Fantahorror – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 The Last of Us: un’apocalisse intimista https://www.carmillaonline.com/2023/05/01/the-last-of-us-unapocalisse-intimista/ Sun, 30 Apr 2023 22:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76853 di Walter Catalano

Non si contano ormai i film o le serie TV direttamente tratte o derivate da videogiochi. In linea di massima l’abusato meccanismo spettacolare consiste nel ricalcare pedissequamente scenari e personaggi videoludici per indurre i fan del gioco a consumare passivamente anche l’audiovisivo rivivendone, almeno in teoria, le emozioni (e lasciandoli di solito insoddisfatti, data la natura non interattiva della fruizione cinematografica o televisiva rispetto a quella della console) e, in parallelo, auspicando che gli spettatori casuali dello show diventino acquirenti anche del gioco. Un automatismo analogo a quello [...]]]> di Walter Catalano

Non si contano ormai i film o le serie TV direttamente tratte o derivate da videogiochi. In linea di massima l’abusato meccanismo spettacolare consiste nel ricalcare pedissequamente scenari e personaggi videoludici per indurre i fan del gioco a consumare passivamente anche l’audiovisivo rivivendone, almeno in teoria, le emozioni (e lasciandoli di solito insoddisfatti, data la natura non interattiva della fruizione cinematografica o televisiva rispetto a quella della console) e, in parallelo, auspicando che gli spettatori casuali dello show diventino acquirenti anche del gioco. Un automatismo analogo a quello che regge le produzioni dei film di super-eroi, ispirate ai fumetti ma impossibilitate a ricreare la libertà immaginativa di una dimensione disegnata e priva di spazio, e perciò inevitabilmente cristallizzate in uno sterile e monotono parossismo virtuosistico di effetti speciali. Spettacoli riservati – salvo rare eccezioni – a teen agers incolti o ad adulti mentalmente deprivati dove, per bene che vada, conta solo l’action fine a sé stessa e lo spara-spara più trucido.

Non sempre è così però. The Last of Us, videogioco adventure pluripremiato, sviluppato nel 2013 da Naughty Dog sotto la direzione creativa di Neil Druckmann e Bruce Straley, e pubblicato da Sony per varie piattaforme di playstation, infrangeva gran parte delle regole videoludiche più codificate centrandosi soprattutto sui personaggi, problematici e psicologicamente credibili, e sui loro rapporti; sull’empatia riguardo a coesione ed interazione fra individui, più che sulla velocità di reazione da parte del giocatore. Il successo unanime di un’avventura a suo modo intimista, in cui il delicato evolversi, nel corso di sanguinose peripezie vissute insieme, del rapporto padre-figlia fra due estranei, un adulto e una ragazzina, conta quanto, e forse addirittura di più, dello scenario apocalittico da survival-horror, dimostra che esiste un pubblico meno sprovveduto di quanto si vuole credere. C’era bisogno soprattutto, per ottenere questo risultato eccellente, di uno scrittore originale e coraggioso –  Neil Druckmann – di un’ineccepibile grafica iperrealistica che restituisse quasi fotograficamente i paesaggi – in rovina – di Boston, Lincoln, Pittsburgh, Jackson, il Colorado e Salt Lake City, località attraversate dai protagonisti nella loro odissea; e di una colonna sonora di grande impatto, centrata sull’emozione e non sull’orrore, come quella realizzata dal compositore argentino Gustavo Santaolalla.

Era ovvio che dopo un tale successo nel campo dei videogiochi seguisse la necessità di un adattamento seriale e nel corso del 2021 viene finalmente realizzata la serie TV distribuita da HBO, in nove puntate, girata interamente in Canada e dichiarata la più grande produzione televisiva nella storia canadese. Lo showrunner è Craig Mazin, creatore della miniserie Chernobyl, in collaborazione con lo stesso Neil Druckmann, direttore creativo del videogioco; anche la colonna sonora resta di competenza del già esperto Gustavo Santaolalla in coppia con David Fleming. I protagonisti sono incarnati rispettivamente da Pedro Pascal, già noto per il ruolo del principe Oberyn Martell di Dorne in Il Trono di Spade e per quello dell’ispettore Peña in Narcos, e la giovane Bella Ramsay che ha debuttato come Lyanna Mormont sempre in Il Trono di Spade e si è distinta come Angelica nella seconda stagione di His Dark Materials. La selezione del cast risulta particolarmente azzeccata anche rispetto ai personaggi del videogioco: è stata molto dibattuta, ad esempio, la scelta della Ramsay, Bella di nome ma, secondo il superficiale giudizio di alcuni, non di fatto; la figura non della solita lolita bambolesca ma di un’adolescente normale, addirittura bruttina – almeno secondo i criteri convenzionali – conferisce invece al personaggio uno straordinario carisma, assai superiore all’omologo originale. Senza nulla togliere alla grande efficacia di Pedro Pascal, è Bella che – con il suo cipiglio determinato capace tuttavia di sciogliersi in certi momenti in sorrisi di devastante dolcezza – emerge come la rivelazione e la vera star dello show.

La trama del serial resta molto fedele a quella del videogioco, a parte alcune importanti modifiche che approfondiremo via, via più avanti. Una storia che, a grandi linee, si colloca all’interno del genere fanta-horror apocalittico-survival, sicuramente ispirato allo zombie-movie nella tradizione di Romero (ma più quello dei Crazies de La città verrà distrutta all’alba che quello dei Ghouls del ciclo dei Living Dead); al The Walking Dead di Robert Kirkman (il cui apporto creativo al sottogenere si può ormai considerare definitivamente concluso visto la monotonia e la ripetitività senza sbocchi del fumetto e delle serie derivate, Fear The Walking Dead, ecc. Kirkman stesso è diventato uno zombie…); al classico di Richard Matheson I Am a Legend del 1954 con tutta la cospicua filmografia a questo ispirata, o ai suoi corrispettivi colti come The Road di Cormac McCarthy e il film omonimo che ne ha tratto John Hillcoat.

L’intuizione narrativa più notevole di Druckmann è il presupposto strettamente scientifico dato come causa dell’infezione pandemica che provoca il crollo dell’umanità, collocandola così in pieno campo sci-fi, più vicina, quanto a modelli fumettistici, a L’Eternauta che a The Walking Dead. Il fungo parassita Cordyceps – realmente esistente, chi è interessato può leggerne l’interessantissima descrizione botanica nel best-seller divulgativo L’ordine nascosto: la vita segreta dei funghi di Merlin Sheldrake – che infesta insetti, in particolare formiche, condizionandone il comportamento tramite sostanze psicotrope rilasciate nell’organismo e riempiendone il corpo con il proprio micelio fino a uccidere l’ospite e perforarne l’esoscheletro con ife capaci di liberare nuove spore in posizione favorevole per ricadere e germinare su altri artropodi, fa uno spillover a Giava nel 2013 (anno di uscita del gioco, che diventa 2003 nella serie, in modo che l’azione descritta, che si svolge vent’anni dopo il contagio globale, coincida con il 2023 quando lo show viene messo in onda). Il Cordyceps comincia ad attaccare gli uomini invece degli insetti trasformandoli in un incrocio fra i crazies e gli zombies romeriani, ma dai movimenti niente affatto rallentati, semmai accelerati, dalla forza e dalla capacità di incassare i colpi moltiplicata e con orribili infiorescenze fungiformi che fuoriescono da tutti gli orifizi corporei: il culmine è raggiunto nel Bloater, un infetto nel cui corpo il parassita ha proliferato per anni rendendo l’ospite una sorta di uomo-fungo gigante e potentissimo. Nel videogioco il contagio non avviene solo tramite il morso di persone infette o lo scambio di fluidi con esse, ma anche con l’inalazione delle spore del fungo che vengono disperse e possono permanere nell’aria. Nella serie invece si è preferito eliminare quest’ultimo aspetto per evitare che gli attori indossassero troppo spesso maschere antigas o simili, limitandone movimenti ed espressività. E’ stata invece aggiunta l’idea, assente nel gioco, della rete di comunicazione fungina tramite micelio che consente agli infetti di trasmettersi informazioni anche a grande distanza.

Le altre variazioni apportate non modificano sostanzialmente lo scenario fondamentale ma riguardano solo piccoli snodi della trama o personaggi minori. ll protagonista della storia resta Joel Miller, che ha perduto tragicamente la figlia teen ager nei primi giorni del contagio, vent’anni dopo è ormai un uomo assuefatto alla morte e alla violenza, in una civiltà decimata dall’infezione, e costretta a vivere in zone di quarantena sotto uno stretto regime poliziesco. Joel è un contrabbandiere nella ZQ, zona di quarantena di Boston, e assieme alla compagna Tess dà la caccia a Robert, un trafficante del mercato nero, per recuperare armi che ha loro sottratto. L’uomo ha però venduto il carico alle Luci (Fireflies nell’originale), una milizia ribelle che si oppone alle autorità della FEDRA, forza militare che controlla le zone di quarantena. Così Joel e Tess incontrano Marlene, capo delle Luci, che affida loro un compito: scortare la quattordicenne Ellie incolume, a un gruppo di suoi compagni nel palazzo del Governo, fuori dalla zona di quarantena. Ellie, si scoprirà, è così importante perché è stata morsa e non si è infettata, è presumibilmente immune al contagio del Cordyceps: studiandone l’organismo in un laboratorio attrezzato si potrà cercare di ottenere un prezioso vaccino. Giunti fortunosamente a destinazione i tre trovano però tutti morti e il palazzo del Governo pieno di infetti, Tess, morsa a sua volta, si sacrifica per permettere ai due sopravvissuti di mettersi in salvo. A questo punto non resta a Joel che intraprendere un disperato viaggio attraverso un’America devastata per ritrovare le Luci e Marlene, e consegnare loro Ellie, portando comunque a termine altrove la missione che potrebbe rappresentare la salvezza dell’umanità.

Non mi dilungo oltre sulla trama per non spoilerare eccessivamente. Da segnalare l’estrema compattezza figurativa della ricostruzione filmata che rispetta ed esalta i toni plumbei e deprimenti della grafica del gioco. Interessante lo scavalcamento di molti degli stereotipi del sottogenere che vengono non infranti o disattesi ma aggirati e riletti in chiave intimista e psicologistica. Si evita, pur nel ripetersi inevitabile di certe situazioni e personaggi chiave – il maggior pericolo, ormai lo sappiamo, sono gli uomini, molto più dei mostri, crazies, zombies o mezzi funghi che siano – di cadere nella noia mortale del meccanismo risaputo e prevedibile in cui languono da anni The Walking Dead e i suoi epigoni. La raffinatezza formale delle produzioni HBO emerge come sempre e il tono generale della serie è fortemente caratterizzato e peculiare. Molto equilibrato l’alternarsi di scene d’azione concitate e violente ad altre statiche e riflessive di dialogo o di significativi silenzi, così come il passaggio da descrizioni spietate – Joel realisticamente non si fa più scrupoli morali e, per proteggere Ellie o sé stesso, non esita ad uccidere a sangue freddo anche prigionieri inermi, feriti o disarmati – ad altre di tacita e velata ma profonda tenerezza. La storia alla fine è quella di un padre che ritrova la figlia perduta.

Interessante anche il modo non stereotipato in cui gli sceneggiatori affrontano il tema dell’omosessualità nella quinta e nella settima puntata. I personaggi di Bill e Frank, presentati come gay anche nel gioco, ma del tutto secondari, acquistano nell’episodio cinque profondità e spessore: il burbero Bill, isolato nel suo quasi inespugnabile rifugio, si ritrova per caso ad ospitare il gentile e leggiadro Frank e il loro temporaneo sodalizio si trasforma nella convivenza decennale di due coniugi; se Bill sembra all’inizio accettare le affettuosità di Frank solo per interrompere una troppo pesante solitudine in mancanza di donne disponibili, il rapporto fra i due si trasforma presto in una delicata e romantica storia d’amore con tanto di suicidio finale a due, in stile Tristano e Isotta o Giulietta e Romeo. Con la stessa mancanza di forzature si allude nell’episodio sette – ispirato a Left Behind, espansione prequel del gioco – al rapporto fra Ellie e l’amica Riley Abel, un gioco di bambine dalle soffuse sfumature omoerotiche in un grande magazzino abbandonato: l’idillio è bruscamente interrotto da un infetto che le attacca mordendole entrambe; Ellie scoprirà così la propria immunità ma sarà costretta a uccidere l’amica non altrettanto fortunata.

Sull’immunità di Ellie, in preparazione della seconda stagione già annunciata, viene fornita una spiegazione assente nel gioco, aggiungendo un episodio inedito finale che permette, tra l’altro, di dare un ruolo nello show ad attori che avevano prestato voci e fattezze ad altri personaggi sulla console: la madre di Ellie, incinta, viene morsa da un infetto e partorisce poco dopo. L’amica Marlene, futuro capo delle Luci, dovrà ucciderla promettendo però di prendersi cura della bambina appena nata.

In conclusione dunque un grosso lavoro di riscrittura e rielaborazione del testo che lo reinventa e lo riadatta ad un altro linguaggio, in encomiabile autonomia, tracciando un percorso inedito nella storia non sempre entusiasmante delle trasposizioni dalla console allo schermo. The Last of Us, pur facendo parte del sottogenere forse più abusato di questi anni pandemici in cui lo zombie-apocalypse sembra l’unica prospettiva concreta del genere umano – un’iperstizione per dirlo come gli accelerazionisti – riesce ancora ad emozionare e a coinvolgere. Forse nelle peripezie di Joel ed Ellie anticipiamo catarticamente la visione distorta di quanto ci tiene in serbo il nostro imminente futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Archive 81: Podcast lovecraftiani e Found Footage apocrifi. https://www.carmillaonline.com/2022/04/25/archive-81-podcast-lovecraftiani-e-foud-footage-apocrifi-2/ Sun, 24 Apr 2022 22:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71478 di Walter Catalano

La serie Archive 81, che l’edizione italiana correda di un sottotitolo non proprio originalissimo Universi alternativi, è uno show in 8 episodi disponibile sulla piattaforma Netflix. Prodotta insieme dalla Atomic Monster di James Wan e Michael Clear (Saw, The Conjuring, Malignant) con la showrunner Rebecca Sonnenshine (The Boys, The Vampire Diaries), e diretta da registi così diversi come Rebecca Thomas (Stranger Things, Limetown), Haifaa Al-Mansour (La bicicletta verde, Mary Shelley – Un amore immortale, La candidata ideale) e i disneyani e marveliani Justin Benson e Aaron Moorhead (The Endless). Si distacca dall’ordinaria banalità di gran parte dei thriller [...]]]> di Walter Catalano

La serie Archive 81, che l’edizione italiana correda di un sottotitolo non proprio originalissimo Universi alternativi, è uno show in 8 episodi disponibile sulla piattaforma Netflix. Prodotta insieme dalla Atomic Monster di James Wan e Michael Clear (Saw, The Conjuring, Malignant) con la showrunner Rebecca Sonnenshine (The Boys, The Vampire Diaries), e diretta da registi così diversi come Rebecca Thomas (Stranger Things, Limetown), Haifaa Al-Mansour (La bicicletta verde, Mary Shelley – Un amore immortale, La candidata ideale) e i disneyani e marveliani Justin Benson e Aaron Moorhead (The Endless). Si distacca dall’ordinaria banalità di gran parte dei thriller soprannaturali in circolazione per la natura originalmente metalinguistica della sua trama.

Per cominciare non deriva dall’adattamento di un libro, un fumetto o un videogame ma da un omonimo podcast: una forma di espressione massmediale che utilizzando le possibilità date dall’agilità del web come evoluzione tecnologica del linguaggio radiofonico, si è imposta dopo il boom di massa del true crime statunitense Serial del 2014, come nuova frontiera dello story telling. Un esempio nostrano è Veleno di Pablo Trincia, podcast divenuto in seguito libro e serie tv di successo. Il podcast originario Archive 81 è invece la docuserie thriller/scifi creata nel 2015 da Daniel Powell e Marc Sollinger, due podcaster indipendenti in caccia di casi irrisolti e fenomeni inspiegabili.

La storia – non direttamente tratta da alcuna di quelle del podcast – racconta dell’archivista Dan Turner (Mamoudou Athie), restauratore di nastri, cassette e pellicole per il Museo delle Immagini in Movimento, un orfano reduce da un esaurimento nervoso la cui famiglia, tranne il cane, è scomparsa in un incendio, che accetta l’incarico di restaurare una collezione di videocassette VHS danneggiate in un altro incendio nel 1994, utili per motivi processuali. Chi lo ingaggia è una strana e irrintracciabile società gestita da un misterioso imprenditore miliardario, Virgil Davenport (Martin Donovan), che gli offre la spropositata cifra di 100mila dollari. Il lavoro si svolgerà in un luogo isolato in mezzo ai boschi in un’enorme casa fuori New York, perché le cassette non vanno assolutamente spostate né portate in giro. Ovviamente scoprirà presto che la residenza di proprietà della multinazionale di Davenport, per quanto confortevole, è piuttosto inquietante: il cellulare lì prende poco, non c’è internet e, soprattutto, la casa sembra nascondere più di un segreto. Le cassette che Dan pazientemente visiona e restaura costituiscono la tesi di laurea filmata della documentarista laureanda in studi umanistici Melody Pendras (Dina Shihabi) che nel 1994 ha preso alloggio nel condominio Visser, nell’East Village di New York, per intervistarne gli inquilini e tracciare una specie di descrizione filmata di un ecosistema urbano in miniatura. Come Dan scoprirà presto l’edificio distrutto nell’incendio da cui le cassette sono state recuperate è proprio il condominio Visser: c’è un filo che collega quel rogo al suo datore di lavoro e, soprattutto, quel filo collega anche Melody a lui.

A questo punto interrompiamo il riassunto dicendo solo che la progressiva immersione di Dan nel found footage, lo introdurrà ad un mondo di culti apocalittici, entità demoniache aliene e orrore cosmico in pieno stile Lovecraft, sviluppato però attraverso due diversi piani temporali che si intrecciano: non semplicemente collegando due trame separate – procedimento tipico del flashback – ma lungo un’unica linea narrativa che si biforca e si flette come un nastro di Moebius.

Una New York sinistra che molto ricorda figurativamente quella del polanskiano Rosemary’s Baby è solo apparentemente lo scenario di un mockumentary sulla scia di quelli degli anni ’90 e 2000, dopo il successo di The Blair Witch Project, quando l’horror si dibatteva tra la narrazione tradizionale in terza persona, e la simulazione della realtà in soggettiva. Archive 81 si avvale di un passaggio fluido dall’una all’altra: la soggettiva della videocamera di Melody, con la sua qualità sgranata da video analogico anni ’90, è la soglia del tempo, il campo il cui controcampo, divenuto esterno e oggettivo, ci porta nel passato. Da principio il risultato è spiazzante. Lo spettatore pensa di trovarsi di fronte a un racconto sviluppato su un’unica linea temporale in cui Dan visiona i nastri di Melody, e invece viene risucchiato su una seconda linea temporale di fronte alla “vera” Melody. Due tempi diversi su un’unica linea narrativa. La videocassetta è un viaggio nel tempo: cifra stilistica e messaggio teorico e metatestuale che si alimenta dell’ambiguità e polisemia del proprio oggetto. In sostanza un superamento e una negazione del found footage: scavalcando il discorso filmico costruito sui materiali audiovisivi recuperati, sui ritagli e gli scarti veicolo della visione, se ne disconosce la funzione veritativa.

Il found footage visionato da Dan si trasforma quindi in girato classico, e lunghi tratti narrativi restano nel passato, a seguire gli eventi nell’edificio Visser prima dell’incendio. Permane il possibile equivoco tra ciò che Dan ha potuto scoprire dalle cassette e ciò che invece lo spettatore conosce solo grazie al punto di vista di Melody: non tutto quel che l’uomo apprende viene oggettivamente registrato dalla ragazza (che filma spesso, ma non sempre).

La narrazione resta comunque strettamente legata agli elementi multimediali che determinano la trama: videotape, schermi, videocamere di sorveglianza, fotografie, perfino il rumore bianco che accompagna intere sequenze, non sono solo elementi atmosferici e stilistici ma parti costituenti dell’intreccio. La tecnologia è il portale del “soprannaturale”, delle “forze estranee”, dell’”oltre” (si pensi non solo al filone mockumentary derivato dal già citato The Blair Witch Project, ma anche a The Ring e affini): filmati difettosi e sgranati finiscono sugli schermi di ultima generazione di Dan; il “recupero” dell’archivista mediatico è il punto di unione dei mondi: i dagherrotipi della fotografia spiritica vittoriana diventano gli occhi elettronici delle telecamere di sorveglianza, a conquistarsi grazie al progresso tecnologico, sempre maggiori frammenti di invisibile.

Anche l’operazione nostalgia di Netflix – il cui culmine è Stranger Things – con l’occhieggiare al cinema degli anni 80/90, è contemporaneamente affermata e negata da Archive 81. Non a caso la storyline di Dan è ambientata ai giorni nostri, mentre quella di Melody a metà anni Novanta, in stretta relazione alle rispettive tecnologie disponibili: in senso più o meno metaforico il terrore viene dal passato, le pratiche stregonesche, i culti innominabili, sono fantasmi di arcaismi rimossi, specchi del terrore di un ritorno al passato, a pratiche primitive, rituali, in altre parole analogiche. Invece di evocare facili nostalgie e mistificazioni feticistiche, Archive 81 utilizza il vintage per “demonizzarlo”. Se ambivalente è il rapporto col tempo e la tecnologia, ambivalente è anche l’entità (para-lovecraftiana) chiamata Kaelego che da questi elementi riemerge: un dio e un demone a un tempo, dal cui culto si sono originate due diverse sette in lotta tra loro, entrambe pericolose nonostante le linee di pensiero in contrapposizione. Metafore fantastiche delle diverse possibilità di indagare le proprietà spettrali delle immagini analogiche e digitali dietro lo schermo, di approfondire gli effetti delle infestazioni che affliggono lo sguardo dello spettatore (cosa si sta guardando/chi sta guardando), di interrogarsi sull’impatto con cui la metamorfosi mediatica – ancora in atto nella nostra società – abbia cambiato drasticamente e continui a modificare le nostre abitudini e il nostro modo di relazionarci in senso antropologico e culturale.

L’aspetto più riuscito della trasposizione televisiva di Archive 81, è l’approccio postmoderno alla narrazione, allusivo, multistratificato, metalinguistico e intertestuale. Un meccanismo che mescola una lettura “presente” (guardare ciò che dice/mostra la serie) a un’azione “memoriale” (riconoscere il già detto/già visto), l’archivio del titolo diventa inclusione del passato nel presente, diventa quindi anche archivio di citazioni cinematografiche e letterarie, più o meno esplicite, sparse lungo il corso dei vari episodi: un catalogo di film fantastici, Shining, The Night of the Living Dead, Rosemary’s Baby, Solaris, i film a cui Dan è appassionato, il podcast presentato dall’amico Mark che ripropone gli audioracconti e i libri di fantascienza degli anni Cinquanta, fino alla passione di Melody per il cartone animato Brisby e il segreto dei Nimh, famoso soprattutto negli Stati Uniti, e le insistite panoramiche sulle librerie dei personaggi occupate principalmente dai libri di Stephen King.

Alcuni critici hanno rinfacciato alla serie una certa lentezza nella prima parte. In realtà i lunghi dettagli sulle manipolazioni delle cassette in VHS per il restauro sapientemente operato da Dan, rispecchiano quel feticismo – materico in questo caso – per le tecnologie del passato di cui già si è detto: un elemento importante che costituisce proprio il fascino e la particolarità dello show. A mio parere è proprio tutta la prima parte la più affascinante, anche per questi tempi dilatati e inusuali (in certi momenti fanno quasi pensare ad una versione più pulp di David Lynch). E’, nel caso, la parte finale che rientra su tempi tecnici e binari narrativi assai più canonici. Se le domande iniziali sono inquietanti, le risposte finali rimandano alla comfort zone abituale del pubblico di horror, l’enigma perde di fascino e forza e persino il leitmotiv delle videocassette da restaurare diventa sempre più marginale. La storyline del passato di Melody, da un certo punto in poi, predomina sul presente, sbilanciando il racconto e interrompendo quella dialettica cronologica e narrativa che costituiva l’originalità della serie.

Arrivati all’ultimo episodio, mentre la televisione annuncia la morte di Kurt Cobain, siamo ormai sbalzati, con i due protagonisti ora riuniti, nel passato dell’incendio: smarriti nell’ennesimo loop temporale, aspettiamo la seconda stagione augurandoci che riprenda più gli aspetti atipici che quelli classici di questa, complessivamente notevole, prima stagione.

 

 

 

 

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Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (II) https://www.carmillaonline.com/2019/08/26/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-ii/ Mon, 26 Aug 2019 21:05:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54308 di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata serie di comunità o gruppi segreti. Ciò che rileva, infatti, non è tanto un inquadramento “teorico” del soggetto – cosa sia o non sia una setta – ma un contesto narrativo e una serie di stereotipi e dinamiche.

Accanto alle sette vere e proprie, dunque, potremo repertoriare da un lato società e ordini segreti o almeno velati da un silenzio iniziatico come Rosacroce, Massoneria e Illuminati, connotati da un peculiare esoterismo; dall’altro ordini religiosi storicamente riconosciuti ma oggetto di particolare mitopoiesi come i Templari. Ma anche quelle comunità cultuali che per fanatismo, marginalità o vocazione al segreto gli sceneggiatori apparentano di fatto – e con tutti i pregiudizi del caso – alle sette: certi culti esotici, per esempio, non importa quanto fantasiosi (per esempio il culto di Karnak dei film sulla Mummia reviviscente, o i simil-Thug di Indiana Jones e il tempio maledetto).

Per contro non andrebbero comprese nell’analisi (per assenza di un sottotesto magico-religioso dal concreto impatto sulla trama) le società segrete o criminali, anche se connotate nella descrizione filmica da richiami forti a simboli, riti e valori. Al di là di un certo apparato, si pensi solo a quei Beati Paoli di discussa esistenza storica, celebrati all’inizio del Novecento da Luigi Natoli e sul (piccolo) schermo per esempio in un famoso sceneggiato nostrano, L’amaro caso della baronessa di Carini di Daniele D’Anza, 1975.

Ma è l’immaginario a definire i confini. Così, per quanto a rigore le vicende della Family di Manson appartengano all’insieme dei gruppi criminali assai più che alle sette nell’accezione dell’antropologia religiosa, i confusi connotati “filosofici” del gruppo, le orrende modalità del crimine e il tipo di contesto retrostante finiscono con l’avvicinare al tema del diabolismo: solo l’anno prima Roman Polański, marito dell’attrice Sharon Tate – la vittima più nota dell’eccidio, all’ottavo mese di gravidanza – aveva girato quel sulfureo Rosemary’s Baby, 1968 che parlava proprio di una setta satanica e della nascita dell’Anticristo.

In secondo luogo si è accennato al filone delle sette come a un subgenere cinematografico – come, per intendersi, il vampire cinema oppure il cinema demoniaco. Ma anche da questo versante il discorso è più sfumato, visto che nei singoli casi la setta può non rappresentare affatto il “mostro” principale o più evidente. Si pensi ai citati film sulla Mummia reviviscente o a quelli che richiamano gli zombie alla loro origine folklorica: la setta c’è eccome – nel primo caso un sopravvissuto culto egizio, nel secondo un Vudu riletto più o meno fantasiosamente – ma resta in secondo piano o decisamente defilata rispetto al suo alfiere teratologico (che magari si ribellerà, ucciderà l’arci-vilain capo della setta eccetera). Oppure si considerino i film sulla stregoneria: solo in certi casi presentano una collettività streghesca, e a volte le streghe non appaiono affatto, anche se l’inquisitore di turno si mostra molto indaffarato coi roghi e possiamo parlare di setta presunta – che però può avere peso concreto nella trama.

Nel tentativo dunque di porre ordine in una materia tanto sfuggente, un criterio potrà ravvisarsi – con tutta l’elasticità del caso – nella tipologia di setta, in riferimento cioè all’oggetto del “culto” in scena. E una prima e fondamentale categoria riguarderà ovviamente le sette religiose – le più diffuse senz’altro nel tessuto sociale, anche se non necessariamente le più rappresentate al cinema. Da un primo fronte potremo anzi distinguerle in due ampi filoni: le sette emerse dall’interno dell’Occidente che conosciamo, a espressione di ipotetici revival pagani o invece di istanze criptoecclesiali, giocate sul rapporto fanatismo/plagio o sulla resistenza alla chiese dominanti; e le sette venute dall’esterno, connotate in genere da aggressive e pittoresche forme di esotismo. Esotismo geografico, come nel caso di quelle d’importazione dall’Africa selvaggia o dal predatorio Oriente, secondo i più vieti stereotipi transitati attraverso il pelago della cultura popolare tra Otto e Novecento; ma anche esotismo cronologico, in riferimento a realtà del passato evocate nei film in costume, oppure sopravvissute o riemerse dal passato entro il grembo del nostro tempo, come il citato culto di Karnak dei film sulla Mummia.

Un secondo filone, meglio rappresentato su schermo, riguarda la galassia di magia e stregoneria. Le sette insomma dell’occulto, variamente declinato: e se per le streghe, che aprono un orizzonte vastissimo di problemi, occorrerebbe circoscrivere l’esame agli aspetti di un “culto” più o meno recuperato dalla divulgazione popolare (non è detto che un film dov’è in scena una singola strega alluda a una qualche sua collettività di appartenenza), altre comunità emergono in toto dal mondo della fiction. Si pensi ai culti blasfemi ispirati agli scritti di Lovecraft, che con abbondanti forzature troveranno via via spazio nel cinema, o (per dire) allo sfuggente e bizzarro culto dei Pantos delle fantasie horrotiche del regista Jess Franco. A quest’ambito variegato si possono peraltro accostare anche le sette evocate dai film di vampiri – sette di vampiri o comunque legate a vampiri, riti di sangue e ansie d’immortalità – o di licantropi: sottofiloni che negli ultimi anni, attraverso il successo della saga Twilight e le divagazioni di un (com’è stato definito) romanticismo sexy, sia pure al plasma, hanno visto moltiplicarsi nella fiction conventicole sempre più simili alle associazioni adolescenziali da college.

Terzo grande gruppo, di conclamata rilevanza nell’immaginario e dunque ovviamente importantissimo su schermo, è poi quello delle sette sataniche – o più generalmente diaboliste. Varato dal capolavoro non sufficientemente conosciuto di Edgar Ulmer, The Black Cat, 1934, il filone è quello che con più pertinacia ripropone gli stereotipi del modello-setta offrendo materia ogni anno a un numero non compiutamente repertoriabile di pellicole.

A tali macroaree dovranno però aggiungersi altri insiemi filmicamente meno rappresentati e con legami più problematici con il modello-setta, pur trattenendone alcune caratteristiche nelle trame. Troveremo per esempio le citate società segrete “storiche” di tipo esoterico (Illuminati, Rosacroce eccetera…) ovviamente nell’ambito di liberissime riletture; certi gruppi di controllo e cospirazione a carattere sociopolitico (sette votate al dominio, sette di ricchi, gruppi “preoccupati”), o connotati sul piano generazionale (confraternite giovanili, hippies, “sette” di bambini) o sessuale (come certe sette femminili). Oltre ad altri gruppi chiusi che gli stilemi cinematografici riconducono in termini più o meno riconoscibili al modello-setta.

 

1.3. Le stagioni della setta

Nella produzione filmica in tema di sette è possibile individuare quattro periodi fondamentali.

Il primo e più lungo periodo potrebbe essere definito come età del feuilleton. La setta è descritta secondo gli stilemi di tutta una produzione romantica/gotica su società e gruppi segreti: l’arsenale tenebroso e pittoresco, l’esotismo e l’enfasi su un passato tirannico, il dominio arcano su forze misteriose e minacciose, i melodrammi delle eroine sono elementi che sottolineano uno scarto tra l’esperienza mostruosa della setta e la realtà sociale “normale” cui appartiene lo spettatore. Non che manchino, intendiamoci, richiami all’inquietudine; ma la setta è un paradigma dell’estremo che interpella solo in via di eccezione. In questi anni, seminale è l’opera di fiction del “principe degli scrittori thriller” tra i Trenta e i Settanta, Dennis Wheatley (1897-1977): tutti coloro che in seguito immagineranno il theatrum delle sette si rifaranno in modo diretto o indiretto a lui, e una delle ultime grandi opere di questa fase è The Devil Rides Out, 1968, tratto dal suo omonimo romanzo, diretto per la Hammer da Terence Fisher e sceneggiato da Richard Matheson.

La svolta si ha idealmente con il caso Manson, che punta diretto al cuore del cinema ma scatena il panico non solo a Hollywood: altri crimini della Family hanno colpito gente comune, talora con teatrale atrocità, e il combinato di totale devozione dei membri, difficoltà di provare le accuse a Manson e impossibilità di circoscrivere con chiarezza un gruppo tanto sfuggente (ammiratori e fiancheggiatori non si contano) spiazza gli investigatori e alla fine il pubblico. Colpita è una certa immagine dell’America, e il caso finisce col segnare una svolta nell’immaginario già investito dal terremoto simbolico del ’68: la carica di sovversione recata dalla setta sembra sovvertire in chiave satanica i valori di un paese fondato con la Bibbia in mano, minacciare ogni possibile ambito, infiltrarlo in radice (perverte persino il “peace and love” marca hippie), annunciare la presunta apocalisse sociale dell’Helter Skelter. Anche attraverso il sensazionalismo da rotocalco di un’epoca in cui le fonti per comprendere un fenomeno sono limitate e l’esplosione coeva del grande revival magico (che potremmo simbolicamente datare all’uscita nel 1970 di Man, Myth & Magic: An Illustrated Encyclopedia of the Supernatural is an encyclopedia of the supernatural a cura di Richard Cavendish, ma ovviamente vede una quantità di tasselli precedenti), il mostro-setta entra così a piedi uniti nel genere horror. Che sta capitalizzando proprio le confuse dinamiche di un’età di ribellione – si pensi agli innumerevoli film sulla persecuzione delle streghe, già avviati dal leggendario The Witchfinder General (Il Grande Inquisitore) di Michael Reeves, 1968 – e trova in quel soggetto teratologico collettivo un tema importante. Al di là di abbondanti concessioni al pruriginoso, i film di questo periodo – che potremo appunto chiamare età dell’Helter Skelter – rivelano ancora a una lettura odierna la propria carica provocatoria. Una dimensione che però alla fine degli anni Settanta tende a esaurirsi.

Se è difficile ravvisare un punto di svolta, pare possibile riconoscerlo almeno a fini convenzionali nel 1978: in corrispondenza cioè con un nuovo terribile evento di forti ricadute sull’immaginario, il cosiddetto massacro della Guyana. A portare alla morte di novecentodiciotto persone, bambini compresi, non è un satanista (come spesso viene imprecisamente definito Manson) votato all’eversione ma un religioso, il reverendo Jim Jones del Tempio del Popolo: e il rapido approdo su schermo di un evento tanto eclatante – Guyana: Crime of the Century (Il massacro della Guyana) di René Cardona Jr., 1979 – è già indicativo di un nuovo modo di raccontare le sette. Potremmo parlare di età dell’ordinaria crudeltà per il periodo che giunge fino all’inizio degli anni Novanta: esaurita la valenza provocatoria del tema – come per molti altri sottofiloni gotici, si pensi al vampire cinema – con l’età del riflusso la tendenza è di confezionare prodotti “sicuri” nel segno di uno stile definito come originalità decorosa. Non che, ovviamente, manchino in assoluto film coraggiosi; ma a livello diffuso, abbandonate le emozioni del classico feuilleton e anche quelle della rivolta lisergica, la setta diviene uno stereotipo mostruoso come altri, in un continuo rilancio all’atroce.

Con l’inizio degli anni Novanta, però, l’horror e in genere il fantastico conoscono una nuova primavera: e pare emblematica l’uscita nel 1991 del film La Setta di Michele Soavi. In questa fase la riscoperta dei classici del passato (anche grazie a strumenti come VHS, DVD e comunque il web), l’intento di recuperarne il sapore anche filologico, il dialogo con la cultura neogotica conducono a un’attenzione nuova ai miti neri. In tale età gnostico-gotica (così potremmo chiamarla) che vedrà figure antiche riprendere quota con impreviste impennate le sette ritrovano un ruolo importante nell’immaginario cinematografico. Si diffonde nella cultura popolare una fascinazione un po’ New Age per quel filone criptoecclesiale che già annuncia Dan Brown, e permette di innestare nel vecchio arsenale paleogotico (abbazie dirute, inquietanti segreti, ambigui monsignori…) un nuovo esoterismo di consumo: un fenomeno oggi arretrato ma conservando il valore di un riferimento “eccellente” e un certo target. Emblematico anche il successo di altre fantasie gotiche che con le sette possono trovare connessioni, dal fantasy gotico della saga di Harry Potter – che riporta in circolazione il tema dei gruppi magici – alla variegata offerta (Buffy, Twilight) in tema di vampiri e relative collettività segrete: anche su questo fronte si assiste oggi a un arretramento, ma si tratta di temi ormai entrati nell’immaginario collettivo.

Se, a distanza di quasi trent’anni, i richiami al “mostro plurale” iniziano a sembrare un po’ logori (ma sempre godibili e magari sanamente provocatori se gestiti con intelligenza) non è in questione forse solo la rapidità con cui il nostro mondo usa e getta. Il fatto è che l’età del sospetto ha ormai scoperchiato le cripte un tempo segrete: non perché il segreto in quanto tale non abbia più spazio nel nostro mondo iperconnesso, ma perché quelli che davvero esistono sono affogati nella chiacchiera. Montate come maionese dai social, bufale e crociate antibufale (magari per imbavagliare il web) presentano la stessa assenza di logos. Il cospirazionismo e il suo fratello gemello, l’anticospirazionismo di comodo – quello che inibisce qualunque dubbio sulla realtà come presentata, in nome d’interessi che restano di classe e non equivocamente di casta, nuovo nome della setta – lavorano felici assieme.

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Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (I) https://www.carmillaonline.com/2019/08/23/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-i/ Fri, 23 Aug 2019 21:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54254 di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo [...]]]> di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo relativamente limitato esplode nei media sparigliando tutte le carte. La società americana è colta alla sprovvista dall’orrore e insieme dal carattere sfuggente della vicenda (la tesi di un apocalittico conflitto sociale che Manson avrebbe inteso scatenare attraverso gli omicidi risulta almeno fantasiosa, e legata – il memoriale Helter Skelter del prosecutor Bugliosi è abbastanza chiaro – alle difficoltà probatorie di sostenere l’accusa al malefico santone); e pur avviando un periodo di forte tensione, l’eccidio perpetrato dalla cosiddetta Family di Manson non porta a una generalizzata caccia alle streghe verso le controculture, come forse sarebbe avvenuto in altri momenti. Ma certo quel caso offre su un piatto d’argento all’immaginario collettivo – tra motivi concreti e stigmatizzazioni di parte, anche a seconda dell’approccio assunto dall’osservatore verso le realtà alternative – un nuovo volto della rivolta beat, ben più imprevedibile e allarmante. Sul tema, estremamente complesso, in questa sede non si entra.

Ciò che invece interessa è un altro contraccolpo immaginale. Il caso Manson influisce infatti in modo irreversibile sull’idea di setta presente in narrativa ma soprattutto sugli schermi, e che perde improvvisamente i connotati da feuilleton conservati fino a quel punto per assumerne di assai più sinistri.

 

1.1. Uomini e topoi

Di fronte all’odierno brulicare nella fiction (horror, storie fantastiche, thriller, polizieschi, e l’elenco potrebbe continuare) del soggetto-setta, di primo acchito si è portati a sospettare una sorta di diffusa pigrizia narrativa. A dirla con malizia, l’entrata in scena della setta di turno – spesso cattivissima – esime romanzieri e sceneggiatori dallo sforzarsi troppo sui moventi dei crimini, dal costruire psicologie complesse ai personaggi buoni e cattivi, dall’intessere dinamiche di eccessiva originalità. E permette di riciclare indefinitamente ingredienti simili, colpi di scena compresi. Ci sarà per esempio il momento in cui l’eroe intuisce di trovarsi di fronte a una realtà oscura collettiva e segreta; ci sarà la messa in scena del controllo che la setta esercita su soggetti più o meno vivi (persone “normali” controllate via plagio, ipnosi o forme di necrosi psicologica, ma anche zombie e mummie); ci sarà la scena del rito tenebroso, magari orgiastico; e ci sarà la solita fanciulla, o più raramente l’eroe o antieroe, davanti alla prospettiva di qualche orrendo sacrificio. Quando poi – come più raramente accade – la setta è invece “buona” e si schiera contro i vilain di turno, dovrà essere comunque circonfusa di un equivoco senso di mistero.

Dunque certo, può trattarsi di pigrizia dei narratori/sceneggiatori. Tuttavia la diagnosi in molti casi dev’essere meno ingenerosa e banalizzante: e la fiction sulle sette – di cui proprio il cinema offre il volto più popolare anche in termini di numeri di fruitori – permette di porre in scena dinamiche di oggettivo interesse. Per dire, a questo tipo di cinema si ricollega uno dei film in assoluto più belli di tutta la storia dell’horror, The Wicker Man di Robin Hardy, 1973. Il distinguo, come al solito, starà insomma nel tipo concreto di spendita del tema di volta in volta.

Vero e proprio mostro plurale, la setta permette di giocare in termini stilizzati e anzi ritualizzati elementi di sicuro successo presso il pubblico. Elementi piuttosto vari: dal più candido gusto per l’avventura e il mistero al richiamo un po’ pruriginoso per la damsel in distress, dal riconoscimento di strutture topiche che con le fiabe hanno molto a che fare – e soddisfano alcune nostre attese profonde in un complesso gioco di sfoghi ed esorcismi – all’evocazione sottile di concreti disagi e crisi d’epoca. Certo la necessità per l’eroe di calarsi in una dimensione di tenebra – il tempio segreto della setta – per strappare la vittima a una collettività senza volto e sconfiggere il male può dirla lunga sul rapporto con quel tempio d’Ombra che sono le pulsioni individuali e collettive in riferimento a valori, stereotipi di genere eccetera. Che ciò poi comprenda anche le peculiari attese dello spettatore postmoderno non può stupire: il richiamo cioè a vedere drammatizzata in scena, in un tessuto insieme provocatorio e gratificante, quella cifra del sospetto che connota – a torto o a ragione, poco importa – la società in cui viviamo.

A livello generalissimo, le trame presentano anzitutto un evento drammatico che porti il gruppo chiuso & segreto all’attenzione di una società più o meno ampia. Un’emersione che si manifesta anzitutto su un piano metatestuale come narrazione: è lo spettatore, prima ancora del protagonista, il soggetto che dev’esserne informato. Ciò innesca dinamiche interessanti: se la setta è il più paradigmatico mostro sociale, una società-mostro ombra e riflesso oscuro di quella più estesa di cui lo spettatore fa parte, il confronto permette di drammatizzare una serie di opposizioni (aperto/chiuso, conoscibile/segreto, libero/non libero eccetera) potenzialmente feconde per una meditazione critica sul nostro mondo di appartenenza. E d’altra parte il modo in cui la crisi su schermo verrà risolta – persino nel caso di una setta che, a un certo punto del film, si riveli “buona” – lascia spesso intravedere un estremo pessimismo degli sceneggiatori.

Se ciò attiene alla visione della setta dall’esterno (il protagonista e in parallelo lo spettatore), la drammatizzazione conduce d’altronde a scrutare – almeno a tratti – l’interno. Con la rivelazione della forte coesione dei membri, a livello interiore/psicologico ed esteriore/organizzativo: qualcosa che si manifesta come legame di sangue – sanzionato magari con terribili giuramenti e maledizioni – ma flirta con l’indifferenziazione, quasi a echeggiare una cifra Legione di identità frantumate e confuse in minacciosa identità collettiva. Ciò che trova la manifestazione culminante nella messa in scena del plagio (usiamo il termine in chiave generica), con gli adepti condotti a perpetrare gli atti più atroci o a subirli. Le potenzialità (melo)drammatiche del meccanismo sono evidenti, ma esso finisce con l’evocare in chiave provocatoria anche le alienazioni, i plagi e le crisi del mondo esterno “libero”.

Strettamente connesso, ed esso pure funzionale al frisson narrativo è d’altra parte il motivo del segreto. La setta vive dinamiche “coperte”, esclusive nei confronti del mondo esterno, e ciò rileva anche in tutto un contesto scenografico: caverne, templi segreti, ville impenetrabili, fattorie nel deserto permettono a registi e sceneggiatori di coinvolgere il pubblico grazie a un arsenale tradizionale di pittoresca efficacia, con riti obliqui il cui arsenale non è sempre chiaro. Ma al contempo proprio l’elemento del segreto – ovviamente da svelare – offre combustibile alla trama, provoca la quest dei protagonisti: e finisce così col manifestarsi come conclamata metafora mitica di quel segreto – l’evoluzione misteriosa di una trama in mano allo sceneggiatore – che sostanzia la curiosità verso qualunque film.

Proprio il segreto, però, topos del gotico classico a cui questo filone richiama, informa nella fiction anche un altro tema, il rapporto col potere. La collettività espressa dalla setta è per definizione minoritaria ma nel segno di un qualche tipo di élite: forte delle sue coperture, essa si impone come presenza irriconosciuta, pervasiva e infiltrante la società. Come espressione di spregiudicate lobby di potere anche ai più alti livelli, o invece di realtà sotterranea tra le pieghe nascoste del mondo cognito. Fino ad accreditarsi a motore segreto di storia, politica, religione e quant’altro, sull’onda di quei cospirazionismi di cui la cultura popolare trasuda nei più vari ambiti.

Fin qui si è accennato alle dinamiche drammatiche offerte dal motivo dell’oppressione psicologica o ideologica all’interno o all’esterno del gruppo; ma il tema di una religio in nero apre a uno spettro di suggestioni assai più ampio. Così da un lato conduce al variegato e febbrile bacino di fiction sui paganesimi: e di qui a sviluppi sui fronti paralleli del rapporto perturbante con il passato (si pensi a quel caposaldo del genere Folk Horror che è The Wicker Man, dove la setta è rappresentata dall’intera comunità neopagana dell’isola), e dell’alienità insidiosa delle culture esotiche in rapporto al civile Occidente (le sette egizie nei film di mummie, caraibiche nelle storie sul Vudu, eccetera). Ma da un altro fronte la religio in nero provoca direttamente, sia pure in termini fantastici, su temi ed elementi di un immaginario “cristiano”: un’evoluzione che trova radice nel primo gotico antipapista, e conosce sviluppi critici via via allargati a istituzioni e ambiguità di un po’ tutte le chiese dominanti, per giungere in fondo al vasto, colloso pelago odierno dell’esothriller alla Dan Brown. A fronte poi di questi poli del religioso si strutturano in funzione dialettica anche i relativi opposti, fino agli estremi dello streghesco e del satanico: e l’evocazione della minaccia – vera o presunta – incarnata dalla setta permette di proiettare come nei giochi d’ombre antesignani del cinema le stesse ambiguità della controparte.

Tutto un mondo simbolico tradizionale – segni, riti, liturgie… – viene così recuperato alla luce del pittoresco e dell’orrido, e la galleria delle brutture storiche liberissimamente rievocata grazie al comodo schermo di conventicole fittizie o poco note. Si tratta ovviamente di una nebulosa molto variegata, che corre dal brivido di certe fantasie criptoecclesiali – tenebrose sacrestie, cappucci, paramenti, angeli marmorei sotto nubi apocalittiche – alla diretta messa in scena del male attraverso topoi come il sacrificio umano e la tensione a un Anti-Avvento satanico. Nelle pellicole si potrà anzi individuare in genere almeno una scena-chiave di carattere specificamente rituale – sacrificale, iniziatica, eccetera: quello che possiamo definire il theatrum proprio della setta, e tale da compendiare idealmente un po’ tutti i topoi in precedenza citati.

La sua messa in scena permette infatti una svolta più avanzata nella conoscenza del mostro-setta da parte di protagonista e spettatore; svela nella coesione della setta la sua realtà di corpo (anti)sociale; sottolinea visivamente la cifra del segreto, anche nella collocazione spaziale della scena in un tempio nascosto, una cripta, una grotta; celebra l’epifania del potere della setta stessa, sia in senso materiale (per esempio nella visione dell’eroina catturata e pronta al sacrificio) che ideale (per esempio nel rivelare sotto i cappucci degli adepti personaggi presentati in precedenza come “importanti” – a vario titolo); e ovviamente ammannisce un ricco arsenale di suggestioni simboliche e rituali d’effetto. Ma anche da questo punto di vista, potremmo dire, la messa in scena riproduce con efficacia un meccanismo sottostante, finendo con l’essere metafora diretta del rito del cinema, con i suoi templi immersi nell’oscurità della proiezione.

E in particolare del cinema nero, recante il theatrum di provocazioni, crisi e contraddizioni del singolo spettatore e della società cui appartiene. Come in una rilettura della fiaba, il protagonista di queste storie dovrà dunque salvare la propria Biancaneve dall’altare-catafalco del sonno della Ragione, presidiato da una collettività nana oscuramente ctonia. Il che conduce verso abissi ben più profondi della cassa di una biglietteria; e il comodo sotterfugio di riparare dietro a una schiera litaniante di cappucci, tra torce, teschi e strani paramenti, finisce con lo svelare allo spettatore dimensioni ulteriori, dall’emersione più o meno imprevista o imbarazzante.

(I – continua)

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I mostri dell’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2016/03/14/i-mostri-dellaccumulazione-originaria/ Mon, 14 Mar 2016 22:00:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29203 di Luca Cangianti

la-terra-dei-morti-viventi-recensione-24880-1280x16Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, 2016, pp. 202, € 15,00.

Spesso il mostro si presenta come revenant, entità che ritorna: spettro prodotto da un crimine occultato, vampiro proveniente dal passato feudale, creatura deforme che si rivolta al suo folle e malvagio creatore. Le figure di cui ci parla Gaia Giuliani nel saggio Zombie, alieni e mutanti sono il prodotto della violenza coloniale che l’immaginario collettivo proietta in forma capovolta in un futuro distopico e apocalittico: la creatura spaventosa che [...]]]> di Luca Cangianti

la-terra-dei-morti-viventi-recensione-24880-1280x16Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, 2016, pp. 202, € 15,00.

Spesso il mostro si presenta come revenant, entità che ritorna: spettro prodotto da un crimine occultato, vampiro proveniente dal passato feudale, creatura deforme che si rivolta al suo folle e malvagio creatore. Le figure di cui ci parla Gaia Giuliani nel saggio Zombie, alieni e mutanti sono il prodotto della violenza coloniale che l’immaginario collettivo proietta in forma capovolta in un futuro distopico e apocalittico: la creatura spaventosa che abita gli schermi “sembra essere oggi lo stesso cannibale barbaro e senza regole o il mostro dalle fattezze orrende che per cinquecento anni di espansione coloniale e imperialismo occidentale è stato combattuto dall’uomo ‘del Progresso’.” Con questa chiave di lettura e con una vasta strumentazione interdisciplinare che spazia dall’antropologia culturale agli studi di genere, queer e postcoloniali, Giuliani esamina la produzione cinematografica e televisiva fantahorror seguita agli eventi dell’11 settembre 2001 per indagare le paure e le forme politiche contemporanee che si celano dietro le narrazioni della fine del mondo.

copertina_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiGià George Romero aveva rappresentato i non morti come reietti della società capitalistica che tornano per chiederci il conto; nella Terra dei morti viventi lo zombie Big Daddy acquista perfino una coscienza antagonista e una soggettività politica. In serie televisive come Les revenants e In the flesh quest’aspetto è approfondito e accompagnato da un fattore mutuato dalle nuove guerre globali: la difficoltà di confinare territorialmente il nemico. In questi esempi “democratici” s’ingenera una dialettica di conflitto e convivenza tra vivi e non morti, mentre in altre narrazioni “reazionarie” come REC o WWZ la “cattiva coscienza coloniale” ritorna per contaminare mortalmente la vita quotidiana di un condominio metropolitano o per assediare le mura delle città umane. In questi casi il rapporto tra umani e morti viventi può essere unicamente di reciproco sterminio.
Gli zombie, insomma, sono il colpo di frusta dell’accumulazione originaria descritta da Karl Marx nel Capitale. Si tratta di quella fase di genocidi, violenze efferate ed espropri di beni comuni, necessaria a creare le condizioni d’avvio del modo di produzione capitalistico. Da questo punto di vista la natura di tale violenza può ben definirsi colonialista, indipendentemente dal suo verificarsi durante la conquista delle Americhe o in un contesto nazionale come quello delle enclosures inglesi. Illustrare questo snodo teorico con la figura dello zombie è un’operazione molto riuscita di modellistica concettuale, che ricorda per potenza euristica l’uso marxiano del vampiro come metafora sostanziale del plusvalore.

La figura dell’alieno è utilizzata dall’autrice per indagare il rapporto tra le società occidentali e l’alterità migrante. Il tentativo di far convivere gruppi culturalmente diversi di persone, senza contatto e reciproca dialettica, entra in crisi con gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, perché normalmente i gruppi sociali sono gerarchicamente ordinati e in competizione tra loro. In questo modo, la pari dignità dei gruppi sociali, come per tutte le forme astratte di uguaglianza, si rivela essere un modo per ribadire le forme esistenti di dominio. Il multiculturalismo così “non sarebbe stato per anni che un nuovo dispositivo ideologico in grado di democratizzare e ribadire, sotto nuove spoglie e per mezzo di inediti meccanismi, i vecchi metodi di gestione delle differenze”. Dalla crisi di tale politica nascono varie alternative di relazione con l’Altro: quella della segregazione descritta in District 9, quella dell’eliminazione illustrata nella Guerra dei mondi e in The Mist, quella dell’assimilazione per l’utilizzo dell’Altro nei lavori usuranti come in Moon e quello della convivenza, rappresentata nella scena finale di Monsters. Qui assistiamo a un’effusione affettiva tra piovre extraterrestri, che se non molestate possono vivere pacificamente accanto agli insediamenti umani.

Infine Giuliani passa in rassegna alcuni film come E venne il giorno, Cecità, The Impossible, Melancholia, Codice 46 e Upside down illustrando l’immaginario reazionario che si nasconde dietro lo scenario di “disastro permanente” inaugurato con l’11 settembre. Le fantasie dominanti che emergono sono quelle della restaurazione del soggetto mainstream, dell’eliminazione eugenetica degli elementi “inferiori” e della ricostruzione della comunità a partire dalla situazione emergenziale – tutti elementi, questi, che ritroviamo nella pratica politica contemporanea.

Zombie, alieni e mutanti è un saggio di spessore accademico che attraverso le figure orrifiche della recente produzione cinematografica indaga con profondità i legami sociali, valoriali e affettivi delle comunità umane. Da questo punto di vista s’inserisce nel dibattito degli studi culturali e postcoloniali, fornendo al contempo al più vasto pubblico degli appassionati di fantahorror nuovi e inaspettati spunti di riflessione.

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