardo XIX secolo nel Sud degli Stati Uniti.

La tradizione dei songster precede e spesso coesiste con l’avvento del blues. Era iniziata subito dopo la fine della schiavitù e della Ricostruzione successiva alla guerra civile negli Stati Uniti, quando i musicisti afro-americani iniziarono a girovagare suonando per guadagnarsi da vivere. Musicisti bianchi e “neri” condividevano lo stesso repertorio, definendosi più come songster piuttosto che musicisti blues.

In genere eseguivano un’ampia varietà di folk song, ballate, brani ballabili, reel e minstrel song. Inizialmente, erano accompagnati da altri musicisti che non cantavano, che spesso suonavano il banjo e il violino. Più tardi, quando la chitarra divenne largamente popolare, i songster spesso iniziarono ad accompagnarsi con la stessa, motivo per cui molti chitarristi e cantanti, soprattutto blues, iniziarono a svolgere il compito di accompagnamento e solista con lo stesso strumento.

I songster ebbero una notevole influenza nello sviluppo del blues, che iniziò a svilupparsi in forme maggiormente definite a cavallo dei sue secoli. In tal modo ci fu anche un’evoluzione nello stile delle canzoni eseguite. I songster spesso cantavano canzoni composte da altri o ballate tradizionali, spesso riguardanti eroi e caratteri leggendari. I blues singers, per contrasto, tendevano ad inventare le proprie liriche (o riciclare quelle di altri autori/esecutori) e a sviluppare dei propri pezzi e un proprio stile chitarristico (o, talvolta, pianistico), cantando le esperienze e le emozioni direttamente vissute nel corso della propria vita.

Molte delle prime incisioni di ciò che adesso è riferibile come blues furono portate a termine registrando dei songster che avevano a disposizione un repertorio più vasto, che spesso andava dai successi popolari del momento all'”autentico” country blues.
E’ sempre più evidente per gli studiosi che la maggior parte dei più tipici artisti blues, inclusi Robert Johnson e Muddy Waters, eseguissero in pubblico una grande varietà di musica, ma finissero poi col registrare soltanto quella porzione del loro materiale che i produttori (bianchi) ritenevano originale o innovativo.

Non a caso il blues finì con l’integrare nel suo canone anche i field holler e le work song con cui gli schiavi e i condannati ai lavori forzati, oppure semplicemente braccianti sottopagati, ritmavano la propria attività di raccolta del cotone o altro nei campi, di spaccapietre oppure, ancora, di costruzione di opere pubbliche. In cui spesso, però, a dare il ritmo di fondo vero era lo schioccare della Black Betty, ricordata in tante canzoni e brani jazz: la frusta a disposizione dei guardiani di quegli stessi lavoratori.

Per altri aspetti il blues potrebbe essere definito come quella musica, quel canto che sfugge alla norma, dettata da Henry Krehbiel3 nel 1897: «Ciò che è indegno, ciò che è brutto e doloroso non è un soggetto adatto alla musica». Una formula che negava qualsiasi espressione artistica popolare legata alla vita reale e che istituiva non soltanto il canone della musica adatta al mondo e alle illusioni della borghesia, ma anche della futura pop music.

Ma il termine blues è riscontrabile anche in tanti titoli di canzoni appartenenti alla musica proletaria bianca americana che in seguito avrebbe dato vita alla prima country music, con autori ed esecutori quali Jimmie Rodgers e la Carter Family, degli anni ’20 e ’30. Musica, magari da ballo, ma nata tra braccianti ed operai, piccoli proprietari terrieri ed ex-schiavi che arrivò, per mezzo proprio del successivo rock’n’roll, anche tra i giovani adolescenti bianchi della middle class e del baby boom successivo alla seconda guerra mondiale.

Stevie Van Zandt, a lungo chitarrista e amico di Bruce Springsteen, per quanto riguarda l’inizio della loro collaborazione artistica sul finire degli anni Sessanta, scrive nella sua autobiografia:

Passavamo il tempo a scavare in profondità nelle radici del Blues. In quanto substrato della musica rock, il blues era presente in tutto quello che facevamo. Lo avevamo scoperto grazie ai Rolling Stones, […] Nell’appartamento tra Cookman e Kingsley, partimmo a ritroso dalle cover dei bianchi per tornare agli artisti neri pionieri del genere.
Ascoltavamo senza sosta Little Walter, Fred McDowell, Sonny Boy Williamson, Robert Johnson, Howlin’ Wolf, Son House, Elmore James e Muddy Waters4.

Il blues parla della condizione umana5 .

E in questo rimane e rimarrà l’autentica “musica del diavolo”, come è stata definita quasi fin dai suoi esordi, temuta dai perbenisti, bianchi o neri e di qualsiasi altro colore e classe sociale. Ed è per tutti questi motivi, e molti altri ancora, che può rivelarsi estremamente interessante ed avvincente la lettura del romanzo di Hari Kunzru Lacrime bianche, apparso in lingua originale nel 2017.

Kunzru è uno scrittore e giornalista britannico di origini indiane e il suo romanzo ruota intorno alla disperata ricerca del “suono originario” e dell’”autentico blues” (mito tipicamente bianco e relegato perlopiù all’ambito del collezionismo discografico). All’inseguimento di un suono e di un musicista fantasma che, indirettamente, nell’ambito di una trama che si dipana tra il presente e un lontano passato, rivela al lettore più attento anche il mistero della maledizione della morte a ventisette anni che ha se gnato la vita di tanti celebri musicisti.

Kurt Cobain (Aberdeen, 20 febbraio 1967 – Seattle, 5 aprile 1994), Jim Morrison (Melbourne, 8 dicembre 1943 – Parigi, 3 luglio 1971), Brian Jones (Cheltenham, 28 febbraio 1942 – Hartfield, 3 luglio 1969), Amy Winehouse (Londra, 14 settembre 1983 – Londra, 23 luglio 2011) , Janis Joplin (Port Arthur, 19 gennaio 1943 – Los Angeles, 4 ottobre 1970) e Jimi Hendrix (Seattle, 27 novembre 1942 – Londra, 18 settembre 1970) non sono nemmeno nominati nel romanzo, ma i loro fantasmi aleggiano attorno alla figura di un giovane bluesman che muore alla stessa età in uno dei terribili campi di lavoro forzato istituiti dal sistema penitenziario del Texas negli stessi anni in cui, Robert Johnson (Hazlehurst, 8 maggio 1911 – Greenwood, 16 agosto 1938), dopo aver inciso un pugno di registrazioni (poco più di venti) che avrebbero segnato indelebilmente la storia del blues e del rock bianco, moriva alla medesima età.

Il romanzo è una lunga cavalcata nella magia che circonda il blues e nell’oscurità che l’accompagna. Tra le sue pagine si può cogliere lo sguardo oppure la rabbia vendicativa di un fantasma appartenente a uno dei tanti bluesmen e songster neri, morti prima ancora che l’industria discografica potesse significare scalata sociale e benessere per chi incideva i dischi di ceralacca e a 78 giri, in un primo tempo, oppure in vinile e a 45 giri successivamente, di cui Charlie Shaw, lo spettro che agita le pagine del romanzo di Kunzru, non è altro che l’incarnazione letteraria.

Ma questa presenza/assenza di centinaia e forse migliaia di cantastorie “blues” è forse ciò che più ha affascinato sia i collezionisti che i cantanti e musicisti bianchi che, a distanza di decenni, ne hanno seguito le orme. Un incantesimo che si è protratto nel tempo passando di generazione in generazione. Tra tutti quegli interpreti che, pur non essendo dediti soltanto alla riproposizione della musica nera delle “origini”, sono finiti con l’essere posseduti dal demone oppure cavalcati da uno degli infiniti dei del blues. Dei o orisha che provenivano dal profondo della psiche umana e dal profondo della culla dell’umanità: l’Africa, da cui iniziò centinaia di migliaia di anni or sono la grande avventura della specie umana sul pianeta.

Se in qualche modo il blues avrebbe finito col rivelarsi come l’autentico fardello per l’uomo e la donna bianchi, soprattutto se giovani e sensibili, è dal continente africano che tutto ha avuto inizio. A partire da una tratta degli schiavi che ha preceduto l’arrivo e le conquiste dell’uomo bianco e della sua civiltà. Regni locali, spesso molto ricchi e potenti, e arabi avevano già contribuito a spogliare delle risorse umane più giovani e migliori l’interno del continente.

Le vie dei mercanti di schiavi seguivano varie direzioni sia dall’interno ai regni costieri del continente, sia in direzione del Sahara, dell’Oceano Atlantico o di quello Indiano.
Certamente l’arrivo dei bianchi, portoghesi prima e tutti gli altri dopo, incrementò enormemente tale traffico di carne umana. Per la prima volta non soltanto per farne servitori, valletti, prostitute o favorite di ricchi signori, ma, soprattutto, per trasformarli in lavoratori nelle grandi piantagioni, principalmente dell’America meridionale e caraibica prima e settentrionale in seguito. Si calcola, infatti, che tra il 1500 e il 1800 siano stati più di 23 milioni gli africani ridotti in schiavitù e deportati. Di questi 23.318.000 africani, prevalentemente giovani, sani e robusti, 17.418.000 furono deportati attraverso l’Atlantico6.

Questo spostamento forzato e il trattamento riservato agli schiavi, sia durante il viaggio per terra e/o per mare che una volta giunti a destinazione, fu indubbiamente fonte di grande dolore, violenza, imbarbarimento dei costumi e disperato bisogno di fuga e libertà. Ricordo che si sedimentò nella memoria collettiva profonda e che fu successivamente registrato, seppur indirettamente, nella musica che poi avrebbe preso il nome di blues. Ma che ricadde, come una sorta di vendetta, anche tra quelle schiere di giovani bianchi della middle class americana che tutto aveva fatto per tener lontano da sé la contaminazione del sangue, senza però poter evitare quella culturale.

Questo è il dramma che tinge di sangue e di dolore anche le pagine del romanzo di Kunzru, in cui alcuni giovani bianchi, di cui almeno uno di agiata famiglia, inseguono il sogno del suono originario definitivo, cadendo tra le mani di chi, dopo aver subito torti infiniti, non vuol far altro che vendicarsi, magari impadronendosi della personalità di uno di loro.

Forse perché la magia ha un vettore: il suono.
Che sia prodotto da uno strumento oppure una canzone o, ancora, soltanto da un rumore o da una parola e dalla voce. In fin dei conti per i filosofi antichi era la parola a creare il o dar senso al mondo, quindi la voce e il suono sono alla base di gran parte del mondo, non solo mediatico, che ci circonda. Così come le formule dei riti magici devono essere recitate per ottenere l’effetto desiderato.

Guglielmo Marconi, l’inventore della radio, credeva che le onde sonore non si spegnessero mai del tutto, che persistessero, sempre più fievoli, coperte dal giornaliero frastuono del mondo. Marconi pensava che, se solo fosse riuscito a inventare un microfono sufficientemente raffinato, sarebbe riuscito a sentire il suono dei tempi antichi. Il discorso della montagna, i passi dei soldati romani che marciavano lungo la via Appia7

Se Marconi aveva ragione e certi fenomeni persistono attraverso il tempo, allora ai confini della percezione vengono continuamene raccontati dei segreti. Ogni segreto continua ad essere svelato8.

Segreto o incantesimo che sia, I Put a Spell On You (Ho messo un incantesimo su di te) cantava Screamin’Jay Hawkins nel suo più grande successo inciso nel 1956 e poi ripreso da un infinito numero di esecutori rock e blues, era ed è rivelato da un suono che lo sviluppo della registrazione e riproduzione fonografica, prima, e digitale, poi, avrebbe contribuito a diffondere nel mondo.

Speech has become, as it were, immortal (La parola, il discorso è diventato immortale). Queste furono le parole di Thomas Alva Edison quando presentò alla stampa, nel 1877, una sua nuova invenzione: il fonografo. Ma da allora non solo le parole, ma tutti i tipi di musica, sound e rumore, sono divenuti immortali. L’inventore rese riproducibile tutto ciò che si può incidere: sulle rive dello Swanee River, tanto per fare un esempio, il fonografo di Edison immortalò non solo l’omonimo blues, ma i neri che lo cantavano.

Fu la Victor Talking Machine Company, divenuta i seguito la più conosciuta RCA Victor, a registrare per la prima volta, nell’autunno del 1902, un gruppo vocale “nero”, il Virginia’s Dinwiddie Quartet. Il gruppo incise cinque canzoni gospel e un successo “pop” dell’epoca: Down At The Old Camp Ground.

Fu così la registrazione fonografica a liberare la memoria di un popolo e a “racchiuderla” per sempre nei solchi di un disco di ceralacca, adattandola, anche al gusto degli ascoltatori “bianchi”. Fu così che iniziarono a comparire gruppi Vaudeville dalla faccia tinta di nero (come quella di Al Jolson, nato come Asa Yoelson in Russia in una famiglia ebraica, nel film Il cantante di jazz del 1927) per proporre la “black music” senza offendere l’audience propriamente bianca.

Fu solo dopo il successo di vendite del secondo disco di Mamie Smith, Crazy Blues, nell’autunno del 1920, che le maggiori etichette discografiche iniziarono ad aprire le porte agli esecutori afro-americani. Fu ancora così che i temi cari a songster e bluesmen neri iniziarono ad entrare nel mercato dei race records, dischi principalmente di carattere Blues ma non solo, destinati al pubblico afroamericano che iniziava a costituire una più che valida fetta di mercato. Nel 1921 nacque infatti la prima etichetta discografica di proprietà afro-americana, la Black Swan, dedita ad incidere la più ampia gamma di musica nera senza limitarsi alle sole forme del blues. Ma le radici del blues, come si è già detto, sono nere, affondano nell’Africa, nelle sue culture e nei suoi dei importati (vudù).

Un autentico pantheon di forze che richiama quello delle religioni politeistiche meglio conosciute, attribuendo ad ogni caratteristica del comportamento umano una divinità specifica. Forze che, in maniera molto più vicina alla realtà delle religioni monoteistiche rigidamente dedite a dividere il bene dal male o a promettere premi o castighi, incarnano potenze che agitano l’essere umano nel suo profondo: il desiderio, la sessualità, la violenza, il riso e la gioia, il pianto e il dolore, la fatica del lavoro e la ricerca della libertà.

Nel pantheon Vodoun ci sono centinaia di orisha o loa (spiriti), a seconda della tradizione e della localizzazione geografica. Orisha che potevano essere richiamati dal suono di quei tamburi che , ben presto, i padroni protestanti si affrettarono a togliere ai loro schiavi.
Per impedire loro di evocare Erzulie o Ezili, divinità femminile della bellezza, della sensualità e delle grazie femminili. Oppure Baron Samedì o Baron Samedi (anche Baron Cimetière, Baron La Croix, Baron Krimminel), un potente Loa che, come spirito dei morti, ha molta influenza sul mondo vivente e che custodisce i cimiteri e controlla i crocevia tra la terra e i morti, che condivide con Papa Legba. È noto per essere corrotto, osceno e dissoluto. Inoltre egli è il Loa della resurrezione, in quanto è il solo barone che può accettare un individuo nel regno dei morti.

Ogun (noto anche come Ogoun, Ogou o in altre varianti) è, invece, semidio della guerra, del fuoco, del ferro, della caccia, dell’agricoltura. Tale divinità non è considerata malvagia, ma può rivelarsi severa e spietata, e questa sua natura, che riflette solo alcuni degli aspetti della guerra, non gli impedisce di assistere i suoi protetti a cui però, in passato, ha chiesto sacrifici umani. Mentre Papa Legba è il guardiano del crocevia. È il proprietario di tutti i percorsi, le strade e le porte per l’altro mondo. Un po’ imbroglione, possiede la strada per la tragedia, ma anche per il successo.

Tutti spiriti che necessitano di un “cavallo” umano che ne trasporti e trasmetta l’essenza. Non a caso si narrava che il bravo musicista blues, per esser tale, dovesse vendere la propria anima al demonio a mezzanotte, ad un incrocio. Come si diceva del già citato Robert Johnson uno dei più famosi esecutori di blues degli anni ’30.

Autentici demoni per l’immaginario cristiano, che arrivarono con i riti trasportati attraverso il Mar dei Caraibi sia in Louisiana che sulle coste del Texas che si affacciano sul Golfo del Messico.
Magari in quella cittadina di Port Arthur in cui era nata Janis Joplin, praticamente al confine con la Louisiana e sede, all’epoca, delle più grandi raffinerie di petrolio statunitensi ed oggi semi-abbandonata, come tante cittadine della Rust Belt. Città natale, in cui Janis, che era stata prima odiata, derisa, isolata e criticata per il suo anticonformismo nei comportamenti e nel modo di cantare, è diventata l’unica icona rivendicabile e rivendibile turisticamente dalla gente del luogo.

Anche James Douglas Morrison era nato non lontano dal Golfo del Messico, vicino a Cape Canaveral, figlio di un ufficiale di marina che sarebbe diventato ammiraglio durante la guerra in Vietnam. Non avrebbe più visto né lui né la madre dopo aver abbandonato la famiglia per cercare fortuna a Los Angeles. Fu poeta, studiò regia, amò gli scrittori europei più innovativi. Scrisse: «Tutti i bambini sono impazziti aspettando le piogge estive». Divenne un’icona del rock senza averlo mai veramente amato, preferendogli invece sempre il jazz e il blues.

Kurt Cobain, fu tra gli innovatori del punk trasformandolo in quel movimento musicale, originatosi a Seattle, che fu definito “grunge”. Insoddisfatto, disperato, insofferente dello stesso successo che lo circondava a che aveva ottenuto con i dischi e i concerti con il suo gruppo, finì come Heminqway, con un fucile in bocca. Ma la sua versione di In the Pines di Leadbelly dimostra che anche il punk e il grunge non sono stati altro che un’altra forma di blues.

Proprio quel Leadbelly, scoperto in carcere da Alan e John Lomax dove scontava una condanna per omicidio, che si rivelò essere uno dei maggiori conoscitori del repertorio dei songster e dei bluesmen della sua epoca e di quelle precedenti.

Il primo giorno nel campo di lavoro forzato della contea texana di Harrison, Huddie Ledbetter (meglio noto come Leadbelly) […] fu rinchiuso in una cella che misurava due per uno. Il letto era un mucchio di paglia marcia, circondato da feci puzzolenti e attorniato da mosche grosse quanto un’unghia. A metà mattina la temperatura sfiorava i 40°, eppure alla fine della giornata fu assai contento di tornare in quel tugurio.
Dal 1902 il numero di galeotti era di gran lunga superiore alla capienza dei campi di lavoro forzato del Texas: il sovraffollamento era un problema terribile. La soluzione era semplice e fruttuosa per lo stato: il carcere dava in affitto i detenuti per i vari progetti di lavori pubblici. Incatenati insieme in lunga fila, i forzati andavano a prosciugare paludi, a lavorare nelle cave e a costruire strade tra boschi ed acquitrini. Sotto sorveglianza armata, uomini, donne e persino bambini sgobbavano anche sedici ore di fila. Venivano incatenati insieme fino a trecento forzati, che dormivano di notte nei fossi. La catena era bloccata a intervalli regolari da grosse palle di ferro pesanti una decina di chili 9 […] In base alla legge, anche un reato banale bastava a spedire per mesi un uomo in quei campi di lavoro. Se non disponevi di mezzi di sostentamento o avevi anche solo giocato a carte sui un treno texano ti beccavi una sentenza di sei mesi di lavoro duro nella rovente piana del Brazos. Le chain gang erano quasi tutte formate da neri. […] nelle città c’era un costante memento della giustizia del Texas: le dita dei cadaveri dei detenuti linciati messe in mostra nelle vetrine dei negozi. […] Quando un uomo crollava per un colpo di calore nell’afoso Brazos, spesso veniva sepolto vivo mentre il lavoro continuava e si stendevano binari e strade[…] Appena smuovevi il terriccio venivano allo scoperto i teschi e gli oggetti duri contro cozzavano i badili erano spesso ossa umane10

Se il blues ci costringe, però, a un viaggio a ritroso nel tempo, chi meglio di Amy Winehouse potrebbe rappresentarne una delle ultime e im/pure interpreti? Come affermò chi l’aveva conosciuta direttamente, prima ancora del suo fulminante esordio: «A soli diciassette anni, Amy aveva la voce di un’anima antica, carica di emozione e lontanissima dallo spirito del tempo […] sembrava che la sua voce arrivasse direttamente dagli anni Cinquanta»11.

Dentro al suo primo disco «ci sono le tracce di tutta la musica che Amy aveva ascoltato crescendo. La sua voce si portava dietro il peso di secoli di icone jazz (e blues) […] Se Etta James fosse cresciuta ascoltando Thelonius Monk e avesse cantato le pagine del diario di un’adolescente di Londra, avrebbe potuto tirare fuori qualcosa di simile a Frank»12. Oppure il successivo Back To Black: eccessivo, sboccato, triste, autentico e romantico allo stesso tempo. Come ebbe a dire la stessa cantante: «Ogni situazione negativa è una canzone blues che aspetta di uscire»13. Quindi chi meglio di lei avrebbe potuto vivere sulla propria pelle, nella propria vita e riprodurre nelle proprie canzoni il rifiuto del recupero dalla tossicità e dall’alcolismo (Rehab) oppure la dipendenza sessuale e l’erotismo, per nulla mascherato, che sta alla base di ogni amore disperato e autodistruttivo (Back To Black) o ancora la ricerca esplicita di una notte di sesso (Fuck Me Pump)?

La voce di Billie Holiday, roca e alcolica, nel corpo di una ragazza martoriata da dipendenze di cui non era in grado di liberarsi (ma di cui i media erano affamati e alla costante ricerca) e disturbi alimentari gravi che l’accompagnarono fino ai suoi ultimi giorni. Come la cantante ebbe a dire: «Voglio essere ricordata come attrice e cantante, e per essere stata semplicemente me stessa».

Già, l’esser ricordati, oltre la morte. Un desiderio ricorrente tra i musicisti blues, di cui è testimone il brano See That My Grave Is Kept Clean, inciso da Blind Lemon Jefferson nel 1928 e poi ripreso da un’infinità di altri interpreti, dai Dream Syndacate a Bob Dylan o dagli Hot Tuna fino a Lou Reed. ”Guardate che la mia tomba sia tenuta pulita”, gesto antico, che si ripete ancora qui da noi nel giorno dei morti.

Ma, per far sì che ciò avvenga, occorre averla una tomba e da qui l’ossessione del fantasma protagonista del romanzo di Kunzru, Charlie Shaw. In fin dei conti i tanti musicisti neri non registrati su disco oppure dimenticati non sono altro che morti senza tomba, Così come capitò pure al selvaggio inventore del jazz, o jass, a New Orleans, a cavallo tra XIX e XX secolo: Buddy Bolden.

Quando ascolti un vecchio disco non puoi illuderti in nessun modo di essere presente alla performance. La musica attraversa il grigio gocciolare del ronzio statico, un suono simile alla pioggia. Non puoi dimenticare quanto tu sia lontano. In ogni momento senti il suon di quella distanza temporale. Ma qual è il legame tra l’ascoltatore e il musicista? Ha importanza che uno sia vivo e l’altro sia morto? E chi è vivo e chi è morto?
[…] Le cose viventi sono quelle che resistono all’entropia. Possiedono un limite di un certo tipo, una membrana o una pelle; un metabolismo in grado di reagire al mondo. E creare copie. Tramandare qualcosa. Era tutto ciò che Charlie Shaw desiderava, proiettarsi in avanti supplire all’urgenza vitale14.

“Sul tuo giradischi hai fatto risuonare la tratta atlantica, il più nero fra i suoni. Volevi la sofferenza che mai hai provato, l’ascendente che credevi ne sarebbe derivato”15 Così, se il fantasma vero protagonista del romanzo di Kunzru ha visto la sua morte arrivare per un destino atroce che ha privato il mondo della sua memoria, un altrettanto crudele e maledetto destino ha anche colpito tanti giovani interpreti bianchi morti, come lui, a 27 anni.

Forse perché si son fatti carico di un’impresa troppo grande e, alla fine, impossibile: quella di fondere culture e stili di vita che, in un mondo ancora troppo vecchio e troppo bianco, avrebbero finito col travolgerli, proprio attraverso il travaglio creato dall’appartenere a due mondi, senza in realtà esser più parte di quello di provenienza, ma anche senza la possibilità di vivere del tutto in quello effimero che si agitava ancora soltanto nei loro pensieri e nel loro disordinato stile di vita.

Giovani bruciati e cavalcati da forze e dei più grandi di loro e dagli ambienti da cui provenivano. Stritolati tra i comandamenti del severo Dio dei Puritani e le esigenze del corpo degli dei africani, tra l’essere rappresentanti dei moti istintivi di ribellione delle giovani generazioni e le esigenze del mercato, tra il proprio IO profondo e l’omologazione del mondo perbenista adulto. Alfieri, talvolta inconsapevoli, della ricerca di un cambiamento culturale e sociale che attende ancora di venire.

Se amate il blues e se avete amato il pugno di giovani angeli caduti di cui si è qui parlato, in questa ennesima lunga estate calda prendetevi la briga di leggere questo libro e poi, magari, di rileggerlo ancora. Non ve ne pentirete.

N.B.
Il testo costituisce una parziale trascrizione e un adattamento della conferenza tenuta dall’autore, il 9 aprile 2022, in occasione della rassegna “Pagine sonore, note randagie”, organizzata in collaborazione con Franco Ghigini, l’Associazione culturale Liber.Arti, l’Assessorato alla Cultura del Comune e la Biblioteca comunale di Paderno (BS).


  1. Philip Tagg, Lettera aperta sulla “musica nera”, “afroamericana” ed “europea”, «Musica/Realtà» n. 29, Agosto 1989, pp. 53-79  

  2. Janheinz Jahn, Muntu. La civiltà africana moderna, Einaudi, Torino 1961  

  3. Henry Edward Krehbiel (10 marzo 1854 – 20 marzo 1923) è stato un critico musicale e musicologo statunitense che è stato redattore musicale per il «New York Tribune» per più di quarant’anni. Fece parte della prima generazione di critici americani a fondare una scuola di critica americana. Krehbiel credeva che il ruolo della critica fosse in gran parte quello di sostenere la musica che elevava lo spirito umano e l’intelletto, e che la critica dovesse servire non solo come mezzo per fare il gusto, ma anche come modalità per educare il pubblico. Il suo libro How to Listen to Music (in stampa dal 1896 al 1924) è stato ampiamente utilizzato come guida didattica dal pubblico musicale negli Stati Uniti durante gli ultimi anni del 19 ° secolo e i primi decenni del 20 ° secolo.  

  4. Stevie Van Zandt, Memoir. La mia odissea tra rock e passioni non corrisposte, Il Castello, Cornaredo (MI) 2021, p. 57  

  5. Stevie Van Zandt, op. cit., p.263  

  6. Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa. Cinque secoli di storia africana attraverso le trasformazioni della schiavitù, Bompiani, Milano 2019  

  7. Hari Kunzru, Lacrime bianche, il Saggiatore, Milano 2018, p. 63  

  8. Hari Kunzru, op. cit., p.102  

  9. Ball and Chain ricordate? Scritta da Willie Mae Big Mama Thornton e cantata con incredibile intensità da Janis Joplin nel suo disco più famoso con i Big Brother: Cheap Thrills – N. d. R.  

  10. Edmond C. Addeo, Richard M. Garvin, Leadbelly. Il grande romanzo di un re del blues, Shake Edizioni, Milano. pp. 107-109  

  11. Kate Solomon, Amy Winehouse. Una vita per la musica, 24 Ore Cultura, Milano 2021, p. 28  

  12. K. Solomon, op. cit., pp. 31-32  

  13. Ivi, p.105  

  14. Kunzru, op. cit., p.329  

  15. ivi, pag. 330  

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Camerino 47. Attore morto che parla (2) https://www.carmillaonline.com/2021/03/10/camerino-47-attore-morto-che-parla-2/ Tue, 09 Mar 2021 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65267 di Alfredo Angelici

Qui la prima puntata

Giorno indefinito. Camerino. Interno notte. 

Mi impegno a prendere sonno. Ma sono oppresso. Ansimo, mi volto, grugnisco e mi rivolto tra lenzuola esauste in un letto troppo piccolo. Strano vero? Vivo in 7 metri quadri e mi ci sento stretto. Eppure dovrei essere contento, secondo le direttive comunitarie un maiale ne ha solo 6 di metri quadrati a disposizione. 

– “Io sono più fortunato” – mi scappa sarcastico a voce alta.

– “Ho un metro in più per grufolare”. Erompo in una risata [...]]]> di Alfredo Angelici

Qui la prima puntata

Giorno indefinito. Camerino. Interno notte. 

Mi impegno a prendere sonno. Ma sono oppresso. Ansimo, mi volto, grugnisco e mi rivolto tra lenzuola esauste in un letto troppo piccolo. Strano vero? Vivo in 7 metri quadri e mi ci sento stretto. Eppure dovrei essere contento, secondo le direttive comunitarie un maiale ne ha solo 6 di metri quadrati a disposizione. 

– “Io sono più fortunato” – mi scappa sarcastico a voce alta.

– “Ho un metro in più per grufolare”. Erompo in una risata ebete quanto solitaria la cui eco subito muore contro la troppo vicina parete. Subito davanti mi appare giudicante la mia coscienza travestita da maiale di Trilussa, si avvicina calma, mi guarda e mi da uno schiaffone, poi mi dice: 

“bisogna esse filosofo bisogna 

non fa lo scemo 

che ci ritroveremo  

in qualche mortadella de Bologna”. 

Non c’è tempo da perdere. Approfitto dello stordimento che mi deriva dallo sganassone ricevuto dal maiale coscenzioso, lo rinforzo con della “melatonina retard”, dose consigliata 1 pastiglia all’occorrenza, ne butto giù tre. Occorreva. 

Spengo la luce e mi volto sul mio fianco preferito. Ora dormo. Ora dormo. Ora dormo. Ora mi addormento. Ecco, ci sono quasi. Sto per…. un corto circuito mi elettrosciocca il pensiero, le sinapsi diventano indipendenti, la riflessione riflette da sola. Espello l’incubo: da qui non ne usciremo mai più! Uff…

Pausa. 

Silenzio. 

Respiro profondamente forte dei miei anni di pratica Kundalini. Chiamo a me il prana. 

-ad guray nameh, jugad guray namo, mi inchino alla saggezza originaria, mi inchino alla saggezza invisibile –  io mi inchino dove vuoi tu ma tu però fammi dormire.

Ecco, funziona….ora dormo. Sto per abbandonarmi tra le braccia di Orf…- no! Ancora un corto circuito, cavolo, questa volta c’è anche del fumo che mi esce dalle orecchie, eccolo di nuovo, il pensiero nero: 

si sono dimenticati di noi. Uff…

Eddai però!

I rumori notturni che sento in questa reclusione volontaria non appartengono a questo mondo. E’ un’orchestra stonata di condizionatori, bocchettoni a norma, caldaie non a norma, scarichi gocciolanti, ventole dimenticate accese, lampadine di là da esplodere per sovravoltaggio, legni che strillano dilaniati dai tarli e tarli che urlano dilaniati dall’antitarlo. 

Il teatro produce un fracasso tale che passeggiare a Guanzhou nel Guandong, nell’ora di punta, con l’assolo di batteria di Whiplash sparato a cannone nelle orecchie, a confronto è un’oasi di pace.

Sono circa le 5 si “sente già in lontananza l’allodola, messaggera del mattino”. Non faccio a tempo a soffocare la retorica Giulietta con il cuscino in faccia, che da fuori la porta sento le urla indistinte di qualcuno che non conosco. Questo qualcuno si precipita rumorosamente giù per scale. I mie compagni stanno dormendo, ne sono sicuro. Non possono essere loro. 

Shhht, zitto! Ascolta. 

Pausa.

Ancora urla e slavine di passi pesanti su e giù per le scale. 

Il mio cuore di leone mi suggerisce di chiudere a chiave la porta ma l’avevo già fatto. Apro e richiudo, per sicurezza. Non c’è il minimo dubbio, è un fantasma. Guardo sotto al letto per sincerarmi che non ci sia il coccodrillo che voleva mangiarmi quando ero piccolo, c’è, è lì e mi guarda. No Alfredo torna in te, i coccodrilli non esistono deve essere per forza un fantasma, il famoso fantasma del teatro Bellini. 

Calma.

Pausa.

Silenzio.

Infilo prudente l’occhio nel buco della serratura, sbircio la sagoma di un bambino, oppure un uomo molto basso di statura, insomma una persona piccola che ha una specie di saio con delle fibbie argentate sulle scarpe:

“O’Munaciello!”

E’ vero! Ci aveva avvertito il direttore artistico, Daniele, sornione.

-“L’avete già conosciuto” – ci disse quel giorno tra le righe e tra le quinte.

-“Conosciuto chi?”

-“O’Munaciello”

-“O’ che?” 

-“Il fantasma del teatro, vive qui. Alla fine di una replica, durante lo smontaggio, anni ed anni fa, un tecnico macchinista cadde dalla graticcia e morì sul palco, da quel giorno il suo spirito vive qui e  molte persone lo hanno incontrato”.

-“ arghszhjui!!*?#^ghthdff” –  rispondo deciso prima di strozzarmi.

-“si, ma se ancora non si è fatto vivo vuol dire che gli state simpatici”.

Eh no eh ! Così non va, ma che me lo dici adesso? A saperlo non avrei mai accettato di dormire qui, aspetta no…aspetta, intendevo dire che sapendolo avrei chiesto molti più soldi….

Mentre dico queste parole comincio a sentirmi come offuscato, drogato, la vista deforma il veduto, il tatto il toccato, l’udito l’udito e mi ritrovo in un luogo che non conosco. 

Un calendario sul muro con l’immagine del partenone di Agrigento segna 23 dicembre 1967. Sono in una villa, le pareti di un intonaco rossastro scolorito, colonne a sostegno delle cupole. Passo attraverso una  porta vecchia che un tempo deve essere stata verde. Come ci sono finito qui?

L’impertinente “Munaciello” ora è davanti a me, un nano grasso vestito da bambino, di pelo rosso e con un faccione di terracotta che ride largo, d’un riso scemo nella bocca ma negli occhi malizioso.

Corre avanti ed indietro da muro a muro, sembra rimasto intrappolato, fa sentire la sua presenza.

Io prendo coraggio, avanzo a passi incerti.

Coscienza –  “hai paura? Non Tremare”.

Pulcinella  – “Gnornò, je nun tremmo, me spasso a facere ‘no minuetto cu’ la paura”.

La mia voce tenta di uscire ferma ed avvolgente, invece suona ingolata come quando mi metto i calzini in bocca.

-Tu chi sei, cosa fai qui?- dico

Lui si fa rosso rosso in faccia come se avesse uno spillo in gola. Parla con estrema accortezza, con cautela.

 – “Facciamo i fantasmi. Tutti quelli che ci passano per la mente… son tutti di nostra fantasia. Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà maravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza”.

Avverto la barba crescermi all’improvviso, velocemente divento più alto, mi appare Kafka e mi fa l’occhiolino, io proseguo la metamorfosi, sono ora corpulento, un omone. Un omone barbuto dalla bella faccia aperta. Anche gli occhi si spalancano e da piccoli ed impauriti si fanno occhioni ridenti, splendenti e sereni. Io, orgogliosamente bruno dalla nascita, sorrido di denti sani nel pizzicarmi il biondo caldo dei baffi della barba non curata. Intanto di spalle Pirandello prende appunti.

Faccio un giro su me stesso col mio nero giacchettone a larghe falde e larghi calzoni chiari e, un po’ aperta sul petto, una camicia azzurrina. Mi scappello un vecchio fez da turco. Saluto educatamente:

-voi inventate le persone che non esistono…incredibile?

Il nano si siede accanto a me, ma io sono all’impiedi. Non può funzionare. Pirandello corregge all’istante e compare un divano, mi siedo ed ascolto:

– “Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi. Non è possibile che non ci creda anche lei, come noi. Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo al contrario: dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere. I fantasmi… non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi”.

Vedi come si fa!!  E io che invece ho sempre inventato le verità, infatti alla gente è parso sempre che dicessi bugie…

Il nano si alza in piedi ma è alto uguale a quando era seduto, allora, meschino ed offeso lentamente si dissolve dicendo:

– “Ebbene, signori, vi dico come si diceva un tempo ai pellegrini: sciogliete i calzari e deponete il bordone. Siete arrivati alla vostra mèta. Da anni aspettavo qua gente come voi per far vivere altri fantasmi che ho in mente….”

Respiro aria favolosa. 

Intanto il temporale continua. 

Le prove del nostro spettacolo proseguono tra improvvisazioni ed esplorazioni ad ampio raggio, molto ampio, troppo ampio, immenso. Tanto abbiamo tanto tempo. 

Non sappiamo né quando né se usciremo. Ogni tv,  blog, rivista, tg ed affini, nazionali ed internazionali ha saputo ed ha parlato di noi. Anche il tessuto sociale napoletano in questo si è rivelato molto premuroso ed accogliente nei nostri confronti. Le pasticcerie ci offrono dolci di solidarietà, le pizzerie ci regalano pizze di sostegno, i caseifici ci tirano mozzarelle di fratellanza…ma le amministrazioni no. Non ci considerano (e sono stato un signore) di striscio. Non un assessore, un sindaco, un consigliere, un sottosegretario, un portaborse,  un usciere, che si sia affacciato a dirci – “ehi, sappiamo che oramai sono 70 giorni che siete chiusi li dentro, sto andando a fare la spesa, serve qualcosa?” – niente. 

Il nostro spettacolo parla del lavoro che ci vuole per fare uno spettacolo che nessuno ci farà mai fare e che a nessuno interessa che noi facciamo.

Quindi staremo qui, abbiamo tempo, possiamo permetterci il privilegio della ricerca. 

Io per esempio oggi ho fatto una performance, ho fatto della ricerca: 

mi sono vestito da precario e mi sono messo una fetta di brie legata ai fianchi che toccava terra. Camminavo, la strusciavo al suolo, mentre facevo il commento musicale imitando il controfagotto con la bocca. L’ho intitolata il formaggio. Poi ho proseguito per tutto il giorno, anche a pranzo. I colleghi mi chiedevano.

“Scusa che stai facendo?”

“Sto facendo una performance”. 

“Mi sembrava che stessi lavando i piatti”.

“No, ti sembra, ma questa è una performance”. 

“Ed ora? Stai andando a buttare l’immondizia?”.

“No, no,  sempre una performance”.

“Ah scusa”.

Forse per questo la politica non passa a trovarci, e taglia i fondi e le opportunità, non capisce il ruolo innovativo del teatro. Non capisco, eppure la mia improvvisazione è piaciuta molto, soprattutto per l’originalità dell’immagine.

Tutte le storie sono già state scritte, raccontate, tutto è già accaduto, esistono solo sfumature ed interpretazioni. Disney ad esempio per il Re Leone ha preso Amleto e gli ha fatto completare il cerchio della vita. Si limita a far scoprire a Simba il senso della vita che Amleto non ha mai voluto capire, il testone, intrappolato ed indeciso nel suo essere o non essere.

“Credete di vivere, vi arrabbatate, vi abbaruffate, ma ripetete solo le storie dei morti” – Eddai Pirandè, essù, ma non eri andato via? Abbiamo capito, sei stato chiaro. Scusatemelo. 

Luigi è fatto così…compare spesso da queste parti, lancia dei macigni di riflessione e se ne va. Ma non è che a uno gli va sempre di pensare, di scegliere, di vivere. 

La reclusione in Zona Rossa Bellini è diventata comoda, regolare, ripetitiva, confortante, consolatoria. Il libero arbitrio è solo relegato alla funzione creativa. Ma io ho deciso, non posso essere libero perchè sono  “debole, vizioso, inetto e ribelle.” Giornata tipo:

Ore 8 colazione

Ore 9 training

Ore 11 prove 

Ore 14 pranzo

Ore 15 montaggio spettacolo

Ore 19 fine prove, doccia

Ore 20 cena

Ore 22 fine giornata, netflix e letture

Ripetendo questo programma per 80/100 giorni di seguito (a proposito, siamo nel guinness dei primati come giorni di permanenza senza mai uscire da un teatro), utilizzando sempre gli stessi spazi, e scambiando sempre gli stessi sorrisi con le stesse quattro paia di occhi, si rischia di non poter più fare a meno della reclusione e si diventa “docili, sottomessi e pavidamente ubbidienti”.

Cambio scena

Ad un mio cenno la squadra tecnica: macchinista, aiuto macchinista, datore luci, ingegnere del suono e direttore di scena, capitanati dallo scenografo, ci regalano un cambio scena da pit stop. Siamo ora in Spagna, a Siviglia, al tempo piú pauroso dell’inquisizione quando ogni giorno nel paese ardevano i roghi per la gloria di Dio e con grandiosi autodafé. 

Anche la costumista ha fatto un gran lavoro, e, in tandem con la truccatrice è riuscita a trasformarmi in un vecchio quasi novantenne, “alto e diritto, dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come una scintilla di fuoco, splende ancora una luce”. 

Entra il mio collega, il prigioniero, viene trascinato davanti al pubblico ha i capelli rasati, vestito con sacco di juta , calza un berretto da somaro, è Dio.  

Io (con tono di sfida nei confronti di Dio) –  “questi uomini sono più che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi, il merito va a me di avere infine soppresso la libertà e di averlo fatto per rendere felici gli uomini”.

Guardo il mio collega negli occhi. Indico il pubblico che guarda col fiato sospeso. 

Io- “L’uomo fu creato ribelle; possono forse dei ribelli essere felici?”

Dio mi guarda con occhi profondi. Non risponde. Dio è un compagno di scena incredibile. Parla con gli occhi, c’è complicità tra me e lui, ci capiamo con uno sguardo. Lo conosco da molto tempo. L’ho sostituito in scena una volta, mi deve un favore. Dio è un attore intenso ed ha una invidiabile presenza scenica. Mi lancia un’occhiata mite di perdono, io di rimando mi infiammo di rabbia.

Io- “Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi,  sono venuti da me implorando: Riduceteci piuttosto in schiavitù ma sfamateci!”

La battuta seguente è la più importante del testo, la dimentico sempre, come se il mio cervello la rifiutasse. Com’è che faceva? “Pane terreno….inconciliab…..ripartire?” Ah si! Ce l’ho e la dico dritta, tutta d’un fiato:

Io- “Lo capisci che libertà e pane terreno e per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro?”.

Pausa.

Mi aspetto l’applauso.

Silenzio.

“ Stop!!”

Dalla platea  Lorenzo il drammaturgo e Licia la regista urlano, mi dicono di essere meno emotivo, di agire come se tutto fosse già accaduto….si, a volte gli attori la prendono troppo sul serio. 

Che succede? Chi è quell’uomo?  Feodor Dostoyesky si alza dalla poltrona e scuote la testa. Se ne va, abbandona il teatro, disconosce il testo e toglie la firma….cosa è successo? Perché se ne è andato? Leggenda narra che andandosene qualcuno lo abbia sentito dire -“cane!-, quell’attore in scena abbaia!” 

Annuisco e mi sorprendo ad  accennare un piccolo inchino. Si, mi è rimasto un pò del suo Inquisitore appiccicato addosso, non c’è dubbio. E tra me e me sussurro “Non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi”.

Il mio compagno di scena, Dio, a un tratto mi si avvicina in silenzio e mi bacia piano sulle esangui labbra novantenni mentre mi sto già struccando.

La prima e la quinta foto sono di Michele Amoruso, la seconda di Guido Mencari.

(Continua)

 

 

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La guerra valutaria dei capitali fantasma https://www.carmillaonline.com/2020/10/24/la-guerra-valutaria-dei-capitali-fantasma/ Fri, 23 Oct 2020 22:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63202 di Luca Cangianti

Francesco Schettino, Fabio Clementi, Crisi, disuguaglianze e povertà. Le iniquità del capitalismo, da Lehman Brothers alla Covid-19, La Città del Sole, 2020, pp. 244, € 22,00.

Non è affatto strano che l’opera marxiana sia appestata da fenomeni paranormali e da una vasta gamma di creature fantastiche. Non si tratta nemmeno di un vezzo retorico del filosofo tedesco, comunque appassionato di letteratura soprannaturale. La ragione del proliferare di fantasmi, vampiri e lupi mannari è dovuta all’intrinseco oggetto analizzato, il capitale, e al suo metabolismo paradossale, sganciato dal valore d’uso [...]]]> di Luca Cangianti

Francesco Schettino, Fabio Clementi, Crisi, disuguaglianze e povertà. Le iniquità del capitalismo, da Lehman Brothers alla Covid-19, La Città del Sole, 2020, pp. 244, € 22,00.

Non è affatto strano che l’opera marxiana sia appestata da fenomeni paranormali e da una vasta gamma di creature fantastiche. Non si tratta nemmeno di un vezzo retorico del filosofo tedesco, comunque appassionato di letteratura soprannaturale. La ragione del proliferare di fantasmi, vampiri e lupi mannari è dovuta all’intrinseco oggetto analizzato, il capitale, e al suo metabolismo paradossale, sganciato dal valore d’uso della ricchezza prodotta. Il nuovo libro di Francesco Schettino e Fabio Clementi, Crisi, disuguaglianze e povertà, esemplifica utilmente questa circostanza analizzando la cronaca economica degli ultimi anni.

Il volume decostruisce la vulgata del capitalismo finanziario nemico parassitario dell’altrimenti virtuoso capitalismo produttivo. Secondo i due economisti l’irrisolta crisi di sovrapproduzione, manifestatasi all’inizio degli anni settanta con la fine della convertibilità del dollaro in oro, ha dato vita a una forma di accumulazione stagnante che arranca al passo di uno o due punti percentuali annui, quando va bene. In questo contesto il capitale non ha più interesse a produrre merci, poiché il mercato non è in grado di assorbirle. La sovrapproduzione si trasforma in sottoconsumo e i profitti riescono a rimaner positivi al prezzo di una crescita abnorme del debito e del capitale monetario da investire nel gioco di borsa. Esplodono così guerre valutarie tra capitali senza corpo, ectoplasmatici, che scommettono su diverse aree monetarie: “l’attacco al debito pubblico greco di inizio 2010”, sostengono ad esempio Schettino e Clementi, “fu predisposto dal grande capitale fittizio statunitense… che individuò in esso un vulnus attraverso cui colpire il vero obiettivo, ossia l’antagonista del dollaro: l’euro.”

Dal punto di vista della creazione di valore, si tratta di un gioco a somma zero che continua solo grazie all’immissione progressiva di liquidità sparata con le politiche di quantitative easing delle banche centrali. Tali manovre tuttavia contribuiscono ad alimentare bolle speculative che concentrano ulteriormente il capitale e gonfiano gli stati di debito aggiuntivo. Le guerre dei capitali fantasma, che agitano le borse mondiali e generano catastrofi nell’economia reale, sono insomma una conseguenza necessaria della sovrapproduzione nella sfera materiale e non la causa della crisi. Da qui si passa al secondo focus del libro, quello sulle disuguaglianze e la povertà, perché in mancanza di una reale crescita economica gli stati non ricorrono più a politiche di compromesso socialdemocratico e finiscono senza eccezioni per aggredire condizioni di vita consolidate di milioni di persone al fine di arginare il tendenziale declino dell’accumulazione capitalistica. Questa catastrofe umana è spesso formalizzata con indici e parametri che ne oscurano i tratti più salienti, dimostrando ancora una volta la necessità di una decostruzione anche tecnica della scienza economica mainstream: “l’osservazione esclusiva di variabili monetarie (reddito o consumo) ci restituisce solo una parte del problema, probabilmente non quella sostanziale. Quando si parla di distribuzione, lo si fa facendo riferimento (quasi) unico a mezzi di consumo (monetari e/o materiali).”

Il panorama che disegnano Schettino e Clementi è quello dell’impoverimento progressivo di fasce di popolazione e di una costante polarizzazione sociale. Che ciò si riveli insostenibile per il sistema o che invece consenta un ulteriore giro di valzer di cadaveri cadenti e affamati, non attiene tuttavia solo alle dinamiche economiche, ma anche ai processi di soggettivizzazione, alla composizione sociale, e persino immaginaria, che investirà l’immenso popolo degli oppressi.

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Collier fatali e “nuova” teratologia (Nightmare Abbey 11 / IV) https://www.carmillaonline.com/2018/09/14/collier-fatali-e-nuova-teratologia-nightmare-abbey-11-iv/ Fri, 14 Sep 2018 21:52:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48759 di Franco Pezzini

La Danzatrice e le reliquie  (puntata precedente qui)

Si è parlato della testa ghigliottinata del re, gorgoneion del terrore nei giorni della Rivoluzione, e del peso simbolico che finisce ad avere sotto la superficie del romanzo di Dumas La donna dal collier di velluto. Ma nello stesso periodo quell’immagine viene letta, dai monarchici, in ottica completamente diversa, come richiamo alla testa di san Giovanni, con tutto ciò che ne deriva in termini ideologici (il re come lui martire eccetera): e ciò finisce col ricondurre a un secondo “mostro”, pure [...]]]> di Franco Pezzini

La Danzatrice e le reliquie  (puntata precedente qui)

Si è parlato della testa ghigliottinata del re, gorgoneion del terrore nei giorni della Rivoluzione, e del peso simbolico che finisce ad avere sotto la superficie del romanzo di Dumas La donna dal collier di velluto. Ma nello stesso periodo quell’immagine viene letta, dai monarchici, in ottica completamente diversa, come richiamo alla testa di san Giovanni, con tutto ciò che ne deriva in termini ideologici (il re come lui martire eccetera): e ciò finisce col ricondurre a un secondo “mostro”, pure evocato da Dumas come in filigrana, a proposito di una danza in cui qualcuno perde la testa. Si parla di Salomè: danzatrice come Arsène, e capace come lei di estorcere a deboli uomini il pegno di un fremito sessuale oppiaceo e travolgente (sul tema, cfr. qui).

Certo, Medusa è una figura mitologica mentre Salomè ha una carta di identità storica – nata attorno al 14 d.C., morta in tarda età (per l’epoca) tra il 62 e il 71; eppure la spregiudicata danzatrice che si prepara al grande Sabba dell’età simbolista può già vantare, a questo punto, uno statuto altrettanto mitico.

In effetti, della sua biografia si sa poco. Nell’ambito dell’episodio losco che le darà fama, la morte del Battista di cui richiederebbe a Erode la testa su input della madre Erodiade, i Vangeli le dedicano poche parole (Mc 6, 17-29 e Mt 14, 3-12) limitandosi a definirla «ἡ θυγάτηρ τῆς Ἡρῳδιάδος», “la figlia di Erodiade”, e non citandone il nome; l’espressione è però letta da alcune antiche versioni di Marco come «la figlia di Erode, Erodiade», per cui si chiamerebbe come la madre. A riportarne il nome come Salomè è un’altra fonte antica, Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche XVIII, 5, 4) che la vuole figlia di Erode II (Erode Filippo I) e sposa del tetrarca Filippo (Erode Filippo II), poi di Aristobulo di Calcide re dell’Armenia Minore. Dove in effetti il volto di lei spicca su qualche moneta: in fondo l’ennesima testa di questa storia. Ma qui in pratica, con notizie sulla sua prole (tre figli dal secondo marito) e un po’ di dubbi sui quali non ci soffermiamo in questa sede, si chiude il versante storico della sua vicenda.

Lasciando però il posto alle voce delle leggende, alcune piuttosto risalenti: quella per esempio della Lettera di Erode a Pilato, un apocrifo neotestamentario appartenente al cosiddetto Ciclo di Pilato (V secolo?). Lì il re – identificabile nel tetrarca Erode Antipa – riferisce che la figlia Erodiade (quindi probabilmente Salomè) sarebbe rimasta decapitata dal ghiaccio di una pozza d’acqua dov’era caduta, come in un cattivo esempio alla Pierino Porcospino: la testa

 

è rimasta sulla superficie del ghiaccio [come sul piatto della scena evangelica]. Ed ecco, sua madre tiene la sua testa in grembo posata sulle proprie ginocchia, e tutta la mia casa è in grande dolore […] Ti mando gli orecchini di mia figlia e il mio anello, che potrebbero essere per te un memoriale della mia morte. [Lettera, cit., 1 e 12]

 

Dove ciò sia avvenuto è discusso, ma le tradizioni sull’esilio di Antipa e della partner Erodiade e la presenza della figlia in sinistre leggende pirenaiche farebbero pensare a Lugdunum Convenarum, odierna Saint-Bertrand-de-Comminges nell’Haute-Garonne a poca distanza dalla Spagna. Implausibilità storiche (e medico-legali) a parte, è però chiaro che la Francia è affascinata da questo mito. E se dei vilain non è uso conservare reliquie (chissà che ne è stato dei fantomatici orecchini spediti a Pilato), queste saranno offerte dalla letteratura.

Ci si arriva poco per volta. Heine, nel poemetto Atta Troll, canto XIX (1841), parlando della «bella principessa di Giudea» trascinata nella dannazione della caccia selvaggia, si riferisce a un’Erodiade (forse per il nesso Diana / Herodiana delle schiere streghesche altomedioevali) che è stata intesa alternativamente come la madre e la figlia:

 

Ella porta sempre con sé, su quel piatto d’argento, la testa di Giovanni, e bacia, bacia quella testa con trasporto; poiché vi fu un tempo che ella amò Giovanni; la Bibbia non lo dice, ma ben viva è nel popolo la leggenda dell’amore sanguinario di Erodiade; altrimenti come spiegare quell’ardente brama? Potrebbe mai una donna desiderare la testa di un uomo che non ama? Ella forse fu cattivella con l’amato facendolo decollare, ma quando sul capo d’argento ne vide il capo mozzo, pianse disperatamente e morì impazzita per amore [cit. in Vito Levi, Richard Strauss, Studio Tesi, Pordenone 1984, p. 64.]

 

Ma, sull’onda della traduzione del poemetto (1847) che entusiasma Nerval, Gautier, Baudelaire, Moreau e tanti altri, arrivano le versioni francesi del tema. Così ecco Baudelaire ne I fiori del male – lirica 27, sezione Spleen et Idéal – richiamare Salomè assieme alla madre (1857); ecco Mallarmé iniziare Les Noces d’Hérodiade (1864) con cui si misurerà per trentacinque anni, senza completare l’opera; ecco Flaubert nell’Hérodias (1877) ripescare da Giuseppe Flavio e rendere celebre il nome della figlia come Salomè – e ormai tutti la chiameranno così –, in controcanto all’amorosa Sulamita del Cantico dei cantici; ecco Laforgue, Banville, Huysmans e tanti altri evocarla con affascinata attrazione. Dumas, chiudendo La donna dal collier di velluto nel 1849, può ben ricordare la versione francese del poemetto di Heine edita due anni prima: e se non può ancora immaginare gli sviluppi poetici da Baudelaire in avanti né, tanto meno, l’ossessione-Salomè tra la fine dell’Otto e i primi decenni del Novecento, sembra tra i primissimi letterati francesi di questa filiera. Dove, dicendo Dumas, in tema di storie di fantasmi si intende anche il suo consulente, complice e a tratti coautore Paul Lacroix, detto Bibliophile Jacob per l’erudizione appassionata e la leggendaria bibliofilia (1806-1884), in grado di scovare le leggende più rare e ovviamente al corrente del corpus sulla figlia di Erodiade, in una Francia dalle robuste devozioni alla memoria di san Giovanni. Dove il riferimento è a una Salomè non storica ma ormai fantasima come quella di Heine: una sorta di Sposa cadavere dall’impossibile e torbido amore, mai superato; una danzatrice notturna la cui schiera ideale è quella della caccia selvaggia; e insieme, sottilmente, un mostro.

D’altra parte a consacrare – una sacertà nera, è ovvio – la figura della danzatrice assassina è anche tutta una lunga storia pittorica. Come Giuditta (anche se con diversi sottotesti simbolici), anche Salomè è una cefalofora, portatrice cioè di una testa mozzata; e a volte l’iconografia è la medesima anche per Erodiade madre, donde talora dubbi nell’interpretazione del soggetto. Benché la stagione più fitta di icone di Salomè sia successiva, al tempo di Dumas le immagini non mancano, dalle incisioni ai dipinti: e si può ad esempio ricordare il quadro Hérodiade di Paul Delaroche, oggi conservato al Wallraf–Richartz Museum di Colonia (1843). Vi appaiono madre e figlia con la testa di Giovanni nel cesto. Una in primo piano, a fissare lo spettatore con sguardo freddo e torbido; l’altra alle spalle perplessa e come sovrappensiero, defilata e ormai perduta nella scelta di quella sera terribile a Macheronte.

Come però nel dramma di Medusa, dell’eroe e dello specchio, la figura di Salomè va vista anche quale punto focale di una messa in scena più ampia. In altra sede già si è affrontato il tema delle strutture-tipo del protohorror: storie orride classiche, bibliche o devote che assai prima della nascita di un moderno genere horror offrivano emozioni simili (spesso paludate di pretesti moraleggianti) ad artisti e spettatori. Si trattava di teatri mitici consacrati da grandi numeri di narrazioni e raffigurazioni, veri e propri pacchetti sicuri per gli autori che vi ricorrevano: pensiamo alle tentazioni di sant’Antonio, con il loro esondare di demoni, oppure alla vicenda esemplare e alla fine misteriosa di Don Giovanni – o ancora, appunto, alla danza di Salomè. “Teatri” dove in scena non è solo quel particolare dramma – con connotati macabri in tal modo socialmente accettati a titillare tutto il titillabile, una vera e propria exploitation da salotto se non più da sacrestia – ma più in generale pulsioni e demoni di un’intera società. Se insomma Salomè, come Carmilla e le altre vergini funeste del romanticismo nero, è indubbiamente un mostro, si tratta dell’ennesimo mostro-fantasma che alligna in fantasie e rifrazioni di un io profondo individuale e collettivo. E infatti Dumas e il suo dotto complice Lacroix, che attingono a loro volta alla struttura-tipo, ne tornano a proporre la dialettica, sia pure in modo liberissimamente reinterpretato.

Erede dell’Olimpia hoffmanniana, delle danzatrici notturne e delle varie Spose Cadaveri, Arsène lascia emergere il profilo insieme spettrale e teratologico dell’Erodiade/Salomè confusamente traghettata dai Vangeli ad Heine.  Nella prima descrizione offertane, Dumas spiega che «si indovinava nell’energia della danza e nella sicurezza del corpo la certezza di una completa bellezza e quell’ardente natura che, come quella di Messalina, può essere qualche volta stancata, ma appagata mai» (La donna, cit., p. 112): e, tanto più con quel tipo di similitudine, è evidente che le arrapatissime & arrapantissime Salomè di Moreau e di Wilde sono appena dietro l’angolo. Come nel caso di Salomè, la danza di Arsène ha qualcosa di fatale già a teatro, dove strega gli spettatori. E tanto più sconvolgente sarà il valzer di terrore e desiderio in cui coinvolge Hoffmann/Nathanael – traendo vampiricamente elasticità e forza dal suo desiderio, e da quell’oro da cui ella sembra restare dipendente anche dopo la morte.

Ma se lo spazio di Salomé è occupato da Arsène, Hoffmann occupa come ovvio quello di Giovanni: un anti-Battista, veggente fragile e sensualmente coinvolto, nella Parigi delle carmagnole sfrenate a liberare pulsioni. Del resto al terzo capitolo de La donna, quando è ancora in Germania, lo vediamo incontrare il giovane Zacharias Werner (il futuro commediografo) che la madre un po’ squilibrata ritiene destinato a diventare il nuovo Cristo: una sorta di richiamo cifrato, attraverso la familiarità tra le madri e il rapporto di quasi parentela tra i ragazzi, a quello tra Gesù e il Battista. Per inciso, Zaccaria è il nome del padre del Battista; ma le condizioni psichiche delle due madri («sofferenti entrambe per disturbi nervosi che si conclusero con la follia», ivi, p. 45) e la stessa inversione dell’ordine legato al gioco di corrispondenze evangeliche (dove più vecchio è Giovanni, più giovane è Gesù, mentre qui il maggiore tra i due giovani è il primo, Zacharias, presunto “nuovo Cristo” e minore è il secondo, Hoffmann/Giovanni) già suggeriscono una provocatoria sovversione dei richiami. Per la conferma di una certa insistita disinvoltura di utilizzo, si veda del resto l’inizio del romanzo dove Dumas si rivolge idealmente a Marie Nodier, figlia del vecchio amico, con le parole: «Vi saluto Marie, piena di grazia, il mio spirito è con voi» (ivi, p. 5).

Ad Arsène/Salomè si affianca da un lato l’amante Danton/Erode, evocato di sfuggita in un impianto tutto sovvertito. Mentre lo spazio della partner “in carica” Erodiade (madre) finisce addirittura occupato dalla pia Antonia – simbolicamente apparentata ad Arsène attraverso (si è visto) le arti musicali. Antonia che però a sua volta, al capitolo quinto, avevamo visto fare la civetta – così Dumas – con il proprio padre, il musicista Murr (che si chiama come il gatto del romanzo satirico hoffmanniano, 1819-21): e «sapeva bene di avere sul vecchio un potere completo e nel cuore di lui un regno dove regnava sovrana» (ivi, p. 67). Anzi il vecchio, in seguito al rimprovero della figlia di occuparsi più della propria musica che di lei, si agita a improvvisare una sorta di balletto nella stanza: una scena grottesca alla Hoffmann ma anche la suggestione di una dilagante sindrome della danzatrice, che infetta anche il mondo della donna-angelo.

In apparenza Salomè è figura opposta alla Gorgone: alla femmina decapitata si contrappone la decapitatrice, erede di Giuditta e collega di Turandot. Eppure, in termini mitici, le figure dei due mostri-femmina (perché tali sono, nell’ottica del prodigio/monstrum d’orrore) finiscono col trovare robusti raccordi e sfumare l’una nell’altra: sia perché non mancano, come abbiamo visto, storie sulla decapitazione di Salomè; sia soprattutto perché a emergere sono elementi di un dramma cangiante, fusi e confusi in magmatico ribollire. La portatrice-della-testa-mozza sta ostentando idealmente la propria, icona livida che neutralizza e assoggetta i suoi voyeuristici adoratori maschi. Ed è significativo trovare tale con/fusione compiuta in un altro, citato personaggio di Dumas, Milady de I tre moschettieri: agente segreta come Giuditta la decapitatrice, muore come Medusa la decapitata. Quel che conta è l’icona della testa tagliata.

Capolavoro di originalità narrativa, la Femme rappresenta insieme un ideale precipitato dei motivi fantastici sviluppati lungo tutto l’Ottocento nella grande tradizione d’Oltralpe – fitta di donne fatali e sponsali di morte, viaggi che sprofondano il protagonista nell’Altrove o cercano invano di strapparvelo, indecidibili avventure tra patologia psichica e confini ultimi della realtà. Così a fronte dello statuto doppiamente non-morto dell’Arsène dumasiana (a voler fare solo qualche esempio suggerito dalla bella raccolta Il racconto fantastico francese, a cura di L. Cirrincione d’Amelio, Marsilio, Venezia 2005), la Venere di Ille di Prosper Mérimée (1837) è una statua dissepolta, Arria Marcella di Théophile Gautier (grande evocatore di seduttrici dall’equivoca consistenza – 1852) la polvere di un calco pompeiano, Vera di Villiers de l’Isle-Adam (1874) una morta inaccettata come tale, e la perturbante maschera di Jean Lorrain (Una di loro, 1900) il fascino di un’ombra dall’incerta sessualità: alcune venate d’inferno, altre ispiratrici di commozione, ma tutte capaci di protestare la resistenza dei sensi alle categorie di ragione e morale, conducendo il protagonista (sempre uomo) alla perplessità esistenziale e magari al precipizio psichico. Come d’altro canto gli eredi dell’Hoffmann della Femme, i turbati narratori di Maupassant e di Marcel Schwob (si pensi a L’uomo velato, 1891) non possono esorcizzare avversari impastati nelle pieghe della propria vita interiore; e l’esorcismo stesso, avverte con malinconia l’amico Nodier in Trilby (1822), rappresenta talora la sterilizzazione traumatica di una dimensione vitale.

Spiazzante e magari pericoloso – sembra rispondere Dumas al capezzale di lui, dopo averne colto l’ultimo racconto – il fantastico è una chiave per decostruire lo storytelling offertoci e riconoscerne le strutture mitiche, con quanto di manipolatorio recano nell’immagine della società e di noi stessi: sia a fronte di maschere, reliquie ideologiche, stereotipi sessuali di tipo “antico” e che in fondo potremmo riconoscere, sia in direzione di ciò che per novità tende a sfuggire ai nostri paradigmi. Ma quella provocazione a percepire la sconcertante latitudine della realtà – perché c’è sempre qualcosa che va oltre – comporta anche una condivisione di meraviglia: una vitalità la cui forza di consolazione e di resistenza, al capezzale di Nodier come nei nostri brutti tempi, non pare poco nobile o facilmente rinunciabile.

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Collier fatali e “nuova” teratologia (Nightmare Abbey 11 / III) https://www.carmillaonline.com/2018/09/07/collier-fatali-e-nuova-teratologia-nightmare-abbey-11-iii/ Fri, 07 Sep 2018 21:13:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48629 di Franco Pezzini

La decollazione nel boudoir   (puntata precedente qui)

La donna dal collier di velluto è una storia di teste tagliate. Certo, lo erano anche le versioni di Irving e Borel, ma Dumas enfatizza il tema a più livelli. Anzitutto presenta una vicenda assai più articolata delle precedenti, passando dalla forma-racconto al romanzo e coinvolgendo il lettore con ben altra intensità emotiva – anche grazie alla sincerità malinconica dell’inizio. In secondo luogo innesta la storia fantastica in un’ampia panoramica sulla rivoluzione (al filtro di una  lettura ideologicamente non neutra, sul tema [...]]]> di Franco Pezzini

La decollazione nel boudoir   (puntata precedente qui)

La donna dal collier di velluto è una storia di teste tagliate. Certo, lo erano anche le versioni di Irving e Borel, ma Dumas enfatizza il tema a più livelli. Anzitutto presenta una vicenda assai più articolata delle precedenti, passando dalla forma-racconto al romanzo e coinvolgendo il lettore con ben altra intensità emotiva – anche grazie alla sincerità malinconica dell’inizio. In secondo luogo innesta la storia fantastica in un’ampia panoramica sulla rivoluzione (al filtro di una  lettura ideologicamente non neutra, sul tema non ci soffermiamo): e in particolare lo spettacolo della spaventosa fine sulla ghigliottina di Madame du Barry già prefigura al lettore in chiave di doppio visibile la successiva morte, questa non descritta e circonfusa d’ombre, della donna dal collier di velluto. Un’altra testa appare effigiata sulla tabacchiera del bizzarro medico-trickster conosciuto da Hoffmann all’Opéra – lo stesso che poi apparirà a sciogliere il collier nella fatale camera d’albergo: «una piccola testa di morto» (La donna, cit., p. 105), un «piccolo teschio di diamanti» (ivi, p. 106), estremamente rivelativo nelle mani di quel personaggio cangiante, sorta di medium o psicopompo a cavallo tra i mondi della vita e della morte, del delirio e dell’irruzione sovrannaturale. Inoltre, come vedevamo, la testa di Arsène rotola via come quella di Antonia sparisce dal ritratto, in un rapporto di parallelismo e oscura specularità. E infine, chiuso il romanzo, Dumas lo inserisce nel ’51 in quell’ampia raccolta Les mille et un fantômes, il cui primo “capitolo” omonimo – a sua volta costituito da un mosaico di racconti – ritorna con insistenza sul tema delle esecuzioni capitali e in particolare delle decapitazioni, fino ai più macabri dettagli medico-legali (una bella edizione, I Mille e un Fantasma, con i Brogliacci di Paul Lacroix e il saggio introduttivo I fantasmi di Dumas e Lacroix, a cura di Marco Catucci, è da poco apparsa per i tipi Robin, Torino 2018). Lo scrittore – con il complice Lacroix che gli porge una serie di storie nel segno del bizzarro e dello spettrale – sembra insomma particolarmente interessato a tale simbolica, ne esplora le suggestioni e la sviluppa in una serie di variabili. In effetti il tema della testa tagliata, separata dal corpo, reca una ricchissima serie di provocazioni. Solo a titolo di esempio, in rapporto a opere che negli ultimi decenni le hanno incalzate, pensiamo all’uso che ne fa Giuseppe Genna nell’intrigante e amarissimo thriller/noir Le teste (Mondadori, Milano 2009) o alla comparsa quasi contemporanea della traduzione italiana del grande saggio di Julia Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, uscito in Francia nel 1998 (Donzelli, Roma 2009).

D’altra parte un secondo elemento emerge molto chiaro: ne La donna dal collier di velluto, come nel primo testo della raccolta del ’51, le teste che rotolano sono tutte di donne. Non sembra un caso che Dumas inserisca a un tratto nel dialogo i nomi di Sade e di Justine: e proprio l’icona del supplizio femminile sembra qui costituire il punto d’incontro più inquietante – e peraltro consono alla spettacolarità feticistica odierna – tra strazio del corpo e provocazione sensuale, inabissamento psichico e terrori della Storia. A un livello generale, di salutare messa a fuoco degli aspetti equivoci di questa connessione estetizzante, rinvierei al bel testo di Adriana Cavarero, Orrorismo – ovvero della violenza sull’inerme (Feltrinelli, Milano 2007), e in questa dimensione non mi addentro – del resto il rapporto tra sadismo e agonie romantiche è stato abbondantemente studiato. Tale chiave, comunque, non esaurisce il discorso.

Tanto più che la testa (femminile) che cade è associata a un terzo elemento: una conseguenza fatale, inesorabile, che si abbatte sullo spettatore quasi folgorandolo – sia egli lo sciagurato Gottfried Wolfgang destinato alla follia, sia (a maggior ragione) l’Hoffmann che quel delirio, si immagina, proietterà nei suoi scritti come un’eredità virale. Ciò che Irving e Borel associavano alla pura epifania della Decapitata, Dumas lo riconduce a un meccanismo più complesso e interiormente devastante, legato a un giuramento sacro e a una morte a distanza, in rapporto con un Femminile che spiazza.

Ancora: il teatro di morte del romanzo si riferisce, come abbiamo visto, a un’epoca storica molto precisa. Un’epoca abbastanza vicina a Dumas – come ad altri narratori misuratisi sul tema – da recare un sapore di drammatica contiguità. Anzi un sapore che al narratore francese, erede dei valori di quella Rivoluzione, lascia un retrogusto amaro (o piuttosto dolciastro, ferrigno) e proietta ombre grevi. Tanto più che quei fantasmi, riproposti in infiniti memoriali, ma anche in tutta una ricchissima e pervasiva iconografia, sembrano strutturarsi secondo forme che accedono al mito.

Gli ingredienti, insomma, ci sono tutti. E come in quei giochi ottici dove dobbiamo rilasciare lo sguardo a cogliere un’immagine cifrata, e questa all’improvviso emerge in uno spessore virtuale nella confusione dei segni, il mostruoso rivela una prima immagine. Quel che Dumas sta richiamando sottotesto, attraverso echi e allusioni, è anzitutto il mostro che emerge in filigrana da infinite immagini dei giorni del Terrore: una Dea tremenda la cui icona è la testa tagliata e minacciosa, sollevata a segno pietrificante di un rito pagano. La Gorgone Medusa, insomma.

A dare la stura al sottotesto mitico di tanta iconografia è il terremoto simbolico dell’esecuzione di Luigi XVI. Spigolando tra le innumerevoli stampe raffiguranti l’esecuzione del re, ne troviamo per esempio una tedesca, anonima, esistente in numerose varianti e in realtà simile a modelli francesi ma più cruda. Un collaboratore del boia appare mostrare al popolo la testa mozzata del consacrato da Dio: si coglie la terribile energia della postura di quest’uomo, l’espressione allucinata e la sensazione che sia spaventato dalla testa che cerca di allontanare da sé, e quasi pietrificato dallo spettacolo che sta offrendo al popolo (cfr. La ghigliottina del Terrore. Catalogo della mostra curata da V. Rousseau-Lagarde e D. Arasse, Torino 17 febbraio – 10 marzo 1987, Polistampa, Firenze 1986, p. 67). Si noti che questo bozzetto lo troviamo riproposto in seguito – stessa postura del carnefice – in un’immagine relativa all’esecuzione di Robespierre. Il nostro Hoffmann avrebbe potuto trovarsi tra le mani proprio questa stampa, e la sua febbre interiore ne sarebbe stata certamente sollecitata.

Ma è proprio in seguito alla morte del re che si diffonde un tipo d’immagini anche più astratto e simbolico – anche questo poi riproposto per altri personaggi, Robespierre compreso. Particolarmente esplicito in una celebre acquatinta dell’editore rivoluzionario Villeneuve, il gesto del boia che solleva la testa mozzata del re, isolato però dal contesto,

 

si riduce a un avambraccio anonimo, rappresentante incontestabile della giustizia esercitata in nome del popolo. Viene così fissato una volta per sempre il valore di questo gesto dimostrativo che, nella tradizione delle immagini, è quello di Perseo che pietrifica Polidette mentre mostra la testa tagliata di Medusa. Nel rituale dell’esecuzione rivoluzionaria, l’esibizione della testa è destinata a terrificare, anzi, a pietrificare i nemici della patria. Di conseguenza, la testa del ghigliottinato diventa il suo vero volto smascherato nella morte e questo tipo di iconografia può essere definito “ritratto del traditore smascherato” [La ghigliottina del Terrore, cit., p. 51].

 

Nel senso che il volto dell’ultimo istante, come in un conato di terribile verità, coi suoi tratti e l’espressione assunta smaschererebbe il traditore: e in effetti, nel romanzo di Dumas, la testa tagliata è memoria e denuncia per Hoffmann del suo tradimento di Antonia e dei voti fattile.

Si noti che questo continuo ritorno delle immagini della morte del re e della sua testa, ostentata a pietrificare i nemici della patria, va ben oltre l’orizzonte delle stampe popolari: le troviamo su medaglie, coperchi di scatole e oggettistica varia, porcellane – dove magari la tazza cela l’immagine effigiata sul piattino sottostante, come nell’effetto moralizzatore della morte nascosta e poi rivelata delle anamorfosi…

Ma gli oggetti tradiscono lo spirito dell’epoca: e così, quando lo spiacevole medico dalla tabacchiera con la testa di morto brandisce un binocolo, la persona che si vede fissata attraverso quelle lenti, «chiunque fosse, trasaliva immediatamente e subito volgeva gli occhi verso chi la guardava, come se vi fosse stata costretta da un invisibile potere. E restava in tale posizione finché lo straordinario medico cessava di fissarla» (La donna, cit., pag. 109 – corsivo mio): restava cioè pietrificata da quello sguardo gorgonico. Certo qui Dumas strizza l’occhio all’Hoffmann narratore, ai cannocchiali dell’allarmante Coppola/Coppelius di L’uomo della sabbia, un figuro oniricamente bifronte come (scopriremo) questo medico che ha due diverse forme di apparizione. Ma il motivo della lente che ammicca a una visione diversa, e a una diversa messa a fuoco di quel mondo sottile ai confini indecidibili dell’incubo, per Dumas non si consuma nel semplice delirio. La gorgonizzazione legata alle lenti, infatti, non è imputabile solo alla personalità inquietante del medico: il binocolo, specifica questi, gli viene dall’amico Voltaire, dunque è in fondo, simbolicamente, la lente stessa dei Lumi. E come ad aggiungere un ulteriore livello di spiegazione, è a questo punto che il medico cita Justine di Sade: il suo accenno fuggevole a «una giovanissima donna che aveva letto quel romanzo» (ivi, p. 110) ed è «morta felicissima» (ibidem)«E l’occhio del medico scintillò di piacere al ricordo delle cause di quella morte» (ibidem) – reca il senso della saldatura tra Lumi, libertinismo e orrore che qui sembra costituire un sotterraneo specifico, personale e culturale, dello sguardo gelido di Medusa. Non a caso, subito dopo viene dato il segnale del secondo atto (siamo all’Opéra) e il medico annuncia: «Ora vedremo Arsène» (ibidem).

Quando poi la danzatrice appare – bellissima, con la flessuosità di una lucertola (ivi, p. 112) a richiamare un’affinità coi rettili non incongrua in una parente delle Gorgoni –  e Hoffmann si fa sfuggire un commento ammirato ad alta voce, lo sguardo di lei dal palco gli fa l’effetto di una scarica elettrica (ivi, p. 111): ancora una volta un occhio che folgora e mesmerizza, un occhio da basilisco o con effetto gorgonico. Evidente quando Hoffmann scopre di non poter quasi allontanarne lo sguardo, e per riuscirvi è costretto a «uno sforzo così doloroso che emise un grido, come se i nervi del collo, divenuti di marmo, gli si fossero spezzati in quel momento» (ivi, p. 114). Ma, come nota Hoffmann/Dumas, «una visibile correlazione si era stabilita tra i […] due sguardi» (ivi, p. 112) di Arsène e del medico, e anzi «vedeva distintamente i raggi che uscivano dai diamanti del fermaglio di Arsène [quello che trattiene il fatale collier di velluto viola] incontrarsi a mezza via con quelli che uscivano dalla testa di morto sulla tabacchiera del dottore in una linea retta, urtarsi, respingersi, e scaturire di nuovo in un fascio unico fatto di migliaia di scintille bianche, rosse e oro» (ivi, pp. 112-113). Uno scambio che parla il linguaggio del fato, e annuncia la sorte di Arsène ma insieme la potenza simbolica di un dramma, una sorta di riconoscimento del gorgoneion sulla strada di Hoffmann. Quella correlazione tra l’occhio del serpente e l’uccello che affascina (ivi, p. 121) inseguirà in forma allucinatoria Hoffmann anche in seguito: e ricordiamo che sarà proprio quel medico, alla fine del romanzo, a salire alla stanza riconoscendo il cadavere di Arsène. Suscitando nel lettore il dubbio che tutta la vicenda sia in realtà una rilettura a posteriori in chiave di delirio.

Scopriremo anzi che il fermaglio del collier di Arsène ha forma di ghigliottina. «Sì, ne fanno di graziose» commenta il dottore «e tutte le nostre donne raffinate ne portano almeno una» (ivi, p. 115). Ma il giovane si è fatto passare il binocolo, e attraverso quelle lenti fatali, per un bizzarro effetto ottico (ancora le lenti de L’uomo della sabbia), il giovane tedesco ha una sorta di amplesso con Arsène – un amplesso necrofilo in cui si sovrappongono le emozioni della giornata, l’immagine danzante diventa quella di Madame du Barry con la testa mozza, o viceversa Arsène appare danzando fino ai piedi della ghigliottina e tra le mani del boia. Il desiderio monta a tal punto che Hoffmann, dopo aver invano cercato soccorso nel talismanico ritratto di Antonia (altra testa), è costretto a fuggire dalla sala. Quando più tardi torna però davanti all’uscita degli attori per rivedere Arsène, «agitato da quella strana apparizione» (ivi, p. 119), non nota nemmeno il freddo e la neve che cade, trasformando «la redingote tedesca in una statua di marmo» (ibidem). Ancora insomma la pietrificazione: come nel dramma mitico della Gorgone ma in termini liberissimi, gli elementi dello sguardo fatale e della mutazione in pietra vengono cioè riproposti in una serie di suggestioni, fino alle estreme latitudini del concetto. Come quando più tardi Hoffmann, arricchitosi al gioco per farsi bello con Arsène, torna alla casa di lei e pregusta «la gioia di coprire con tutto quell’oro il bel corpo che gli si era svelato e che, rimasto di marmo davanti al suo amore, si sarebbe animato davanti alla sua ricchezza, come la statua di Prometeo quando ebbe trovato la sua vera anima» (ivi, p. 160). Dove il richiamo a un procedimento inverso alla pietrificazione gorgonica denuncia in fondo l’arida Arsène come vuoto simulacro, statua di pietra, proprio attraverso la squallida prospettiva di un’animazione per lucro.

Ma torniamo al Nostro pietrificato dal gelo. Arsène scompare immediatamente sulla carrozza di Danton, Hoffmann la insegue invano: e quando un paio di giorni dopo, ossessionato dall’immagine di lei, torna a teatro e apprende che i suoi gesti inconsulti durante e dopo lo spettacolo hanno segnato la rovina della diva e il suo allontanamento, il teatro e il medico stesso appaiono completamente diversi, privi di ogni lustro od orpello. Il visionario Hoffmann scopre così che l’ambiente visto due giorni prima apparteneva a una realtà passata – l’Opéra prima della rivoluzione, luccicante di gioielli ed eleganza – rievocata come per magia; il medico non ha tabacchiere preziose ed è un uomo qualunque, gli spettatori in sala sono poveracci, e persino i busti esposti (le ennesime teste) non raffigurano più Apollo e Tersicore come pareva a Hoffmann, ma Voltaire e Marat. Era la presenza di Arsène, spiega il medico, a trasfigurare tutto: «vi dico che l’amate, giovanotto, e che avete visto la sala attraverso il prisma del vostro amore» (ivi, p. 125). Eppure, ancora una volta, il discorso non si esaurisce qui: il dottore confida di non aver mai posseduto, neppure nei tempi più prosperi, una tabacchiera con pietre preziose come quella ostentata dal suo alter ego. Tutto ciò appartiene dunque a una dimensione sospesa tra l’allucinazione e qualche diverso piano della realtà: cioè Dumas rende partecipe il lettore, attraverso il suo gioco a più livelli, di una percezione sottotesto. Ed è con questo binocolo (per rifarci all’immagine già hoffmanniana delle lenti che colgono la realtà a una diversa distanza e profondità) che noi stiamo esplorando il romanzo, e troviamo la Gorgone. Come la Gorgone non si consuma in un’identità divina ma è al centro di una costellazione che comprende la testa tagliata e lo specchio, lo sguardo fatale, la pietrificazione e i serpenti, così anche qui ciò che rileva non è una banale identificazione tra Arsène e Medusa ma un contesto dinamico, un dramma mitico in cui i singoli elementi si compenetrano e si riassestano continuamente.

Così il dottore, come l’inquietante e indecidibile Coppola/Coppelius di L’uomo della sabbia riappare a Hoffmann qualche tempo dopo nel suo primo sembiante ingioiellato: spiega che il giovane avrebbe potuto rintracciarlo con facilità chiedendone l’indirizzo «al primo cimitero […] incontrato» (ivi, p. 131) e domandando del dottore dalla testa di morto (ibidem). Si definisce anzi il medico dell’Opéra (ibidem), ma alla fine del romanzo, davanti al corpo reclino di Arsène, spiegherà di essere il medico delle prigioni (ivi, p. 174): due ambiti in apparenza antitetici e saldati oniricamente attraverso la natura indecidibile di questa figura bifronte – ma con una tragica contiguità nel teatro del supplizio in piazza. Ridestandosi nell’Opéra ormai deserta dove si è assopito o passando nottetempo ai piedi della ghigliottina, Hoffmann si confronta con scene paradossalmente simili.

Comunque il giovane non si deve disperare per la scomparsa di Arsène, perduta nel labirinto di Parigi: ella infatti ha incaricato il medico di cercarle un pittore che la ritragga, e l’artista Hoffmann si offre con entusiasmo. Una carrozza tenebrosa chiamata dal dottore conduce il giovane a casa di Arsène, e la Bellissima appare da una porta nascosta «dietro uno specchio mobile» (ivi, pp. 135-136): come, viene da pensare, quello di Perseo. L’accesso all’immagine della Gorgone è possibile solo tramite uno specchio, e in queste pagine di epifania di Arsène il richiamo allo specchio torna ossessivamente. Arsène vuole farsi ritrarre in costume da Baccante, e la sconvolgente esperienza del suo denudamento vede una rifrazione entro gli specchi del boudoir; poi Hoffmann viene improvvisamente buttato fuori (è arrivato l’amante in carica), e umiliato comprende che per la mantenuta di lusso egli rappresenta un pittore qualunque, «una macchina da ritratti, come uno specchio che riflette i corpi che gli si presentano» (ivi, p. 142).

Ma anche la locuzione “macchina da/per ritratti” è significativa: proprio la ghigliottina è stata definita come “macchina per ritratti”, nel senso che isolando la testa del ghigliottinato, la mette sotto gli occhi dello spettatore. Suggestivo constatare come nel romanzo, in parallelo all’isolarsi “in ritratto” della testa mozza di Arsène, sparisce quella del ritratto di Antonia. D’altra parte proprio il citato tema del “traditore smascherato” riconduce a un ritratto-maschera in cui si condensa e riassume tutta la storia dell’individuo e il senso della sua vita (La ghigliottina del Terrore, cit., pag. 169). Una maschera: il che da un lato richiama all’uso, proprio durante la rivoluzione, di maschere funerarie rapidamente modellate sui tratti dei giustiziati, come volti ingrigiti dalla pietrificazione gorgonica; e dall’altro alla stessa Gorgone, figura-maschera anche nell’accezione più materiale. Un po’ tutta la Rivoluzione francese – ma in particolare la sua fase più drammatica, il Terrore – è all’insegna di questo volto di dea irriconosciuta in demone, dea-maschera o dea-testa, sorta di Bafometto corrucciato (e a proposito dell’idolo-testa Bafometto ricordiamo la mitologia sulla vendetta dei Templari consumata proprio in quei giorni con l’esecuzione del re Capeto). Un mostro immagine di un Femminile scatenato e sconvolgente: simbolica adatta, del resto, a quella Rivoluzione Francese in cui le donne si conquistano la «scena pubblica come vittime e come mandanti. Una furia da baccanti [ricordiamo che così voleva vestirsi Arsène per il ritratto] aveva soffiato sulla storia, e le donne volgevano a se stesse un volto inconoscibile, troppo vicino all’indistinto primordiale» (V. Papetti, La “debole mano” della signora Radcliffe, Introduzione ad Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho, Bur Rizzoli, Milano 2010, p. 23), tra aspersioni lunari di sangue, gioielli a forma di ghigliottine e carmagnole sfrenate in abiti da sacerdotesse – coi musicanti magari abbigliati da satiri. Se Dioniso aveva insomma casa in Francia nei giorni del Terrore, il volto terrifico della Dea lo accompagnava. E se la mutazione artistica del volto di Medusa, da grottesco com’era nell’arte greca a più semplicemente femminile, ancorché anguicrinito e cereo, appare diffusa fin dal Rinascimento, la svolta definitiva può ravvisarsi proprio «in un tempo tanto mitologico», come lo definisce Dumas (La donna, cit., p. 100), quale la stagione rivoluzionaria: quando cioè la Gorgone decollata assurge a figura della “libertà alla francese” come – per gli intellettuali oltremanica – la saggia ed equilibrata Atena del contraltare “all’inglese”.

Tra i mostri-femmina delle mitologie d’Occidente la Gorgone è forse il più emblematico. Una figura i cui protomodelli sprofondano in un passato lontanissimo, fino a quelle maschere neolitiche della Dea della morte che sembrano plausibili prototipi del gorgoneion, il pietrificante capo di Medusa, o persino più indietro. Il nome del resto che in greco suona una sorta d’epiteto (gorgós, “terribile”) potrebbe provenire dal sanscrito garjana, sorta di onomatopea di un ringhio bestiale (garg come urlo). Il tema della mutazione delle vittime in pietra legata alla fatalità della maschera sacra ben si sposa con la funzione (come per altri mostri ibridi) di protettrice di edifici. Ciò che non semplifica la comprensione agli imbarazzati mitologi del mondo classico, che si interesseranno particolarmente a Medusa, unica mortale di tre Gorgoni sorelle e caduta – in qualche passato remoto – sotto la spada falcata dell’eroe maschio Perseo. Comunque un mostro, bloccato nell’atto di una boccaccia apotropaica dal valore forse magico: eppure le sue caratteristiche (compresi i nessi del termine greco con una costellazione semantica legata all’idea di “regnare”, cfr. qui) finiscono col richiamarla a una dignità ben più alta, all’aspetto minaccioso della grande Dea della vita e della morte. Gli Orfici chiameranno non casualmente gorgoneion il volto della luna, e tale lascito lunare permarrà ancora nelle vamp spettrali romantiche e simboliste – compreso dunque lo spettro di Arsène. Perché, a grattare la vernice della maschera, la mostruosità di Medusa si rivela in fondo la minacciosità mitizzata, irriconosciuta della donna: e questo aspetto, in pulsioni, fremiti e polluzioni, erutterà nell’arte tra Otto e Novecento. Quando diventa oggetto di una vera e propria ossessione, spostando spesso l’attenzione dal contesto generale (Perseo sparisce) alla testa di lei: e non necessariamente tagliata, anche se il distinguo diventa relativo. Del resto nel mito gorgonico si intrecciano temi diversi e spesso (non sempre) equivoci: così, accanto al rapporto tra femminile e mostruoso – e tra donna e serpente – troviamo il motivo della fascinazione fatale (la femme fatale, appunto) che pietrifica in una succube passività; il tema dello specchio, che permette di contemplare l’incontemplabile, fino alle ultime interpretazioni come metafora per il cinema; la decollazione da parte dell’eroe virile… Lo stesso urlo (garg), permette di decrittare anche in questa chiave il soggetto androgino – del resto l’antica Gorgone aveva connotati spesso bisessuali in un’identità femminile – di un’intera nebulosa di opere di Edvard Munch: emblematico è il bozzetto conservato al Bergen Kunstmuseum dove vediamo solo la testa urlante tra una foresta di mani disperatamente sollevate. Un tema insomma che impatta con incredibile potenza sulla modernità, sia in forme artisticamente “alte” – per le quali si rinvia a Jean Clair nel suo celebre saggio Méduse. Contribution à une anthropologie des arts du visuel (Gallimard, Paris 1989, tr. it.: Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Leonardo, Milano 1989) – sia in altre di un immaginario molto più popolare.

Infatti il rapporto della Gorgone con il genere horror è molto più stretto di quanto spesso si creda. Si pensi alla decapitazione di dark lady letterarie come Milady de Winter (cioè ‘dell’inverno’, un nome adatto al volto oscuro della Dea) che lo stesso Dumas pone in scena ne I tre moschettieri; o alle vampire di letteratura e cinema, eredi e ipostasi della Terribile Femmina in un tripudio di vagine dentate e denti fallici, che inevitabilmente dopo il trattamento col paletto richiedono il taglio della testa. Ma si è già accennato alla Gorgone portata in scena da Fisher per la Hammer: un film che narra di uomini alla deriva, e di una donna che suo malgrado e senza saperlo, travolta da amnesie lunari, è posseduta dallo spirito del Mostro-Femmina. Ancora il Bram Stoker’s Dracula di Francis Ford Coppola, 1992, vede una delle vampire del castello del Conte dotata di una chioma medusea con serpenti. Nel romanzo, infatti, davanti a una di loro, l’ospite Jonathan Harker ha la sensazione di averla già incontrata, senza però ricordare dove: e se oggi sappiamo trattarsi di un riferimento alla vampira del racconto-frammento Dracula’s Guest (o meglio di un testo simile nelle prime cento pagine rimosse del romanzo), tra le possibili identificazioni c’era appunto Medusa – e probabilmente di lì gli sceneggiatori mutueranno la suggestione del film. Certo il riferimento a un ricordo sfuggente, un conosciuto/non riconosciuto dalle forti implicazioni erotiche reca per noi un senso molto preciso nel segno del Perturbante. E che questo si associ alla Gorgone, mostro sottotesto di una storia plurimillenaria e dello stesso romanzo di Dumas che abbiamo tra le mani, pare qualcosa di estremamente rivelativo.

[3-Continua]

 

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Collier fatali e “nuova” teratologia (Nightmare Abbey 11 / II) https://www.carmillaonline.com/2018/08/31/collier-fatali-e-nuova-teratologia-nightmare-abbey-11-ii/ Fri, 31 Aug 2018 21:33:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48518 di Franco Pezzini

Hoffmann in Love   (puntata precedente qui)

Quando Alexandre Dumas pone mano a La femme au collier de velours, 1849, in Francia le fantasie “alla Hoffmann”, storie oniriche e bizzarre popolate di spettri, non costituiscono più una novità. Anzi la stessa vicenda che qui Dumas narra non è, almeno a grandi linee, farina del suo sacco: tanto che lui dichiara di riferire semplicemente un racconto affidatogli dall’amico più anziano Charles Nodier, letterato elegante e fantasioso, eruditissimo bibliofilo e appunto cultore di storie strane, ormai sul letto di morte. «Adesso, la [...]]]> di Franco Pezzini

Hoffmann in Love   (puntata precedente qui)

Quando Alexandre Dumas pone mano a La femme au collier de velours, 1849, in Francia le fantasie “alla Hoffmann”, storie oniriche e bizzarre popolate di spettri, non costituiscono più una novità. Anzi la stessa vicenda che qui Dumas narra non è, almeno a grandi linee, farina del suo sacco: tanto che lui dichiara di riferire semplicemente un racconto affidatogli dall’amico più anziano Charles Nodier, letterato elegante e fantasioso, eruditissimo bibliofilo e appunto cultore di storie strane, ormai sul letto di morte. «Adesso, la storia che leggerete è quella che mi raccontò Nodier», afferma Dumas a chiusura del primo capitolo (ed. cit., p. 36).

Non possiamo escludere che sia così, e non solo – come vedremo – per il tono tanto solenne dell’affermazione. Ma se dovessimo identificare una fonte letteraria diretta a ‘La donna dal collier di velluto’ dovremmo fare qualche altro nome – e per esempio un soprannome che, guarda caso, ci richiama proprio alla galleria dei mostri. Sto parlando del truce Pétrus Borel detto “Le lycanthrope”, al secolo Pierre Borel d’Hauterive, maestro del nero nella Francia del primo Ottocento, nonché leader di quella bohème artistica del petit-cénacle dell’inizio degli anni Trenta che annoverava Gérard de Nerval, Théophile Gautier, Philothée O’Neddy, e altri nomi eccellenti. Si parlerà di Frenetismo per indicare la corrente di questi romantici – soprattutto Borel – che si compiacciono di cercare ispirazione in gotici come Walpole e “Monk” Lewis. E del resto quando nel ’43 Borel pubblica sulla rivista «La Sylphide» il racconto Gottfried Wolfgang – scritto probabilmente nel 1840 – si tratta proprio di un ripescaggio, una traduzione/appropriazione, di una storia nera in lingua anglosassone, cioè il racconto The Adventure of the German Student dell’americano Washington Irving.

Insomma, dietro Dumas troviamo Borel, e dietro a Borel c’è Irving – sotto lo pseudonimo di Geoffrey Crayon. È infatti così che l’autore americano firma la raccolta Tales of a Traveller, 1824, di cui fa parte The Adventure of the German Student. Si noti che l’opera è composta nel periodo in cui Irving vive in Europa, in particolare in Germania e a Parigi: dato non casuale ai fini del contenuto del racconto. Protagonista è lo studente Gottfried Wolfgang, imbevuto delle più visionarie dottrine metafisiche in voga in Germania, e tormentato dalla convinzione di una malvagia influenza che graverebbe su di lui. Gli amici pensano che la miglior cura per le sue ubbie consista in un cambio d’ambiente, e insomma fanno in modo che vada a finire gli studi in mezzo alle piacevolezze di Parigi. Peccato che, quando il giovane ci arriva, la situazione nella capitale francese stia esplodendo: si scatena la Rivoluzione, e Gottfried all’inizio è partecipe dell’entusiasmo collettivo. Visto però che è sensibile d’animo, gli eccessi e le stragi finiscono col disgustarlo: col risultato che ricomincia a vivere da recluso, ripiegato sui suoi studi di volumi dimenticati – al punto che Irving lo definisce «un ghoul letterario, nutrito nell’ossario della letteratura in dissoluzione» (Borel, nella sua traduzione-riscrittura, ripropone la definizione sostituendo solo il termine vampire al ghoul di Irving, e una traccia “ammorbidita” sembra trovarsi in Dumas nel riferimento a quel Nodier che «trovava fra i libri capolavori ignoti, che traeva dalla tomba delle biblioteche», p. 29). Questa è la situazione quando una notte di temporale, nel periodo più buio del Terrore, il malinconico Gottfried si trova a passare in Place de Grève, proprio vicino alla ghigliottina; e lì, alla luce dei lampi, si accorge di una donna vestita di nero, seduta sotto la pioggia proprio sui gradini che conducono al patibolo. Commosso dall’aria desolata di lei, la avvicina: e resta sconvolto riconoscendo in quella giovane donna bellissima la protagonista di certi sogni che hanno continuato a visitarlo, lasciandogli addosso un febbrile innamoramento per lei. Ora se la trova innanzi in carne e ossa, e possiamo immaginare il tumulto interiore. La donna accenna di non avere amici né casa – o meglio, accenna di averla nella tomba – e lo studente non trova di meglio che offrirle ospitalità nella propria stanza per la notte. Lei accetta, e quando Gottfried può contemplarla alla luce del locale è «più che mai intossicato dalla sua bellezza»: per inciso, unico ornamento alla semplicità dell’abito nero è «una larga fascia nera attorno al suo collo, fermata da diamanti» (Borel specificherà che è di velluto). Già affascinato, Gottfried scopre nella donna uno spirito affine, come lui entusiasta e appassionata; e quando le rivela di averla amata attraverso i sogni, ella confida un parallelo misterioso impulso verso di lui. Arrivano anzi a promettersi reciprocamente per sempre, e Irving lascia pensare che la notte dei due insieme corra piacevole. Al mattino lo studente lascia dormire “la sua sposa”, e corre a cercare un alloggio più spazioso in cui trasferirsi insieme: ma quando rientra e cerca di svegliarla, lei non gli risponde ed è fredda. Gottfried chiama allora aiuto, accorre un poliziotto… e riconosce il corpo per quello di una donna ghigliottinata il giorno prima. Col risultato che, quando scioglie la fascia nera dal collo, la testa rotola sul pavimento (in Borel è lo studente a rimuovere la fascia ma – pare strano per un autore dalla fama tanto nera – manca il rotolare della testa). Insomma, Gottfried precipita nuovamente nelle vecchie angosce, si convince che uno spirito maligno abbia preso possesso di quel corpo (si trattenga questo dettaglio), e restiamo sospesi tra l’ipotesi spettrale e quella della follia – anche perché il povero Wolfgang finirà col morire in manicomio. Per chi ama il genere, una memorabile versione a fumetti della storia di Irving curata da Archie Goodwin e Jerry Grandenetti (Creepy Archives, Vol. 3) era stata antologizzata a suo tempo nelle vecchie raccolte di Zio Tibia.

Può interessarci fino a un certo punto se Dumas conoscesse entrambe le versioni (Irving e Borel) e, nel caso, quale abbia letto per prima. Quel che rileva è il bacino da cui attinge, e a cui attingono altri per storie analoghe, in quel periodo o più tardi, come Paul Lacroix, Gaston Leroux eccetera.

E infatti Irving si era ispirato a storie precedenti. Lui la sua versione l’aveva sentita dall’irlandese Thomas Moore, a cui però era giunta da Horace Smith, amico degli coniugi Shelley che ne aveva reso una variante più simile ai modelli originali, Sir Guy Eveling’s Dream, 1823: dove la città era Londra e la donna non era stata ghigliottinata ma impiccata, e il segno da tener nascosto era quello della corda. Ciò nel mondo anglosassone.

Mentre in Francia la storia correva per i repertori di storie fantastiche di cui i lettori erano ghiotti, come le Histoire des Fantomes et des Démons qui se sont montrés parmi les hommes, ou Choix d’anecdotes et de contes, De faits merveilleux, de traits bizarres, d’aventures extraordinaires sur les Revenans, les Fantômes, les Lutins, les Démons, les Spectres, les Vampires, et les apparitions diverses, etc. di Gabrielle de Paban, 1819, autrice il cui nome può non dirci molto, ma che qualcuno ha proposto di identificare in quella Clotilde Marie Paban (1793-?) cugina e moglie di Jacques Collin de Plancy, esperto di cose occulte e fantastiche e autore del famoso Dictionnaire infernal, 1818 (e a quel punto capiremmo meglio). Comunque nel testo di Paban il racconto si intitolava Le Revenant Succube, a rinviare idealmente a quel mondo di letti infestati – dai demoni succubi, appunto – che da secoli conciliano fremiti, timori e pruriti. La storia era piuttosto simile ma ancora più breve, rimandava al novembre 1613 e al posto della ghigliottina c’era (anche qui) una forca.

Ancora precedente era la narrazione dell’episodio nell’anonimo Le Livre des prodiges, ou Histoires et Aventures merveilleuses et remarquables de Spectres, Revenans, Esprits, Fantômes, Démons, etc., rapportées par des personnes dignes de foi pubblicato dall’editore Pillot nel 1802, che però riproponeva quasi letteralmente il testo di un’altra opera anonima davvero seicentesca, Histoire prodigieuse d’un Gentilhomme auquel le Diable est apparu, et avec lequel il a conversé sous le corps d’une femme morte, advenue à Paris le 1er Janvier 1613, apparsa a Parigi per François du Carroy nello stesso 1613, che tornava allo stesso episodio, alla donna impiccata e al demone ne aveva posseduto il corpo per sedurre un giovanotto. Poi, davanti alla gente, quel corpo era sfumato (letteralmente) e forse il giovane aveva dato di testa. Il messaggio moraleggiante dell’opera seicentesca era di non farsi accalappiare dalle sconosciute (sappiamo che fin dai tempi delle empuse l’incontro per strada era stigmatizzato come pericoloso), con tutti i rischi della promiscuità: ma soprattutto col tempo prevale il piacere del frisson narrativo.

In questi ultimi anni alcuni studiosi hanno affrontato il tema, permettendo di recuperare elementi mancanti della filiera. In particolare Florian Balduc ha curato un preziosissimo Colliers de velours. Parcours d’un récit vampirisé (La Fresnaye-Fayel, Otrante, 2015); e Fabio Camilletti prima nello splendido contributo La Sposa, Arsène, o la Biblioteca all’antologia Jolanda & Co. Le donne pericolose (a cura di Fabrizio Foni e di chi scrive, Cut-Up, La Spezia 2017) e poi in un capitolo dell’ottimo Guida alla letteratura gotica (Odoya, Bologna 2018) ha analizzato le strutture di questa saga elusiva.

In questa sede non ci interessa seguire (anche se sarebbe un discorso affascinante) i giochi delle varianti tra un testo e l’altro, e un meccanismo genetico che solo con grossolana semplificazione potremmo ricondurre al plagio. L’idea del diritto d’autore come oggi concepito non esisteva, e Nodier – straordinario affabulatore, lettore coltissimo e onnivoro, bibliofilo raffinato che amava reinventare storie altrui nel segno di una scintillante originalità (e poco importa lo facesse a voce, nel corso delle celebri serate con la sua corte di ingegni, o piuttosto per scritto) – l’aveva persino teorizzato. Nel testo Questions de littérature légale, 1812 (Crimini letterari, Duepunti, Palermo 2010), parlando della scrittura, teorizza una disinvoltura negli imprestiti – diciamo pure nei plagi – purché condotti con eleganza. Pensiamo a quella straordinaria lanterna magica che è il suo Infernaliana, 1822, dove – ammiccando al successo della raccolta Fantasmagoriana su cui torneremo – pesca disinvoltamente da storie altrui, trattate con la libertà dei miti condivisi.

Si è detto che il protagonista della storia, nelle versioni di Irving e di Borel, è l’oscuro studente Gottfried Wolfgang; e il fatto che sia tedesco rinvia ovviamente allo stereotipo geografico gotico che fin dal Settecento vede la Germania associata ai più vari brividi orrifici. Ma Dumas – e già Nodier, se davvero è stato lui a fare da tramite – rafforza questa suggestione imputando il racconto a un giovane tedesco molto particolare, e cioè il futuro scrittore fantastico Ernest Theodor Amadeus Hoffmann. In sostanza il testo, molto più ampio e ricco dei precedenti, si presenta come un delizioso pastiche in cui compaiono a livelli diversi tre campioni della letteratura – Dumas stesso in termini autobiografici, l’amico più anziano Nodier quale narratore, e Hoffmann come attonito protagonista: un tessuto che conferma la capacità di Dumas di padroneggiare allarmanti fantasie oniriche e potenti quadri storici, e insieme di sperimentare nuove strutture narrative con estrema varietà di toni ed esiti originalissimi. Varietà di toni, appunto, a partire dalla malinconia che inquadra il romanzo e un po’ tutta la raccolta Les mille et un fantômes, in cui Dumas lo incastonerà nel ’51, un periodo greve di senso di morte. Il cenacolo romantico dell’Arsenal degli anni Venti (il primo, straordinario, sorto a Parigi, e che con Dumas accoglieva Victor Hugo e Lamartine, Musset e Delacroix e tanti altri) è ormai disperso, gli amici sono scomparsi o lontani; e il ritratto affettuoso di Nodier, animatore del gruppo, introduce una narrazione che Dumas immagina confidatagli dall’amico sul letto di morte. Dove il sapore di un’antica complicità nel gioco letterario rafforza l’evocazione di un mondo amato e finito, ma insieme sembra protestare davanti a quel capezzale la dignità della fantasia e del darle voce.

Con questa avvertenza ideale il lettore passa al racconto di Nodier, e ad un mutamento di registro narrativo verso il notturno hoffmanniano: figure angelicate o dai movimenti oniricamente burattineschi, sensibilità esasperate, una Germania al trapasso tra stile Pompadour e impennate romantiche quale avvio e conclusione dell’apologo. Certo la voce narrante lascia il dubbio su quanto quel clima appartenga ad allucinazione dello stesso Hoffmann – musicista, pittore, letterato, uomo dalle straordinarie ricchezze interiori e dalle travolgenti emozioni che cerca invano di ordinare a equilibrio. Ma insieme conduce sul binario (tanto caro a Dumas) dell’affresco storico innervato da una critica sferzante delle glorie rivoluzionarie di Francia.

Vediamo dunque il giovane Hoffmann che, dopo aver giurato alla soave fidanzata Antonia di non giocare d’azzardo (una delle attività più biasimate, nella narrativa d’epoca) e di restarle fedele, se ne parte ingenuotto per una sorta di turismo artistico a Parigi. La città però – siamo nel 1793 – è nel pieno del Terrore: e l’incalzare di bozzetti sulla brutalità ottusa e grottesca dei rivoluzionari, sul disgusto del sangue e la cupezza del presunto paradiso delle virtù (una Parigi grigia d’inverno, tagliata dai convogli della Vergine Ghigliottina) pare tanto più interessante alla luce dell’attenzione e del coinvolgimento di Dumas nei turbinosi moti politici del suo tempo.

L’orrenda morte di Madame du Barry, cui il giovane assiste suo malgrado, sembra recare alla peculiare sensibilità di Hoffmann un’infiammazione foriera di strane conseguenze. Attraverso l’esperienza visionaria all’Opéra, dove è ammaliato dalla danzatrice Arsène amante di Danton, e poi nel tripudio notturno di nudità e gioco del Palais-Royal, Hoffmann passa come Faust lungo i Sabba, trascinato all’infedeltà da un desiderio quasi compulsivo. Nel corso di un goffo incontro con Arsène – era stato convocato per farle il ritratto, non è riuscito a trattenere un bacio ed è stato buttato fuori per l’improvviso arrivo dell’amante di lei – Hoffmann ha capito che solo col denaro può conquistare quella mantenuta d’alto bordo: e si risolve a cercarlo al tavolo da gioco. È troppo preso dalle sue ansie per far caso all’accenno dell’amico Zacharias su una donna bellissima condotta al patibolo. Ma quando, carico di denaro vinto alla bisca, cerca Arsène al suo alloggio non la trova: così rientra scorato attraverso la Parigi notturna e passa (ecco riproporre la scena fatale) per la piazza della ghigliottina. Ovviamente incontra la figura accovacciata; e ovviamente è Arsène, con tanto di collier, che racconta come il suo amante sia stato arrestato e lei sia sfuggita fortunosamente. Ma «Queste parole erano dette con uno strano accento, senza gesti, senza inflessioni; uscivano da una bocca scolorita che si apriva e si chiudeva come mossa da una molla; si sarebbe detto un automa che parlava» (p. 165). Certo Dumas sta giocando con l’immagine di certe oniriche, inquietanti donne-automi dei testi di Hoffmann: e giustamente Camilletti sottolinea i nessi con uno dei racconti più celebri della produzione hoffmanniana, L’uomo della sabbia, con il rapporto tra un altro studente tedesco, Nathanael, e la ragazza-automa Olimpia.

Nei fatti, in questo contesto, Arsène appare una sorta di zombie, o un’ombra mossa a base di istantanee, come in certi B-movie di spettri marca USA. Comunque anche in questa versione il giovane offre ospitalità, mostra anzi di avere dell’oro: allora «L’occhio della ballerina gettò un lampo» (ibidem), e visto che Hoffmann è dubitoso di ospitare la diva nella sua stanzetta è lei a condurlo a un magnifico albergo, camminando «con un passo rigido e automatico che non aveva nulla in comune con l’affascinante morbidezza che Hoffmann aveva ammirato della ballerina» (p. 166). Anzi sulle scale dell’albergo Arsène deve appoggiarsi a lui comunicandogli una sensazione di gelo, e nella stanza si avvicina al fuoco accovacciandosi in modo che «sembrava intenta a reggersi con le mani la testa sulle spalle» (p. 168). Sembra rianimarsi solo di fronte all’oro che il giovane le offre; poi accetta di bere ma non di mangiare («– Non potrei inghiottire – ella disse», p. 170), mentre lui mangia e beve soprattutto per farsi coraggio, «perché qualcosa di gelido emanava dal corpo della bella convitata» (ibidem). E anzi, quando Arsène beve, «alcune gocce rosate cadevano di sotto al nastro di velluto sul petto della ballerina» (ibidem). Hoffmann inizia ad avvertire qualcosa di terribile, e il lettore già immagina dove si voglia andare a parare: l’abilità del narratore sta però nel protrarre il gioco sul terreno dell’onirico e forse dell’allucinazione etilica. Quando il giovane prende a suonare al pianoforte, Arsène sembra trasfigurarsi e inizia a ballare: travolto dal desiderio, Hoffmann le si unisce nella danza e alla fine crollano sul letto. Al mattino, al risveglio, il giovane trova però Arsène rigida e fredda, chiama soccorso: e il medico sopraggiunto (un’inquietante figura di trickster che ricorda il bifronte Coppola/Coppelius de L’uomo della sabbia) lo loda per «aver ricomprato questo corpo affinché non marcisse nella fossa comune» (p. 173). Allo stranito Hoffmann spiega che la danzatrice è stata ghigliottinata il giorno prima; e alle obiezioni del giovane di aver cenato, ballato ed essere andato a letto con lei, il dottore apre il fermaglio del collier. Il rotolare della testa di Arsène sconvolge Hoffmann, che fugge inorridito gridando di essere pazzo, è arrestato e interrogato, cerca invano di ritrovare l’albergo per dimostrare le sue ragioni – e viene salvato dal medico che lo fa passar per folle e poi fuggire. Alla storia segue però un ultimo colpo di scena con la notizia della morte di Antonia, folgorata dal non mantenuto giuramento di fedeltà (in L’uomo della sabbia il protagonista rischiava di uccidere la fidanzata), e l’evaporazione del ritratto di lei dal medaglione tra le mani del fedifrago.

Se il Fantastico, sembra dire Dumas, non è accessibile se non al prezzo di una trasgressione, a condurvi è un insieme di circostanze tutto nel segno del Femminile. La femme fatale è sicuramente uno dei più ricorsivi fantasmi del Romanticismo nero, ad accreditare la donna come essere misterioso, attraente ma pericoloso e a volte demoniaco. Eppure il quadro è meno scontato di quanto possa sembrare di primo acchito. La contrapposizione/rifrazione tra donna fatale, Arsène, e donna angelicata, Antonia, è talmente parossistica da condurre a un paradossale scambio dei ruoli: così, mentre la larva zombizzata con cui Hoffmann si apparta suscita una sorta di greve compassione, è Antonia a imporre al fidanzato un giuramento sull’Eucarestia dal retrogusto minaccioso di inesorabilità – quasi sia lei, in qualche modo, la vera donna fatale, oppure le due si confondano in un’unica donna musicale (Antonia canta come Arsène danza) schizofrenicamente scissa nel mondo allucinato del protagonista. In fondo entrambe le teste cadono, quella di Arsène materialmente, quella di Antonia sparendo dal ritratto.

In realtà Antonia, scopriremo, è spirata in occasione del bacio che il fidanzato infedele ha dispensato ad Arsène ancora viva: da morta, la danzatrice non danneggia Hoffmann più di quanto già non faccia la sua fragilità nervosa. Ma Arsène è già uno spettro in vita, vampirizzata da una dimensione di desiderio esaurita nell’utile (un amore per la ricchezza che l’accompagna persino post mortem – se il tutto, ovviamente, non è un’allucinazione): ed è interessante che Hoffmann stesso, pur di avvicinarla, accetti l’idea di un rapporto sostanzialmente mercenario o di consumo. Cui potrà seguire, non lo esclude, il ritorno da Antonia: con un sapore provocatoriamente moderno, la tentazione sembra insomma non assumere lo statuto abissale della passione che sperde in derive lontane, quanto piuttosto la maschera immatura dell’irresponsabilità qui e ora, da cui il ritorno si pretenderebbe sempre possibile.

La reazione un po’ stranita di Hoffmann verso Arsène-similacro (chiamiamola così) è in fondo simile – mostra Camilletti, alla cui ampia disamina naturalmente rinvio – a quella verso Olimpia di Nathanael, cui torna in mente (recita il racconto) «la leggenda della fidanzata morta». O, com’è più nota, della sposa morta, della sposa cadavere: leggenda di origine forse ashkenazita, trascritta nella raccolta Shivhei ha-Ari (XVI sec.), recuperata in chiave di apologo contemporaneo come Die Todtenbraut da Friedrich August Schulze nella raccolta Gespensterbuch curata con Johann August Apel (1811-15), di lì tradotta come La Morte fiancée da Jean-Baptiste Benoît Eyriès nell’antologia Fantasmagoriana (1812, la famosa lettura di Villa Diodati) e traghettata fino a Tim Burton. Di più: nel racconto di Schulze approdato in Fantasmagoriana si trovano gli elementi della danza forsennata, di un giuramento fatale, del collo coperto della misteriosa dama e persino di un ruolo ambiguo di sapiente (il medico-trickster). Visto che l’affabulatore Nodier conosceva Fantasmagoriana, non stupisce scoprire che lui narrasse splendidamente (attesta Victor Hugo) una storia della “morte mariée”, probabilmente il racconto di Schulze nella versione francese. E stupisce ancor meno che J.P.R. Cuisin riporti una simile storia, La morte mariée, nell’antologia Spectriana (1817, ennesima gemmazione dal successo di Fantasmagoriana) sostenendo che gli è stata narrata da «[u]n giovane Drammaturgo che pratica con successo la letteratura del nord»… Così che Arsène finisce con l’essere realmente una sorta di ipostasi dell’Arsenal, la leggendaria biblioteca di cui Nodier è a lungo bibliotecario: nel senso di avatar libresco di infinite storie sedimentate in modo sfuggente, fantasmatico (chi è il vero autore, e in quale percentuale?) in libri alla deriva del tempo.

Ora, la Sposa Cadavere è – anzitutto – una mancata sposa: e dunque infelice, frustrata, a richiamare l’antica figura dell’ά̉ωρος, colui che è morto prima del tempo prescritto – compresi coloro che sono morti senza potersi sposare come avrebbero desiderato. In particolare se fidanzati, e dunque bloccati nel tempo tra due patti solenni, fidanzamento e matrimonio, entrambi modificativi d’uno status: ma se il secondo patto definisce una condizione esistenziale, il primo confina in una situazione in progress, liminare e transitoria, e una morte in quel momento espone a gravi rischi. In quei rischi è probabilmente incappata la Filinnio di Flegonte di Tralle (rinvio alla spettacolare edizione dell’opera flegontea, Il libro delle meraviglie e tutti i frammenti, a cura di Tommaso Braccini e Massimo Scorsone, Einaudi, Torino 2013), la non-morta citata a monte di tutti i repertori vampireschi e poi ripresa in nero da Goethe in La sposa di Corinto, ma che nel suo pathos originario non ha nulla di oscuro; in quei rischi è di certo incappata la figura nota come danseuse nocturne (per esempio la Wili slava, fidanzata morta prima delle nozze che con le compagne costringe il maschietto che abbia la sventura d’incontrarle a danzare fino alla morte) la cui storia folklorica precipiterà nel libretto Giselle di Gautier e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges (1841).

Ma in secondo luogo la Sposa è un cadavere, che cerca un contatto anche fisico – con quanto di Perturbante ciò evochi. Anche nel dubbio radicale su una qualche certezza del confine tra ciò che vive e ciò che è morto: un’ossessione del tempo dei Lumi che però poi si riproporrà ancora per tutto l’Ottocento come terrore del seppellimento prematuro. Non sembra un caso, aggiungerei, che due ritornanti come la Berenice di Poe e la Lucy Westenra del Dracula siano entrambe promesse spose.

Al di là dunque dell’indubbio omaggio che Dumas – che amava i pastiche – fa alla memoria del vecchio amico, almeno virtualmente Nodier potrebbe aver reinventato la storia pervenutagli da chissà quali voci (Borel? Irving? Paban? gli autori anonimi precedenti?); e d’altra parte – scrivevo a suo tempo con eccessiva prudenza – “il racconto potrebbe persino rimandare, chissà, a una sorta di leggenda metropolitana dei giorni del Terrore”. Camilletti conferma, sulla base di una mappatura più ampia e del raccordo con un’intera costellazione di storie sulla Sposa Cadavere, che proprio di leggenda metropolitana si tratta, ma con radici ben più antiche: e richiama da un lato il bacino di leggende sull’autostoppista fantasma (torniamo alla Melissa di Danilo Arona) e dall’altro il filone parallelo della morta che va a ballare, che con la danza di Arsène e altre che vedremo presenta alcuni nessi. Tanto più che il meccanismo è sempre quello – classico delle leggende metropolitane – della storia che arriva dall’amico di un amico; tanto più che la storia del collier di velluto (e capi analoghi, secondo la moda delle rispettive stagioni) rimanda, fin dalle prime edizioni, a uno sfuggente contesto urbano. La città dove non ci conosce e dove chi incontriamo casualmente potrebbe ben essere un fantasma.

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Christmas Karol https://www.carmillaonline.com/2008/12/11/christmas-karol/ Thu, 11 Dec 2008 01:29:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=2869 di Alessandra Daniele

Catene.JPGFu svegliato da uno strano clangore di ferraglia. Aprì gli occhi, e lo vide davanti al suo letto, in piedi, vestito di bianco, alto ma curvo, come negli ultimi anni. Coperto di grosse catene rugginose. – Salve Joseph — disse. La sua voce inconfondibile sembrava provenire dal fondo dell’inferno. Joseph biascicò un grido strozzato – Karol? Non è possibile, sei morto! – A fatica si tirò su dal cuscino, poi spalancò la bocca — allora anch’io sono morto… Maledetti, lo hanno fatto di nuovo, hanno avvelenato nel sonno anche me come quel povero stronzo! – No Joseph, tu [...]]]> di Alessandra Daniele

Catene.JPGFu svegliato da uno strano clangore di ferraglia.
Aprì gli occhi, e lo vide davanti al suo letto, in piedi, vestito di bianco, alto ma curvo, come negli ultimi anni. Coperto di grosse catene rugginose.
– Salve Joseph — disse. La sua voce inconfondibile sembrava provenire dal fondo dell’inferno.
Joseph biascicò un grido strozzato
– Karol? Non è possibile, sei morto! – A fatica si tirò su dal cuscino, poi spalancò la bocca — allora anch’io sono morto… Maledetti, lo hanno fatto di nuovo, hanno avvelenato nel sonno anche me come quel povero stronzo!
– No Joseph, tu non sei ancora morto. Non più del solito, almeno. Sono stato mandato qui per annunciarti che quest’anno non te la sei cavata con la messa, la tua notte di Natale non è ancora finita, e sarà peggiore di quanto previsto dal cerimoniale. Peggiore persino del concerto di Canale 5.
Lo spettro sghignazzò, facendo cigolare le catene, e svanì.
Joseph si ritrovò seduto nella neve, davanti a una casa in stile bavarese. La casa dov’era cresciuto.
Con uno sforzo si girò a quattro zampe, si alzò rabbrividendo, e si guardò attorno: non c’erano automobili o antenne, tutto era come nei suoi ricordi d’infanzia. Quasi senza rendersene conto, sorrise.
Come sbucato dal nulla, un uomo gli si avvicinò. Alto, sulla cinquantina, cappello, occhiali, bastone, e un lungo cappotto.
– Professor Goldstein! Mi ricordo di lei!
L’uomo sorrise.
– Anch’io mi ricordo di te. Eri così studioso, educato, disciplinato. Sempre in ordine. Anche l’ultima volta che t’ho visto eri in ordine. Avevi la divisa impeccabile.
L’uomo gli sferrò una bastonata, sbattendolo a terra
– La divisa della Hitlerjugend. Sì Joseph, mi ricordo di te.
– Ero un ragazzino! Avevo quattordici anni, non è stata una mia scelta, reclutavano tutti!
L’uomo sferrò un’altra bastonata.
– No, non tutti. Mio figlio non l’hanno reclutato, l’hanno preso. Ti ricordi anche di lui? Aveva la tua età di allora. E non ne avrà mai un’altra. È morto soffocato dal gas, insieme a me, a sua madre, e a sua sorella di cinque anni, mentre tu lucidavi i bottoni della tua divisa nuova.
L’uomo assestò una terza bastonata. Joseph si girò cercando di sottrarsi. Vide che attorno a loro le case in stile bavarese erano sparite. Restava solo una sconfinata distesa di neve percorsa da filo spinato.
– Non lo sapevo, non lo sapevo! – Piagnucolò.
– Allora non lo sapevi. Adesso lo sai però, vero? Quindi perché beatifichi quel viscido farabutto del tuo pio collega? Lui lo sapeva allora. Lui non era un ragazzino.
L’uomo sollevò a due mani il bastone, e fece per abbatterlo sul cranio di Joseph.
Joseph strillò coprendosi la testa con le braccia.
Fu assalito da un’ondata di calore bruciante.
Si ritrovò in una piazza deserta e assolata.
Accanto a lui un ragazzo bruno, dai grandi occhi neri, scuoteva la testa.
– Scommetto che quel babbione di Karol non t’ha spiegato quello che ti sarebbe successo stanotte. Voleva lasciarti la sorpresa — accennò un sorriso — sì, lui ha sempre avuto il senso dello spettacolo. Beh, come penso avrai capito, quello che hai appena incontrato era il fantasma del tuo passato. Io invece sono quello del tuo presente.
Improvvisamente la piazza si riempì di persone vocianti. Perlopiù uomini baffuti, e qualche donna velata. La folla afferrò Joseph e il ragazzo, li trascinò brutalmente, e li issò su d’un patibolo improvvisato.
– Ehi, no, un momento — gridò Joseph, dibattendosi — questi sono fanatici musulmani, non c’entro niente con loro!
Il ragazzo sospirò, mentre a entrambi legavano le mani dietro la schiena
– Ma Joseph, non senti come ci stanno chiamando? Ah, già, tu non sei poliglotta come Karol, non li capisci, beh, traduco io: nella città in cui abiti si dice “froci”. Già, quelli che tu preferisci vedere impiccati, che sposati. L’hai detto chiaro anche all’ONU.
– E tu sei?…
– Dici che non si vede? Certo che non si vede, stronzo. Non andiamo mica tutti in giro vestiti da drag queen come te.
Un paio di baffuti infilarono un cappio al collo del ragazzo, altri due fecero lo stesso con Joseph, che si torceva scalciando e urlando.
– Lasciatemi andare! Io questo frocio non lo conosco! Non lo toccherei mai!
– Che c’è Joseph, sono troppo vecchio per te? Su, non ti agitare, la morte per impiccagione è un’esperienza che non può mancarti, la sensazione di soffocamento, l’osso ioide che si spezza, gli occhi spinti fuori dalle orbite, io ci sono già passato, ma per te sarà meno doloroso, non ti toccherà veder morire nello stesso modo accanto a te anche la persona che ami.
La botola sotto i loro piedi s’aprì con uno scatto secco.
Joseph sentì lo strappo della corda.
Poi si ritrovò nell’oscurità.
Non riusciva più a percepire il suo corpo, né nient’altro attorno a se. Era come fluttuare nel nulla più angoscioso e assoluto.
«Ecco, adesso sono davvero morto» pensò.
«Errato» disse una voce metallica nella sua testa.
«Sei… Dio?» Pensò Joseph
«Errato» ripeté la voce metallica.
«Chi sei allora?»
«DIMON»
«Cosa?»
«Dspositivo Integrato di Mantenimento Organico Neurale»
«Che?»
Joseph sentì un click, poi ancora la voce:
«Guida tecnica, attendere prego… Guida tecnica – partì una specie di spot introduttivo — DIMON, il cyber-supporto che mantiene in vita ciò che resta del vostro cervello anche dopo l’incidente più devastante. Neanche un solo neurone attivo rimasto è troppo poco per noi, la vita è sacra. DIMON, approvato dalla Chiesa Rinata Unificata Cristiano-Capitalista d’Occidente.»
«Aspetta, tu saresti il fantasma del futuro? — Pensò Joseph — Vuoi dire che sono condannato a un’eternità di coma meccanico? Eh no, basta! Karol! Vecchio bastardo, dove sei? Noi abbiamo fatto un accordo! Tu mi hai lasciato il tuo posto, e in cambio io, quand’è arrivata la tua ora, t’ho fatto staccare la spina senza accanimenti. Ti ricordi? Beh, ho già fatto lo stesso accordo col mio successore, quindi non ci sarà nessun DIMON nel mio futuro, quest’incubo finisce qui, io me ne torno nel mio letto, e domattina lo faccio bruciare!»
Un altro click interruppe i suoi pensieri.
«Alterazione percettiva in atto. Schema consueto: il paziente rivive l’allucinazione avuta la notte di Natale in cui è stato colpito dall’emorragia cerebrale, e crede di poterne uscire come da un incubo, ritrovandosi nel suo corpo di allora. Terapia consigliata: elettroshock».
La scarica trasformò la marea di nulla in un oceano di dolore.
«Alterazione percettiva cessata. Il paziente è tornato consapevole della sua condizione attuale».
Mentre riemergeva dal dolore al nulla, a Joseph sembrò di sentire un lontano rumore di catene, e l’eco ghignante d’una frase.
«Che Dio ci benedica tutti quanti».

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