fabbriche – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Economia di guerra / 3 – Fase due: incubo sulla città contaminata https://www.carmillaonline.com/2020/04/29/economia-di-guerra-3-fase-due-incubo-sulla-citta-contaminata/ Wed, 29 Apr 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59702 di Jack Orlando

Una nuova conferenza del presidente del consiglio, l’appello alla nazione affinché porti pazienza, affinché non gli venga in mente di arrabbiarsi con qualcuno perché, in fondo, la responsabilità è dei cittadini. Retorica sanitaria figlia della miglior tradizione neoliberale in cui a pagare il conto della baracca è la plebe. È così che si inaugura la famosa Fase 2, quella della “convivenza” col virus, o meglio, dell’abitudine alle limitazioni e della stabilizzazione dell’emergenza che diventa nuova forma di economia e di governo. Come era prevedibile, questo nuovo capitolo della gestione [...]]]> di Jack Orlando

Una nuova conferenza del presidente del consiglio, l’appello alla nazione affinché porti pazienza, affinché non gli venga in mente di arrabbiarsi con qualcuno perché, in fondo, la responsabilità è dei cittadini. Retorica sanitaria figlia della miglior tradizione neoliberale in cui a pagare il conto della baracca è la plebe. È così che si inaugura la famosa Fase 2, quella della “convivenza” col virus, o meglio, dell’abitudine alle limitazioni e della stabilizzazione dell’emergenza che diventa nuova forma di economia e di governo.
Come era prevedibile, questo nuovo capitolo della gestione della pandemia ha generato un nuovo decreto presidenziale, pasticciato e, a molti tratti, incomprensibile. Che però conferma almeno una cosa: l’effettiva data di nascita della classe dirigente italiana.

Classe dirigente, politica ed economica, che nei decenni intercorsi dalla nascita della Repubblica ha cercato di darsi sempre nobili origini, sia che si trattasse di farle coincidere con il Risorgimento, con la Resistenza oppure con con il dibattito costituzionale intercorso nel biennio 1946-47. Mentre in realtà di tutt’altro si tratta, perché le mosse di questa classe dirigente concordano esattamente con quelle messe in atto l’8 settembre 1943. Una classe dirigente divisa allora e divisa oggi che concorda su un solo punto: colpire e schiacciare i lavoratori, i proletari e i cittadini. Destinati ad essere sempre, oggi come allora, abbandonati davanti al pericolo, da governanti in fuga e vili, capaci soltanto di cercare rifugio dietro alleati più potenti (ieri gli anglo americani o i nazisti tedeschi, oggi l’Unione Europea, i regimi autoritari caratterizzati dal nazionalismo oppure gli Stati Uniti di Trump), in grado di giustificare e appoggiare la repressione di ogni iniziativa di classe.

Nel caos di ordinanze, divieti, concessioni e regolamenti vari è chiara solo una cosa, che d’altronde era chiara anche prima: la priorità resta sempre il profitto e quindi l’unico motivo valido per uscire di casa è lavorare. Come se il Covid, al tavolo tra governo e parti sociali, avesse dichiarato di astenersi dal contagiare i lavoratori durante l’orario di attività1.

Per il resto, il distanziamento sociale permane pressoché invariato per tempi medio-lunghi. Oltre alle scontate ripercussioni sulla vita sociale e relazionale di tutta la popolazione e dei suoi “congiunti”, questa situazione apre scenari di profonda trasformazione delle nostre città e delle forme di vita e accumulazione che le attraversano.

Emerge adesso, come una delle contraddizioni centrali, la questione dello spazio pubblico e della sua agibilità: l’attraversamento delle città e l’accesso alle sue infrastrutture viene ora ridotto all’osso, come fossero un corridoio di connessione tra la casa e i luoghi di lavoro e approvvigionamento. Uno spazio svuotato quindi di ogni connotazione sociale e che, pertanto, mette in crisi tutte quelle articolazioni del mercato che ne permeano lo svolgimento quotidiano.
Per essere più chiari: quanti esercizi commerciali tra bar, ristoranti, pub, botteghe e piccoli negozi che vivono proprio di quel flusso, e che costituiscono una fetta enorme dell’occupazione italiana, possono vivere o anche solo sopravvivere di asporto e giravolte tra un’ordinanza e l’altra (con le loro immancabili multe, ammende e chiusure)? Quante di loro, già nell’immediato, dovranno liberarsi dei loro dipendenti per ridurre i costi di gestione?

Ecco servito un primo terremoto sociale: presumibilmente una fetta molto importante della sempreverde classe media italiana è ora sull’orlo di un precipizio chiamato proletarizzazione. Negozi chiusi con gestori e dipendenti costretti a trovarsi un nuovo sgobbo in un mercato del lavoro asfittico e reso ancora più stretto da una compressione dei consumi provocata dall’abbassamento dell’occupazione e delle retribuzioni. O, ancora, negozi indipendenti che per sopravvivere entrano nella filiera di quelle catene di franchising che possono ora fare la parte degli squali in un mare di pesciolini smarriti. In un caso o nell’altro, a lavoro perso o lavoro sotto nuovo padrone, un grosso pezzo di Italia domani si riscoprirà proletaria, forza lavoro che vende tempo e fatica al migliore offerente. Le serrande chiuse non si conteranno, quelle che porteranno nuove insegne, identiche tra loro, saranno sempre più comuni.

Probabilmente è finito il sogno dell’autoimprenditorialità per quella massa di persone che avevano deciso di vivere dei frutti del piccolo commercio. Rimane, ben più misera, la realtà dell’autosfruttamento implicito nello strato basso del popolo delle partite Iva, come manodopera senza sindacato e senza tutela pronta per un mercato del lavoro più feroce di prima.
Tra loro si troveranno anche le migliaia di nuove leve di corrieri, riders, facchini e fattorini, nuovi operai massa delle piattaforme di e-commerce e delivery, che correranno per le strade delle città a rifornire i consumatori di quei beni che non saranno più sugli scaffali del negozio, ma a portata di click e stretti nei loro imballaggi. Una figura finora relegata al rango di “lavoretto” da studente, che diventa ora una prospettiva di occupazione stabile.
Di una stabilità fatta di cottimo, rischi non assicurati, corsa alle briciole e arroganza padronale, di invisibilità nei tavoli di trattativa dei sindacati, una forma di sfruttamento d’avanguardia che si riverserà presto nello spazio di quei “garantiti” che credono ancora in una qualche forma di equità e tutela sociale.

Come il lavoro, lo spazio pubblico delle città è privato ulteriormente della sua linfa vitale e reso ancor di più terreno di caccia per i grandi capitali. Nulla di sconvolgente in realtà. La crisi non inventa quasi nulla, i processi erano in nuce o già in moto, più semplicemente si è schiacciato forte sul pedale dell’acceleratore.
Stanno prendendo forma nuove fratture, nuove condizioni di vita, nuove forme di sfruttamento e nuovi soggetti prodotti dal movimento del capitale che si rinnova e prende le forme del suo attuale contenitore pandemico.
Nuove forme di lotta e nuovi nemici ci sentiamo di aggiungere.

Ci si pongono davanti lavoratori insindacalizzabili che hanno come controparte diretta piattaforme informatiche che se ne fottono di qualsiasi mediazione, lavoratori che dagli uffici sono stati relegati in casa, atomizzati e ultraprecarizzati e con il costo di manutenzione del proprio lavoro sulle spalle, una classe media sventrata e al collasso, un corpo sanitario che dopo essere stato incensato vedrà una scure di tagli alla spesa abbattersi sulle loro condizioni lavorative, una torma difficilmente quantificabile di disoccupati e sottoccupati con un accesso scarso o nullo alle risorse e al lavoro.
Quali forme di lotta e parole d’ordine emergeranno in seno a questi soggetti è ancora tutto da scoprire, quel che è certo è che si rende necessaria una nuova composizione di classe in grado di muovere un conflitto a 360 gradi a quest’ennesima ristrutturazione emergenziale del capitale e che un terreno di lotta comune si darà già nell’attraversamento dello spazio pubblico e dell’accesso alle risorse che esso conserva. L’eterno conflitto tra capitale e lavoro che i padroni hanno buttato fuori dalla porta, bisogna ricacciarglielo dentro dalla finestra.

È necessario cioè dare battaglia nei nodi dell’accumulazione frammentati nelle città e nei loro bordi: nei luoghi di lavoro dove ancora si concentrano i corpi e le merci, fabbriche uffici o magazzini che siano, è da trovare il primo terreno di lotta e organizzazione; fuori, agli angoli delle strade dove sostano i rider o nelle case dove si lavora al pc, è necessario riorganizzarsi e trovare altrettante forme di blocco del flusso di merce.
Ma soprattutto, un piano di ricomposizione che si dà oggi per queste figure e che incide proprio sull’accumulo di capitale, è quello del reddito indiretto, della distribuzione della ricchezza; nessuna campagna su fantasmatici redditi universali, ma battaglia per l’appropriazione dei beni: dal cibo alla casa, dai vestiti alla salute, dal consumo di socialità all’istruzione, se tutto è stato messo a valore e ci viene imposto di pagarlo, tocca riprenderlo con la forza. Questa decennale opera di messa a valore della vita ha trasformato la città in merce, allora è venuto il momento di espropriarla. Questo significa riprendersi lo spazio pubblico: agirlo per impossessarsi della ricchezza prodotta, torcerlo da luogo di mercato a base d’organizzazione politica. Costruire sulle necessità di vita la linea di rottura.

L’autorganizzazione per fare fronte ai bisogni reali deve quindi uscire definitivamente, una volta per tutte, dall’alveo della solidarietà umana e iniziare a darsi una sua forma politica e antagonista, e per farlo non può prescindere dalla verità del vecchio slogan “riprendersi la merce”: solo mettendoci in condizione di prendere i beni lì dove sono, di imporre le priorità della vita su quelle del profitto, possiamo costruire una forza reale che non è solo mutualità, ma guerra di classe e crescita delle opportunità, nonché una prospettiva e un’attitudine adatta a tutti quei soggetti che fino a ieri la spesa potevano farla e che oggi non si vogliono certo rassegnare al pacco alimentare.
E se le manifestazioni e gli assembramenti sono vietati per limitare il contagio, se gli scioperi ledono l’irrinunciabile interesse nazionale, praticare rotture del dispositivo e recuperare una tendenza all’azione autonoma e anche illegale diventa più un’ovvia necessità che una enunciazione. E qui la radicalità trova il suo terreno di coltura e la creatività popolare il suo campo di sperimentazione.
È necessario allora sgomberare il campo dalle ambiguità in via preliminare e sganciarsi fin d’ora dalla retorica dell’unità nazionale che tutela solo i grandi affari: non possiamo negare la realtà della pandemia in virtù dei diritti individuali, ma di certo dobbiamo rompere con l’immobilità imposta da divieti la cui indecifrabilità fa il paio con l’abuso di potere.

L’aumento vertiginoso dei casi di arbitrio poliziesco e di violenze gratuite delle forze dell’ordine sarà certo figlio diretto di un caos giuridico, ma configura la nuova forma di rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini. In barba tanto ai garantisti democratici quanto ai fan della divisa, quello che la popolazione civile sperimenta oggi, è il volto della democrazia riservato finora agli antagonisti, agli ultras, ai migranti e ai marginali. Il nemico interno non è più un’esigua minoranza. Il nemico si annida in chiunque si muova in strada (o anche tra le mura domestiche, perché no?), in chiunque incappi negli spazi in cui l’arbitrio dello Stato può agire il suo pugno di ferro. Questa è la nuova configurazione dell’ordine pubblico democratico. È anche qui che la radicalità deve e può crescere. Poche lagne, non si pianga sulle botte della polizia, si riconosca una volta per tutte allo Stato il diritto a esercitare la violenza (che poi, tanto, non chiede mica il vostro permesso) per riconoscere finalmente il nostro diritto all’autodifesa e all’autonomia d’azione.

È finalmente arrivato il momento di finirla con i politicismi, con le figure sociali astratte, con le battaglie di principio; il nemico sta superando l’impasse ed è già passato all’offensiva e sotto attacco ci siamo tutti. Non c’è più spazio per moltitudini cognitarie, fratellanze e favolosità varie; è di fame e freddo, di sangue e merda che si parla adesso. E chi pensa ancora di poter stare a fare le sue disamine di lana caprina, mentre c’è la tempesta fuori dalla sua porta, o è un ottuso o è in malafede, in ogni caso non è qualcuno a cui prestare l’orecchio.

La normalità di ieri è bella che morta e un abisso si apre davanti a noi, è ora che lo si capisca bene, e non si creda nemmeno di essere arrivati alla fine della Storia, alla resa dei conti. Niente è finito e niente finirà mai da solo: una nuova normalità, peggiore di quella di ieri, può mettersi comoda tra i nostri giorni e assuefarci di nuovo al suo triste spettacolo. L’unica possibilità che abbiamo adesso è tuffarci dentro l’abisso e liberare un maelstrom che inghiotta questo presente, con le sue normalità ed emergenze, una volta per tutte.


  1. Come ha affermato Paolo Giordano nell’editoriale del Corriere della sera del 27 aprile, La fase 2 e noi:

    “Alla vigilia dell’8 aprile, quando è stato revocato il lockdown di Wuhan – un lockdown molto più rigido del nostro –, la Cina intera dichiarava 62 nuovi casi, la maggior parte dei quali importati. Il giorno precedente 32. Ieri, in Piemonte […] i nuovi infetti confermati erano 394. Nella Lombardia limitrofa 920.
    Però apriamo. O meglio, iniziamo ad aprire, perché lo fanno anche gli altri, perché si avvicina l’estate e sotto sotto speriamo che il caldo ci dia una mano; perché ci auguriamo di aver imparato una serie di norme e di mantenerle a lungo, perché il virus forse, chissà, si dice, è diventato meno aggressivo. In realtà, abbiamo chiuso in ritardo per salvaguardare il comparto produttivo e apriamo adesso, raffazzonati, per salvaguardare il comparto produttivo.

     

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Economia di guerra / 2: ancora sulla centralità del lavoro e del necessario conflitto che l’accompagna https://www.carmillaonline.com/2020/04/20/economia-di-guerra-2-ancora-sulla-centralita-del-lavoro-e-del-necessario-conflitto-che-laccompagna/ Mon, 20 Apr 2020 21:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59487 di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara. Smaschera il mondo in maschera.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza. Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il [...]]]> di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara.
Smaschera il mondo in maschera
.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza.
Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il tramite di ingegnose acrobazie linguistiche, geomorfologiche e statistiche), dati di una autentica strage a livello sanitario che i partiti istituzionali si rimpallano, con minacce di inchieste e commissariamenti, tra Destra e Sinistra come in una partita di volley ball, noiosissima e già vista centinaia di volte. Una guerra tra rane, topi e scarafaggi che, se fosse ancora vivo Giacomo Leopardi, sarebbe degna soltanto di un nuova “Batracomiomachia”.

In questo autentico bailamme, che sembra soltanto peggiorare di giorno in giorno, sono però ancora troppi coloro che, pur animati dalle migliori intenzioni, affrontano le questioni legate all’attuale pandemia in ordine sparso. Rincorrendo il momento, chiedendosi quando si potrà ricominciare ad agire, senza chiedersi su cosa si potrebbe davvero incidere, scambiando un problema per il “problema”, anteponendo l’idea dell’azione allo studio delle azioni necessarie, contrapponendo l’individuale al sociale oppure scambiando per sociale ciò che in sostanza è individuale. In una girandola di iniziative che tutto fanno tranne che fornire prospettive concrete per un’uscita dall’attuale catastrofe che, occorre ancora una volta dirlo, non è né naturale né umanitaria, ma derivata direttamente dalle “leggi” di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Come afferma Frank M. Snowden, storico americano della medicina, nel suo Epidemics and Society: non è vero che le malattie infettive “siano eventi casuali che capricciosamente e senza avvertimento affliggono le società”. Piuttosto è vero che “ogni società produce le sue vulnerabilità specifiche. Studiarle significa capirne strutture sociali, standard di vita, priorità politiche”1

Gli elementi che potrebbero aiutare a definire il campo per un intervento immediato, concreto e condivisibile a livello di massa sono già molti. Sono compresi nelle parole, nelle promesse fasulle e nei provvedimenti che i governi e i loro padroni, nazionali e internazionali, stanno esplicitando, come si affermava all’inizio, sotto gli occhi di tutti. Una lunga sequenza di leggi, prevaricazioni, distruzioni e violenze che costituiscono la trama della più lunga crime story mai raccontata.
Ancora una volta è inutile, infatti, cercare l’ordito nascosto o segreto della realtà, basta saperla osservare e ascoltare, oppure semplicemente leggere, following the money.

Ad esempio, nella “Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020” concordata il 30 marzo 2020 a Roma, alla presenza del Ministro del lavoro e delle politiche sociali tra Associazione Bancaria Italiana (ABI), l’ Alleanza delle Cooperative Italiane, tutte le maggiori associazioni imprenditoriali e confederazioni sindacali.

Il tema è sostanzialmente quello della cassa integrazione ordinaria o in deroga. Provvedimenti da sempre destinati a ricadere economicamente sulle spalle dello Stato, degli imprenditori e dell’INPS, ma che grazie a questo accordo, in piena crisi economica (di cui la pandemia da coronavirus costituisce un’aggravante ma non l’unica origine), potrebbe ricadere direttamente sulle spalle dei lavoratori che la vorranno o dovranno richiederla.

Se già la cassa integrazione comporta sempre e comunque un costo per i lavoratori, consistendo mediamente in un 80% del salario, a partire da questo accordo la stessa si trasforma in una sorta di prestito che viene accordato ai lavoratori in attesa che sia l’INPS a ripianarlo e a provvedere ai successivi pagamenti, ma il cui costo iniziale ricadrà interamente sui dipendenti coinvolti, a differenza della cassa integrazione comunemente intesa che prevede, in caso di ritardo delle prestazioni dell’INPS, che il costo iniziale ricada sugli oneri delle imprese che, di fatto, sono costrette ad anticipare per qualche mese gli stipendi parziali pagati dall’ente previdenziale.
Come si può leggere nel testo della Convenzione, invece:

Al fine di fruire dell’anticipazione oggetto della presente Convenzione, i/le lavoratori/trici […] dovranno presentare la domanda ad una delle Banche che ne danno applicazione […]
Il/la lavoratore/trice e/o il datore di lavoro informeranno tempestivamente la Banca interessata circa l’esito della domanda di trattamento di integrazione salariale per l’emergenza Covid-19.
In caso di mancato accoglimento della richiesta di integrazione salariale […] qualora non sia intervenuto il pagamento da parte dell’INPS, la Banca potrà richiedere l’importo dell’intero debito relativo all’anticipazione al/la lavoratore/trice che provvederà ad estinguerlo entro trenta giorni dalla richiesta.
Nei casi della anticipazione del trattamento di integrazione salariale da parte della Banca, quest’ultima, in caso di inadempimento del lavoratore, […] comunicherà al datore di lavoro il saldo a debito del conto corrente dedicato.
In tal caso, a fronte dell’inadempimento del lavoratore, il datore di lavoro verserà su tale conto corrente gli emolumenti spettanti al lavoratore, anche a titolo di TFR o sue anticipazioni, fino alla concorrenza del debito. Il lavoratore darà preventiva autorizzazione al proprio datore di lavoro […] in via prioritaria rispetto a qualsiasi altro vincolo eventualmente già presente evitando che sia il datore di lavoro a dover regolare i criteri di prevalenza tra i diversi impegni presenti, nei limiti delle disposizioni di legge2.

La Convenzione con le banche non è un inedito, è già stata usata nel 2008/2009 e se la pratica di cassa non va in porto l’impresa è comunque obbligata a pagare le mensilità al lavoratore, che può così restituire gli anticipi versati dalla banca. La Convenzione è un accordo astratto, ma agli sportelli (persino di due filiali diverse dello stesso gruppo) possono nascere piccoli ricatti o fraintendimenti che il lavoratore, di solito inesperto, può non saper gestire – tipo l’obbligo di aprire una posizione permanente in quella banca, al di là del conto corrente e a termine della Convenzione. Inoltre:

“«L’accordo con l’Abi parla di un’istruttoria di merito creditizio nei confronti del lavoratore. Ma questa previsione rischia di essere un problema per chi ha un finanziamento in corso e magari non sia riuscito a pagare qualche rata di credito al consumo», spiega Roberto Cunsolo, consigliere dell’Ordine nazionale dei commercialisti. Tanto basta, infatti, per essere segnalati alla Centrale rischi finanziari (Crif) e di conseguenza vedersi rifiutare l’anticipo degli ammortizzatori.
L’argomento non è da poco visto che il governo nei provvedimenti adottati finora non ha previsto lo stop alle rate per i piccoli prestiti.” (qui)

Fermiamoci qui. E’ chiaro però che, in questo modo, la cassa integrazione ordinaria o in deroga si trasforma in nient’altro che in un prestito ai lavoratori/trici, che gli stessi sottoscriveranno con le banche, liberando quasi del tutto i datori di lavoro da qualsiasi responsabilità economica in merito. Un sistema perfetto di sfruttamento circolare del lavoro dipendente. Soprattutto nel caso della cassa in deroga per la quale viene del tutto esclusa la possibilità che questa possa essere anticipata dal datore di lavoro.
L’anticipo è sui conti dei lavoratori e, se qualcosa va storto, i padroni possono detrarre le cifre per il ripianamento del debito direttamente dai salari (senza neanche il limite del quinto dello stipendio). In questo modo il lavoratore diventa il garante ultimo della politica economica d’emergenza. Il lavoro è il fideiussore generale di riserva, la banca l’intermediario, l’impresa fa la ritenuta alla fonte per conto del sistema bancario di governo. L’accordo, inoltre, non prevede il vincolo di non licenziare, come indirettamente confermato dal silenzio sindacale in proposito. Così il salario è eventuale, ma se c’è, il padrone può versarlo ai suoi finanziatori.

In un contesto in cui si prevede che siano più di 11 milioni i lavoratori che dovranno far ricorso alla cassa integrazione (o ai bonus) e in un panorama in cui le imprese con meno di 10 dipendenti, ovvero quelle ritenute maggiormente a rischio, costituiscono l’82,4% (col 22,6% dei dipendenti complessivi) delle imprese manifatturiere, il 96,2% (con il 66% dei dipendenti) delle imprese edili e il 96,6% (con il 52,3%) di quelle legate ai servizi, commercio all’ingrosso e al dettaglio3 i tempi della Cig saranno già più lunghi di almeno 10-15 giorni. Mentre, per la complessità delle operazioni richieste in modalità diversa per ogni istituto bancario, i lavoratori meno esperti di strumenti informatici, considerato che le banche escludono la possibilità di una ‘consulenza’ sindacale a soccorso degli stessi, rischieranno di essere tra gli ultimi ad essere pagati, vista anche la precedenza che sia le banche che l’Inps accorderanno agli aiuti per le aziende.

Più che lo sdegno per lo strumento in questione, andrebbe rimarcato l’eterno ineliminabile ruolo delle banche. Dal Q.E., all’Ape, alla Cassa: tutto deve passare dalle banche, che tra l’altro in questa fase non hanno assolutamente uomini e mezzi per svolgere il ruolo “burocratico” che lo Stato gli appalta – oltre al costo economico e sociale che questo parassitismo bancario comporta. Questa pletora di ammortizzatori (Cigo, Cig, Naspi, Bonus autonomi, Reddito Gigino di Maio, contributi comunali) di cui alla fine non ci si capisce più nulla, costituisce però il risultato della mancanza di uno strumento di reddito generale e universale. Così, sia a livello sindacale che prefettizio, inizia a crescere l’allarme per il clima da insorgenza sociale ed economica che sembra nascere spontaneamente, soprattutto in città come Torino dove le code davanti al Monte dei pegni si allungano ormai di giorno in giorno (qui).

Ma occorre fare ancora qui alcune osservazioni di carattere generale.
La prima, naturalmente, è quella riguardante il fatto che tale provvedimento conferma la tendenza generale alla completa finanziarizzazione di ogni attività o provvedimento un tempo compresi in ciò che veniva definito welfare state. Che si tratti di sanità, di lavoro o di previdenza (con tutti gli addentellati del caso: cassa integrazione, pensioni, etc.) il costo oggi non solo non deve più essere sostenuto dalla finanza e dall’intervento pubblico, ma deve anche costituire motivo di realizzazione di interessi per chi si sostituisce, anche solo momentaneamente, allo Stato e alle sue agenzie in veste di ufficiale pagatore. Insomma, in soldoni le banche non muovono un dito se non ne ricavano una qualche forma di profitto.

La seconda, non meno importante, è che le casse dello Stato si avviano ad essere sostanzialmente vuote. Anni di ruberie, rapine politico-mafiose autorizzate, prebende, investimenti fantasma o in grandi opere inutili e dannose mai terminate (e interminabili), premi a consorterie politiche di ogni tendenza e genere, profitti e prestiti garantiti a imprese e banche too big to fail, tasse mai pagate e attività svolte in nero hanno letteralmente prosciugato la casse dello Stato e dell’INPS. La quale ultima, nata come Istituto di previdenza sociale per i lavoratori, ha dovuto sempre più farsi carico anche delle pensioni e dei trattamenti di fine servizio milionari di manager e dirigenti, privati e pubblici, oltre che diventare il tappabuchi per i periodi di sospensine dell’attività produttiva programmati dalle grandi aziende (come la Fiat).
Impressione generale confermata dallo slittamento in avanti continuo della data di presentazione dei provvedimenti economici governativi resi necessari dalla crisi.

Lo Stato sociale ha un costo sicuramente elevato che è andato crescendo nel tempo, ma non tutto è stato dissipato, come vorrebbe far credere una narrazione tossica e di parte, a causa delle pensioni un tempo calcolate su una età media più bassa e una vita lavorativa che veniva calcolata su un numero di anni inferiore a quelli attualmente necessari. Né si tratta soltanto di truffe rappresentate dai falsi invalidi, che pur ci sono state ma non tali da determinare l’attuale situazione di difficoltà.
Certo l’innalzamento dell’età media della vita ha comportato un prolungamento inaspettato dei pagamenti pensionistici e delle spese assistenziali per la terza età, ma troppo spesso ci si dimentica di sottolineare come proprio nel settore dell’assistenza alla stessa e in quello della Sanità non sia mai stato messo in pratica alcun tipo di controllo e di calmiere dei prezzi. Contribuendo così a fare dell’assistenza sanitaria e agli anziani un autentico Far West dove tutto è concesso, in termini di guadagno e profitto privato, e dove nessuna attività, o quasi, è svolta avendo come primo obiettivo quello della salute e del benessere dei cittadini.

Le tanto venerate privatizzazioni, concesse tanto da destra che da sinistra4, hanno dimostrato, proprio nel cuore dell”eccellenza’ sanitaria lombarda, la loro reale efficienza. Soprattutto nelle RSA, ovvero nelle residenze per anziani, sempre più costose (per lo Stato e per i cittadini) e meno protette dal punto di vista sanitario.
Residenze per anziani che sono diventate, in tutta Europa, uno dei settori più interessanti di investimento per le società finanziarie a caccia di nuovi territori in cui poter praticare le proprie scorrerie, garantendo profitti annui anche del 6-7% e trasformandosi, almeno fino all’esplodere della pandemia, in uno dei settori in cui si attendevano i maggiori investimenti nei prossimi anni. Fino a 15-20 miliardi di euro entro il 2035.
Basti pensare che in Lombardia l’84% delle RSA, che nel loro insieme rappresentano un affare da 1,4 miliardi di euro, è privato. Un affare che coinvolge 8.000 strutture e 262.000 persone censite dallo Spi-CGIL soltanto per il 2018 in tutt’Italia5.

«È un settore a metà tra l’immobiliare e l’infrastrutturale, che rappresenta un ottimo modo per diversificare e proteggere i portafogli, soprattutto nei momenti di ciclo economico debole», ha affermato in un recente convegno Giuseppe Oriani, ceo per l’Europa di Savills Investment Management. Ma che cosa attira gli investitori? In primo luogo, si tratta di un investimento a basso rischio, che si traduce in una sostenibilità dei canoni su un arco temporale medio lungo. «A questo, concorre il fatto che nel sistema italiano, così come in quello francese o tedesco, solo una parte delle rette di degenza è a libero mercato, ma una quota consistente è coperta dal pubblico, nel nostro caso dalle Regioni. Questo è un elemento di garanzia per chi investe», spiega Pio De Gregorio, responsabile Industry trend & benchmarking analysis di Ubi Banca, che ha redatto un accurato studio sul settore.
Naturalmente fanno gola i rendimenti medi lordi, stimati in un range compreso tra il 6% il 7,5%. La dinamica demografica è legata a doppio filo a questa classe di investimento. Infatti, a seconda degli scenari che si verificheranno, e dunque della necessità di posti letto in Rsa, si parla di investimenti in nuove strutture per 15 miliardi di euro entro il 2035, secondo l’ottica più conservativa, o fino a 23 miliardi secondo lo scenario più generoso. L’Italia ha ancora un forte gap da recuperare. In Germania ci sono oltre 12mila strutture per circa 876mila posti letto, in Francia 10.500 strutture e 720mila posti letto, in Spagna rispettivamente circa 5.400 e 373mila.6

Quello delle RSA, alla luce dei decessi ricollegabili alla mancata prevenzione sanitaria in occasione dell’attuale pandemia, sembra essere un esempio piuttosto efficace per dimostrare concretamente come salute, assistenza e finanza non possano collimare nei loro obiettivi ultimi7.
L’assalto finanziario ad ogni aspetto del sociale infatti non rappresenta soltanto una riduzione della spesa dello Stato nel settore dei servizi ai cittadini, ma un vero rovesciamento di questi ultimi che si trasformano in un autentico settore di investimento protetto per il capitale finanziario sempre più alla ricerca di aree garantite in cui essere “parcheggiato” con una resa maggiore di quella fornita dall’investimento produttivo.

La strategia messa in atto da anni nei confronti della spesa pubblica e del suo taglio, si rivela dunque sempre di più per quello che di fatto è: fornire la possibilità di continuare ad investire speculativamente senza rischiare che l’enorme bolla finanziaria che si è venuta a creare negli anni (con scarsa o nulla base nell’economia reale) finisca con l’esplodere.
Questo può tranquillamente farci affermare che proprio per tale motivo i paperoneschi fantastiliardi promessi dal governo di Totò e Peppino per fronteggiare la crisi non esistono. Non esistono nelle casse del governo e non esistono nemmeno nelle casse delle banche. Le quali ultime avendo investito cifre da capogiro in titoli gonfiati, se non in veri e propri junk bond, oppure in titoli di Stato per impedire l’aumento dello spread e degli interessi pagati oggi non hanno disponibile tutta la liquidità richiesta dal governo per finanziare le imprese in crisi.

Interessante, da questo punto di vista, può rivelarsi la posizione assunta dall’AD di Intesa San Paolo, Carlo Messina, che, nei giorni scorsi, ha dichiarato che se la banca farà la sua parte mettendo a disposizione 50 miliardi di crediti, anche gli imprenditori che hanno spostato i loro investimenti e le loro ricchezze all’estero dovrebbero fare altrettanto facendoli rientrare in Italia8. La globalizzazione si incrina quindi, proprio ai suoi vertici, di fronte a una crisi che, al di là delle vacue dichiarazioni di Conte e Gualtieri, non troverà nei finanziamenti europei la sponda troppo a lungo strombazzata. Né i 1500, né i 400 miliardi ma, per ora e al massimo, i 37 messi a disposizione dal ferreo fondo salva stati (MES).

Da qui due conseguenze immediate e tutte due da consumarsi sulla pelle dei lavoratori: la prima è la riapertura di tutte le aziende che ne hanno fatto richiesta in deroga9 in cambio del mancato aiuto promesso su così larga scala (certo qualcosa ci sarà, ma non nella misura attesa da gran parte del mondo imprenditoriale), mentre la seconda (che non sarà comunque l’ultima) è compresa nell’accordo di cui abbiamo parlato all’inizio di questo intervento.

Non vedere in questo accordo una forma di liberalizzazione dei contratti di lavoro destinata a durare ben oltre l’emergenza sarebbe da imbecilli e non denunciarlo semplicemente criminale.
Ecco allora serviti gli snodi su cui articolare la nuova protesta sociale, non sull’idealità o l’ideologia o su un solidarismo più di marca cattolica che rivoluzionaria, ma sulla salda concretezza costituita dall’impossibilità di far coincidere gli interessi dei lavoratori con quelli dello Stato e del capitale, soprattutto nei periodi di crisi. Si tratti dei lavoratori dell’industria, si tratti dei lavoratori e degli operatori della sanità, si tratti ancora dei lavoratori dei servizi pubblici e privati e della scuola, la crisi ha tolto la maschera alla controparte. E’ ora di smettere di considerare il lavoro dipendente un privilegio o una fortuna, anche là dove sembrava garantito. E’ venuta l’ora di riportarlo al centro del conflitto e dell’attenzione antagonista.

In questi giorni il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che siamo davanti ad una crisi peggiore di quella del 1929, dalla quale, occorre sempre ricordarlo, si uscì soltanto con il secondo macello imperialista mondiale; sorto ed esploso non per un insanabile conflitto tra democrazia e autoritarismo, ma soltanto per ridefinire i confini delle aree di influenza economica e politica nel e sul mercato mondiale. Il Financial Times si è spinto a dichiarare in prima pagina (15 aprile) che questa sarà la peggiore crisi economica degli ultimi 300 anni. Ma è stato il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, a giungere ad una sintesi storica più adeguata, dichiarando che:

Una volta che l’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia sarà sotto controllo, il rischio è che si apra una delle più grandi fasi di stagnazione economica degli ultimi secoli e con essa una ristrutturazione dei sitemi politici di riferimento. Il pericolo è di ritrovarsi in una nuova «grande crisi generale» paragonabile a quella che gli storici definiscono la «crisi generale del XVII secolo», quando la seconda ondata pandemica di peste fu accompagnata da un profondo cambiamento degli assetti politici ed economici […] La conseguenza è che dobbiamo attenderci non solo della povertà la più grave recessione economica degli ultimi secoli, con un crollo inimmaginabile della capacità produttiva e un aumento mai registrato e delle disuguaglianze a livello globale, ma anche lo stravolgimento dell’ordine esistente. Già all’indomani della grande crisi del 2008, infatti, l’ordine internazionale liberale ha cominciato a dare segni di cedimento strutturale.10

Mai come in quest’occasione la salvaguardia della salute e delle garanzie sul lavoro sono state coincidenti; mai come in questo momento lotta sindacale e lotta politica (intesa nel suo senso più ampio di ridefinizione delle necessità sociali e del modo di governarle) si sono avvicinate nelle loro finalità; mai come oggi la lotta per la ripartizione della ricchezza prodotta è stata tanto importante per ridefinire i modi della sua creazione, delle sue finalità e della difesa dell’ambiente. E della salvaguardia della specie umana.

Soprattutto in un contesto in cui la sostanziale confusione sui dati epidemiologici, la chiacchiera politica, la propaganda mediatica e le continue e contraddittorie illazioni di presunti esperti quali Roberto Burioni e Ilaria Capua (nomi che valgono soltanto come esempio considerato che l’elenco potrebbe continuare a lungo) non hanno fatto altro che coprire di parole inutili e pietose la sostanziale scelta dell’immunità di gregge come unica strategia da applicare nei confronti dell’epidemia, pur senza averlo mai dichiarato pubblicamente.

Lontani dalla memoria storica della Chiesa, che ha motivo di mantenerla non per ragioni di cambiamento e sovvertimento dell’ordine esistente, ma al contrario per la necessità di conservare i suoi apparati e la sua funzione11, i tecnici del dream team di Vittorio Colao già insistono per rendere obbligatorio lo smart working, il telelavoro, per le grandi aziende e ovunque sia possibile. Mentre alcuni lavoratori e alcune lavoratrici possono vedere in questa “modernizzazione” una forma di flessibilità che potrebbe andare incontro alle loro esigenze personali e famigliari, è inevitabile osservare come tale ristrutturazione del lavoro white collar sia destinata a promuovere un’ulteriore parcellizzazione dello stesso e un’atomizzazione dei suoi esecutori che, ben presto, dovranno fare i conti con una totale privatizzazione dei loro contratti e con una tendenza inarrestabile alla creazione di lavoratori “autonomi” (in realtà dipendenti) assolutamente non più garantiti sia sui tempi di lavoro che sulle retribuzioni. Come già ben sanno molti lavoratori precari.

Sarebbe poi da affrontare il tema della ristrutturazione del lavoro nel comparto sanità, dove è evidente che dietro agli untuosi elogi agli “eroi che ci difendono in prima linea” si cela una totale ristrutturazione peggiorativa delle condizioni di lavoro dei medici (qui) e di tutto il personale sanitario12, già da tempo iniziata con le privatizzazioni messe in atto nel settore. Non solo in Lombardia, caso più eclatante, ma in tutta Italia e da ogni governo nazionale o locale.

Nella scuola anche non ci sarà da scherzare. Anche qui il telelavoro di queste settimane, le lezioni a distanza e le riunioni fiume per via telematica, non costituiranno altro che un ulteriore aumento dei carichi di lavoro dei docenti, una riduzione delle risorse disponibili (che bisogno ci sarà di pagare i corsi di recupero, se gli insegnanti saranno obbligati a tenere delle lezioni da casa al pomeriggio?) e se le classi saranno ridotte di numero sarà solo per sdoppiarle su un lavoro che potrebbe svolgersi sia di mattina che pomeriggio, con un aumento dell’orario settimanale dei docenti non accompagnato da un’adeguata retribuzione. Non a caso già si parla di un nuovo contratto e di nuove assunzioni che certo non sarebbero minimamente adeguate a coprire un raddoppio delle cattedre.

Del lavoro in fabbrica, nei cantieri, nella distribuzione e nel commercio abbiamo già indirettamente parlato anche negli articoli precedenti. Ma se da un lato su ogni lavoratore di questi settori, come anche di quelli citati prima, graverà la spada di Damocle del licenziamento e della disoccupazione, è chiaro che su tutti i lavoratori e le lavoratrici peseranno fin da subito l’aumento dei ritmi, l’inasprimento delle turnazioni, la probabile riduzione delle retribuzioni per permettere alle aziende, grandi e piccole, di superare ‘insieme’ il difficile momento. Lo ha sintetizzato benissimo il presidente degli industriali vicentini, Luciano Vescovi, quando ha affermato: “Si tratta di trovare un percorso italiano per tamponare l’emergenza e aiutare il sistema, ma è molto complicato in uno Stato privo di soldi. Bisogna dirlo chiaramente: bisogna tornare a lavorare, e tirare la cinghia per un po’” (qui). Mentre lo stesso presidente del consiglio Conte ha già preannunciato che, con la prossima riapertura, si lavorerà sette giorni su sette.

D’altra parte l’elezione di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria e l’immediata proposta di anticipare ufficialmente la riapertura produttiva del settore auto (che significa, in realtà, praticamente tutta la metalmeccanica) e di quello della moda (tessile e non solo: cuoio. chimica, etc.) mostrano chiaramente come tutte le decisioni della politca siano completamente assuefatte, a Destra come a Sinistra, agli ordini provenienti dai “padroni del vapore” e dagli investitori. In fin dei conti, nella pletora di tecnici arruolati di giorno in giorno per svolgere le funzioni che dovrebbero essere specifiche del Governo e del Parlamento, i veri specialisti sono loro: gli imprenditori. Che, però, non ancora soddisfatti dagli omini di pezza posti al governo o nel parlamento, si spingono già a chiedere la presenza di un nuovo de Gaulle13.

Non tenere conto di ciò, chiudersi nello specifico o nel proprio orticello, scimmiottando gli orridi specialisti ed esperti come i 17 membri della super-commissione varata dal governo in questi giorni, sarebbe semplicemente perdente e conservatore.
In tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti i lavoratori di tutti i settori hanno capito che la lotta contro la crisi da coronavirus coincide con la lotta contro il virus del capitale (qui).
Ma ciò che fa paura, forse, è proprio il fatto che nelle crisi sistemiche tutti i nodi sono destinati a venire al pettine e non ci sia più spazio per le incertezze e i tentennamenti.
Stiamo dunque ben attenti a non perdere questa occasione, a partire proprio dalle assemblee, dalle discussioni e dalle eclatanti contraddizioni che si svilupperanno sui posti di lavoro. Non abbiamo bisogno di inventarci spazi, ma di riconquistare quelli che ci sono e conosciamo già.
In fin dei conti, se già gli “esperti”, i media e l’economia ci dicono che “fa brutto”, anche noi avremo prima o poi il diritto di sbroccare, no?14

N.B.
Questo lungo articolo, la cui responsabilità per i contenuti e gli eventuali errori ricade interamente sull’autore, non sarebbe stato possibile senza i consigli, le critiche e le considerazioni espresse da Luca B., Giovanni I., Maurizio P., Gioacchino T. e Cosetta F.


  1. F.M.Snowden, Epidemics and Society. From the Black Death to the Present, New Haven- London 2019, Yale University Press, p.7  

  2. Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020  

  3. Dati Istat riferiti al 2016  

  4. Resta qui da ricordare sempre il vademecum prodiano per la “proficua collaborazione “ tra Stato e mercato: Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino 1995  

  5. R. Galullo e A. Mincuzzi, Residenze per anziani, affare da 1,4 miliardi in Lombardia. L’84% delle Rsa è privato,il Sole 24ore, 8 aprile 2020  

  6. Adriano Lovera, Residenze per anziani, mercato in crescita costante, il Sole 24ore, 14 ottobre 2019  

  7. In Italia, Spagna, Francia, Belgio e Irlanda la metà dei decessi da Covid-19 è avvenuta nelle residenze pr anziani (qui)  

  8. A. Greco, Intervista a Carlo Messina, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  9. Facendo sì che il lockdown promesso e strombazzato non sia mai neppure lontanamente esistito per la maggioranza dei lavoratori, come si può osservare anche solo dai dati dell’ISTAT (qui); fatto evidente che soltanto da qualche giorno il Viminale e alcuni quotidiani fingono invece di scoprire 

  10. Raul Caruso, Dopo la pandemia si rischia una crisi degli assetti globali, Avvenire 14 aprile 2020  

  11. Anche quando per bocca di Papa Francesco avanza la richiesta di un salario universale per i lavoratori più poveri (qui)  

  12. Come spiega molto bene l’intervista ad un’infermiera contenuta qui  

  13. Carlo Andrea Finotto, Virus e rischio baratro. Perché all’Italia servirebbe un nuovo de Gaulle, il sole 24ore, 18 aprile 2020  

  14. Sia ‘far brutto’ che ‘sbroccare’ sono due possibili traduzioni in italiano dell’americano ‘breaking bad’  

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Economia e crimini di guerra: il capitale getta la maschera https://www.carmillaonline.com/2020/04/09/economia-e-crimini-di-guerra-il-capitale-getta-la-maschera/ Thu, 09 Apr 2020 18:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59320 di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue. In tutti i sensi. In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e [...]]]> di Sandro Moiso

“Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva” (Friederich Holderlin)

Ci aspetta un bagno di sangue.
In tutti i sensi.
In un mondo che si intendeva pacificato, se non per contrasti locali e distorsioni dovute a dittatori e scelte errate o mirate di qualche deus ex-machina individuato di volta in volta con Trump o Putin, siamo tornati, grazie alla pandemia da Covid-19, a leggere titoli e articoli che parlano di guerra e di “economia di guerra”. Come si è già detto, però, ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo, in realtà, non è il fantasma del virus, che pure contagia e uccide, ma quello della catastrofe economica del modo di produzione attuale.

Nonostante il fatto che i politici, gli economisti e gli opinionisti pongano l’accento sul “nemico invisibile”, da un punto di vista di classe lo stesso è in realtà sempre più visibile. Così come le sue autentiche malefatte. Peccato, però, che i primi parlino esclusivamente dell’invisibile virus, mentre nel secondo caso in realtà l’avversario abbia dimensioni gigantesche e pervasive di ogni tratto della vita sociale della nostra specie. Si tratta infatti, come i lettori avranno già capito, del modo di produzione capitalistico nell’età della sua globalizzazione.

Come ha affermato Frédéric Neyrat nel suo libro “Biopolitique des catastrophes” (2008), «le catastrofi implicano una interruzione disastrosa che sommerge il presunto corso normale dell’esistenza. Nonostante il suo carattere di evento, si tratta di processi in marcia che mostrano, qui e ora, gli effetti di qualcosa che è già in corso. Come segnala Neyrat, una catastrofe sempre si origina da qualche parte, è stata preparata, ha una storia.»1

Nel suo libro l’autore indica infatti una maniera di gestire il rischio che non mette mai in questione le cause economiche e antropologiche, precisamente le modalità di comportamento dei governi, delle élite e di una parte significativa delle popolazioni mondiali, affermazione particolarmente vera in relazione alla pandemia attuale.
Un atteggiamento, purtroppo, che ancora troppo spesso è adottato involontariamente anche da molti di coloro che, pur facendo parte di movimenti apparentemente volti alla contestazione dell’esistente, si soffermano ancora e soltanto su singoli aspetti della catastrofe che sembra aver travolto la società mondiale e, soprattutto, quella che siamo usi a definire come più avanzata e moderna.

Si puntualizzano specifiche responsabilità politiche, partitiche o individuali, nella affannata gestione sanitaria della crisi; si sottolinea la perdita di libertà individuale legata alla militarizzazione della vita pubblica e delle strade; si immagina che le cose sarebbero andate diversamente se diversa fosse stata l’organizzazione della spesa pubblica o la gestione dell’ambiente oppure, ancora, se una politica di nazionalizzazioni ed intervento statale avesse preso per tempo il posto della gestione liberista dell’economia e dei suoi risvolti sociali o la speculazione azionaria e la ricerca di nuovi prodotti farmaceutici da parte di Big Pharma non avesse liquidato quasi del tutto l’indipendenza della ricerca scientifica.

Sono di per sé tutte affermazioni e supposizioni che contengono parti anche importanti di verità ma, tralasciando il discorso sulla possibilità di giungere ad una autentica e unica verità assoluta generalmente condivisa, hanno nel loro insieme l’evidente difetto di volersi limitare ad affrontare elementi parziali del quadro che la realtà ci offre. Come se si volesse intuire la grandiosità di un’opera o di un mosaico antico a partire dalle sue singole parti o da qualcuno dei suoi sparsi tasselli costitutivi.

Come sanno gli appassionati di puzzle è invece possibile giungere alla ricostruzione completa e corretta di un’immagine soltanto se si ha già sotto gli occhi, oppure a mente, la raffigurazione nel suo insieme. Far combaciare i pezzi e trovare la loro giusta collocazione sarà comunque difficile e appassionante, e questo dipenderà anche dalle dimensioni della stessa e dal numero dei pezzi che occorrerà far combaciare, ma sarebbe del tutto impossibile farlo senza una immagine o delle linee guida. Marx avrebbe semplicemente affermato che nell’indagine scientifica del modo di produzione corrente e dei suoi aspetti sociali occorre procedere dal generale al particolare e non viceversa per giungere al disvelamento della sua reale essenza. Al fine di rivelare l’arcano, o gli arcani, del modo di produzione capitalistico e delle sue conseguenze di classe.

Ecco allora che si rende necessaria una prospettiva, una visione d’insieme, una teoria generale o una linea di condotta: lasciamo per ora ad ogni singolo lettore la definizione che più gli aggrada.
Per questo motivo è importante stabilire, fin da subito, che la guerra è già stata dichiarata.
Una guerra di classe e senza quartiere che il capitale, nelle sue varie funzioni finanziarie e industriali, ha già scatenato contro la sua, spesso ancora inconsapevole, controparte: la specie nel suo insieme, dal punto di vista biopolitico generale, e la classe operaia e il proletariato internazionale nello specifico attuale della crisi economica che ha preceduto, accompagna e seguirà con violenza estrema l’attuale pandemia.

Ogni crisi può rappresentare un’opportunità e talvolta, come in questo caso, enorme.
I rappresentanti degli imprenditori e i funzionari del capitale l’hanno immediatamente compreso e si apprestano a celebrare nel minor tempo possibile la loro “Pasqua di sangue”.
Non si tratta di fare qui del banale complottismo, ma sicuramente in una fase di crisi economica in cui la militarizzazione e le norme repressive erano già in aumento in vista di una futura e più ampia sollevazione sociale, la scusa offerta dall’esplodere della pandemia ha rappresentato immediatamente un’occasione potenzialmente favorevole per giungere a una ulteriore e ancora più drastica ridefinizione del comando sul lavoro, della limitazione dei diritti sindacali, del costo del lavoro stesso e della ristrutturazione tecnologica e procedurale di tutte le attività produttive.

Accanto a ciò si sta già scatenando un’autentica corsa al rilancio delle grandi opere inutili e dannose, al rinvio al futuro più lontano possibile di qualsiasi norma riguardante la tutela dell’ambiente e al finanziamento pubblico delle ristrutturazioni o conversioni industriali, spacciate per miglioramento o sopravvivenza delle aziende necessarie, ma in realtà destinate soltanto a portare nelle tasche degli imprenditori denaro fresco, a interesse basso o nullo2, con cui i maggiori imprenditori attueranno in tutti i modi possibili un’autentica politica di aggressione economica e repressiva nei confronti dei salariati, dei disoccupati e di tutte le categorie sociali più deboli e ricattabili.

Assisteremo nel più breve lasso di tempo ad un autentico assalto a ciò che rimane delle garanzie sociali e lavorative, ai salari, all’orario di lavoro e ad una sua sempre più intensa parcellizzazione (smart working e telelavoro). I rappresentanti delle imprese del Nord (già aperte in numero impressionante proprio nei territori più colpiti dal Coronavirus, settemila soltanto tra Brescia e Bergamo) minacciano già di non poter più pagare gli stipendi a breve se le imprese non riapriranno al più presto (qui).

Dopo aver versato lacrime di coccodrillo sulle sorti dei morti per la pandemia, per i medici e gli infermieri “eroi” e per i lavoratori che, a milioni, potrebbero perdere il posto di lavoro3, le aziende gettano la maschera e rivelano il loro vero volto. Direttamente, davanti a tutti, dichiarando apertamente ciò che già tutti dovremmo sapere ovvero che i governi rispondono e devono rispondere soltanto alle esigenze del capitale e dei suoi esecutori incarnati. Con un ricatto tanto vile quanto spietato. Davanti al quale non solo il governo, ma anche i sindacati confederali chineranno ancor una volta il capo. Senza nemmeno la finzione pietosa di uno sciopero generale che mai nessuno ha voluto veramente dichiarare.

Confindustria ha in mano le redini della partita4 e vuole dirigere il gioco senza dovere più nascondersi dietro a uomini di pezza o prestanome ancora troppo impastoiati dai giochi della politica istituzionale. Al massimo, dietro al virus.
Ha mandato avanti gli scagnozzi leghisti per un po’, facendo pagare loro il costo di una zona rossa dichiarata con due settimane di ritardo dalla Val Seriana alla bergamasca, come ha dovuto ammettere lo stesso assessore alla sanità lombarda Giulio Gallera.

“Ora è costretto ad ammetterlo anche l’assessore Giulio Gallera: «Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che lo consente». La zona rossa ad Alzano e Nembro, i due comuni della Val Seriana che già a fine febbraio avevano fatto segnare un picco di contagi, poteva essere decisa dalla Regione Lombardia. Ma le pressioni fortissime a partire da Confindustria per evitare l’isolamento hanno fatto attendere due settimane, aumentando a dismisura la trasmissione dell’infezione con numeri dimorti altissimi in tutta la provincia di Bergamo […] A conferma c’è anche un video del 28 febbraio che Confindustria Bergamo guidata da Stefano Scaglia pubblica in inglese per tranquillizzare: «Le nostre imprese non sono state toccate eandranno avanti, come sempre» e pochi giorni dopo l’hashtag #yeswework.”5

Mentre Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, in un’intervista ha apertamente dichiarato: «Ai primi di marzo con la Regione ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse , non si poteva fermare la produzione. Per fortuna non abbiamo fermato le attività essenziali perché i morti sarebbero aumentati». E ancora: «Le polemiche le facciamo alla fine».6

Sfacciataggine? Dissennatezza? No, soltanto la tranquilla sicurezza, per ora, di poter fare ciò che si vuole per chi sta al comando. Dell’economia, dello Stato e delle sue amministrazioni locali.
Ma è solo un piccolo esempio, poiché come avevamo già annunciato pochi giorni or sono (qui) i balletti del governo intorno alla data della riapertura assomigliano sempre più alle cosiddette guerre barocche durante le quali i generali muovevano le truppe mercenarie come su una scacchiera, ben sapendo che un preventivo accordo tra i comandanti aveva già stabilito chi avrebbe vinto la battaglia.

Il trucco era già compreso nel Dpcm del 22 marzo, quando si era di fatto accettato che fossero le imprese a presentare un’autocertificazione per la riapertura in deroga, inserendosi in una delle filiere produttive ritenute essenziali e attendendo una risposta prefettizia che, visto il grande numero di richieste, non poteva di fatto pervenire nei tempi stabiliti.

Ecco allora che l’autentico bombardamento di richieste pervenute ai prefetti ha funzionato come una sorta di autentico mail bombing che ha fatto sì che tutte, o quasi tutte, le aziende che ne facciano richiesta possano alla fine riaprire per “mancato diniego”.
Settemila aziende erano già aperte fino a martedì 7 aprile nelle province di Bergamo e Brescia, mentre nella sola Brescia, soltanto per dare l’idea del fenomeno, le richieste di riapertura in deroga aumentano al ritmo di 350 al giorno7.

Ma 70.000 almeno sono quelle che hanno condiviso la richiesta per una riapertura immediata, dopo Pasqua. Mentre tra mascherine, alcol e panico molti operai sono già rientrati al lavoro nel corso di questi ultimi giorni, da Cuneo al Veneto8 . In aziende che rivendicano tutte una indiscutibile utilità sanitaria e sociale del loro prodotto, anche là dove, ancora in questi giorni, il prodotto realmente utile per le finalità che giustificano la deroga costituisce lo 0,1% della produzione complessiva.

Sono le imprese della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna e del Piemonte a tirare la volata, ma è chiaro che una volta saltato il cancello a tornello opposto da un governo asservito non ci sarà più modo di frenare la corsa alla riapertura. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate e la necessità dell’industria del turismo di riaprire i battenti. Alla faccia della salute pubblica, dei medici, della scienza e di qualsiasi altra considerazione che non sia quello del rilancio della produzione, dei consumi e del profitto.

Sia ben chiaro, anche per il nostro avversario è una partita disperata. Le cose non vanno bene e in Europa non molti hanno l’intenzione di allentare cordoni e aprire borsellini per finanziare o rifinanziare il debito pubblico italiano. Debito che, occorre ricordarlo sempre con buona pace dei nazionalisti di sinistra e dei polli keynesiani, crescerà ancora ma soltanto per sostenere gli interessi privati e che sarà ripagato col sacrificio collettivo di chi lavora, studia o ha soltanto qualche misero risparmio. Come già è stato fatto qui in Italia a partire dal 2011 o, peggio ancora, come in Grecia con un ulteriore taglio dei servizi pubblici, delle pensioni, della sanità e dei salari. Unico percorso che finanzieri e impresari ritengono perseguibile per rilanciare la competitività perduta.

In un paese in cui mai nessun tipo di calmiere dei prezzi è stato applicato in tempi di crisi, dalla prima guerra mondiale in poi (qui), e dove l’affaire delle mascherine e dei supporti sanitari per medici, personale sanitario e cittadini ha scatenato una autentica corsa alla truffa e alla speculazione sui prezzi, saranno molte le aziende che vorranno accedere ai fondi proposti dal governo per riconversioni o ristrutturazioni che poi non avverranno mai. Altre invece ristruttureranno, e come se lo faranno, dopo decenni di mancati investimenti, ma soltanto per ridurre ancora la manodopera impiegata ed aumentare la produttività oraria di quella che rimarrà al lavoro in condizioni peggiori e salari immobili o ridotti in nome della solidarietà nazionale.

Insomma, mentre gran parte dell’attenzione dei social e dei militanti antagonisti si concentra ancora sui problemi della sanità (pubblica o privata? Leghista o in mano alle cooperative e ai partiti di sinistra? E su molto altro ancora) certamente ineludibili e un’altra parte, altrettanto grande e numerosa, continuerà a volgere la propria attenzione ai problemi della libertà individuale violata, della corsetta e del rimanere blindati in casa, l’impressione è che la vera partita si stia già giocando intorno al lavoro. Che in questa fase, grazie soprattutto alle mobilitazioni spontanee degli operai nelle ultime settimane, ha ripreso la sua posizione centrale in un mondo in cui ogni accumulo di ricchezza può provenire soltanto dal suo iper-sfruttamento.

Ancora una volta saranno le fabbriche e i luoghi di lavoro e i lavoratori costretti ad ‘abitarli’ a svolgere un ruolo centrale, non solo nello scontro tra capitale e lavoro, ma tra capitale e vita della specie, tra disciplina di regime e libertà collettiva, tra militarizzazione dei territori e delle fabbriche (proprio come in guerra) e libertà di autorganizzazione e di libera espressione.
Com’è giusto che in regime capitalistico ancora sia. Anzi, com’è inevitabile che sia.

Simone Weil ebbe a scrivere: ”Davanti ai pericoli che la minacciano, la classe operaia tedesca si trova a mani nude. Ovvero, si è tentati di chiedersi se per essa non sarebbe meglio trovarsi a mani nude; gli strumenti che essa crede di tenere in pugno sono manipolati da altri, i cui interessi sono contrari, o quanto meno estranei ai suoi.”
L’anno era il 1932 e il testo è tratto da una corrispondenza dalla Germania della stessa Weil, pubblicata in La Révolution prolétarienne dell’ottobre dello stesso anno. Da lì a poco il nazismo sarebbe andato al governo.

Per questo non possiamo ripetere gli stessi errori e lasciare i lavoratori soli, mentre i movimenti continuano ad avventurarsi sul terreno scivoloso della ricerca di nuovi soggetti politici o di nuove cause parziali e locali. Soprattutto oggi, dopo che il fallimento di qualsiasi politica di ‘solidarietà’ europea avrà stroncato qualsiasi speranza di collaborazione tra stati canaglia e resuscitato con forza i fantasmi del nazionalismo e della collaborazione interclassista. A solo vantaggio del nostro unico vero nemico, il capitale.

Proprio perché, come scriveva Friedrich Engels nel 1844-45:

”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tute le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere.”9

Il capitale ha dichiarato e iniziato la sua guerra. Ma potrebbe ancora perdere tutto e a breve vedere i suoi rappresentati sul banco degli imputati in assemblee pubbliche e tribunali composti da lavoratori, medici, scienziati, famigliari delle vittime e molti altri soggetti espropriati ancora.
Tutti lucidi, tutti determinati. Per condannarlo una volta per sempre denunciandone e dimostrandone tutte le responsabilità nella distruzione delle vite di milioni di persone, attraverso omicidi non sempre preterintenzionali.
Vogliamo forse perdere questa occasione? Soltanto per guardare ancora una volta ad un mondo passato e a rapporti sociali di sottomissione, formale e giuridica, e di trattativa istituzionale che già il nostro avversario considera morto, in nome della sua dittatura eterna?
Sarebbe un grave e fatale errore. Probabilmente senza possibilità di ritorno.


  1. Ángel Luis Lara, Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema, il Manifesto 05.04.2020  

  2. Anche se a tutt’oggi non si sa ancora da dove arriveranno i soldi (una parte probabilmente dall’utilizzo dei fondi europei del Mes con cui si impiccheranno lavoratori e cittadini italiani nonostante le fasulle e buffonesche prese di posizione del premier Conte nei confronti dell’UE. Come sembra confermare anche un articolo odierno di Stefano Fassina qui), i rappresentanti degli imprenditori già avanzano l’ipotesi di rendere i prestiti nell’arco di 12 o 15 anni invece dei 5 o 6 ipotizzati dal governo  

  3. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che in un primo momento aveva stimato in 195 milioni i posti di lavoro che sarebbero andati persi quest’anno a livello globale a causa della crisi scatenata dalla pandemia, la perdita vera di posti di lavoro su scala mondiale si aggirerebbe in realtà intorno agli 1,25 miliardi. “«Le scelte che facciamo oggi influenzeranno direttamente il modo in cui questa crisi si svilupperà e la vita di miliardi di persone», dice il direttore generale dell’Oil, Guy Ryder.”, Pietro Del Re, Il coronavirus produrrà effetti devastanti sul lavoro, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  4. Almeno quella del Nord, che sembra in aperta rottura con quella nazionale guidata da Vincenzo Boccia (qui)  

  5. Massimo Franchi, Zona rossa nel Bergamasco, Gallera ammette: «Potevamo farla», il Manifesto, 8 aprile 2020  

  6. M. Franchi, cit.  

  7. Paola Zanca, Nord al lavoro: 350 deroghe al giorno soltanto a Brescia, il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020  

  8. Teodoro Chiarelli, Aziende, è corsa alla riapertura. “Servono a garantire i beni essenziali”, La Stampa, 7 aprile 2020  

  9. K.Marx—F.Engels, La sacra famiglia, cap.IV, Nota marginale critica  

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Sull’epidemia delle emergenze /Appendice 1: una modesta proposta https://www.carmillaonline.com/2020/04/02/sullepidemia-delle-emergenze-appendice-1-una-modesta-proposta/ Thu, 02 Apr 2020 18:30:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59175 Si riproduce qui un’intervista a Sandro Moiso, uno degli autori dei recenti interventii pubblicati su Carmilla on line sugli aspetti politici e sociali dell’attuale pandemia, andata in onda martedì 31 marzo sulle frequenze di Radio Onda d’urto. Nel corso della stessa, oltre ad un riassunto delle considerazioni già illustrate nei cinque articoli usciti dal 4 marzo fino ad oggi, sono presentate due modeste proposte di organizzazione e discussione collettiva da mettere in atto: una sui luoghi di lavoro e nelle fabbriche già aperte o destinate a riaprire e l’altra quando sarà [...]]]> Si riproduce qui un’intervista a Sandro Moiso, uno degli autori dei recenti interventii pubblicati su Carmilla on line sugli aspetti politici e sociali dell’attuale pandemia, andata in onda martedì 31 marzo sulle frequenze di Radio Onda d’urto. Nel corso della stessa, oltre ad un riassunto delle considerazioni già illustrate nei cinque articoli usciti dal 4 marzo fino ad oggi, sono presentate due modeste proposte di organizzazione e discussione collettiva da mettere in atto: una sui luoghi di lavoro e nelle fabbriche già aperte o destinate a riaprire e l’altra quando sarà possibile riconvocare assemblee pubbliche e convegni. A partire dai territori lombardi maggiormente colpiti dal Covid-19 e dal virus aziendalistico del lavoro coatto.

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La possessione spiritica come strumento difensivo, critico o sovversivo https://www.carmillaonline.com/2019/07/02/la-possessione-spiritica-come-strumento-difensivo-critico-o-sovversivo/ Tue, 02 Jul 2019 21:30:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53485 di Giovanni Iozzoli

Moreno Paulon (a cura di), Il diavolo in corpo. Sulla possessione spiritica, Meltemi, Milano, pp. 126, 2019, € 12,00

Questo volume, breve e denso, affronta il tema della possessione con uno sguardo attento ai significati sociali e storici di un fenomeno diffuso da sempre in ogni cultura e civiltà umana. Tre studi etnografici, raccolti e curati da Moreno Paulon, raccontano di tre universi geograficamente e socialmente incomparabili – la Malesia, il Niger e il Kenia – in cui le forme della possessione e dell’esorcismo vengono magistralmente analizzate con uno sguardo [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Moreno Paulon (a cura di), Il diavolo in corpo. Sulla possessione spiritica, Meltemi, Milano, pp. 126, 2019, € 12,00

Questo volume, breve e denso, affronta il tema della possessione con uno sguardo attento ai significati sociali e storici di un fenomeno diffuso da sempre in ogni cultura e civiltà umana. Tre studi etnografici, raccolti e curati da Moreno Paulon, raccontano di tre universi geograficamente e socialmente incomparabili – la Malesia, il Niger e il Kenia – in cui le forme della possessione e dell’esorcismo vengono magistralmente analizzate con uno sguardo multidisciplinare, a cavallo fra sociologia, antropologia, etnografia e linguistica. Cosa accomuna e cosa differenzia le suggestioni e le pratiche esorcistiche, in scenari culturali così diversi? Sicuramente la possibilità di rivelare e dare corpo, attraverso il “fenomeno possessione” e i complessi rituali che lo accompagnano, a istanze sociali collettive, di gruppi subalterni o sottoposti a forzati processi di modernizzazione. Essere posseduti significa, in una modalità profonda e ineffabile, prendere la parola, diventare visibili, trasformare il tormento interiore in malessere fisico e, spesso, in catarsi e guarigione.

“La possessione, osservata dal punto di vista della caduta in trance, o dell’alterazione dello stato di coscienza, è un fenomeno che interessa pochi individui ma che viene altamente teatralizzata e ritualizzato all’interno della società più ampia, la quale vi inscrive (e vi esprime) i suoi significati”. (p. 10)

E il fenomeno è talmente connesso all’esperienza umana, quasi una sua modalità naturale di espressione, che: “nessuna società sembra trovarsi impreparata di fronte alla possessione. Se l’esordio spiritico può sconvolgere e marcare l’esistenza di un individuo o di una classe di individui, nessun ordine culturale viene scombinato o entra in crisi quando la possessione si manifesta in uno dei suoi membri”. (p.10)

Infatti, all’interno di una compagine sociale, la possessione può assolvere varie funzioni: difensive, critiche o addirittura sovvertitrici, rispetto ai rapporti fra classi, gruppi etnici o generi. La possessione fornisce un linguaggio e un’allusione a istanze nascoste persino a chi le manifesta.

È palesemente il caso del primo saggio –  Produzione della possessione, di Aihwa Ong -, che esamina le “epidemie di possessioni” nelle fabbriche multinazionali impiantate nella Malesia occidentale a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta. Territori da sempre rurali che sottoposti a una torsione antropologica violentissima, insieme al benessere economico sono sottoposti a sconvolgimenti epocali negli stili di vita e negli assetti familiari. La prima generazione operaia – soprattutto femminile – all’impatto con il mondo alieno e alienante della produzione, “usa” il linguaggio tradizionale della possessione, per protestare contro la propria condizione: è così che si diffondono i malesseri e si materializzano gli spiriti del territorio, disturbati dagli impianti industriali, che vagano fra i reparti e gli spogliatoi, inducendo crisi isteriche e inquietanti visioni ai danni della forza lavoro.

Davanti alle migliaia di ore di lavoro perso a causa di questi fenomeni, le multinazionali americane arrivano persino ad assumere sciamani autorizzati a praticare rituali ancestrali dentro gli stabilimenti – stabilendo una connessione inedita tra le forme più alte della tecnologia industriale e quelle più arcaiche dei rituali esorcistici. Naturalmente il fine non è quello di migliorare la condizione operaia e mitigare l’impatto potente dell’industrializzazione: anzi, le forze “tradizionali” si uniscono alle strategie di medicalizzazione e colpevolizzazione delle vittime, onde preservare la continuità della produzione

Nel secondo saggio – Possessione, afflizione, follia – Jean Pierre Olivier de Sardan cerca soprattutto di classificare la ricca articolazione simbolica e di prassi che si manifesta in una certa area del Niger, sui temi della possessione, dell’esorcismo e soprattutto dell’adorcismo – le pratiche attraverso cui si “invita” lo spirito a prendere possesso di un individuo che cerca la guarigione del corpo e della mente: qui l’antropologo deve districarsi in una foresta di segni e significati intricatissimi, in cui è necessario interrogarsi sul significato di malattia e terapia in contesti lontanissimi da quelli della modernità occidentale.

Nel terzo saggio – Musulmani riluttanti – Janeth McIntosh analizza la condizione di sottomissione quasi “castale” subita da una ristretta minoranza animista, quella dei giriama, considerata impura e subalterna rispetto alla maggioranza swahili, musulmana e socialmente più avvantaggiata. Siamo nel litorale costiero del Kenia, un’area di recente urbanizzazione, in cui le gerarchie etnico-religiose si riflettono immediatamente sui mondi celesti: gli spiriti dei giriama sono meno potenti e hanno meno pretese, rispetto ai loro omologhi musulmani, considerati spiriti di “serie A”, generalmente in rapporto con il mondo swahili.

Non di rado uno spirito musulmano “possiede” un giriama e questo induce nel soggetto un cambio nella dieta, l’adozione dei tabù alimentari islamici e finanche un nuovo abbigliamento che richiama lo stile swahili. I giriama hanno talmente introiettato la loro subalternità, da “usare” le possessioni come strategia di abbandono della loro vecchia cultura e viatico verso una islamizzazione che potrebbe risultare socialmente più conveniente. Nel senso opposto, alcuni sciamani giriama utilizzano l’evocazione dei loro spiriti ancestrali come strategia di resistenza culturale all’egemonia islamo-swahili. Anche in questo caso, quindi, esorcisti/adorcisti di entrambe le fazioni, mettono in campo complessi rituali che regolano queste contese squisitamente culturali e sociali.

Un campo di studi complesso e affascinante, in cui nessuna teoria può attribuirsi il ruolo di “ultima parola”, in cui è facile cadere nelle trappole di letture materialisticamente grossolane, attraverso cui lo sguardo occidentale crede di svelare con chiarezza i nessi di causa/effetto che sottostanno a fenomeni sfuggenti e di problematica classificazione: manifestazioni che hanno il loro campo di origine nella foresta nera della psiche umana e nel mare magnum dell’inconscio collettivo. Con saggezza, il curatore è consapevole del fatto che: “È evidente che l’antropologia, pur attenendosi ai dati etnografici, riposa sulla loro interpretazione, ossia sull’arbitrio di attribuire loro un significato”. (p. 12) Premessa utile di un libro interessante, scientificamente rigoroso, non riservato agli “addetti ai lavori” degli studi antropologici.

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