Europa Orientale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 A proposito del fascismo di ieri, di oggi e di altro ancora https://www.carmillaonline.com/2024/03/13/a-proposito-di-fascismo-di-ieri-e-di-oggi-e-di-altro-ancora/ Wed, 13 Mar 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81425 di Sandro Moiso

Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 1190, 45 euro

Scrive l’autrice del testo pubblicato da UTET/DeAgostini nell’Introduzione: «Prima di scrivere un libro che riguarda un periodo così controverso, il cui ricordo è ancora vivo nella mente di alcuni, è necessario fare qualche premessa». E, in effetti, varie premesse andrebbero fatte anche prima di recensirlo, a partire dal fatto che il periodo del ventennio fascista non è soltanto un «ricordo ancora vivo nella mente di alcuni», ma un ben preciso periodo di tempo e pratica politica, statale e non, sul quale abbondano sia la [...]]]> di Sandro Moiso

Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 1190, 45 euro

Scrive l’autrice del testo pubblicato da UTET/DeAgostini nell’Introduzione: «Prima di scrivere un libro che riguarda un periodo così controverso, il cui ricordo è ancora vivo nella mente di alcuni, è necessario fare qualche premessa». E, in effetti, varie premesse andrebbero fatte anche prima di recensirlo, a partire dal fatto che il periodo del ventennio fascista non è soltanto un «ricordo ancora vivo nella mente di alcuni», ma un ben preciso periodo di tempo e pratica politica, statale e non, sul quale abbondano sia la ricerca storica che la memorialistica. Quest’ultima, più della prima, spesso di parte e attenta, come sostiene sempre nell’Introduzione Enrica Garzilli, a salvaguardare l’integrità morale e politica dei testimoni più che la realtà dei fatti narrati. Sottolineando che si preferisce qui usare il termine “realtà” piuttosto che “verità”, nel tentativo di limitare almeno in parte l’alto tasso di discutibile interpretazione soggettiva cui spesso si accompagna la seconda.

Per comprendere appieno le ragioni di questo pistolotto iniziale e di questa recensione, occorrerebbe sfogliare con attenzione i Paralipomeni della batracomiomachia di Giacomo Leopardi e, in tale testo ottocentesco, trovare la giusta epigrafe per commentare qualsiasi discorso che si occupi delle imprese degli attuali “fascisti” e “antifascisti” istituzionali che ammorbano con le loro velleità politiche e culturali l’aere mediatico, rendendolo, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, sempre più simile a un pantano. Allo stesso tempo immobile e mobile come le sabbie destinate a trascinare nella melma, fino a seppellirlo, qualsiasi ragionamento o tentativo di inquadramento dei problemi connessi ai primi due senza per forza cadere nella banalità e nell’irrazionalità delle ideologie immutabili e pregresse.

Pretesa veramente assurda, quest’ultima, all’interno di una società (“dello spettacolo”, sia sempre benedetta l’intuizione di Guy Debord) in cui il palco di Sanremo vale quanto il parlamento e un’affermazione fatta da uno dei presentatori o dei cantanti in gara quanto un decreto legge o una ponderata riflessione filosofico-politica. Avvicinando molto la situazione italiana attuale a quella già derisa dal poeta di Recanati, nei versi composti tra il 1831 e il 1837, anno della sua morte.

Anni in cui il poeta e filosofo italiano avrebbe portato alle estreme e più mature conclusioni la sua lunga e materialistica riflessione sulla condizione umana e le illusioni, spesso men che infantili, religiose e “ideali” che ne giustificavano ogni suo aspetto più meschino, prolungandone non solo le sofferenze, ma anche la condizione di sottomissione della società italiana dell’epoca sia alle risibili monarchie nazionali, senza mai discuterne l’intrinseca religiosità e inettitudine, che a quelle, ben più potenti, austro- borboniche che si erano spartite l’Italia da secoli.

La battaglia dei topi e delle rane, appoggiate queste ultime dai ben più temibili e “corazzati” granchi, si ispirava a un poema greco in 303 versi attribuito, senza prove concrete, a Omero e la cui altrettanto controversa datazione copre un periodo compreso tra il V e il I secolo a. C. Il poemetto classico serviva però a Leopardi per mettere alla berlina sia i presunti progressisti della causa nazionale, in Italia come in Francia, che i loro fieri e ultra-conservatori avversari insieme alle potenze straniere di cui difendevano gli interessi.

Topi, rane e granchi presi tutti insieme non fanno certo una gran figura, ma ad uscire con le ossa rotte sono proprio i primi, ovvero i progressisti, che sventolando propositi liberali e organizzando inconcludenti cospirazioni non fanno altro che rendere i loro avversari ancora più forti e “cattivi” e pagando per questo prezzi esagerati, in termini di vite e carcerazioni, considerati i risultati (non) raggiunti.

Urlano sempre al lupo oppure alla vittoria certa i topi, per poi, però, fuggire a gambe levate di fronte all’avversario o tremare di paura al solo pensiero di ciò che questo potrebbe fare una volta assiso al trono. Sono gli anni compresi tra il 1820 e il 1830, grosso modo, quelli di cui parla il grande e sarcastico materialista ottocentesco, eppure non si può fare a meno di pensare all’autentica “beata ignoranza” che anima e dà fiato ai dibattiti attuali sul pericolo fascista rappresentato dalle attuali forze di governo e alle richieste dell’antifascismo istituzionale per fargli fronte.

In realtà, però, dietro alle richieste fatte a nostalgici del fascismo di antica data di fare professione di antifascismo oppure, da parte avversa, quella di fare pubblica ammenda sulle foibe o di schierarsi, senza se e senza ma, con il sionismo di Netanyahu in nome del rigetto dell’antisemitismo o, ancora, con Zelensky e l’Ucraina contro il putinismo che i due avversari si rimpallano senza alcuna vergogna o senso del limite e del ridicolo, sta il fatto che i due contendenti costituiscono le due facce di una stessa medaglia di governo e/o politica in cui forze prive di identità alcuna, dopo un adeguamento pluridecennale al comando del capitale finanziario e alle necessità del capitale sovranazionale di salvaguardare i propri profitti e interessi, cercano di spartirsi poltrone e potere fingendo e rivendicando meriti e radici politiche e ideologiche di cui non costituiscono più nemmeno un lontano fantasma. Come dire che, da queste parti e lungo le sponde della sempiterna italietta non si aggirano più né il fantasma del comunismo né, tanto meno, quello del fascismo. Perlomeno, attualmente, nelle forme in cui si erano storicamente prospettati.

Aleggia invece, ovunque e su tutte le forze in campo, l’olezzo di un liberalismo, fasullo anch’esso in un paese in cui il peso della Chiesa non è mai diminuito in maniera significativa, che, identificatosi totalmente con i valori dell’Occidente e della Nato, non fa altro che spingere l’intera nazione nel baratro di un conflitto armato di cui gli stessi governanti e i loro avversari non intendono i fini e le ragioni, ma a cui si adeguano per mancanza di idee e prospettive. Una guerra ideologica dei topi e delle rane, per tacer dei granchi, dunque. E tutto questo costituisce il motivo per cui varrebbe la pena di leggere, o almeno sfogliare, l’opera di Enrica Garzilli pubblicata sul finire del 2023 .

Enrica Garzilli è specialista di indologia e studi asiatici, collaboratrice di ricerca e docente di sanscrito, buddhismo, induismo e diritto indiano all’Università di Delhi e a Harvard (1992-2016) oltre che di Religioni e culture dell’Asia e Storia del Pakistan e dell’Afghanistan alle Università di Perugia e Torino. Ha fondato ed è stata direttore della Harvard Oriental Series – OM. Collabora con numerose riviste e quotidiani nazionali e con la Rai in ambito politico, storico e geopolitico. Nel 1997 ha fondato l’Asiatica Association, un’organizzazione no profit che diffonde la conoscenza e lo studio delle culture asiatiche. Ha fondato e diretto le riviste accademiche online IJTS (Tantrism) e JSAWS (Gender Studies) (1995-2019).

Mussolini e Oriente segue con attenzione un tema che, come afferma l’autrice, è stato tutto sommato poco sviluppato nell’ambito della ricerca storiografica italiana, una volta escluso uno studio di Renzo De Felice pubblicato nel 19881 cui l’autrice paga tributo non soltanto nel titolo. Tema costituito dal tentativo mussoliniano di ampliare la presenza e l’influenza italiana in quelle che, allora, erano ritenute aree di pertinenza o appartenenza dell’impero britannico.

Se tale tentativo, senza mai nascondere le pose teatrali e gigionesche del Duce e confermandone le velleità imperiali richiamantisi a un sempre (ancor oggi) troppo poco sbiadito mito di Roma, finì da un lato nel ridicolo e dall’altro nella tragedia del secondo conflitto mondiale a fianco dell’alleato hitleriano, allo stesso tempo segnava una grande distanza di intenti, rispetto al presunto “fascismo” odierno. Soprattutto nel volersi confrontare con le potenze coloniali e imperiali che all’epoca ancora potevano spartirsi il mondo (Francia e soprattutto Regno Unito), senza accettarne supinamente (come invece accade oggi per la politica estera italiana, qualsiasi sia il colore del governo in carica dalle guerre balcaniche in poi, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti) le mire espansive e gli obiettivi politico-militari. Considerato che l’ultimo atto di autonomia, in contrasto con la politica americana nel Mediterraneo, in decenni recenti, è stato forse quello dell’incidente di Sigonella, nell’ottobre del 1985, che costituì un caso diplomatica tra Italia e Stati Uniti, ai tempi del primo governo Craxi con Giulio Andreotti agli Affari Esteri.

Su questo aspetto della politica estera italiana torneremo ancora più avanti, mentre ora, per ragioni di brevità si riassumeranno, molto sinteticamente, le vicende storiche, politiche e, talvolta, degne di una commedia che l’autrice descrive e inquadra grazie ad un’enorme mole di materiali storiografici e d’archivio, dando vita a una ricostruzione basata su documenti originali come, ad esempio, gli appunti inediti di Tagore, Mussolini e Andreotti.

Nel 1924 Mussolini accettò la proposta del «camerata samurai» Harukichi Shimoi di fare da testimonial per una bevanda analcolica giapponese. Due anni dopo la fotografia del Duce planava dai cieli nipponici su una folla entusiasta, che riconosceva nel Fascismo gli stessi valori fondanti del Bushido: “coraggio, lealtà, senso del dovere e dell’onore e la visione eroica dell’agire in nome di un ideale fino al sacrificio estremo”.

Se il legame tra l’Italia e l’Impero di Hirohito dopo il 1936 è noto, poco si sa in merito ad altre potenze dell’Asia che nutrivano verso il Duce una fascinazione altrettanto forte come l’India di Gandhi che, sebbene non approvasse «il pugno di ferro» con cui Mussolini governava, ne elogiava l’impegno in campo sociale, specialmente quello a favore delle classi rurali e delle categorie deboli come orfani, vedove, ragazze madri, riconoscendogli servizio e amore verso il popolo. Mussolini – che segretamente definiva l’India «il forziere del mondo» e mirava a controllarla – rappresentava per Gandhi, anche un importante alleato in funzione antibritannica.

Ancora meno noto è il legame con l’Afghanistan, punto nevralgico dell’Asia centrale, scacchiere su cui si erano scontrate nel “Grande Gioco” le maggiori potenze del tempo, Gran Bretagna e Russia, e di cui, nel 1921, l’Italia fu il primo Paese al mondo a riconoscere l’indipendenza, stipulando accordi di collaborazione. Le mire internazionali di Mussolini erano affiancate da una vivace propaganda culturale. Fondamentale, in tale senso, è da considerare l’operato di personaggi come l’esploratore Giuseppe Tucci, portavoce del Fascismo in India e in Nepal, Gian Galeazzo Ciano, console d’Italia in Cina, Pietro Quaroni, ambasciatore a Kabul e abile tessitore di alleanze con i ribelli waziri.

Con alle spalle anni di ricerca, Enrica Garzilli ricostruisce così un grande affresco sulle operazioni di Mussolini nelle terre di quell’Oriente «fratello non di sangue», consegnandoci un’opera che inquadra gli anni del Ventennio secondo parametri scarsamente considerati prima. Una ricerca storiografica in cui il razzismo fascista si accompagna all’attenzione per le culture locali, soprattutto quando queste potevano essere fatte derivare dall’arianesimo e altre manfrine ottocentesche2 oppure ad un superiore spiritualismo che sempre aveva costituito un forte richiamo, come lo rimane ancora tutt’ora, per la Destra ispirantesi sia a Julius Evola che al tradizionalismo più arcaico. E di cui, tanto per attualizzare e chiarire il senso di quanto appena affermato, le controverse interpretazioni dell’opera di Tolkien e di Lovecraft costituiscono ancora la manifestazione epifenomenica nella critica letteraria.

In tale contesto di attenzione parziale alle culture e religioni ”altre” e, in particolare, ad una certa mistica visionaria di origine tibetana si manifesta una certa continuità ideologico-spirituale tra certi protagonisti delle battaglie delle “armate bianche” contro la vittoria dei soviet e delle armate rosse nella “Madre Russia”3 e lo “spiritualismo” di certa destra italiana fino a Gianfranco de Turris.

Personaggio centrale, per le vicende narrata dalla Garzilli e per la diffusione di una certa immagine dell’Italia fascista in Asia, è sicuramente quella di Giuseppe Vincenzo Tucci (1894 –1984) al quale l’autrice ha dedicato in passato una voluminosa e dettagliata opera di carattere biografico tutt’altro che priva di interesse4, soprattutto per chi voglia approfondire la storia dell’archeologia italiana in Asia e delle mire politiche che spesso hanno accompagnato le missioni archeologiche occidentale, ma anche russe, nei continenti extra-europei.

Lo studioso italiano più attivo nella propaganda e più coinvolto nelle attività del regime, quello che portò i nazionalisti bengalesi in Italia – con l’eccezione di Tagore5 invitato da Formichi – , fu Tucci, che della politica culturale fascista non fu solo un esecutore ma anche un instancabile ideatore. Da anni era determinato a dare corpo a un progetto: creare un’istituzione per diffondere lo studio della cultura asiatica in Italia, ovviamente diretta da lui, e promuovere gli scambi con l’Asia. […]
Tucci riconosceva a se stesso […], quando propose la creazione dell’IsMEO6, un duplice compito: «come orientalista e come diffonditore della cultura italiana». Con il sostegno di Gentile e in linea con la visione della poltica estera di Mussolini e la sua malcelata rivalità cion la Germania e la Francia scriveva che il suo scopo era quello «di creare in Italia una scuola orientalistica che potrebbe battere quelle straniere». Il 9 marzo 1931, infatti, inviò da Roma una relazione a Sua Eccellenza il Capo del Governo in cui si proponeva la creazione di un istituto con questi scopi, simile «all’Istituto Buddhista di Leningrado, alla Società degli amici dell’Oriente di Parigi o alla Società indiana di Berlino»7.

Orientalista, esploratore, storico delle religioni e buddhologo italiano, Giuseppe Tucci è stato autore di numerose pubblicazioni, articoli scientifici, libri ed opere divulgative. Ha condotto diverse spedizioni archeologiche in Tibet (sette tra la fine degli anni Venti e il 1939), India, Afghanistan ed Iran. Durante la vita, è stato unanimemente considerato il più grande tibetologo del mondo.

Aveva aderito al fascismo senza grande interesse politico ma, un po’ pirandellianamente, nella speranza che il regime finanziasse i suoi studi, le sue ricerche e spedizioni, in una visione della vita di carattere dannunziano in cui, come lui stesso affermava, «l’uomo è nato con un duro destino dal quale può trovar scampo soltanto l’asceta o il poeta». A differenza di Pirandello, le cui opere furono ritenute sempre troppo provocatorie per il regime, Mussolini decise di finanziarlo a fini politici, per diffondere l’immagine dell’Italia in Asia e prendere contatti con l’India in vista di un possibile disgregamento dell’Impero Britannico.

Tralasciando ora le esperienze di ricerca, la carriera, le convinzioni e le conoscenze, tra le quali occorre segnalare ancora quella di Mircea Eliade8, dell’alfiere dell’archeologia italiana in Asia centrale, occorre qui, con un salto temporale di due decenni, ricordare, che, nel dopoguerra il “santo patrono” della riapertura dell’IsMeo nel 1947, sotto la guida di Tucci, fu un ancor ventottenne Giulio Andreotti, allora già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Così, come afferma ancora l’autrice:

Vennero allestite mostre d’arte orientale a dir poco fastose che non avevano precedenti per la rilevanza dei pezzi esposti e per l’afflusso di pubblico: da campo di studi ristretto e sofisticato, riservato ai pochissimi che se lo potevano permettere, l’Oriente stava diventando un fenomeno di massa. E se l’attività dell’istituto dopo Mussolini si svincolò dall’azione politica e divenne più chiaramente culturale, ciononostante non smise mai di svolgere un lavoro di intelligence e di essere strumento di soft power9.

Il recensore deve qui scusarsi per aver saltato la narrazione delle imprese dell’imperialismo “straccione” italiano in Asia ed essere volato alle conclusioni che seguono, che si riallacciano, però, con quanto affermato all’inizio.
L’interesse di tutto il testo, che a volte simpatizza un po’ troppo per le imprese e gli ardori mussoliniani e in altre soffre di una certa pedanteria accademica, è proprio racchiuso nel tracciare la via che dalle politiche del Fascismo originario ha portato fino alle scelte dei governi italiani successive alla fine del Ventennio. Una continuità che se è spesso stata segnalata a livello di leggi, pratiche poliziesche e cariche amministrative, politiche e istituzionali, non è mai stata colta nella continuità di una certa politica estera nei confronti del Medio Oriente e dell’area mediterranea.

Non a caso la figura di Giulio Andreotti, dopo esser stata segnalata a proposito di Sigonella, è tornata nelle righe finali di questa fn troppo stringata recensione di un testo che meriterebbe ancora altre attenzioni e considerazioni. Questo per dire che se c’è stata continuità tra fascismo e governo italiano questa è stata anche in ambiti e pratiche di politica estera che tutti i governi italiani della cosiddetta Seconda Repubblica non hanno più perseguito, sia a Destra che a Sinistra. Dalla partecipazione alle guerre balcaniche, con i bombardamenti sulla Serbia, fino alla Prima guerra del Golfo e alle scelte odierne sia a riguardo dell’Europa Orientale che del Medio Oriente.

Da allora, non a caso l’IsMEO viene unito ad altro istituto nel 1995 e poi chiuso insieme a quello nel 2012 (come già è stato segnalato nella nota 6), tutti i governi hanno abbandonato le politiche, sicuramente neo-coloniali e subdolamente imperialistiche, che il regime aveva contribuito a definire, sulla base, però, di un più generale rinnovamento del capitalismo italiano, come sempre a spese della classe operaia, di cui, tanto per chiarire, l’azione di Enrico Mattei in Africa settentrionale fu ancora una conseguenza, ben lontana da quella prospettata sulla carta dall’attuale governo Meloni. Ampiamente in ritardo sull’azione russa e cinese nell’Africa Subsahariana, fino al farlocco voto parlamentare su Gaza o all’inutile e probabilmente controproducente missione Aspides nel Mar Rosso oppure alla comparsata della premier a Kiev in occasione della presidenza italiana del G7.

Razzismo e manganellate sono tranquillamente convissuti in Italia ben prima dell’avvento del governo di “destra”, e non soltanto per merito della Lega che, al massimo, per anni ha raccolto gli umori di una classe media e di una classe operaia indebolite e impoverite e, allo stesso tempo, ancora incapaci di rivoltarsi verso la mano che le tiene tuttora al guinzaglio. Mentre anche le manganellate a studenti ed operai sono state equamente distribuite, e talvolta in maniera molto più violenta delle attuali, dai governi di centro-sinistra. Dall’azione del governo Leone II nel 1968 contro i moti studenteschi a quello Rumor I successivo con gli scontri di Corso Traiano a Torino e, non potendo ricordare qui tutti gli eventi repressivi di cui furono protagonisti i governi di centro-sinistra, fino alle “quattro giornate di Napoli” del 2001 quando i maganellatori del governo di “sinistra” Amato II, il 17 marzo, servirono ai manifestanti del Global Forum l’antipasto di quello che sarebbe stato il G8 di Genova.

Non occorre procedere oltre, poiché sarebbe soltanto ridondante. Ma, per tirare le conclusioni, è necessario sottolineare come un paese privo di una classe dirigente degna di questo nome, in cui la presunta borghesia nazionale ha finanziarizzato l’economia senza dar vita ad un’autonoma strategia d’impresa economica o politica e che ha colto nella globalizzazione soltanto il momento in cui poter abbassare i salari e svendere le imprese al miglior offerente, oggi finge una battaglia politica inesistente al suo interno soltanto per poter continuare a svolgere il ruolo di lacchè nei confronti di altre economie più potenti.

Tutto questo non vuole costituire, però, il solito piagnisteo sulla patria tradito oggi diffuso dai nazionalisti di sinistra o da un’estrema destra ridotta al lumicino che contesta le privatizzazioni. Piuttosto un invito a guardare negli occhi il nemico di sempre, il capitale nazionale e internazionale, spogliandolo di ogni orpello ideologico per sfidarlo là dove è più debole e risibile.

Il libro di Enrica Garzilli, pur nelle sue imperfezioni, oltre che a una rilettura non convenzionale di quelli che furono gli interessi geo-politici italiani in Asia, può fornire, indirettamente, strumenti per contestare e abbattere un gigante dai piedi di argilla, sia quando questo si appoggia sul piede destro oppure su quello di sinistra. Rivelando, allo stesso tempo e ancora una volta indirettamente, come la fascinazione per le dottrine filosofico-religiose asiatiche, basate sostanzialmente sulla liberazione, spiritualità e affermazione del soggetto e dell’individuo, appartengano pienamente all’immaginario di destra. Così come Tucci, Eliade ed altri, con la loro opera, hanno sempre finito col dimostrare.


  1. R. De Felice, Il Fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, Il Mulino, Bologna 1988.  

  2. In proposito si veda: M. Bernal, Atena nera. Le radici afro-asiatiche della civiltà classica, Il Saggiatore, Milano 2011 e G. Semerano, La favola dell’indoeuropeo, Bruno Mondadori Editore, Milano 2005.  

  3. Si vedano in proposito: V. Pozner, Il barone sanguinario, Adelphi Edizioni, Milano 2012 e F. Ossendowski, Bestie, uomini e dei (prima edizione italiana 1925), Fratelli Melita Editori, Genova 1987. Si noti bene che nel titolo del secondo testo qui citato le “bestie” sono i comunisti, gli “uomini” i combattenti delle armate bianche e gli “dei” sostanzialmente coloro che stanno ai vertici del monachesimo tibetano, in particolare il Dalai Lama con i suoi insegnamenti “segreti”.  

  4. E. Garzilli, L’esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in Oriente da Mussolini a Andreotti, vol. I pp. LII + 685 – vol. II pp. XIV + 725, Asiatica Association, Milano 2012.  

  5. Rabindranath Tagore, nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur (1861 – 1941) è stato un poeta, drammaturgo, scrittore e filosofo bengalese, premio Nobel per la letteratura nel 1913. Sostenitore dell’indipendenza dell’India almeno fin dal 1919, ha visto i testi di alcune sue poesie inseriti, prima, nell’inno nazionale dell’India nel 1950 e, successivamente, in quello del Bangladesh a partire dalla sua secessione dal Pakistan nel 1972. Dopo le aspre critiche rivolte al regime fascista, Tagore aveva perso il sostegno dato dal governo italiano all’Università Visva Bharati in cui insegnava. – NdR.  

  6. Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, nato nel 1933 e fusosi nel 1995 con l’Istituto italo-africano di Roma, dando vita all’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO) posto in liquidazione coata amministrativa ne 2012. A dirigere l’IsMeo erano stati chiamati Giovanni Gentile (1933-1944), Giuseppe Tucci (1947-1978), Sabatino Moscati (1978-1979) e Gherardo Gnoli (1979-1995) – NdR.  

  7. E. Garzilli, Mussolini e Oriente, UTET/DeAgostini Libri, Milano 2023, pp. 542-543.  

  8. Mircea Eliade (Bucarest 1907 – Chicago 1986) è stato uno storico delle religioni, antropologo, scrittore, filosofo, mitografo e saggista romeno.
    Nel 1927 si impegnò attivamente nella “Nuova Generazione Romena” e i suoi articoli di questo periodo contribuirono a formare l’assetto teorico della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, movimento ultranazionalista di ispirazione fascista e antisemita. Dopo la laurea in filosofia (1928) vinse una borsa di studio per studiare a Calcutta, tra il 1928 e il 1931, la filosofia indiana con Surendranath Dasgupta, in casa del quale incontrò Giuseppe Tucci.
    L’esperienza e gli studi di questo periodo e lo stretto contatto con le religioni dell’India influenzarono profondamente il suo pensiero. La sua tesi di dottorato, discussa a Bucarest nel 1933, fu pubblicata a Parigi nel 1936 con il titolo Yoga, essai sur les origines de la mystique indienne (che sarebbe poi diventato, dopo successive rielaborazioni, il saggio Lo yoga, immortalità e libertà). NdR.  

  9. E. Garzilli, Mussolini e Oriente, op. cit., pp. 873-874.  

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I muri oltre Berlino https://www.carmillaonline.com/2019/12/05/i-muri-oltre-berlino/ Thu, 05 Dec 2019 22:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56246 di Gioacchino Toni

Ad un decennio di distanza dalla sua prima uscita nel 2009, torna in libreria, in un’edizione rivista e soprattutto aggiornata, il libro di Christian Elia Oltre i muri. Storie di comunità divise (Milieu, 2019). La pubblicazione esce nel pieno della retorica politico-mediatica – più o meno miope, più o meno di comodo – che celebra l’anniversario della caduta del muro di Berlino, presentando  materiale e testimonianze che l’autore ha raccolto in anni di reportage in giro per il mondo, soprattutto nell’Europa dell’Est ed in Medio Oriente, al fine di raccontare [...]]]> di Gioacchino Toni

Ad un decennio di distanza dalla sua prima uscita nel 2009, torna in libreria, in un’edizione rivista e soprattutto aggiornata, il libro di Christian Elia Oltre i muri. Storie di comunità divise (Milieu, 2019). La pubblicazione esce nel pieno della retorica politico-mediatica – più o meno miope, più o meno di comodo – che celebra l’anniversario della caduta del muro di Berlino, presentando  materiale e testimonianze che l’autore ha raccolto in anni di reportage in giro per il mondo, soprattutto nell’Europa dell’Est ed in Medio Oriente, al fine di raccontare “storie di confine”.
L’autore presenta tanto racconti riferiti ai muri più conosciuti – Cipro, Belfast, Israele, Palestina, Sahara Occidentale, Ceuta, Melilla, Iraq –, quanto alle barriere più recenti proprie delle aree più calde delle rotte migratorie tra Serbia-Ungheria, Bulgaria-Turchia e Grecia-Turchia. Nell’introdurre la nuova edizione, Elia spiega come il libro sia nato dall’urgenza di raccontare e dalla necessità di spiegare la situazione vissuta da chi si trova a fare i conti quotidianamente con quelle barriere artificiali poste tra esseri umani.

Se di per sé già lo scrivere dei muri risulta importante, sostiene l’autore, ancora di più lo è raccontare del “filo rosso” che li collega tutti. «Un filo rosso che unisce vicende differenti, che intreccia periodi storici lontani tra loro, che si arrotola su problematiche molto disomogenee. In ogni occasione, però, finivo sempre per incappare in fattori costanti, che si ripetevano, come in una roulette truccata. Sequenze. Fatte non di numeri, ma di storie. Vite di persone che, all’improvviso, hanno trovato un muro sul loro cammino». E ciò, continua Elia, accade quando «l’animale sociale diffida a tal punto del suo vicino da ritenere il muro, la barriera, la divisione l’estrema ratio. Non c’è più tempo per dialogare, litigare e dialogare ancora. Non c’è più fiducia. Meglio chiudere fuori l’altro, senza rendersi conto che allo stesso tempo finisci per chiuderti dentro anche tu». Ed a quel punto le motivazioni storiche, religiose, politiche dei diversi casi diventano del tutto relative e le storie finiscono con l’assomigliarsi tutte.

Se, rispetto alla prima edizione del libro, oggi i muri si sono di gran lunga moltiplicati, il filo rosso che legava le storie di allora è però tutto sommato il medesimo che lega anche le attuali e quel filo rosso è fatto di storie di persone comuni, di esseri umani che vivono all’ombra dei muri senza che nessuno abbia mai chiesto loro un parere prima di chiuderli dentro. A dieci anni dalla prima edizione tante cose sono cambiate ed ora il «muro più grande di tutti» sembra essere divenuto il Mediterraneo. «La strage di questi dieci anni», continua Elia, «ne ha fatto per me, il muro più alto di tutti». Nel solo 2016, secondo la ricercatrice Reece Jones, hanno perso la vita a causa di un muro o di una barriera ben settemiladuecento esseri umani. Da quando è caduto il muro di Berlino «sono stati eretti in tutto il mondo muri e recinti per migliaia di chilometri. Cambiano i materiali, il livello di militarizzazione, gli itinerari, le motivazioni politiche, ma non sono mai stati così tanti».

Metà delle barriere costruite dopo il Secondo conflitto mondiale, racconta Elia, sono sorte dopo il 2000, con buona pace della retorica che vuole che con la caduta del muro berlinese nel mondo gli esseri umani si siano liberati dello spettro dei muri divisori. E proprio a proposito della caduta di quella barriera divisoria tedesca, Nicola Sessa, nella postfazione al volume, racconta la frustrazione provata del regista Andreas Dresen e dello scrittore Ingo Schulze di Berlino Est, poco meno che trentenni nel 1989, attraverso le loro parole: «I tedeschi dell’est hanno dovuto accettare le regole della Germania Federale, fare presa di coscienza che tutto ciò in cui avevano creduto, l’eguaglianza, la solidarietà e il rispetto reciproco fossero tutte cose da mandare al macero. Non è bello dirlo, ma è come se fossimo stati invasi dall’altra Germania che ci ha imposto il loro sistema senza salvare ciò che di buono noi avevamo». Non è passato molto tempo, chiosa Sessa, prima che «le politiche sociali venissero immolate sull’altare del capitalismo rompendo quel delicato equilibrio su cui muovevano in perfetto sincrono le fabbriche, l’istruzione, la sanità e una certa qualità di vita che, a detta di molti, era superiore a quella di oggi. Certo, si dirà, quando su un piatto della bilancia c’è la libertà, nessun altro valore messo sull’altro piatto avrà lo stesso peso. Ma molti tedeschi, dell’est si chiedono oggi se siano davvero liberi: sognavano di viaggiare, ma le condizioni economiche e la disoccupazione non lo permettono a tutti; sognavano di dire liberamente la loro, ma chi li ascolta?».

Se però esiste un luogo ove la caduta del muro di Berlino svela tutta la sua ipocrisia, afferma Elia, questo è l’Europa orientale. «Proprio quell’Europa che, per anni, ha celebrato l’idea stessa di una libertà negata per anni dai regimi del blocco orientale. Una retorica uguale e contraria a quella dell’Europa, che nel 1989 festeggiava la caduta dei muri che tenevano prigionieri milioni di persone. La grammatica era quella dell’accoglienza, l’alfabeto quello del diritto a essere liberi. Cercare una vita diversa era un’aspirazione umana degna del massimo rispetto. Fuggire da una dittatura era un dovere morale, almeno quanto quello di accogliere. Perché oggi tutto questo non vale per siriani, afgani, iracheni, curdi?».

Negli ultimi anni, parallelamente allo sbiadire della retorica europeista ed alla montante disillusione presto trasformatasi in rabbioso malcontento di qui settori sociali che hanno pagato i costi dell’ennesima giravolta politico-economica, ha finito con l’avere buon gioco una montante ondata di demagogia fascistoide che ha fatto dell’edificazione delle barriere “protettive” il proprio cavallo di battaglia. Dal governatore del Friuli Venezia Giulia che promette la costruzione di una barriera al confine con la Slovenia, all’edificazione promossa da Orban di barriere in filo spinato e lamette anti-immigrati sia lungo i confini con con la Serbia che con quelli con la Croazia, o al muro che il Montenegro intende edificare lungo il confine con l’Albania, passando per il Kosovo, fino alla Macedonia del Nord e alla Bulgaria, che a sua volta si è adoperata per costruire una barriera al confine con la Turchia, che si tiene ben separata dalla Grecia sfruttando il fiume Evros. Ed è a questo nuovo scenario europeo che è dedicata l’ultima parte del volume in cui Elia, attraverso una serie di reportage, racconta cosa è accaduto in questi dieci anni che separano le due edizioni del libro, con storie di persone che «hanno perso la vita i questi luoghi di negazione. Negazione dei diritti, delle promesse del 1989, in buona sostanza, di noi stessi».

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Ora che la guerra sta accadendo https://www.carmillaonline.com/2015/11/24/paradossi-di-una-guerra/ Tue, 24 Nov 2015 17:00:06 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26796 di Sandro Moiso

Made_in_France_posterParigi – Londra, patto di guerra. Così titolava in prima pagina il “Corriere della sera” ieri mattina. Poi, nella stessa giornata, un caccia russo Sukhoi 24 è stato abbattuto nei cieli turco-siriani su ordine del premier Ahmet Davutoglu e la Russia ha schierato le proprie navi davanti alla costa turca. L’esplodere dei grandi conflitti è sempre stato preceduto dal manifestarsi di una grande “voglia di guerra”. Voglia che si manifesta nelle dichiarazioni pubbliche e nei discorsi privati, nei quotidiani e, oggi, nei media di ogni genere. Nelle scelte della politica e dell’economia. Nella preparazione delle azioni militari e [...]]]> di Sandro Moiso

Made_in_France_posterParigi – Londra, patto di guerra. Così titolava in prima pagina il “Corriere della sera” ieri mattina. Poi, nella stessa giornata, un caccia russo Sukhoi 24 è stato abbattuto nei cieli turco-siriani su ordine del premier Ahmet Davutoglu e la Russia ha schierato le proprie navi davanti alla costa turca. L’esplodere dei grandi conflitti è sempre stato preceduto dal manifestarsi di una grande “voglia di guerra”. Voglia che si manifesta nelle dichiarazioni pubbliche e nei discorsi privati, nei quotidiani e, oggi, nei media di ogni genere. Nelle scelte della politica e dell’economia. Nella preparazione delle azioni militari e in quelle repressive. Nella designazione di un nemico disumano, meritevole di ogni violenza e di ogni atto di vendetta.

Voglia di armi
“Energia e difesa trainano le borse”. Non erano ancora passati cinque giorni dai fatti di Parigi che, mercoledì 18 novembre, “il Sole 24 Ore” poteva trionfalmente dichiarare in prima pagina la felicità degli investitori per la situazione venutasi a creare per le conseguenze poltico-militari degli attentati messi in atto dai militanti dell’Isis . Come se ciò non bastasse sulla colonna di sinistra un altro articolo dichiarava, quasi spudoratamente: “Europa e conti. Più che la stabilità poté la sicurezza”.

L’appello di lunedì 16 novembre del Presidente della Repubblica francese alla clausola dell’articolo 42, punto 7, del Trattato di Lisbona, riferito al mutuo soccorso europeo, ha aperto di fatto la porta alla possibilità di uscire dai vincoli dei trattati europei, riguardanti la spesa degli stati, per tutto ciò che riguarda la sicurezza ovvero uomini, armi e tecnologie securitarie. Il taglio della spesa pubblica, tanto richiamato da tutti i partiti di governo e di opposizione, in un solo colpo può quindi essere aggirato, grazie sostanzialmente all’appello di François Hollande, a favore delle imprese fornitici di armamenti per gli eserciti e servizi all’intelligence.

Da qui la gioia delle Borse, per le quali, evidentemente, i morti, parigini o siriani che siano, della guerra in atto non sono altro che una forma di interesse da pagare per il buon funzionamento e la ripresa dei mercati. Una specie di keynesismo del sangue che andrebbe di diritto inserito tra i crimini dei potenti e dell’economia di recente analizzati da Vincenzo Ruggiero in alcuni suoi testi.1

Sabato 21 novembre “Repubblica.it” titolava “L’affare della guerra all’Is: boom di Borsa e vendita di armi, l’Italia c’è”, affermando chiaramente che “Domandare, offrire; vendere, comprare. Le regole del mercato sono poche e semplici. E la guerra aperta dalla Francia e dalla Russia dopo gli attentati terroristici ad opera dell’IS non fa eccezione. Per chi domanda sicurezza, c’è chi offre strumenti di difesa; per chi vende armi, c’è chi le compera. Gli stanziamenti degli Stati per armarsi contro la minaccia terroristica cresceranno, questa è una delle poche certezze di questi giorni: Francois Hollande ha già ottenuto da Bruxelles di fare più deficit del previsto e anche la Stabilità italiana si prepara a trovare 120 milioni di nuove risorse.2

Per poi proseguire “Con i lampeggianti delle sirene parigine ancora accese, già si sapeva che gli Usa avevano venduto migliaia di bombe intelligenti all’Arabia Saudita, per 1,29 miliardi di dollari di valore. Per chi avesse dubbi, basta guardare all’andamento di Borsa, dove fiutare l’affare è la regola: aziende come la leader delle armi Lockheed Martin, ma anche altri colossi come Bae System, la Airbus e la Boeing (che non producono solo aerei passeggeri) e la nostra Finmeccanica hanno registrato un balzo in avanti sui mercati. L’indice Bloomberg del settore aero-spaziale e della difesa, dagli attentati di Parigi ha guadagnato il 4,5%, Finmeccanica più dell’8%”.

Per essere bipartisan occorre poi ricordare che Carlo Pelanda, su “Libero” di domenica 22 novembre, non dimenticando che “La grande depressione americana degli anni ’30 finì per la svolta espansiva e mobilitante data dall’entrata in guerra nel 1941”, ha sottolineato come non si veda “una mobilitazione pacifista contro i bombardamenti, manco tanto selettivi, di Raqqa o una condanna morale di Hollande perché, oltre alla parola «guerra», ha anche aggiunto «vendetta». Pare che la percezione sia quella di una Pearl Harbour europea caricata di una forte caratterizzazione del nemico come indegno e non meritevole di pietà”.3 Sintetizzando: il clima favorevole alla guerra c’è, vediamo solo di sfruttarlo al meglio.

Il paradosso sta nei fatti: finita quella che si potrebbe definire come la terza guerra mondiale, con cui sostanzialmente, tra il 1991 e, indicativamente, l’eliminazione di Osama Bin Laden, gli Stati Uniti hanno cercato di ridisegnare a proprio vantaggio il panorama geo-politico venutosi a creare nel quarantennio di divisione condominiale del mondo con l’URSS dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha avuto inizio, proprio dall’imbarbarimento di consuetudini e stati seguito alla (fallimentare) balcanizzazione dell’Europa Orientale e del Vicino Oriente voluta e perseguita dai vertici politico-militari ed economici statunitensi, la quarta.

Mentre la terza, però, aveva visto ancora una parte consistente del mondo, sviluppato e non, adattarsi al comando americano sperando di trarre vantaggio sia dal rafforzamento imperialista statunitense che dall’indebolimento e dalla scomparsa dell’imperialismo sovietico in nome di un Nuovo Ordine Mondiale, oggi a seguito della crisi economica, dello sviluppo e della affermazione di varie potenze regionali e mondiali, della debolezza della strategia americana e delle sue possibili prospettive, si ha uno scontro di tutti contro tutti. In cui tutti gli attori sono contemporaneamente possibili alleati e possibili nemici. Dal punto di vista capitalistico, mercantile e finanziario è una situazione magnifica: tutti possono vendere armi a tutti in attesa che i fronti si definiscano meglio e le popolazioni, soprattutto in Occidente, si abituino all’idea dell’inevitabilità dei sacrifici determinati dal clima bellico e della giustezza delle ragioni della propria “patria” o del proprio schieramento di riferimento.

Così la Francia può ballare tra Stati uniti e Russia e l’Italia vendere armi agli Emirati del Golfo e alla Turchia (solo per citare due esempi) continuando a gridare, sempre più forte “Al lupo! Al lupo!” per il nemico alle porte. Quando il vero nemico, il più importante, è costituito proprio da quei governi che ci stanno portando al macello. Così mentre gli Stati Uniti, nel corso della terza, avevano pensato di preparare una situazione utile sia a contenere gli alleati/concorrenti occidentali, sia a circondare strategicamente il colosso cinese, ora si trovano impantanati in una situazione in cui ad ogni falso movimento rischiano di calpestare pericolosamente i piedi di possibili alleati e possibili avversari (ancora una volta i balletti di Kerry e Obama tra Iran, Israele, Turchia, Russia ed Arabia Saudita possono servire da esempio).

Ballando sull’orlo del baratro qualcuno inizierà a scivolare, trascinando con sè tutti gli altri. In Turchia, in Siria, sulle coste del Mediterraneo: dove sarà, sarà. Il luogo non sarà così importante alla fine.4 Per questo ho detto e ripeto ancora che il 13 novembre non corrisponde all’11 settembre 2001 (tutto americano), ma al 28 giugno 1914.

L’italietta, intanto, corre gioiosa incontro al proprio destino: soddisfatta degli investimenti arabi sul territorio nazionale e nella sua linea aerea di bandiera, spera di continuare a vendere armi a tutti, facendo girare a mille gli stabilimenti di Finmeccanica e della Beretta e facendo finta che il decreto legge che proroga la partecipazione militare italiana a missioni internazionali approvato alla Camera, con la norma che consentirà agli “007” di avvalersi dei corpi speciali per le operazioni all’estero, non costituisca ancora un atto di guerra.5

In che modo la lotta al terrorismo sia un affare interessante per le aziende del comparto è scritto anche nella relazione al bilancio 2014 di Finmeccanica, portabandiera italiana della Difesa. Già in chiusura dello scorso esercizio, ad assalto a Charlie Hebdo concluso, si registrava che «la spesa per nuovi investimenti tenderà nei prossimi anni a crescere con un ritmo intorno al 2% annuo, grazie al lancio di programmi per lo sviluppo di nuovi sistemi di armamento e allo stanziamento di fondi per operazioni contro il terrorismo organizzato internazionale (circa 40 miliardi di euro tra il 2015 e il 2017)» […]L’azienda della Difesa è presente con dodici siti tra Arabia, Emirati arabi uniti e aree circostanti. Con gli Eau, in particolare, nel bilancio di sostenibilità Finmeccanica ricorda che c’è un interesse «testimoniato dalla più che quarantennale presenza sul territorio degli Eau, con i quali sono stati avviati importanti programmi di sviluppo che hanno condotto alla creazione di una sede ad Abu Dhabi, con funzione di coordinamento di tutte le attività nell’area. Finmeccanica intende rafforzare la partnership con gli Emirati Arabi Uniti mediante la definizione di ulteriori alleanze con il settore pubblico e privato e con importanti enti di ricerca governativi, ampliando la rete di collaborazione con i player di settore locali». A scanso di equivoci, proprio in questi giorni l’ad Mauro Moretti è tornato a chiarire che l’interesse è rivolto in tutte le direzioni: «Fornire armamenti a paesi come Arabia Saudita e Qatar che sono considerati controversi? Sono paesi che sono legittimati dagli Usa ed entrano a far parte del fronte Occidentale in questa vicenda»“.6 Continuando a far finta che un comune fronte Occidentale ancora esista.

… e di petrolio
L’euforia borsistica, come si diceva all’inizio, si è estesa anche all’altro grande protagonista dei drammi mediorientali presenti e passati: il petrolio.
Protagonista indiscusso dello scontro sia mondiale che locale tra potenze imperiali, ma anche tra potenze regionali con aspirazioni globali come ben dimostra il coinvolgimento nel dramma siriano di Arabia Saudita, Stati del Golfo e Turchia, più o meno, dallo stesso lato e Iran dall’altro.7 Petrolio che costituisce anche una delle fonti dirette di finanziamento dello stesso Stato islamico e uno, se non l’unico, dei principali motivi della sua azione nel Vicino Oriente e in Africa.

I proventi vengono per il 27 per cento dalla vendita di petrolio” sostiene in un articolo, sull’Espresso on line del 20 novembre, Gianluca Di Feo a proposito delle finanze dell’Is.8 Mentre Maurizio Ricci, in una più dettagliata analisi, sostiene che, pur essendo limitate le capacità estrattive dei miliziani, lo Stato islamico ha potuto contare sull’estrazione di 50.000 barili giornalieri nei territori occupati in Siria. nella zona orientale di Deir al-Zour, e altri 30.000 nella regione di Mosul.

Una parte di questo petrolio è avviato attraverso mezzi di fortuna, asini compresi, verso la Turchia dove, nel terminale petrolifero di Ceyhan può essere mescolato con il greggio ”proveniente da fonti legittime”. “Di fatto, l’Is può vendere il suo greggio, in condizioni di monopolio, nella regione che controlla, […]Gli esperti calcolano che questo flusso porti oggi l’equivalente di un milione, un milione e mezzo di dollari al giorno nelle casse del Califfato. In prospettiva, un tesoro di 4-500 milioni di dollari l’anno […]L’Is gestisce, però, solo in parte il traffico. I jihadisti hanno il controllo diretto dei giacimenti e quello, diretto o indiretto, di alcune delle maggiori raffinerie.
Ma il trasporto del greggio verso queste raffinerie e le molte piccole e piccolissime, quasi casalinghe, è assicurato da centinaia di operatori indipendenti. Chi ha potuto girare nelle aree controllate dall’Is dice che, fuori dai giacimenti, ci sono code fino a 6 chilometri di camion che aspettano di poter riempire le loro cisterne
”. 9

Solo recentemente, però, l’aviazione americana, forse seguendo l’esempio di quella russa, ha iniziato a bombardare tali raffinerie, spesso mobili, dislocate principalmente lungo il corso dell’Eufrate. Una delle fonti di finaziamento è stata dunque per lungo tempo operativa e, nonostante tutto, continua ad esserlo tutt’ora. Così come il Qatar, che è tra i maggiori indiziati per il sostegno allo Stato islamico (presente probabilmente nella lista dei quaranta paesi finaziatori dell’Isis cui ha recentemente accennato Putin), continua a godere di una fitta rete di relazioni in Europa e in Italia grazie a investimenti milionari nei settori chiave: dalla moda al turismo fino all’alimentare.

Pur essendo noto che la sua ostilità nei confronti del regime di Assad, secondo una ricostruzione del giornale britannico The Guardian, , è dovuta al fatto che nel 2009 “il presidente siriano Assad rifiutò la proposta dell’emirato di costruire un gasdotto che si sarebbe collegato all’Europa in concorrenza con il gasdotto della Russia di Vladimir Putin, alleato dei siriani.
Non solo: l’anno successivo Damasco strinse un accordo per un’altro gasdotto con l’Iran, sciita, che avrebbe permesso a quest’ultimo di rifornire l’Europa attraversando Siria e Iraq. […] Il Qatar possiede un terzo delle riserve mondiali di gas, ma ha un bisogno disperato di un mercato come l’Europa per venderle. E la Siria avrebbe ostacolato un possibile sbocco
”.10

Anche in questo caso, non vi è dubbio, tutti vendono a tutti e tutti sono disponibili a comperare. L’unico problema, a Est come a Ovest oppure per gli stati del Middle East, è costituito dal determinare, manu militari, chi gestirà e dove passerà il fiume di petrolio e quello di dollari che porta con sé.

Ora che la guerra sta accadendo ancora tarda a formarsi una coscienza anti-militarista. Per ora ancora niente “guerra alla guerra!“, mentre soltanto qualche debole proposizione di principio sembra costituire la risposta antagonista (?) alla carneficina che si avvicina. Basterà a dar vita ad un movimento unitario o sarà sopraffatta anch’essa dallo sciame sismico della paura e del perbenismo nazionalista ed identitario prodotto e alimentato dall’imperialismo?

N.B.
L’immagine scelta per accompagnare l’articolo costituiva il manifesto pubblicitario di un film francese sul terrorismo islamico nelle banlieu, la cui uscita nelle sale cinematografiche era stata programmata per il 18 novembre. A seguito dei fatti di Parigi l’uscita del film è stata rinviata a data da definire così come anche il poster sarà sostituito da altra immagine (anch’essa ancora da definire)


  1. Vincenzo Ruggiero, I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli 2013 e Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli 2015 (Quest’ultimo recensito su Carmillaonline il 28 ottobre 2015 https://www.carmillaonline.com/2015/10/28/lessenza-criminale-del-potere-v-ruggiero-perche-i-potenti-delinquono-recensione-ed-intervista-allautore/)  

  2. http://www.repubblica.it/economia/2015/11/21/news/armi_isis_guerra_borsa_emirati_arabi-127849393/?ref=HREC1-8  

  3. Carlo Pelanda, La guerra all’Isis può farci guadagnare, Libero, 22/11/2015, pag. 9  

  4. Si veda anche: https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/  

  5. Il decreto prevede quasi 59 milioni di euro fino al 31 dicembre prossimo per la missione in Afghanistan, 42.820.407 euro per la partecipazione ad Unifil in Libano e 64.987.552 euro per attività della coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica dell’Isis. Per quanto riguarda le missioni in Europa, il provvedimento destina, tra l’altro, 4.213.777 euro per la proroga della di Active Endeavour; 33.486.740 euro per la proroga di EUNAVFOR MED, 25.602.210 euro per le missioni nei Balcani, e quasi 70mila euro per la partecipazione di personale militare alla missione dell’Unione europea in Bosnia-Erzegovina, denominata EUFOR ALTHEA“ https://www.lastampa.it/2015/11/19/italia/politica/alla-camera-via-libera-per-la-proroga-delle-missioni-allestero-corpi-speciali-a-supporto-degli-qWwuz8EYSTXIIgVGurvb8I/pagina.html  

  6. Si veda ancora http://www.repubblica.it/economia/2015/11/21/news/armi_isis_guerra_borsa_emirati_arabi-127849393/?ref=HREC1-8  

  7. Si veda in proposito https://www.carmillaonline.com/?s=la+bomba+iraniana  

  8. http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/11/20/news/terrorismo-da-dove-vengono-i-soldi-del-califfo-1.240236?ref=HRBZ-1  

  9. http://www.repubblica.it/esteri/2015/11/19/news/bombe_sul_petrolio_dello_stato_islamico_la_guerra_di_usa_e_russia_al_tesoro_di_al_baghdadi-127679597/  

  10. http://www.repubblica.it/economia/2015/11/20/news/qatar_isis_italia-127717794/  

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