Fabio Fazio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Io e Valter Binaghi, in Purgatorio https://www.carmillaonline.com/2020/10/15/io-e-valter-binaghi-in-purgatorio-2/ Thu, 15 Oct 2020 20:30:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62884 di Mauro Baldrati

Non pensavo che fosse così. Avevo immaginato due opzioni: soprattutto il buio. Totale, denso, impenetrabile. E me stesso che non ricorda nulla, che non sa, perché non è più. Oppure qualcosa, qualcuno – io – che si staccava dalla materia e vedeva me stesso disteso in una bara, i parenti, gli amici ecc. Invece niente di tutto questo. D’un tratto mi sono ritrovato qui, in questo cortile recintato da un alto muro, come un penitenziario. C’è una luce diffusa, priva di ombre. E non si vede [...]]]> di Mauro Baldrati

Non pensavo che fosse così.
Avevo immaginato due opzioni: soprattutto il buio. Totale, denso, impenetrabile. E me stesso che non ricorda nulla, che non sa, perché non è più. Oppure qualcosa, qualcuno – io – che si staccava dalla materia e vedeva me stesso disteso in una bara, i parenti, gli amici ecc.
Invece niente di tutto questo. D’un tratto mi sono ritrovato qui, in questo cortile recintato da un alto muro, come un penitenziario. C’è una luce diffusa, priva di ombre. E non si vede nessuno, a parte una piccola sagoma uscita da una porta che si dirige verso di me. Un bambino.
“Ciao Mauro” fa, quando mi arriva di fronte. Lo guardo attentamente. Qualcosa di lui mi è familiare. Non so perché. Non è stato un mio amico di infanzia.
“Ciao” dico, incerto. Continuo a fissarlo. Anche la voce ha qualcosa di familiare. Gli occhi. La corporatura.
“Bene arrivato. Ti aspettavo.”
A questo punto mi guardo le mani e ho un tuffo al cuore: sono le mani di un bambino. Anche i piedi, con un paio di scarpe che ricordo bene, perché un giorno scivolai in un fossato fognario e la mamma le gettò via. I miei scarponcini preferiti.
Un bambino.
Anch’io sono un bambino.
Come quello che mi sta di fronte e continua a sorridere.
“Non mi riconosci?” chiede. Il mio sbalordimento deve essere evidente.
“Ma… mi sembra che… Dove ci troviamo?”
Sorride di nuovo. “Sono Valter. Eppure sei venuto a un mio reading musicale, a Bologna, quando ho presentato Mephisto.”
Sì. Ora ricordo. Valter Binaghi. Valter che leggeva e cantava, con due musicisti. In platea eravamo quattro gatti quattro. Io, l’editore, l’addetta stampa e un’amica.
“A proposito” dice. “Grazie. E’ arrivata, forte e chiara.”
Lo guardo senza capire.
“Sì, dai, quando sei salito alla Basilica di San Luca per il sentiero dei Bregoli e mi hai mandato… posso dirlo? Una preghiera.”
“Uhm. Non so se lo era… Diciamo un pensiero.”
“D’accordo. Un pensiero. Però dentro la Basilica.”
“Sì. Per me sono come dei portali, ecco.”
“Capisco”. Sembra divertito.
Mi guardo di nuovo intorno. Non c’è niente da guardare. Assenza di forme, di ombre, di colori.
“Quindi dove siamo?”
“Davvero non l’hai capito?”
“Vuoi dire… Ma non esiste. E’ solo mitologia.”
“Invece sì. Siamo in Purgatorio.”
Deve essere un sogno. Eppure è tutto troppo chiaro, troppo perfetto.
“Dunque siamo qui per espiare?”
Espiazione. Quanta ne avrò? Certamente in dosi industriali.
“Non esagerare con le domande Mauro. Da quanto ho capito, cioè poco, siamo qui per ripulirci.”
Ripulirci. E’ pertinente. Purgare. Liberare.
“Eppure una domanda devo farla, Valter: perché siamo tornati bambini?”
E’ l’aspetto più sconvolgente.
“Credo che ci abbiamo spedito nel tempo in cui tutto ebbe inizio. Siamo qui per superare tutta quella roba che ci ha… danneggiato l’esistenza. Quanti anni credi di avere?”
Mi guardo per l’ennesima volta le mani e i piedi.
“Secondo me otto anni.”
“Allora qualcosa è avvenuto in te all’età di otto anni. C’è stato un inizio, uno dei tanti, un inizio importante. Come il mio, all’età di cinque anni. Ma non siamo qui per discutere, Mauro. Solo per…”
“Ho capito. Per ripulirci. E da cosa, in questo momento?”
Anche Valter si guarda le mani, meditabondo.
“Mauro, occhio alle domande. Per ora siamo qui per occuparci… della superbia.”

La sala

Sbuchiamo in una strana sala coloratissima, piena di calore, di musica. L’opposto del cortile. E’ gremita. Una piccola folla vociante è seduta su eleganti poltroncine rosse, ai lati di una passerella rivestita di velluto dello stesso colore. I vestiti sono lussuosi, abiti da sera per le donne, tutte molto belle, truccate, abiti scuri per i signori, distinti e brillanti.
Prendiamo posto su due poltroncine in seconda fila. Nessuno sembra notarci. Eppure siamo due bambini di cinque e otto anni, soli.
Restiamo in silenzio, guardandoci intorno. Alcuni hanno dei bicchieri da cocktail, sorseggiano liquidi colorati, gli uomini parlano nelle orecchie alle donne, che ridono rovesciando indietro la testa.
Non voglio, non posso fare altre domande.
E’ Valter che parla, di sua iniziativa.
“Dunque. Qualcosa dobbiamo per forza sapere, visto che è necessario capire, per fare pulizia.”
“Giusto” dico, con un senso di sollievo.
“Noi… tu, io e molti altri, siamo stati scrittori minori. Non nel senso che gli attribuiva Deleuze, intendiamoci, proprio minori, pubblicati da editori minori, con vendite e recensioni minori. Proletari insomma”
“Vero.”
“E abbiamo accumulato rabbia, rancore, perché nel paese dei parenti, delle caste, dell’ipocrisia elevata a sistema di potere, tutto è taroccato e non può esistere, mai, qualcosa di pulito, di onesto.”
“Vero” ripeto, anche se mi colpisce l’enfasi insolita del suo tono.
“Ecco, senti quanto malanimo esce dalla mia voce? Dobbiamo guarire. Siamo qui per questo.”
“Per questo? Per cosa Valter”
Un sorriso mesto. “Siamo qui per prenderci tutto in faccia, senza pietà.”


D’un tratto le luci della sala si attenuano, mentre la passerella resta illuminata. Una musica allegra si alza a volume alto. E’ We are family delle Sister Sledge.
Un personaggio avanza sulla passerella con passo felpato. Ha un sorrisetto accattivante disegnato sulla faccia, che ha un che di vagamente disumano, come se fosse scolpita nella cera. Lo riconosco, è il famoso presentatore televisivo Fabio Fazio. Stranamente indossa un paio di calzoni corti.
Si ferma al centro della passerella e si rivolge al pubblico.
“Buona sera, signore e signori! E’ un grande privilegio essere qui, per introdurre un grande scrittore, la cui presenza ci onora di fronte al mondo intero! E’ una grande emozione per me vederlo in carne e ossa, come una persona comune! Ono-ra-to, sono letteralmente travolto dall’onore e dall’emozione!”
Il pubblico esulta, l’eccitazione è alle stelle.
“Per cui vi presento il Professore Presidente Sandro Veronesi!”
Tutti guardiamo il fondo della sala. Esce Sandro Veronesi, fasciato in un accecante completo viola con cravatta azzurro elettrico, scarpe arancioni, camicia a pois. Cammina mettendo un piede davanti all’altro, ancheggiando, come le modelle quando sfilano. Applausi, sulle note sgargianti delle Sister Sledge.
“La prego, Professore Presidente Veronesi, ci onori con le sue parole sulla letteratura! Solo lei può farlo.”
Intanto qualcuno ha versato dei chicchi di granoturco accanto a Veronesi, e Fabio Fazio si inginocchia sui chicchi guardando Veronesi con mani giunte. Ecco il motivo dei calzoni corti.
“La letteratura non è rivoluzione, né conservazione” dice Veronesi. “La narrazione non può narrare l’inenarrabile. Non può narrare neanche il troppo narrabile. E tantomeno il mediamente narrabile. E’ una lezione che abbiamo appreso da grandi cronisti come Tacito, Senofonte, Federico Moccia, Fabio Volo.”
Fabio Fazio lo guarda ispirato e implorante. “La scongiuro, Professore Presidente Veronesi, mi onori appoggiandomi una mano sulla testa!” supplica.
Veronesi, dopo un attimo di riflessione, appoggia il palmo della mano destra sulla testa di Fabio Fazio. Il quale resta con le mani giunte e gli occhi chiusi. Applausi del pubblico.
Poi Fazio si rialza, si massaggia i ginocchi mentre un ragazzo spazza via i chicchi.
“Grazie, Presidente Veronesi. Grazie di essere stato qui!”
Veronesi si inchina con le braccia aperte, ringrazia e se ne va.

Ritorno nel cortile

“Allora?” chiede Valter.
“Terribile” rispondo.
“Dobbiamo abituarci, Mauro. Assisteremo a migliaia i rappresentazioni come questa. E poi la sceneggiata dei premi letterari, decine di migliaia, tutti vinti da Gianrico Carofiglio, mentre i nostri libri non verranno mai nominati. E tu… ho saputo che dovrai vivere e rivivere una scena in cui ti presenti a Elisabetta Sgarbi per perorare la ripubblicazione del tuo capolavoro La città nera. Lei non ti considera, si gira dall’altra parte, parla al telefono. A un certo punto entra Franco Arminio con un libretto di poesie e la Sgarbi scoppia subito in lacrime esclamando meraviglia! Meraviglia!”
Strabuzzo gli occhi. “Vivere e rivivere? Che vuol dire? Per quanto tempo?”
“Minimo mille anni.”
“Che?…. Ma scusa, allora Franco Arminio è qui in purgatorio?
“Ma no. E’ in paradiso.”
Te pareva.
Restiamo in silenzio. Intanto viene verso di noi uno strano personaggio. E’ alto due metri, nudo, a parte un piccolo perizoma, con un fisico da culturista.
“L’angelo viene a chiamarci. Dobbiamo rientrare per assistere di nuovo alla scena. Anche qui ne avremo per un migliaio di anni. Cioè, io dieci li ho già scontati.”
Prima che ci raggiunga riesco a porgli ancora qualche domanda.
“Com’è il paradiso?”
“Nessuno di noi l’ha mai visto. Non ci è permesso. E’ un luogo pieno di colori, musica, fiori, piscine. E’ all’insegna del piacere, che consiste nelle lodi: tutti lodano tutti. Per esempio Berlusconi…”
Lo interrompo. “Cosa stai dicendo? Berlusconi è in paradiso?”
“Certo. Lui…”
Lo interrompo di nuovo. “Ma com’è possibile? Con tutto quello che ha combinato?”
L’angelo ci raggiunge. Emette dei suoni gutturali, che Valter sembra capire. Apre la bocca e vedo una doppia fila di denti neri, aguzzi, e una lingua che mi sembra biforcuta. Ci avviamo verso la sala.
“Beh, ovviamente ha corrotto gli angeli del paradiso” dice Valter. “Sai, il Capo non segue tutto. Ha l’intero universo da seguire, per cui si affida a un gruppo di angeli.”
“Corrotto? E come si corrompe un angelo?”
Valter sorride. “Con le escort. Berlusconi ha capito subito che sono ossessionati dalla loro natura asessuale. Sognano di essere come noi umani.”
Arriviamo di nuovo in sala. Ci sediamo. Io sento un nervosismo che mi corre lungo la schiena e non si placa. “Dunque anche qui c’è la stessa merda di laggiù sulla terra?”
Valter risponde sottovoce, guardandosi intorno. “In un certo senso sì. Comunque giù all’inferno sembra che si stia preparando un’insurrezione. Un gruppo vorrebbe irrompere in paradiso e cacciare via gli angeli corrotti. Li guida Giulio Milani, l’editore. E’ molto arrabbiato. L’hanno messo a servizio di Nicola Lagioia, come segretario tuttofare, con l’obbligo di leggere tutto ciò che scrive, compresi gli appunti, la lista della spesa, e commentare con recensioni elogiative.”
“Allora Lagioia è all’inferno?”
“Ma no! Non hai capito. E’ ancora vivo, come Veronesi e Fazio. La loro immagine serve per punire i penitenti. E comunque hanno già un posto prenotato in paradiso, come tutti i vip.”
Sono confuso, e oppresso da un peso che mi schiaccia. Valter se ne accorge, e prima che si spengano le luci, e faccia il suo ingresso Fabio Fazio, riesce a dirmi: “Non te la prendere troppo. Stai saldo. Io sono contento se ci ripuliamo dalla superbia e dal narcisismo, così potremo partecipare all’insurrezione come uomini nuovi.”
Sarà. Eccolo, Fazio in pantaloni corti.
“Intanto un piccolo aiuto è recitare un mantra” bisbiglia. “Aiuta.”
“Ah sì? Tu lo fai?”
“Certo” conclude Valter, con una mano davanti alla bocca. “E’ sempre lo stesso, ogni mattina: Everyday, everyday I have the blues.”

]]>
Il più fascio del reame https://www.carmillaonline.com/2017/11/20/il-piu-fascio-del-reame/ Mon, 20 Nov 2017 01:30:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41726 di Alessandra Daniele

“Abbiamo fatto anche cose buone” – Alessia Morani, renziana del PD

Il Movimento 5 Stelle ha vinto il ballottaggio col Polipo delle Libertà a Ostia, il Trono di Spada. Il PD non s’era neanche qualificato. È logico che proprio quest’anno il ministro dello Sport, Luca Lotti, sia un renziano. Che il PD si proponga come “argine” al fascismo è grottesco, almeno quanto l’autodifesa di Minniti dalle accuse (tardive) dell’ONU sui campi di concentramento libici. Il PD ha sistematicamente sbancato tutti gli argini al fascismo, e adesso è logico paghi almeno le conseguenze elettorali della marea nera alla quale [...]]]> di Alessandra Daniele

“Abbiamo fatto anche cose buone” – Alessia Morani, renziana del PD

Il Movimento 5 Stelle ha vinto il ballottaggio col Polipo delle Libertà a Ostia, il Trono di Spada.
Il PD non s’era neanche qualificato.
È logico che proprio quest’anno il ministro dello Sport, Luca Lotti, sia un renziano.
Che il PD si proponga come “argine” al fascismo è grottesco, almeno quanto l’autodifesa di Minniti dalle accuse (tardive) dell’ONU sui campi di concentramento libici.
Il PD ha sistematicamente sbancato tutti gli argini al fascismo, e adesso è logico paghi almeno le conseguenze elettorali della marea nera alla quale ha consegnato il paese. E che ha iniziato.
Il 40% preso alle elezioni europee meno di 4 anni fa sembra ormai lontano un quarantennio. Viene da chiedersi se sia davvero accaduto, o sia soltanto un falso ricordo stile Blade Runner.
Il tentativo del PD renziano di rappattumare attorno a sé brandelli del defunto Ulivo è patetico quanto inutile. Chiunque degli Scappati di casa si rivenderà al Cazzaro perderà tutto il proprio già esiguo consenso elettorale, che gli deriva solo dall’essersene allontanato.
L’unità che Veltroni invoca sarebbe in realtà un omicidio-suicidio collettivo, come d’altronde tutte le sue iniziative politiche.
Chi sarà a raccogliere i frutti della pressoché certa disfatta PD alle elezioni nazionali?
Il test di Ostia dice ancora poco, dati anche i seggi blindati, e la bassissima affluenza, il Movimento 5 Stelle s’è finora dimostrato incapace di riassorbire l’astensionismo come sperava.
Dopo l’approvazione alla Camera del Cacarellum, i grillini s’erano vantati d’aver concluso questa legislatura esattamente come l’avevano cominciata: in piazza a protestare, senza rendersi conto di quanto questo fosse un’ammissione di fallimento e inutilità.
In 5 anni di attività parlamentare non sono riusciti a cambiare praticamente nulla, non hanno fatto nessuna reale differenza, la ‘’scatoletta di tonno’’ è rimasta ben chiusa, e loro si sono ritrovati fuori a cercare di arringare una piazza che per metà neanche gli appartiene più.
Data la lezione della sconfitta siciliana, adesso il M5S prova a correre ai ripari, abbandonando almeno in parte il suo veto di castità.
Dopo Cernobbio, Luigi The Mayo s’è precipitato a baciare anche l’ampolla del Dipartimento di Stato USA, assicurando che in realtà il Movimento non ha nessuna intenzione di uscire dalla NATO né dall’Euro, ed ha aperto alle alleanze post-voto, purché chiamate con un altro nome: accordo sul programma, fiducia tecnica, sostegno esterno, insomma una di quelle belle formule da Prima Repubblica tipo le convergenze parallele e la non-sfiducia.
Questa è già una notevole svendita della loro intransigenza. Basterà?
Quanto ha fatto il Polipo delle Libertà alle elezioni siciliane, tutto compreso? La risposta è 42%.
C’è un Biscione che ci aspetta? È lì fin da quando eravamo bambini, come il clown di IT.
Renzi e Grillo hanno tentato di battere Berlusconi al suo stesso gioco, ma finora hanno fallito.
Berlusconi è ancora più bravo nella raccolta indifferenziata di voti fascio-leghisti e fascio-mafiosi, perché lo fa dal 1994, col Polipo delle Libertà.
Berlusconi è ancora più bravo nella televendita d’illusioni, perché lo fa di mestiere dal 1978, col suo piccolo impero mediatico.
La sfida tra Fazio e Giletti non l’hanno vinta né Fazio né Giletti, l’ha vinta Rosy Abate su Canale 5: 20% di share, 5 milioni di audience.
Berlusconi è ancora il demiurgo del nostro sub-universo, e ha già riaperto la campagna elettorale.
Perché, come dice De Silva, chi si rivede non muore mai.

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 77 https://www.carmillaonline.com/2017/09/21/divine-divane-visioni-cinema-porno-77/ Thu, 21 Sep 2017 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40618 di Dziga Cacace

Plus tu baises, moins tu cogites et mieux tu dors.

900 – Ma pensa tu che mistero, Il triangolo delle Bermude di René Cardona Jr., Italia/Messico 1978 Mani sulle palle o dove vi aggrada, perché secondo me questo film mena rogna come pochi. È tutto sinistro, tutto inquietante, a partire da una fattura quasi amatoriale, con una fotografia sgraziata, degli zoom telescopici e un cast che lascia sconcertati per i nomi coinvolti e per l’utilizzo che se ne fa: a fianco di John Huston (no, dico: John Huston!) e Marina Vlady [...]]]> di Dziga Cacace

Plus tu baises, moins tu cogites et mieux tu dors.

900 – Ma pensa tu che mistero, Il triangolo delle Bermude di René Cardona Jr., Italia/Messico 1978
Mani sulle palle o dove vi aggrada, perché secondo me questo film mena rogna come pochi. È tutto sinistro, tutto inquietante, a partire da una fattura quasi amatoriale, con una fotografia sgraziata, degli zoom telescopici e un cast che lascia sconcertati per i nomi coinvolti e per l’utilizzo che se ne fa: a fianco di John Huston (no, dico: John Huston!) e Marina Vlady c’è pure Gloria Guida, loro improbabile figlia, dalla fisicata clamorosa e con occhi che sembrano due fanali. Bene, questi popò di attoroni danno vita a una vicenda che ruota attorno a uno di quei supposti Misteri che negli anni Settanta davano i brividi a lettori ingenui come me. Prima del complottismo e delle verità alternative dei social si dibatteva dell’esistenza dell’Uomo delle nevi, del continente perduto di Atlantide, dell’autocombustione improvvisa e, ovviamente, dell’inesorabile Triangolo delle Bermuda, poligono che sembrava esaltare le mie fantasie adolescenti molto più di altri triangoli (…). Erano misteri che trovavi pure in edicola, a dispense, altro che Costruisci il tuo presepe o Colleziona sottobicchieri di marchi di birra. Bene, quelli erano i tempi e non poteva mancare l’esito cinematografico che io vidi per la prima volta assieme a mia madre al cinema Lumière di Genova in una proiezione pomeridiana, sul finire degli anni Settanta, mio esordio nell’amata sala dove avrei passato molte serate felici ai tempi dell’università. Comunque: regista di questa cosa abbastanza improponibile era il professionale (e non si direbbe, eh) René Cardona Jr., già autore di quel Tintorera prediletto da Quentin Tarantino visto più e più volte sulle tivù locali genovesi durante gli anni Ottanta e figlio del Cardona Senior che ha firmato I sopravvissuti delle Ande, mio film formativo visto al parrocchiale di Champoluc (formativo perché mi ero reso conto della differenza tra riprese in studio e riprese in esterna, montate assieme in modo fotograficamente lancinante). Il plot de Il triangolo delle Bermude è semplice da far tenerezza: c’è uno yacht un po’ scassato che incrocia nel Triangolo maledetto per una missione archeologica. La dirige il vecchio Huston, a bordo con la famiglia: la moglie e i 4 figli. Partecipano anche il fratello, un medico alcolizzato identico a Marcello Lippi che ha sulla coscienza un intervento in cui ha ucciso un paziente (il medico, non Lippi), e la sua consorte (sempre del medico, non di Lippi). (Vabbeh, la smetto). Poi c’è il resto dell’equipaggio: il capitano nervosetto, l’ufficiale sciupafemmine, il motorista indio e il cuoco di bordo nero che parla da bovero negro. Gli leggi già in faccia che hanno tutti il destino segnato. Nel prologo assistiamo al naufragio di un veliero: in mare finisce anche una bambola con la faccia assassina che – oplà – viene trovata dai nostri eroi odierni ed è subito adottata dalla figlia minore di Huston, una mocciosa tremenda. La bambolina le parla e le rivela chi morirà, quando e come, cosa che puntuale la stronzetta annuncia lasciando tutti basiti.
Intanto lo yacht riceve via radio messaggi insensati, tipo quelli che lo stesso yacht manda nell’etere. Oppure arrivano richieste di soccorso – contemporanee o vecchie di anni – di aerei e navi che si perdono. La bussola è sempre impazzita, l’orizzonte assume colorazioni bizzarre, il mare ribolle, si sentono voci come le sirene di Ulisse e il radar manda immagini inquietanti. Insomma, una crocierina tranquilla. Durante una missione subacquea in cui si trova niente meno che una città sommersa avviene un maremoto e Gloria Guida rimane sotto una colonna che le frana addosso, sfasciandole le gambe. La cosa ha dell’incredibile perché le colonne sono in cartapesta, ma non meno straordinario è il colore rosso Ferrari del sangue che lorda le lunghe leve dell’attrice. E da lì la trama ha un’accelerata e si va verso un finale cialtrone, quasi sbrigativo. Tanto non c’è nulla da spiegare, il mistero del Triangolo rimane un mistero e fessi voi che pensavate che questo filmaccio potesse risolverlo. Il film ha un suo ritmo malato, è innegabile, e alterna le vicende sullo yacht – cioè le morti o le scomparse dei vari membri dell’equipaggio uno dopo l’altro – a scene documentarie che raccontano di altre sparizioni inspiegabili in quella porzione di oceano. Beh: che faccio, ve lo consiglio? Massì, dài. Magari risolvete l’arcano voi. E poi mi dite. (17/12/11)

901 – L’irriducibile Baise-Moi di Virginie Despentes e Coralie Trinh Thi, Francia 2000
Crime thriller sui generis a tinte noir e al contempo – per chi ama le categorizzazioni – rape e revenge movie, Baise-Moi è un film che ha avuto vita molto difficile, vietatissimo in molti paesi, ritirato in Francia, osteggiato da giudici cavillosi e dalle varie associazioni di rompicoglioni che devono decidere su cosa sia giusto o no vedere. Perché? Perché è un salutare calcio nelle palle al buon gusto borghese e un violento sputo in faccia al perbenismo cinematografico. È un film esplicito (in tutti i sensi, con penetrazioni e tutto l’armamentario da cinema hard) tacciato per convenienza di pornografia. Ma in realtà non evoca alcuna fantasia erotica, non eccita mai, semmai disturba e respinge ed è doloroso come una pallottola su per il culo (e non uso l’espressione a caso). Dunque: Nadine e Manu sono figlie delle banlieu, senza passato e senza futuro. Nadine fuma, beve, ascolta musica punk, si masturba. Se fosse un maschio sarebbe un figo nichilista. È una donna e quindi è una poco di buono. Del resto, si prostituisce, come l’assioma pretende. Manu è una beurette disoccupata che prende sberle da ogni lato: ha un fratello possessivo e violento che la considera – come tutti – una zoccola (avendo preso parte a un film porno per raggranellare qualche soldo). Viene violentata assieme a un’amica da quello che la stampa morbosa definirebbe un branco: subisce senza opporre resistenza, inanimata, per evitare il peggio. Non vi sto a dire cosa succede poi ma gli eventi prendono una piega vagamente estrema e Manu e Nadine, che non si conoscono, incrociano le loro strade e decidono di fuggire assieme. Da qui in poi è un delirio di violenza senza freni, una ribellione assoluta a regole e gerarchie, al mondo patriarcale e paternalista che le (e ci) attornia: questa vita non ha senso, e allora perché non sconvolgerla, perché non ribaltarla e provare un piccolo, momentaneo, attimo di rivincita e di felicità? “Più scopi, meno pensi, meglio dormi”, come esemplifica Nadine. La coppia scappa attraverso la Francia, la stampa gioca coi due personaggi che lasciano dietro di loro una striscia di sangue e tu spettatore sei sopraffatto dal racconto senza sconti, che non vuole indorarti la pillola facendo delle due assassine due romantiche eroine. Baise-Moi (che non vuol dire “baciami” ma “scopami”) è un Thelma e Louise amorale. E finalmente, dico io. A me quello era sembrato finto femminismo mercantilistico, una sorta di concessione su pellicola secondo logiche maschili e maschiliste. (Esagero. Però, insomma, pensateci). Questo film invece ti deve dar fastidio, è la sua ragion d’essere. Ti deve far male come la vita fa male alle protagoniste, due donne – due corpi – considerate a disposizione dalla società in cui vivono. La regia è di Virginie Despentes, autrice anarco-femminista del romanzo da cui il film è tratto, e Coralie Trinh Thi, ex attrice porno. E attrici hard lo sono anche le due interpreti principali, Karen Lancaume e Raffaëla Anderson, bravissime (senza ironia, giuro). La messa in scena è rozza, sgraziata e nervosa come il montaggio e tutto è girato in digitale, con luce solo naturale: l’impressione di realtà è molto forte e se ti aspetti i bei colori, l’immagine stabile, il cinema di papà, no, sei fuori strada, amico. Nel 2005 la Lancaume si è suicidata, quasi a mettere un sigillo reale ai problemi posti dal film che ha interpretato. Ma sto facendo il trombone: il film è particolare e può risultare indigesto ma è anche un ceffone che vi auguro di prendere sul muso. (18/12/11)

902 – E niente, non ce la faccio proprio: Guerre stellari – Il ritorno dello Jedi di Richard Marquand, USA 1983
Trascrivo i nervosi appunti sparsi che ho preso durante la visione assieme alla seienne Sofia: 1) l’imperatore si chiama Palpatine, giuro, e sembra Jorge, il monaco cieco del Nome della rosa, andato a male e con qualche problema di igiene dentaria in più. 2) Jabba the Hutt è un pouf di gommapiuma a forma di lumaca e nella sua taverna si suona del rhythm and blues da bordello veramente inascoltabile. 3) Yoda – altro che Jedi! – è un nano rugoso e furfante che insegna a Luke Skywalker a barare, a saltare come nessun altro è capace e a muovere gli oggetti come provava invano a fare Massimo Troisi in Ricomincio da tre. 4) Mark Hamill, Luke, appunto, è invece un curioso incrocio tra Johnny Dorelli, la salma di Mike Bongiorno e Franco Stradella (che conosco solo io, ma vi assicuro che c’entra) e il suo confronto edipico col padre è una palla al cazzo che non vi dico. 5) Darth Fener, quando si toglie il cascone nazistoide, è lo zio Fester! Ooooh, orrore e raccapriccio! 6) Luke ha inoltre intuito che Leila è sua sorella (primo colpo di scena mancato), poi (altro anticlimax) glielo dice e lei risponde: “Lo sapevo!”, roba che neanche a Carràmba! Che sorpresa in acido. 7) Tra l’altro Carrie Fisher fa la figa in bikini, ma non lo era prima con quei due pretzel in testa , figuriamoci ora col reggiseno che sembra fatto in ferro battuto. 8) Comunque tra il primo Guerre Stellari e questo terzo episodio della saga (in realtà il sesto ma lo sapevamo in pochi) il cast deve essere stato investito da una tempesta di meteoriti perché sembrano tutti invecchiati in maniera inclemente. 9) Gli ewoks, abitanti della “Luna boscosa di Endor”, sono dei nanetti imbustati in pigiamini pelosi. 10) Tra gli alleati dei ribelli ci sono anche dei branzini alieni veramente incredibili, da far cadere le braccia. Bene, cosa concludo, dopo queste noterelle amene? Beh, che questo è un film di una noia mortale: dura oltre due ore e non ti finisce più. Non so bene cos’abbiano aggiunto in questa versione rimasterizzata, rivista, ricorretta e tante altre palle. So che non ricordavo per niente le scene di giubilo in giro per la galassia alla notizia della vittoria contro l’Impero, tante enormi Times Square la sera di capodanno, questo mentre i nostri eroi fanno una festicciola intorno al fuoco come dei boy scout. Tutti tentativi di rendere un po’ meno naif la materia trattata, anche perché qui ci sono sganassoni da film per bambini, nemici cattivissimi che si arrendono senza colpo ferire, i nostri eroi che non vengono mai colpiti e non si sporcano neppure. A Sofia la fiaba prende moderatamente, specialmente il plot familiare, ma la conclusione è di film “carino”, giudizio che mi eviterà ripetute visioni future che avrei trovato letali. Lo so, per tanti amici e fedeli lettori sto bestemmiando, ma in verità, in verità vi dico, che Il ritorno dello Jedi è una cagata pazzesca. (Dvd; 19/12/11)

903 – Mi regalo Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, USA 1982
È il mio compleanno e mi tolgo una soddisfazione rara. Mi vedo un film alle 17, a casa, incurante di chicchessia, con Sofia che pronta si distende sulla mia calda ventrazza. Ed è Koyaanisqatsi, senza plot, senza dialoghi, solo la musica celestiale e inquietante di Philip Glass. E io, like a boss, godo di bestia, ad almeno 18 anni dall’ultima visione, quando facevo finta di studiare: assieme alla fraterna amica Hilda avevamo fantasticato col nostro relatore di scrivere la tesi di laurea sul rapporto tra cinema e architettura, abusato legame di volta in volta evocato da cineasti che vogliono darsi delle arie o da architetti in vena di fancazzismo; ci incontravamo la mattina per vedere film ed era veramente dura con tipi come Jon Jost (guardatevi City of angels e poi sappiatemi dire). Però questo Koyaanisqatsi, no, era stato un piacere che aveva coinvolto anche il nostro prof (che in una riunione dell’istituto di Urbanistica lo aveva chiamato – giuro – Coituoiscazzi). Attraverso riprese di bellezza abbacinante vediamo il mondo sconvolto dalla presenza umana. La poesia cinematografica mette in scena la natura, coi suoi tempi eterni e la sua maestosità imperturbabile, e la civiltà (per modo di dire) occidentale che avanza: miliardi di esseri che tutto travolgono e divorano, come un virus frenetico, folle e impazzito. Siamo wurstel in metropolitana, ecco cosa siamo, macchie di luce sull’autostrada mentre cala la Luna. Le immagini diventano astratte in velocizzazioni e rallenti, un caleidoscopio di colori e di suggestioni pittoriche, tra palazzi che cadono e muti monumenti in vetro e cemento al Capitale che riflettono le nuvole in incessante movimento. Il risultato è magnifico, assolutamente emozionante e struggente. Dovrei leggermi bene su Wiki le responsabilità autentiche di cotanto capolavoro, ma il direttore della fotografia (Ron Fricke) mi sembra la vera mente grafica di questa operazione, durata una decina di anni e sponsorizzata da Francis Ford Coppola una volta vista una preview. Eccezionale, veramente. (Dvd; 20/12/11)

904 – Adorabili, I compagni di Mario Monicelli, Italia 1963
Film personale e sfortunato di Monicelli, con le vicende di un gruppo di operai che rivendica cose minimamente civili nella Torino umbertina. Finisce male, in maniera anche narrativamente prevedibile, ma è caruccio, dotato di un calore che è raro trovare nel cinismo distaccato del vecchio Mario. Mastroianni – dolente e magnifico – è l’intellettuale, un po’ profittatore ma anche dotato di spina dorsale e capace infine di prendersi le sue responsabilità. I compagni risultò un film scomodo, poco popolare nonostante gli intenti ed ebbe scarso successo, peccato. Girato in un bianco e nero scintillante (fotografia di Giuseppe Rotunno), con precise e discrete caratterizzazioni e una Raffaella Carrà – fresca diplomata al Centro di Cinematografia Sperimentale, non scherzo – assolutamente credibile e mai più così a sinistra neanche quando ha ballato il Tuca tuca o presentato Pronto, Raffaella? (qui, scherzo. Però una grande). (Dvd; 23/12/11)

905 – Natale con Asterix e Obelix contro Cesare, Francia/Italia/Germania 1999
Vigilia natalizia santificata con film di fama incognita, ma mooolto desiderato dalle piccine. Ed è una porcata, che alle bambine piace (anche se a Elena, 3 anni, mette un po’ paura) e a noi adulti, o presunti tali, annoia tremendamente. Il film è un continuo esercizio di umorismo infantile che perde la magica qualità dei fumetti di Goscinny e Uderzo: saper far ridere a più livelli. Effettacci digitali (che forse, all’epoca… oggi: mah), Benigni che folleggia e almeno dà un po’ di vitalità, migliaia di comparse, Idefix che è il cane di Asterix e non di Obelix, Depardieu che non è dovuto ingrassare di un grammo per interpretare quest’ultimo e altre bestialità in un copione confuso che mescola diverse storie dell’amato villaggio di galli che non vuole arrendersi alla prepotenza romana. È un tradimento continuo, come sempre accade quando porti una narrazione da un media a un altro. Ma ci sono tradimenti possibili che sortiscono grandi invenzioni e tradimenti da infingardo che tradiscono la fiducia data e questo è il caso. Laetitia Casta – reduce allora da un festival di Sanremo muto a fianco di Fabio Fazio – si presta per una comparsata nuovamente silente ma molto tettuta, con testa vaporosa anni Ottanta per nulla filologica. Poco altro da ricordare, se non il rigonfiamento scrotale del sottoscritto: film costosissimo, lo han visto una trentina di milioni di persone nel mondo, potere della persuasione pubblicitaria e probabilmente dell’ignoranza del testo originale. A visione ultimata le bimbe vanno a dormire e noi ci mettiamo a impacchettare come dei carbonari i regali da mettere sotto l’albero. Poi ci tocca allestire la messinscena del passaggio delle renne di Babbo Natale in terrazzo: Barbara ha lasciato con Sofia ed Elena dei biscotti e una ciotola con del latte. Tocca a me consumarli truffaldinamente e lasciare la ciotola sporca e un po’ di briciole (si butta via mica niente, qui, eh). Infine io solo – in piena notte – mi riduco a costruire una maledetta cucina giocattolo in legno che sembra progettata da un ingegnere dell’Ikea in preda ai vapori della colla. (Dvd; 24/12/11)

906 – The Decline of Western Civilization di Penelope Spheeris, USA 1981
Il nome della regista probabilmente non vi dice niente, ma l’avete amata – eccome – per Wayne’s World, quello che un distributore italiota aveva ribattezzato incongruamente Fusi di testa. Ho ricordi antichi di quel film ma le parti migliori erano quelle di racconto sociologico della grande provincia americana e dei suoi miti spettacolari e consumistici. Ma dieci anni prima la Spheeris si era già misurata (e poi avrebbe continuato) col documentario vero e proprio, un esercizio indipendente di guerrilla filmmaking sulla scena hardcore punk losangelena. The Decline of Western Civilization è un film interessante, per nulla piacione, e in qualche maniera distaccato e disilluso, con un atteggiamento speculare a quello di chi viene raccontato e interpellato per dire la sua. I gruppi investigati (Black Flag, Germs, Fear, X e altri a me ignoti) mi fanno – confesso – cacare a spruzzo: son colpevole, lo ammetto, ma non son mai riuscito ad amare l’hardcore pur comprendendone le ragioni. A mia difesa posso solo dire che probabilmente il cacare a spruzzo verrebbe di molto apprezzato dai protagonisti di quella singolare esperienza musicale. Del resto – con chitarre, testi e costruzioni armoniche – questi, orgogliosamente, non vanno tanto lontano e gli interventi in concerto palesano che l’inabilità strumentale non sia questo gran problema: sono schifati, annoiati, contro tutto e tutti, e quel suonare storto, urlando e vomitando l’oscena verità è il loro modo per manifestarlo. Gli fa schifo la società, gli fan schifo i vecchi hippie così come i plastic people, rifiutano la politica tradizionale, la famiglia, il modo in cui (gli) è organizzata la vita. Gli X, con Exene Cervenka, sembrano quelli più strutturati, sia musicalmente che ideologicamente. Gli altri più spesso lasciano interdetti per mancanza di elaborazione ma se il senso è quello di non rispondere ai nostri abituali canoni dialogici, allora ci sta tutto. Dal punto di vista narrativo il documentario è abbastanza confuso e lasco e le interviste e le riprese non sono granché pensate. In questo senso è molto punk anche il film, quindi, che ha però un forte valore testimoniale, spaziando dalle esperienze personali dei protagonisti alla teoria e pratica del pogo e dello stage diving, passando per tatuaggi, testi, strumenti e ascoltando anche spettatori, fan, promoter e sicurezza dei locali. Qualche volta mi vien da sonnecchiare (a me è un mondo che non interessa granché, che ci devo fare?), ma c’è almeno una scena clamorosa che dovreste recuperare, con Lee Ving, il cantante dei Fear, che provoca il pubblico: finisce a sputazzate e mazzate, con una ragazza dalla mira implacabile (con saliva e mani). Il senso di tutta l’operazione – del film e del movimento artistico – la dà Richard Biggs, direttore della fanzine Slash e poi anche dell’etichetta omonima: il punk – dice – è l’unica forma di rivoluzione rimasta. E questo è in effetti un buon punto a favore. (26/12/11)

907 – La delusione de I diavoli volanti di A. Edward Sutherland, USA 1939
Vedo in edicola Stanlio e Ollio che mi salutano dal classico primo numero di una collana di Dvd a prezzo stracciato e, ancora circonfuso di spirito natalizio e trovando buono e giusto il consumo in questo momento di crisi, procedo all’acquisto pensando che le bambine si divertiranno un mondo. Beh: no. Durante la visione le sento che sbuffano e si distraggono. Il film è lentissimo, in effetti, e le gag si contano sulle dita di una mano. C’è la famosa scena in cui si canta e danza “Guardo gli asini che volano nel ciel…”, ma l’evento non smuove le piccole. La trama è elementare: per una delusione d’amore di Ollio il duo finisce nella Legione straniera, dove ne combinano di ogni colore (per modo di dire, visto che non succede quasi nulla). Si va avanti a tentoni e tutto risulta più frustrante che appagante. Carina la scena finale: dopo un’improbabile e involontaria fuga in aereo, i due comici si schiantano per terra e Ollio va in cielo come un angioletto. Però ritorna reincarnato in un cavallo. E vabbeh. I programmi di Giancarlo Governi che vedevo quando ero bambino distillavano il meglio della coppia e lo riproponevano montato ad hoc; un film intero, invece… bah! Va detto che si tratta di uno degli ultimi prodotti di Laurel e Hardy e in effetti, criticamente, non se lo fila nessuno. Però adesso ho paura anche a ripescare I figli del deserto che ho sempre amato tantissimo. (Dvd; 28/12/11)
P.s.: arriva il lieto fine! Siccome non ci sto a vedere denigrati gli amati Stanlio e Ollio, su YouTube recupero Liberty, una vecchia comica dove i due amici, scappati di prigione, si avventurano sulla struttura di un grattacielo in costruzione in compagnia non richiesta di un granchio che si infila nelle braghe di Ollio. Beh, qui si ride e tanto e le bimbe apprezzano moltissimo. E io sono sollevato: buon anno!

(Continua, ancora un poco – 77)

Altre Divine Divane Visioni su Twitter e Facebook
Oppure a strafottere qui, su Carmilla

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema di papà 06/07) – 61 https://www.carmillaonline.com/2014/07/03/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-61/ Thu, 03 Jul 2014 21:26:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15584 di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004 Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì. Venerdì arrivo presto [...]]]> di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004
Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì.
Venerdì arrivo presto dall’ufficio, faccio una spesa blietzkrieg comprando cibi strategici e mi metto subito sotto, senza indugi, sono uno serio, io. Cioè vedo le prime quattro puntate del serial, sbafando patatine all’aceto e un caprice des dieux scartocciato e addentato come una banana. Sabato mi sveglio ad orario congruo e faccio il mio dovere professionale fino a tarda mattinata, quando ci stanno un kebab leggerissimo con Coca Cola e altre due puntate. Le vedo ruttando cipolla cruda. Riprendo a scrivere e a merenda gradisco ancora due episodi accompagnati da un Twix ciascheduno. Arrivo a sera stanco e un po’ appesantito, chissà perché, e allora ci sta una diavola presa sotto casa con litrozzo di Menabrea ghiacciata e come niente mi scoppio altre quattro puntate. Ormai ho preso il ritmo, sono a metà dell’opera (del cofanetto, intendo) e ho un’efficienza produttiva sudcoreana con rigore (e prevedibili punizioni, in caso di fallimento) nordcoreano. È già domenica e per pranzo concludo il mio lavoro, che non è neanche male. Santifico la festa e la libertà con Cipster, un intero salame di Piacenza ben stagionato che non mi preoccupo neanche di tagliare – tanto va via a morsi che è una meraviglia – e innaffiando il tutto con Lemonsoda a 4 gradi, uno dei piaceri della vita. Una festa a sorpresa per il mio colesterolo, ma chi ne gode di più sono i miei lobi cerebrali perché il fiero pasto viene consumato pazientemente mentre assumo dodici episodi di Lost, uno via l’altro, concedendomi giusto una pisciatina ogni tanto. E arrivato alla fine della maratona gastroseriale dichiaro convinto che probabilmente, ad oggi, questa è l’esperienza televisiva più clamorosa di ogni tempo. Fate questa semplice addizione: Robinson Crusoe + Cast Away + L’isola del dottor Moureau + Il signore delle mosche + il telefilm Le isole perdute + il videogame Monkey Island + la saga di Airport + L’isola del tesoro + il reality Survivors + l’estetica primi seventies e tutto l’immaginario pop che vi possa venire in mente. Ganci narrativi a profusione, apparato tecnico e artistico a livelli sublimi, attori azzeccati, dialoghi (in originale) perfetti: è impossibile mollarlo, è una droga potentissima, che il crack al confronto smetti quando vuoi. La storia la sapete e non ve la ripeto e l’intreccio è clamoroso. Ma la formula prevede anche flashback che illustrano il passato dei 14 protagonisti, formula quasi banale orchestrata magistralmente: ognuno ha un passato che nasconde qualcosa, tutti sono inspiegabilmente legati, anche senza saperlo. Alla fine ne viene fuori una macchina narrativa perfetta: si può fare di meglio, ma 24 episodi in 52 ore – dovendo lavorare – sono un mio personale piccolo record. Gli extra del cofanetto sono interessanti: i creatori di questa macchina da guerra sono tre trentenni adrenalinici, cazzoni e affilati come rasoi, capaci di mettere in piedi lo show – come lo chiamano loro – in pochi giorni, assoldando il cast mentre lo script era ancora in embrione. Oppure diciamo che la mitologia agiografica vuole così, ma non importa: la prima serie di Lost è un capolavoro, comunque vada a finire. (Dvd; 6, 7, 8/4/07)

ddv6102Douro632 – Compiacimento archeologico con Douro faina fluvial di Manoel De Oliveira, Portogallo 1931
Altra Vhs da estinguere, con una registrazione che mi aspetta da diversi anni: il primissimo film di De Oliveira, quando era appena ventitreenne. Il documentario è fortemente debitore del cinema sovietico ed è assimilabile alle tante “sinfonie urbane” di quegli anni. La vita sul fiume Douro, sotto il ponte Luiz I, dall’alba alla notte: grafismi, assonanze visive, dinamismi, nature morte, riflessi, ombre, particolari, montaggio analogico, primi piani, grandangolate. Ci rivedi dentro Ivens, Chomette, Ruttman, Clair (La Tour), Vertov, Vigo e molta avanguardia coeva: un film piccolo, bellissimo e montato da dio. Appagante il gusto per la bella immagine, pulita, pregnante. Non si è più abituati a questo nitore e la volgarità della tivù è nell’averci disabituato alla bellezza compositiva, all’inquadratura filmica come opera d’arte. Ecco. E De Oliveira l’anno prossimo compie cent’anni: ha cominciato col muto e il bianco e nero ed è ancora lì che gira e produce a tutto spiano. Magari chiava pure, non so. Pazzesco. (Vhs da RaiTre; 10/4/07)

ddv6103 JCS639 – Oddio, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, USA 1973
Nuova passione di Sofia duenne, che ne ha visto un pezzettino e non lo ha voluto mollare più. Ovviamente la visione è di pochi minuti per volta ed è rigidamente censurata quando le cose volgono al peggio per Nostro Signore Hippie. Il quesito che Sofia mi pone continuamente è perché litigano tutti (Gesù con Giuda, Giuda con gli apostoli, i farisei con Gesù etc.) e non s’immagina neanche lontanamente come finiscano malissimo tutte queste discussioni. Il film io lo ritrovo splendido e le ripetute visioni me ne fanno apprezzare ogni sfumatura. La musica, beh, è clamorosa, lo sappiamo già: prima di tutto, Jesus Christ Superstar è stato un disco strepitoso, realizzato perché in teatro nessuno si sentiva di produrre un’opera con protagonista Gesù. Se ti dicevano che l’ottica era quella di Giuda, poi… I due autori ventenni, Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, oggi baronetti, hanno poi fatto la storia del genere, ma all’epoca scommisero pesante. Girava una parola nuova, allora: “Superstar”. Decisero di fare i gggiovani e di usarla per un titolo che colpiva e per analogia costruirono un Gesù rockstar, con Giuda ideologo preoccupato dal troppo successo d’immagine che oscurava il messaggio. La storia acquisì anche sottotesti politici e, per me, una costante tensione omosessuale. Musicalmente siamo allo stato dell’arte del rock di quegli anni: influenzato dal pop, con reminiscenze di ragtime quando serve, perlopiù improntato da un rhythm and blues da infarto, non disdegnando tracce di psichedelia e hard (con la chitarra scatenata di Henry McCollough). Da contrapporre al Giuda discografico di Murray Head (quello di One Night In Bangkok!) serviva un Gesù potente e incazzoso, umano e non divino (stesse conclusioni di De André per il coevo La buona novella): l’ascolto delle urla barbariche di Child in Time sul non ancora pubblicato In Rock dei Deep Purple fece trovare l’uomo giusto, Ian Gillan. Maria Maddalena venne invece scovata per caso, mentre cantava in un club postribolare: era la Yvonne Elliman, che purtroppo dopo fu solo corista e amante di Clapton. Nell’ottobre 1970 uscì l’album doppio, da considerare assieme a Tommy capostipite di tutte le rock opera. Oggi siamo oltre le 20 milioni di copie vendute: avesse esordito come musical in un teatro di provincia non ne conosceremmo neppure l’esistenza. Invece il successo del disco fece fare due più due a qualche impresario che portò l’opera per 8 anni consecutivi nel West End londinese (record dell’epoca, oggi non so). Nel 1973 – sull’onda del successo ormai planetario – venne realizzato questo film meraviglioso che accentua gli anacronismi (e la stessa temperie hippie era già bella che passata) e leviga lo score musicale con l’orchestra, ma senza esagerare: infatti la chitarra continua a improvvisare a latere. Gillan, interpellato, non partecipò per impegni che dovete conoscere e nel cast subentrarono l’ottimo e strabico Ted Neeley e soprattutto il Giuda marxista che non dimenticheremo mai, Carl Anderson, morto tre anni fa, pace all’anima sua. In questo Jesus Christ Superstar sono eccezionali anche il montaggio, i costumi, la recitazione generale o le incredibili location on site, con il sole sempre basso (doveva fare un caldo dell’accidente, eh). Siccome sono prodotti del loro tempo – album doppio e film –, i critici li hanno sempre un po’ snobbati e li dimenticano ogni volta che bisogna fare una di quelle stupide classifiche che servono a riempire le riviste durante i mesi estivi. Ma sbagliano e le due opere meritano ancora oggi lo status di capolavoro assoluto. Oh, stiamo ben parlando di Dio, eh? (Dvd; maggio ’07)

ddv6104 Bova640 – Io, l’altro di uno inadeguato, Italia 2007
Devo confessare l’antefatto: nell’ultima puntata del programma tivù cui lavoro è stato ospite gradito Raoul Bova, un educatissimo gnoccolone – lo confermo per le lettrici femminili con la Bova alla bocca –, molto carino. E che a registrazione ultimata ci ha invitato tutti alla prima di un film che ha prodotto e interpretato, credendoci molto. Promettono tutti di venire ma al cinema mi presento solo io (redazione di paccari snob!) e siccome non ho faccia tosta abbastanza mi siedo in mezzo al pubblico plebeo e scoprirò solo dopo che avevo un posto riservato di fianco a Giorgio Armani. Pensa cosa s’è perso: un Cacace in camicia da boscaiolo e pantaloni cargo lerci, roba che ci tirava fuori due collezioni estate-inverno per l’uomo casual. Vabbeh: il film. Due pescatori, uno italiano, uno arabo, con lo stesso nome (Giuseppe e Youssef) lavorano assieme su un peschereccio, sinché non emergono dubbi e differenze e accuse. Va prevedibilmente a schifìo: il film ha sicuramente un intento meritorio ma il veleno del terrorismo raccontato da un regista con poche letture (il tunisino Mohsen Melliti) fa crollare le aspirazioni di un apologo teatrale molto scarno. I due attori (Bova e Giovanni Martorana) tengono in piedi il film nonostante lo script schematico, con passaggi di sceneggiatura che sfiorano il ridicolo e dialoghi maldestri a dir tanto. E qui la colpa è di sceneggiatori che per conto mio meriterebbero la radiazione dall’albo, se mai esiste, perché i buoni propositi non bastano. A fine proiezione esco dalla sala perplesso, pensando ai fatti miei, dimentico dell’atmosfera celebrativa e in cima alla scalinata che dà sull’esterno mi ritrovo all’improvviso abbracciato dal coraggioso Raoul Bova, accecato da un crepitare di flash che mi avranno sicuramente guadagnato una partecipazione involontaria a Sipario su Retequattro. Succede. A me. (Multisala Odeon, Milano; 14/5/07)

ddv6105 24641 – Lo stupefacente 24 – Season 1 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2001
Di questo seriale controverso e altamente addictive, che è il non plus ultra dell’adrenalina televisiva e che porta a un consumo compulsivo simile a quanto avviene con Lost, parlo più avanti. Qui rilevo solo l’incredibile finale del thriller spionistico, una cosa che mai potreste immaginare. Abbiate fede, procuratevelo, deliziatevene e andate all’incredibile, ricchissimo, innovativo e geniale parere d’autore (cioè il mio) che troverete alla rec. #655. (Dvd; maggio e giugno ’07)

ddv6106 Uccidete la democrazia642 – Lo spaventoso Uccidete la democrazia! di Ruben H. Oliva, Italia 2006
Documentario maldestro e, purtroppo, senza uno straccio di prova esibita, sulle elezioni politiche dell’anno scorso, quando nel corso di una giornata si passò da una vittoria schiacciante dell’armata Brancaleone di Prodi a una risicatissima maggioranza a notte fonda, pelo pelo, tanto che oggi ‘sto governo vivacchia sperando che la Levi Montalcini arrivi oltre i cento anni. A urne chiuse il nano gridò subito al broglio, e siccome “l’ho detto prima io” nessuno fece notare granché che il sospetto, al limite, era per chi aveva gestito informaticamente il voto, cioè il governo uscente. Vabbeh. Sennonché sulla vicenda è tornato quel drittone di D’Alema, parlandone en passant da Fabio Fazio, dicendo cose gravissime senza però andare fino in fondo alla faccenda (lui, Fazio, i giornalisti, tutti, CAZZO!), perché tanto siamo superiori o più semplicemente complici. Il documentario in questione affronta la vicenda ed è sgrammaticato, sceneggiato male, con escursioni narrative che confondono (Portella delle Ginestre, il cospiratore americano) e con parti ricostruite in fiction semplicemente agghiaccianti, da non poterci credere, al di là del bene e del male come recitazione e testo. Mi stupisce che nessuno si sia preso la briga di prendere una videocamera e un microfono per andare da D’Alema a fare la domanda che Fazio non ha fatto: “A Massimo bello, spiegami un po’ BENE cos’è successo… perché quando si stava mettendo veramente male hai mandato Minnitti al Viminale? Cos’ha fatto là?”. E poi, facendo la fatica di cambiare interlocutore: “Caro Minnitti, spiegaci perché arrivi tu e s’inverte la tendenza dei voti…”. E magari una domandina anche a Pisanu, via!, ministro responsabile dell’epoca. Perché il flusso anomalo di voti e l’anomalia statistica della scomparsa delle schede bianche (in tutte le regioni, con le stesse percentuali, mai successo in 50 anni di Repubblica), non sono una prova, però un bell’argomento sì. E invece rimane tutto lì, adombrato, guadagnando al film la facile accusa di complottismo. Peccato, ma proprio “no buono”, come diceva Andy Luotto. (Dvd; 21/5/07)

ddv6107 apocalypto645 – Corri! Arriva Apocalypto di Mel Gibson, USA 2006
Seratina genovese, con papà che sonnecchia mentre su Sky passa Ogni cosa è illuminata, film rischiosissimo, tratto da uno dei romanzi più belli letti di recente. A film finito (e direi riuscito) e papà a letto ito, rimango solo con un dvd che mi attira terribilmente. Qui ne hanno parlato tutti malissimo – lo so – perché Mel Gibson sta prepotentemente sulle palle ai nostri critici. Del resto è un fascistone. Ma oltremare il film è stato ben accolto. Io non ho visto Braveheart la Passione di Cristo per cui non ho preconcetti e se puttanata dev’essere, che puttanata sia: me lo vedo anche se è tardi perché di sonno non ne ho per niente, domani non lavoro e ho diritto ogni tanto anch’io, eccheccazzo, al diavolo l’ideologia. E poi per me Gibson rimane l’amabile tamarro con la testa gonfia di Arma letale, l’eroe post-atomico di Mad Max e il soldatino eroico de Gli anni spezzati, mio personale stracult. Gli perdono tante cose, insomma. E vengo premiato in toto perché Apocalypto è una sesquipedale e clamorosamente divertente stronzata, un videogioco indiavolato dove un povero maya della foresta dello Yucatan deve fuggire da rapitori carogne e sacerdoti amabili che ti estraggono il cuore senza anestesia. Non ho verificato l’attendibilità storica del prodottino, ma non m’importa per niente: il thriller azteco è ritmato, colorato ed efferato e va via che è una meraviglia. E poi – per fortuna, verrebbe da dire – arrivano i conquistadores che sbarcano a sinistra dello schermo, cioè percettivamente a ovest (come se arrivassero dall’oceano Pacifico, insomma): il ribaltamento di campo geografico mi manda in sbattimento psicomotorio, tipo pilota di jet che perde l’orizzonte, e mi consegna a un sonno inquieto. Apocalypto è come una parmigiana di melanzane bisunta: sai che non devi mangiarla, lo fai, ti strafoghi, ne godi. E poi hai gli incubi. (Dvd; 26/5/07)

ddv6108 HRCCacace a Mosca (con filmino ad hoc!)
Per la consueta settimana di festeggiamento annuale dei 138 Hard Rock Cafe sparsi nel mondo, me ne vò con Riccardo a Mosca, a riprendere il concerto del nostro amico Vic Vergeat.
L’arrivo nella capitale è incredibile: smog come a Mexico City e traffico come a Mumbay, con SUV giganteschi e Lada arrugginite fianco a fianco. I semafori sono a gusto della Polizia che può cambiare segnale all’improvviso, rendendo l’attraversamento pedonale divertente come una roulette russa. Il mio albergo è davanti al Ministero dell’Interno, un imponente palazzo staliniano che negli anni Cinquanta, se eri un Giovane Pioniere, doveva sembrarti un missile puntato verso il cosmo. O verso le tue terga se eri un dissidente. Dicono che l’albergo – molto frequentato da politici stranieri – sia controllato dai servizi segreti che l’hanno tutto cablato. Mah: non ci credo, non voglio intaccare il mio sincero fervore sovietico.
L’Hard Rock invece è davanti alla casa di Puskin, sul vecchio Arbat, il corso dove la gente fa le vasche come in tutto il mondo e dove puoi vedere splendide ragazze, militari sfaccendati, facce piatte di buriati e calmucchi, artisti fasulli che disegnano caricature invendibili e turisti che ci cascano. Aperto nel 2003, il locale presenta reliquie decisamente cafone come gli abiti di scena di Ozzy Osbourne e Paul Stanley dei Kiss, gli stivalazzi di quella gran signora di Lita Ford e anche la clamorosa chitarra dei Blue Öyster Cult, sagomata come il simbolo di Cronos. Il tocco indigeno è dato da qualche balalaika elettrica di artisti francamente ignoti a noi occidentali. E a tavola altro che bortsch e blinis: panini molto yankee e per i fanatici degli Aerosmith pure la “Quesadilla alla Joe Perry”, polletto con una salsina urticante con cui faccio merenda. E poi si può fumare che è un vantaggio niente male.
Dopo le prime prove acustiche e di regia torniamo in albergo a prepararci per la serata. Vic è inquieto e accusa curiosi fastidi alla schiena, sinché non scopre che è venuto in Russia con due scarpe diverse (!) che lo fanno zoppicare. Ci prepariamo ad uscire, vagamente storditi dalla conturbante frequentazione dell’albergo di donne single eleganti ed altere che intuisco potrebbero incenerirti la carta di credito. Ma io ho una faccia da deficit e non vengo considerato come possibile cliente. Ci succede di peggio: siamo nella hall con la band e, momento surreale come pochi, da una rumorosa delegazione di politici italiani si stacca l’ineffabile Giulio Tremonti – lui, giuro – che ci piomba addosso curioso. Vuol sapere chi siamo e che facciamo a Mosca e nella vita. Non a caso non si offre come commercialista a nessuno di noi. È lì con Bertinotti per non so quale incarico comunitario (Tremonti: “Una gvuan vottua di balle”) e quando sa del nostro concerto dell’indomani e dell’abilità di Vic esclama “Magavui mi imbuco!”. Fausto non ci degna che di un cenno e devo dire che tra il rotacismo dei due risulta più simpatico quello di destra, mannaggia.
Andiamo nel ristorante più quotato della capitale in questo momento, italiano. È tutto offerto dal fantastico organizzatore della trasferta Luca e siamo trattati come superstar, con cibi nostrani pregiati e freschissimi, come certe burratine che vengono fatte arrivare dalla Puglia con voli giornalieri. Fuori dal locale una teoria di Hummer corazzati tutti col motore acceso. Chiedo distrattamente il perché a chi sa di cose moscovite e la risposta mi lascia la burratina a metà gargarozzo: “Per scappare subito in caso di attentato”. Comincio a osservare allarmato la clientela e ai miei occhi diventano tutti mafiosi ceceni, trafficanti georgiani, industriali del gas e generici tagliagole. Si finisce con classici brindisi e abbracci lacrimosi con sconosciuti e seppur barcollanti guadagniamo di nuovo l’albergo. Ric dorme 9 ore consecutive, senza pipì; io sono svegliato dagli SMS di sua moglie e tormentato da un’aria condizionata siberiana inarrestabile.
Il giovedì mattina è dedicato a un ovvio pellegrinaggio alla piazza Rossa. Vic compra delle scarpe nuove ai magazzini GUM, io mi faccio turlupinare acquistando alcune memorabilia sovietiche palesemente false, Ric riprende tutto, anche quando una guardia ci invita ad abbassare le telecamere, non capiamo se volendo una mancetta o cosa. La piazza è grossa ma non come credevo e San Basilio è proprio piccina, un labirinto espressionista. Pranziamo all’Hard Rock Cafe e poi dedichiamo il pomeriggio a prove estenuanti, fino all’ennesimo frugale spuntino e al concerto vero e proprio, davanti a una cinquantina di persone.
ddv6109 MoscaDopo l’esibizione ceniamo per l’ennesima volta nel locale, un po’ appesantiti, francamente, e nell’euforia post partum Vic ci racconta convinto della storia dell’uomo bicazzo, cui Ric e io non crediamo assolutamente. Complice la birra prima e le vodke dopo chiedo curioso di come siano posizionati i peni e ipotizzo rapporti a “presa elettrica” con la famosa donna con due buchi del culo. Ric ha un attacco di risa isterico e in albergo deve prendere il Ventolin perché ha ancora l’affanno asmatico un’ora dopo. Però poi scopriamo che la difallia esiste eccome (sui due buchi del culo non ho investigato).
Il venerdì siamo ancora storditi da alcolici, fumo e rivelazioni morfologiche, ma ci concediamo una visita più accurata del centro di Mosca, ritornando infine sulla piazza Rossa e visitando l’emozionante monumento dei caduti della seconda guerra mondiale. Ci sono segni dell’impero sovietico un po’ ovunque, non nascosti, neanche esaltati, ma presenti. Come il paragone quasi orgoglioso tra Putin e Lenin. Poi è già ora di ritorno a casa e dopo due ore in coda fino all’aeroporto Sheremetyevo, con un tempismo da film thrilling saliamo a bordo. Mosca addio. Come diceva Abatantuono nell’immortale Eccezzziunale veramente: “Che popolo, lo slafo!”. Ah: poi al concerto Tremonti ha dato buca. (Live 13, 14, 15/6/07)

655 – 24 – Season 2 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2002
Se arrivate dalla recensione #641 vi ho fregati: per i miei pensierini su questa serie magistrale vi tocca aspettare la #688 perché, lo confesso, ciurlo nel manico anche nella #672. (Dvd; agosto ‘07)

ddv6110 History Of Violence660 – Non ho capito benissimo A History Of Violence di David Cronenberg, USA 2005
Mah! Adesso: non è che se un film lo firma Cronenberg, debba per forza essere un colpo di genio… io son rimasto freddo, confesso, mentre tutto il mondo ha gridato al miracolo. L’unica cosa che mi ha colpito è quando a metà pellicola c’è l’idea clamorosa della lite che finisce in trombata: Viggo Mortensen e Maria Bello litigano furiosamente, si menano di brutto e poi – dopo un’occhiata elettrica – scopano come cani per le scale di casa. Detto questo, mi pare un film algido, in qualche maniera irrisolto, che parte bene per poi andare totalmente sopra le righe nella seconda parte. Ma non sembra averlo notato nessuno. Boh, sbaglierò io! Ed ero pure di buon umore: l’oracolo immerso nella pipì ha confermato, l’anno prossimo ripartono le notti magiche perché arriva un altro figlio, oh yeah! (Dvd; 25/9/07)

(Continua – 61)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

]]>
In Purgatorio, con Valter Binaghi https://www.carmillaonline.com/2013/09/26/io-e-valter-binaghi-in-purgatorio/ Wed, 25 Sep 2013 22:27:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8951 di Mauro Baldrati

Purgatorio-1Non pensavo che fosse così. Avevo immaginato due opzioni: soprattutto il buio. Totale, denso, impenetrabile. Il Vuoto Centrale. E io che non ricorda nulla, io che non sa, perché non è più. Oppure qualcosa, qualcuno – io – che si staccava dalla materia e vedeva me stesso disteso in una bara, i parenti, gli amici ecc. Invece niente di tutto questo. E’ stata una specie di centrifuga, una forza motrice senza limiti che ruggiva furiosa. Poi luci, e suoni indescrivibili, come dei muggiti preistorici. Infine mi sono ritrovato qui, in questo cortile recintato da un alto muro, come [...]]]> di Mauro Baldrati

Purgatorio-1Non pensavo che fosse così.
Avevo immaginato due opzioni: soprattutto il buio. Totale, denso, impenetrabile. Il Vuoto Centrale. E io che non ricorda nulla, io che non sa, perché non è più. Oppure qualcosa, qualcuno – io – che si staccava dalla materia e vedeva me stesso disteso in una bara, i parenti, gli amici ecc.
Invece niente di tutto questo. E’ stata una specie di centrifuga, una forza motrice senza limiti che ruggiva furiosa. Poi luci, e suoni indescrivibili, come dei muggiti preistorici. Infine mi sono ritrovato qui, in questo cortile recintato da un alto muro, come un penitenziario. C’è una luce diffusa, priva di ombre.
E non si vede nessuno, a parte una piccola sagoma uscita da una porta che si dirige verso di me. Un bambino.
“Ciao Mauro” dice, quando mi arriva di fronte. Lo guardo attentamente. Qualcosa di lui mi è familiare. Non so perché. Non è stato un mio amico di infanzia.
“Ciao” dico, incerto. Continuo a fissarlo. Anche la voce ha qualcosa di familiare. Gli occhi. La corporatura.
“Bene arrivato. Ti aspettavo.”
A questo punto mi guardo le mani e ho un tuffo al cuore: sono le mani di un bambino. Anche i piedi, e un paio di scarpe che ricordo bene, perché un giorno caddi in un fossato fognario e la mamma le gettò via. I miei scarponcini preferiti.
Un bambino.
Anch’io sono un bambino.
Come quello che mi sta di fronte e continua a sorridere.
“Non mi riconosci?” chiede. Il mio sbalordimento deve essere evidente.
“Ma… mi sembra che… non so…”
Sorride di nuovo. “Sono Valter. Eppure sei venuto a un mio reading musicale, a Bologna, quando ho presentato Mephisto.”
Sì. Ora ricordo. Valter Binaghi. Riconosco lo sguardo. Valter che leggeva e cantava, con due musicisti. In platea eravamo quattro gatti quattro. Io, l’editore, l’addetta stampa e un’amica.
“A proposito” dice. “Grazie. E’ arrivata, forte e chiara.”
Lo guardo senza capire.
“Sì, quando sei salito alla Basilica di San Luca per il sentiero dei Bregoli e mi hai mandato… posso dirlo? Una preghiera.”
“Uhm. Non so se era… Diciamo un pensiero.”
“D’accordo. Un pensiero. Però dentro la Basilica.”
“Sì. Per me sono come dei portali, ecco.”
“Capisco”. Sembra divertito.
Mi guardo di nuovo intorno. Non c’è niente da guardare. Assenza di forme, di ombre, di colori.
“Quindi dove siamo?”
“Davvero non l’hai capito?”
“Vuoi dire… Ma non esiste. Non può esistere. E’ solo mitologia.”
“Invece sì, siamo in Purgatorio.”
Deve essere un sogno. Eppure è tutto troppo chiaro, troppo perfetto.
“Dunque siamo qui per espiare?”
Espiazione. Quanta ne avrò? Certamente in dosi industriali.
“Non esagerare con le domande Mauro. Da quanto ho capito, cioè poco, il nostro compito è ripulirci.”
Ripulirci. Non posso esagerare con le domande. Però è pertinente. Purgatorio. Purgare. Liberare.
“Eppure una domanda devo farla, Valter: perché siamo tornati bambini?”
E’ l’aspetto più sconvolgente.
“Credo che ci abbiamo spedito nel tempo in cui tutto ebbe inizio. Ma non chiedermi altro. Quanti anni credi di avere?”
Mi guardo per l’ennesima volta le mani e i piedi.
“Secondo me sette anni.”
“Allora qualcosa è avvenuto in te all’età di sette anni. C’è stato un inizio, uno dei tanti, un inizio importante. Come il mio, all’età di cinque anni. Ma non siamo qui per discutere, Mauro. Solo per…”
“Ho capito. Per ripulirci. E da cosa, in questo momento?”
Anche Valter si guarda le mani, meditabondo.
“Per ora siamo qui per occuparci… della superbia.”

La sala

“Valter, proprio come nelle favole, il peccato di superbia, ma non può essere, dai. Allora esistono anche gli altri peccati? Avevate ragione voi credenti, su tutta la linea?”
Valter Binaghi, per un breve attimo, sembra contrariato dalla mia battuta.
“Stai peccando di superbia, Mauro. Devi fare attenzione. Qui non si scherza. Se non lo capisci rischi di scendere laggiù.”
Guardo il pavimento di questa specie di corridoio immateriale su cui stiamo camminando. Esiste davvero il non-colore? Se esiste, questo lo è.
Laggiù? E com’è?”
Di nuovo le domande. Ma sento l’ansia che cresce. Immagino che sia pericoloso.
“L’ho solo intravisto. E’ un luogo orrendo. Tutto nero, fumante, forme nere attorcigliate, che si contorcono. E lampi, scariche. Altro non so. Altro non posso sapere.”

Sbuchiamo in una strana sala coloratissima, piena di calore, di musica. L’opposto del cortile. E’ gremita. Una piccola folla vociante è seduta su eleganti poltroncine rosse, ai lati di una passerella rivestita di velluto dello stesso colore. I vestiti sono lussuosi, abiti da sera per le donne, tutte molto belle, truccate, abiti scuri per i signori, distinti e brillanti.
Prendiamo posto su due poltroncine in seconda fila. Nessuno sembra notarci. Eppure siamo due bambini di cinque e sette anni, soli.
Restiamo in silenzio, guardandoci intorno. Alcuni hanno dei bicchieri da cocktail, sorseggiano liquidi colorati, gli uomini parlano nelle orecchie alle donne, che ridono rovesciando indietro la testa.
Non voglio. Non posso fare altre domande.
E’ Valter che parla, di sua iniziativa.
“Dunque. Qualcosa dobbiamo per forza sapere, visto che dobbiamo capire, per fare pulizia.”
“Giusto” dico, con un senso di sollievo.
“Noi… tu, io e molti altri, siamo stati scrittori minori. Non nel senso che gli attribuiva Deleuze, intendiamoci, proprio minori, pubblicati da editori minori, con vendite e recensioni minori. Proletari insomma”
“Vero.”
“E abbiamo accumulato rabbia, rancore, perché nel paese delle caste, della piaggeria, dei cortigiani, tutto è chiuso in compartimenti stagni, e il merito, di cui si riempiono la bocca, è una bufala.”
“Vero” ripeto, anche se mi colpisce l’enfasi insolita del suo tono.
Anche Valter sembra rendersene conto, perché si copre la faccia con le mani.
“Ecco, senti quanto malanimo esce dalla mia voce? Dalla mia anima? Dobbiamo guarire. Siamo qui per questo.”
“Per questo? Per cosa Valter”
Un sorriso mesto. “Siamo qui per prenderci tutto in faccia, senza pietà.”

La sfilata degli esordienti travolgenti

D’un tratto le luci della sala si attenuano, mentre la passerella resta illuminata. Le persone guardano il fondo della sala con aria eccitata. Una musica allegra si alza a volume alto. E’ We are family delle Sister Sledge.

Un personaggio avanza sulla passerella con passo felpato. Ha un sorrisetto accattivante disegnato sulla faccia, che ha un che di vagamente alieno, come se fosse scolpita nella cera. Lo riconosco, è il famoso presentatore televisivo Fabio Fazio.
Si ferma al centro della passerella e si rivolge al pubblico.
“Buona sera, signore e signori! E’ un grande onore essere qui, per introdurre i nostri più grandi scrittori, la cui presenza ci onora di fronte al mondo intero! E’ una grande emozione per me vederli in carne e ossa, come persone comuni! Ono-ra-to, sono letteralmente travolto dall’onore e dall’emozione!”
Il pubblico esulta, l’eccitazione è alle stelle.
“E quindi introduco il primo, sentendomi, al suo cospetto, più o meno un gasteropode: un esordio fantastico, travolgente, il Professore Presidente Esordiente Walter Siti!”
Tutti guardiamo il fondo della sala, ma non esce nessuno.
“Ma non spetta certo a me presentarlo” esclama Fabio Fazio. “Io non ne sono degno! Per cui invito sulla passerella un grandissimo critico, il sublime Professore Presidente Esordiente Marco Belpoliti!”
Applausi, sulle note sgargianti delle Sister Sledge.
Esce Marco Belpoliti, con la barbetta, gli occhiali, fasciato in un accecante completo viola con cravatta azzurro-elettrico, scarpe arancioni, camicia a pois. Cammina compassato, con aria distaccata.
“La prego, Professore Presidente Esordiente Belpoliti, ci onori con le sue parole su Walter Siti!” esclama Fabio Fazio. “Solo lei può farlo.”
Marco Belpoliti apre leggermente le braccia e dice, con voce sommessa: “signore e signori, Walter Siti.”

Che cos’è la letteratura?

Esce Walter Siti, vestito con un maglione grigio e pantaloni di velluto, scarpe grosse, i baffi. Non dice nulla, si ferma al centro della passerella e sorride ironico.
Marco Belpoliti lo guarda, impassibile, poi dice: “Il vincitore del Premio Strega è il primo libro da portare nella valigia, o zainetto. Da leggere seduti ben comodi, perché quello di Walter Siti è un libro scomodo. Scrittore cinico, intelligente, coltissimo, capace di spinose incursioni nel mondo contemporaneo.”
Poi Belpoliti lancia un’ultima occhiata a Siti, gira i tacchi e se ne va.
Intanto qualcuno ha versato dei chicchi di granoturco accanto a Siti, e Fabio Fazio, che si è rimboccato i pantaloni, si inginocchia sui chicchi rivolgendosi a Siti con le mani giunte.
“La scongiuro, Professore Presidente Esordiente Siti, mi onori appoggiandomi una mano sulla testa!” supplica
Il baffetto vibra di ironia. “Sulla testa? Non mi sembra un gesto significativo. Giovenale non l’avrebbe mai fatto, e neanche Chateabriand.” Fa una pausa, firma una copia del libro che una bella signora vestita di rosso gli porge. “Noi non dobbiamo chiedere alla letteratura di essere ciò che non è. La letteratura non è rivoluzione, né conservazione. La narrazione non può narrare l’inenarrabile.”
Applausi del pubblico. Fabio Fazio guarda Siti con gli occhi pieni di lacrime.
“La letteratura non può narrare neanche il troppo narrabile. E tantomeno il mediamente narrabile. Per non parlare dello scarsamente narrabile. La sua missione non è compiacere, né provocare, né sfidare, né rassicurare, né affascinare, né confondere e tanto meno chiarire alcunché. E’ una lezione che abbiamo appreso da grandi cronisti come Tacito, o Senofonte.”
Fabio Fazio lo guarda ispirato e implorante.
“Grazie, Presidente Esordiente Siti. Grazie di essere stato qui!”
Siti si inchina leggermente, ringrazia e se ne va.
Fazio si rialza, si rimette a posto i pantaloni mentre un ragazzo spazza via i chicchi.
“Ed ora, signore e signori, un altro formidabile intellettuale che il mondo ci invidierà fino alla fine dei tempi, un esordio fulminante, straordinario: il Presidente Esordiente Roberto Saviano, presentato come sempre dal sublime Professore Presidente Esordiente Marco Belpoliti!”

Gli scrittori Willy il Coyote

Esce una nuova versione di Marco Belpoliti, tutta in giallo, completo, camicia, cravatta, scarpe, anche i capelli, la barbetta, la faccia e le mani, che sono cosparse di fondotinta giallo. Solo le unghie sono laccate di rosso. Avanza con la consueta flemma, si ferma al centro della pedana e dice, senza enfasi: “Signore e signori, Roberto Saviano.”
Appare Saviano, tra gli applausi torrenziali, giacchetta stropicciata, camicia senza cravatta, scarpe da trekking, barbetta di una settimana, sorriso rilassato e vagamente triste.
“Opera claustrofobica” dice Belpoliti, con tono monocorde, “che al tempo stesso apre scorci improvvisi e vertiginosi sul nostro quotidiano. Romanzo dell’io e insieme cronaca minuziosa del presente. Questo libro dialoga con quello di Siti.”
Aspetta che la gente applauda di nuovo e senza aggiungere altro se ne va.
Intanto Fabio Fazio si è steso sulla pancia e parla con voce strozzata spingendo indietro la testa.
“Oh, Presidente Esordiente Roberto, ti prego, concedimi l’onore di salire sul mio corpo mentre ci illumini!”
Saviano guarda Fazio col suo sorriso vagamente malinconico, poi lentamente sale sulla schiena del presentatore e dice: “Nulla è più divertente che vedere come brigano gli scrittori Willy il Coyote: unico modo per uscire dall’invisibilità. Bramano per andare nelle trasmissioni culturali, corteggiano i conduttori, salvo poi denigrarli se questi non li invitano. Sognano copertine e prime serate ma, se non le hanno, considerano volgare per uno scrittore questa visibilità popolare. Non comprendono che il successo di Beep Beep non può essere acciuffato con questa strategie. E’ delizioso guardare la loro tenace volontà di convogliare odio e malcontento. Osservarli è come vedere il vero Willy il Coyote in azione: alla fine dell’ennesimo episodio resterà solo un’impronta sulla terra arsa dal sole, attorno a cui si chiederà per l’ennesima volta il cerchio nero dello schermo.”
La gente è entusiasta, molti si alzano in piedi e applaudono con gli occhi luccicanti per la gioia. Roberto Saviano va avanti per quattro ore e ventinove minuti, con una sola breve interruzione per permettere a Fabio Fazio di girarsi sulla schiena. Poi scende, ringrazia e lascia la passerella.

Tutti mi vogliono, tutti mi cercano, qua e là

Fabio Fazio si rialza, si massaggia la faccia di cera, dice: “Grazie al Presidente Esordiente Saviano per questa lezione di vita! Ed ora chiamo sul palco una grande scrittrice che ci onora di fronte al mondo intero per le vette letterarie che ha conquistato col suo esordio irresistibile, la Madre Superiora Esordiente Sivia Avallone, presentata come sempre dall’incomparabile Professore Presidente Esordiente Marco Belpoliti, l’unico che ha titolo per farlo!”
Belpoliti arriva sui pattini, coi paraginocchi, i paragomiti, i pantaloni corti da ciclista, gli occhiali a specchio, i guanti di cuoio senza dita, una bandana rossa sulla testa. Si ferma con una giravolta e dice, a bassa voce: “Signore e signori, Silvia Avallone.”
La Avallone fa il suo ingresso fasciata in un tubino azzurro, camminando mettendo un piede davanti all’altro come le indossatrici. Contrariamente agli altri due è eccitata, butta in aria le braccia e grida, tra il giubilo del pubblico: “Ciao Purgatorio! Siete pronti? Siete caldi?”
Marco Belpoliti non si scompone, aspetta che l’entusiasmo si plachi e dice, con tono piatto: “Libro spietato, che non fa sconti, narra la storia di una ragazza che ha per madre un’operaia delle acciaierie di Piombino e un alligatore delle Everglades. Nata con la pelle squamosa, soffre per l’aggressività del padre, che vive in un acquario in salotto, va a lavorare insieme alla madre in acciaieria dove ogni mattina viene stuprata dal caporeparto. Non si tratta certo di un corpo di narrazione senza organi, al contrario, di un corpo iper-organico e della sua minuziosa, accurata indagine attraverso il corpo trasfigurato del nostro presente.”
Belpoliti fa una piroetta, rischia di perdere l’equilibrio, ondeggia pericolosamente, poi si riprende e scivola via.
Intanto Fabio Fazio si è di nuovo steso sulla schiena e guarda la Avallone. “La scongiuro, Superiora Esordiente Avallone, mi calpesti la faccia mentre ci onora con le sue parole!”
Silvia Avallone non se lo fa ripetere, gli sale sulla faccia coi tacchi a spillo, e parla sempre con le braccia in alto. “Mi hanno appena telefonato dal Qatar per avere un mio manoscritto!” Urla del pubblico, esclamazioni, tripudio. Silvia Avallone legge una lista di 48.227 editori che le hanno chiesto un manoscritto, di qualunque argomento e lunghezza. Ad ogni nominativo il pubblico si alza in piedi e applaude. Quando ha terminato il suo intervento la faccia di Fabio Fazio è ridotta una poltiglia sanguinolenta.
“Superiora Esordiente Avallone” dice Fabio Fazio, “è un grande onore avere i connotati cambiati da lei!”
Intanto la faccia sfigurata si ricompone rapidamente, come la cera calda che prende una forma nuova e si fissa in pochi secondi, raffreddandosi.

Ritorno nel cortile

“Allora?” chiede Valter.
“Terribile” rispondo.
“Dobbiamo abituarci, Mauro. Assisteremo a migliaia i rappresentazioni come questa. E poi la sceneggiata dei premi letterari, decine di migliaia, tutti vinti da Gianrico Carofiglio, mentre i nostri libri non verranno mai nominati. Dobbiamo liberarci da questo senso di esclusione e di sconfitta. Perdere tensione. Perché la classe dirigente non ci appartiene. Non possiamo desiderare di farne parte. Siamo altrove.”
“Capisco Valter. Almeno credo. Qualcosa di buddista quindi?”
“Oh, va tutto ridefinito, tutto riscritto. Ci sarà sempre qualcuno sopra, qualcuno che secondo noi ha ciò che non merita. Di questo dobbiamo guarire. Credendo in noi stessi, nei nostri mezzi. E accettando i nostri limiti.”
“Quindi Saviano ha ragione sugli scrittori Willy il Coyote? Noi eravamo così?”
“No. Non conosce i bassifondi, generalizza. Però su un aspetto potrebbe avere ragione.”
“E sarebbe?”
“C’è una specie di corrispondenza tra gli operai-massa del boom economico e gli scrittori ‘minori’. In entrambe le categorie, entrambe le classi, c’è una sindrome di imitazione ai modelli dominanti: la borghesia industriale, coi suoi stili, i suoi consumi, e i borghesi letterari/editoriali, coi loro successi mediatici e i loro plot narrativi.”
“Quindi ha ragione!” insisto.
“No” ripete Valter. “Gli operai subalterni erano incalzati dagli operaisti dei Quaderni Rossi, perché col loro comportamento rinunciavano alla creatività del conflitto di classe. Qui invece i loro omologhi scrittori minori vengono semplicemente sbertucciati perché non sono all’altezza dei modelli vincenti. Mentre il punto importante è proprio questo: ritrovare la forza del conflitto, la ricerca di una identità letteraria che non sia imitativa.”
Guardo Valter, un bambino che agita le manine e mi dice questa cose.
“Quanto durerà Valter?”
“Dipende. Forse secoli. Forse millenni.”
Ascolto in assenza di pensieri, e di emozioni.
Il tempo non esiste.
Una risposta non esiste.
“Intanto per noi ci sono due mantra” dice Vater Binaghi. “Il primo è uno dei fondamentali, dobbiamo salmodiarlo insieme ogni giorno. Ripetilo con me: espando la mia gioia di vivere, e ho fiducia in me stesso.
Lo recito, ma qualcosa suona male. Ho fiducia in me stesso. Questo è un punto difficile.
E anche questo: La mia gioia di vivere.
“Valter, ma siamo morti.”
Binaghi china la testa. Forse per dissimulare un sorriso. “Vita, morte, tutto deve essere rieditato.”
Restiamo in silenzio.
Cerco suoni che non si possono udire. Colori che non si possono vedere, nel cortile vuoto.
“E il secondo mantra?”
“Oh” dice Valter, rianimandosi. “Questo è il mio preferito. Lo recito ogni mattina: Everyday, everyday I have the blues.”

]]>