Euripide – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 27 Apr 2025 22:01:12 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E tutti danzarono in una festa crudele https://www.carmillaonline.com/2025/04/01/e-tutti-danzarono-in-una-festa-crudele/ Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87471 di Paolo Lago

Alessandro Bertante, E tutti danzarono, La nave di Teseo, Milano, 2025, pp. 151, euro 17,00.

Protagonista e io narrante di questo nuovo romanzo di Alessandro Bertante è Ivan Boscolo, un altro personaggio inserito in una dimensione picaresca, un nuovo cavaliere errante urbano, testimone di un’età votata allo sfacelo e alla distruzione. Allo stesso modo di altri personaggi messi in scena dall’autore nei suoi precedenti romanzi, Ivan compie degli spostamenti all’interno della città di Milano come un eroe epico sul campo di battaglia, come, appunto, un cavaliere che deve affrontare mille pericoli prima di giungere a destinazione. Nel descrivere [...]]]> di Paolo Lago

Alessandro Bertante, E tutti danzarono, La nave di Teseo, Milano, 2025, pp. 151, euro 17,00.

Protagonista e io narrante di questo nuovo romanzo di Alessandro Bertante è Ivan Boscolo, un altro personaggio inserito in una dimensione picaresca, un nuovo cavaliere errante urbano, testimone di un’età votata allo sfacelo e alla distruzione. Allo stesso modo di altri personaggi messi in scena dall’autore nei suoi precedenti romanzi, Ivan compie degli spostamenti all’interno della città di Milano come un eroe epico sul campo di battaglia, come, appunto, un cavaliere che deve affrontare mille pericoli prima di giungere a destinazione. Nel descrivere le sue gesta, la scrittura di Bertante si impenna nella direzione di una solennità sintattica cadenzata dalle ripetizioni e dalle anafore, dalla forma elenco che sembra ricalcare i cataloghi degli eroi dell’epica classica, da una sapiente lentezza del periodo in cui brillano spesso termini aulici e ricercati. Pensiamo soltanto, ad esempio, al brano seguente in cui, cadenzato dalla ripetizione di «Abbandonatemi qui» che sembra riecheggiare il «lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata» di Natale di Giuseppe Ungaretti, appare un conflitto quasi epico tra il presente ed il passato, inevitabilmente rivestito di un’aura mitica:

Abbandonatemi qui, su questa sedia di plastica puzzolente, testimone di questo infuocato epilogo che non ricorderà nessuno. Abbandonatemi qui, cullato dai miei ricordi d’infanzia, nel mio quartiere tradito e sfigurato. Abbandonatemi qui, non cercatemi più, il poco tempo che mi rimane a disposizione non posso sprecarlo a cercare di giustificare ogni cosa insensata che succede nel mondo. Sono finiti i giorni del sangue, della gloria, dell’odio e di ogni desiderio assoluto, delle voraci moltitudini in marcia e dei sogni che non si avverano mai. Navi di acciaio a solcare gli oceani, cattedrali a sfiorare il cielo per sfidarne la potenza, areoplani ipersonici, viadotti giganteschi che coronano le montagne, città splendenti in mezzo al deserto, centinaia di migliaia di persone in piazza infatuati dal sogno della rivoluzione, eserciti corazzati, promesse di civilizzazione, vile brutalità coloniale, vigore sessuale, sopraffazione, ambizione, conoscenza, folle pretesa di avere tutto (p. 23).

D’altra parte, E tutti danzarono appare strettamente legato, in un rapporto di intertestualità, ad altri romanzi dell’autore: non rovineremo certo il piacere della scoperta in un lettore che non conosce Bertante, anzi aumenteremo la curiosità di quello che già conosce l’autore, a dire che Ivan Boscolo non è altri che il figlio di Alberto Boscolo, il protagonista di Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR (2022), uscito dalla lotta armata nell’autunno del 1973 e che non venne mai identificato. Ivan è un docente universitario di letteratura a Milano ed ha come collega un altro personaggio molto conosciuto dai lettori di Bertante: Alessio Slaviero. Ebbene, ritroviamo Alessio giovane come protagonista di Estate crudele (2016) e poco più anziano in Nina dei lupi (uscito nel 2011 per Marsilio, poi rieditato da nottetempo nel 2019 e da La Nave di Teseo nel 2023, da cui è stato tratto nel 2023 il film di Antonio Pisu). Anzi, le vicende narrate in E tutti danzarono precedono immediatamente quelle di Nina dei lupi.

In un giugno milanese caratterizzato da temperature altissime, in un’era (la nostra) di riscaldamento globale già connotata come distopica («Come era possibile che nessuno ammettesse, nemmeno le persone intelligenti e di buon senso, che la lotta politica al capitalismo, alla quale avevamo creduto più o meno sinceramente per decenni, si fosse trasformata nostro malgrado in una semplicissima quanto terribile urgenza ecologica e che il modello economico neoliberista ci avrebbe portato all’estinzione qualche secolo prima del previsto?», p. 25), segnata dalla crisi e dall’emergenza ecologica, il sindaco decide di organizzare e patrocinare una festa danzante nei parchi cittadini che richiama giovani da tutta Italia e da tutta Europa, alla quale partecipa anche Micol, la figlia adolescente di Ivan. In preda a una specie di trance, i giovani non riusciranno a smettere di ballare: di fronte a questo fenomeno di festa collettiva, divenuta forzata, il potere non trova niente di meglio che rispondere con la violenza, con cariche della polizia e dell’esercito come di fronte a un atto violento. La festa, perciò, incrina il meccanismo del potere, lo manda in tilt; d’altronde, si potrebbe anche osservare – come suggerisce l’io narrante Boscolo – che sia generata da un forte disagio dei giovani («una sorta di mania parossistica generata dalle paure e dalla fragilità emotiva di questi anni», p. 124), i «nostri figli» che «abbiamo lasciati soli» (p. 136). Di fronte ai cortei delle nuove Baccanti che invadono la città, il potere non trova di meglio che rispondere con il carcere e la violenza, come nella tragedia di Euripide.

Però, è bene osservare che quella narrata da Bertante si presenta come una «festa crudele», nell’accezione datale da Furio Jesi. Quando non è più possibile la vera festa, quando ormai il mito è inesorabilmente caduto e «tecnicizzato»1, si crea solo un simulacro di essa. Come afferma Boscolo, ciò che sta avvenendo in città ricorda «i culti misterici e orientali diffusi durante il crepuscolo dell’Impero Romano» ma ormai mancava «il mistero, il fascino dell’iniziazione, la volontà aristocratica della distinzione» (p. 32). Anche Slaviero, esperto di miti, pensa che la trance collettiva avvenuta nella contemporanea era tecnicizzata, emerga da «qualcosa di più antico» (p. 72), da un sostrato dionisiaco e pagano. L’intera narrazione di E tutti danzarono è pervasa dall’immagine del ritorno di un universo mitico e magico che è divenuto ormai incomprensibile («una psicosi irrazionale, governata da un linguaggio magico allegorico per noi incomprensibile da millenni, riemerso prepotente in questa estate crudele, sfidando ogni legge della logica», p. 112). Ciò che era autentico e genuino ritorna nella sua veste «tecnicizzata» portando con sé soltanto un’immagine di morte. La festa allora si trasforma in tragedia, in violenta mattanza ed è, come già accennato, una «festa crudele» («c’era sangue ovunque, ma non si sentiva un lamento», p. 127). Secondo Jesi, fra le feste crudeli raccontate dalla letteratura c’è il terremoto di Lisbona nell’evocazione di Voltaire, la peste di Milano e l’insurrezione della plebe in cui si ritrova Renzo nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni; potremmo aggiungere allora anche la trance e la mattanza narrate da Bertante. Come scrive Furio Jesi,

quando la festa non è più possibile, poiché non esistono più i presupposti sociali e culturali per un’esperienza della collettività che “nel più profondo” sia “più affine alla giocondità che alla malinconia”, la memoria della festa antica e perduta assume nel rimpianto uno spicco così netto da attrarre nell’ambito della “festa” in negativo, della forma in cavo, ogni esperienza che sia collettiva, dolorosa, e che in qualche misura corrisponda – appunto in negativo – alle caratteristiche della vera festa2.

Nella devastante «tecnicizzazione» che ha pervaso la nostra società, il mito non può che riemergere in una forma falsificata, come lo squallido simulacro di qualcosa che è ormai perduto. Il mondo descritto da Bertante è sull’orlo di un collasso e sta caracollando insieme alla sua ebbrezza tecnologica indotta dal benessere del capitale. Eppure, il protagonista Ivan Boscolo, come Alessio Slaviero e gli altri personaggi messi in scena dall’autore negli altri suoi romanzi, pure a un passo dall’inferno, nella disperata ricerca senza fine della figlia Micol, sembra non perdere mai la sua capacità mitopoietica, il suo sguardo incantatore ed ‘epicizzante’ sulla realtà. Uno sguardo che si concretizza adesso nella scrittura di E tutti danzarono che diviene essa stessa evocatrice di mondi perduti e incantatrice di questa nostra realtà in bilico sul disastro.


  1. cfr. F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino, 1968, p. 36. 

  2. Id., Conoscibilità della festa, in id., Il tempo della festa, a cura di A. Cavalletti, nottetempo, Milano, 2023, p. 66. 

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Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

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La stagione di Taltibio https://www.carmillaonline.com/2018/04/07/la-stagione-di-taltibio/ Sat, 07 Apr 2018 21:24:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44857 di Franco Pezzini

Al trovarsi davanti il termine toroja (to-ro-ja, PY Ep 705), possiamo immaginare che i decifratori della lineare B – la lingua micenea, quella in sostanza degli eroi omerici – saltassero sulla sedia: se non è affatto scontato che il riferimento geografico indichi ciò che a noi richiama, la traduzione “donna troiana” dà ancora di che emozionarsi. Lasciamo perdere per ora la questione se si tratti di “quella” Troia; e non entriamo neppure nel vivace dibattito che contrappone i fautori di una qualche storicità – sia pur poeticamente mediata – degli [...]]]> di Franco Pezzini

Al trovarsi davanti il termine toroja (to-ro-ja, PY Ep 705), possiamo immaginare che i decifratori della lineare B – la lingua micenea, quella in sostanza degli eroi omerici – saltassero sulla sedia: se non è affatto scontato che il riferimento geografico indichi ciò che a noi richiama, la traduzione “donna troiana” dà ancora di che emozionarsi. Lasciamo perdere per ora la questione se si tratti di “quella” Troia; e non entriamo neppure nel vivace dibattito che contrappone i fautori di una qualche storicità – sia pur poeticamente mediata – degli eventi narrati da Omero ai portavoce di una lettura ben altrimenti critica. Ma è un fatto che quel “come se”, con la riflessione sapienziale che si porta dietro, riguarda uno degli architravi del pensiero occidentale: non solo per le categorie fondamentali dell’assedio e del ritorno (sottolineate da Franco Ferrucci nel suo bel libro del 1974) che ormai fanno inespropriabilmente parte del nostro modo di leggere la realtà, ma perché a un livello anche più ampio e generale quella saga ha fornito materiale di riflessione per secoli. Come – restando al termine citato – in quelle ‘Troiane’ di Euripide che continuano a risuonare di salutare provocazione.

Un certo antimilitarismo emerge entro un po’ tutta l’opera del drammaturgo di Salamina, ma nel caso delle ‘Troiane’ (415 a.C.) il nesso con l’attualità è particolarmente pungente. La trama della tragedia è nota: caduta Troia, in un non-luogo fuori dalle mura seguiamo le vicende delle donne prigioniere degli Achei, in attesa di diventare serve o concubine – comunque schiave e deportate. Quattro donne spiccano nel gruppo, cioè Ecuba, la vecchia regina che ha visto morire massacrato su un altare il marito Priamo, dopo la progressiva strage dei figli; Cassandra la profetessa, che già presente cosa si profili all’orizzonte – per loro ma anche per i nuovi padroni; Andromaca vedova di Ettore, madre di quel piccolo Astianatte presto gettato giù dalle mura per estinguere la casa regnante; e infine Elena la Bellissima, causa almeno immediata della guerra. Ma se il contesto è quello (alla grossa) del 1200 a.C., la situazione messa in scena da Euripide richiama eventi assai più vicini. Infatti solo poco tempo prima (416 o 415 a.C.) Atene aveva deciso l’aggressione – con conseguente sterminio degli uomini e vendita in schiavitù di donne e bambini – all’isola di Melo, rea semplicemente di aver rifiutato di aderire alla lega delio-attica (a guida ateniese, ovviamente) ma disposta alla neutralità. Il contesto della guerra del Peloponneso non permetteva minuetti, ma quell’azione dal fetore di ragion di stato (l’inesorabilità della superpotenza, la sorte di chi non si allinea eccetera) aveva suscitato turbamento in città: ed Euripide, con la sua sincerità al vetriolo, porta il tutto davanti agli occhi dei concittadini – compresi quelli che materialmente hanno compiuto la strage e magari incassato le promozioni del caso. Rendiamoci conto, e pensiamo a qualche evento più vicino: con le ovvie differenze, un po’ come se i responsabili della macelleria alla Diaz andassero trulli trulli a vedersi qualche film d’azione e trovassero sullo schermo le proprie facce – più o meno mascherate o riconoscibili – con un giudizio nettissimo su quanto hanno compiuto.

Attraverso l’immagine delle donne delle città omerica si rende così voce alle schiave melie dei cortili delle case di Atene e di altre poleis dov’erano state vendute, ammutolite dallo shock e dagli stupri; ma insieme – e qui sta il valore universale dell’opera – a tutte le altre di sorte analoga, coro silenzioso e innumerevole nei secoli. I secoli prima di Euripide, ma ovviamente anche tutti i successivi: basti pensare alla rilettura di Jean-Paul Sartre (1964), con un occhio alla Guerra d’Algeria, ai volti moderni dell’imperialismo e a un’atomica che pare la prova provata che la guerra è sempre una sconfitta per tutti. E anche molto più avanti e nell’oggi, fino alle Troiane di quella guerra non ufficiale, “strisciante, clandestina, una guerra contro coloro che cercano di raggiungere i confini d’Europa per esercitare il diritto d’asilo. Contro persone che fuggono da guerre, da persecuzioni – politiche, religiose, razziali, anche di genere –, per cercare di raggiungere una terra dove vivere dignitosamente” (Luca Rastello, presentazione di La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, 2010 ma situazione non sostanzialmente cambiata): dove i soldati achei di turno sono per esempio i gendarmi di certi campi libici per migranti – o, con le differenze del caso, di certe località delle Alpi, teatro di drammi recenti – e i loro solerti colleghi/collaboratori di nazioni tanto sollecite sui diritti umani. Euripide sa bene di giocare con materiale scomodo: ed è per noi non semplicissimo entrare nella testa degli Ateniesi che quell’anno alle grandi Dionisie gli attribuiscono il secondo premio. Forse a fare i disinvolti e mostrare di non riconoscersi.

Una libera, splendida revisione della tragedia che attinge all’opera euripidea, alle riletture di Seneca e appunto di Sartre, ma con provocazioni da altri testi (passi di Mariangela Gualtieri, suggestioni di discorsi presidenziali americani, alcune parti scritte apposta), è stata messa in scena di recente a Torino: si tratta dello spettacolo Ossa, curato – adattamento, regia, in parte le scene – da Susanna Gianandrea e organizzato da Artisti Associati Paolo Trenta. Con passione, competenza e un’asciuttezza che valorizza la drammaticità, con originalità (ma non bizzarria) di soluzioni, la regista ha saputo sensibilmente evidenziare una serie di snodi per una lettura odierna. Non è entrata nei dettagli dei dibattiti dell’oggi, ma ha lasciato aperte le suggestioni nella loro latitudine ulcerante. Alcuni televisori mostrano strappi della vicenda – la distruzione della città, i massacri, le decisioni dei vincitori – in chiave di sobri, veloci servizi da telegiornale; un cumulo di panni sullo sfondo richiama gli abiti tolti a esseri umani lasciati nudi (fisicamente o simbolicamente) e le ossa stesse del titolo; le donne entrano in scena e progressivamente dismettono per lo stesso motivo mezze maschere da teschio; l’astrazione permette di lasciare trasparire libera l’eco da tutte le guerre della storia.

Quel che colpisce ed emoziona già a un primissimo livello è una concretezza (si passi il termine) anche molto fisica che gli attori sanno donare alle parti.

Partiamo dai due volti divini che nell’immaginario ateniese risultano in paradigmatica opposizione – da sempre, fin dal conflitto per assicurarsi il patronato sulla città –, cioè Atena e Poseidone. Ottimamente resi da Serena Inturri e Roberto Briatta (come due ingombranti candidati alle presidenziali americane in rapporto ai problemi dei paesi dipendenti) spiccano sulle loro tribune, concordando dall’inizio che quella dei Greci profanatori di templi sarà una non-vittoria. E quelle tribune – semplici parallelepipedi scuri – diverranno nella rappresentazione giacigli, sedili, strutture temporanee del campo di prigionia, come a ricordare continuamente tale profezia.

A sua volta di presenza fisica impressionante proprio nella sua fragilità, nella dignità pacata e dolente, controllata ma nel modo spontaneo di un’intera esistenza, è l’Ecuba di Irene Laganà (bravissima): e che proprio in quel trovarsi spezzata ma senza lacrime, in quell’aria provata che mantiene decoro e nettezza di parola giganteggia sugli energumeni in mimetica.

Davvero straordinaria – e ancora una volta estremamente fisica, fin nel suo finale trasporto fuori scena, rigida in un delirio di rabbiosa soddisfazione, “Sono la sposa del Sole…” – è la Cassandra di Maria Teresa Cavalli, che sa di divenire causa di morte e rovina per il regno più importante della Grecia. Prigioniera-amante di Agamennone, sarà la classica goccia che fa traboccare il vaso dell’ira della regina-moglie Clitemnestra, e dunque l’innesco per la mattanza al cuore della superpotenza nemica.

Serena Palma riesce a sua volta a reggere con intensità e sobria autenticità, senza quelle sbavature di melodramma che il contesto estremo poteva in teoria minacciare, la grande parte di Andromaca e in particolare la scena tanto difficile della sottrazione del figlio.

Quanto alla scintillante Elena di Delia Campia, sa trattenere tutta l’ambiguità dell’antica eroina: destinata certo – emblematico il sorriso torbido al capitolare di Menelao (Roberto Carelli) – a uscire dalla situazione meglio delle compagne, con quanto di equivoco ciò comporti, ma insieme irriducibile ai nostri facili giudizi. Del resto, come spiega a propria difesa, lei era una semplice pedina nel pacchetto della famosa gara di bellezza tra le tre dee, quando Paride aveva attribuito il frutto ad Afrodite, che gli prometteva appunto l’amore della donna più bella del mondo. Ma – continua – se il principe avesse scelto diversamente, premiando per esempio la dea-regina Era, Troia sarebbe diventata potentissima e tutta la Grecia sarebbe finita sotto il tallone dell’Asia: davvero Menelao & Co. avrebbero voluto questo? Un’ipotesi dal sapore di minacciosa ucronia per un pubblico ateniese i cui nonni se l’erano vista brutta coi Persiani… Ovvio, il personaggio resta molto ambiguo, ma è impossibile non ascrivere anche Elena a una situazione generale che vede la donna comunque prigioniera.

Fin qui una plasticità delle figure in scena, una fisicità con cui idealmente si contrappongono all’indefinitezza di uno spazio, di una sorte. Ma c’è anche una dimensione più sfuggente: qualcosa che lo spettatore antico coglieva più facilmente, noi dobbiamo invece sforzarci di ricostruire e in fondo qui può emergere per suggestioni simboliche. Ecuba, Cassandra, Andromaca ed Elena trattengono infatti connotazioni – dimensioni, ombre più lunghe gettate dalle loro figure – tali da rendere ancora più spiazzante il dramma.

Ecuba non è semplicemente una regina ma la regina per antonomasia: Hekábē è il nome della Grande Madre frigia, la madre degli dei Kubaba/Cibele (per questo Ecuba ha tanti figli?) e potrebbe richiamare il nome stesso di Ecate, la regina dei morti (cui è associata in vari miti tramite il binomio mutazione in cagna & morte legato alla sorte dell’ex-sovrana). Se su un’epica micenea possiamo solo azzardare ipotesi, una proto-Iliade potrebbe aver visto metaforizzare in linguaggio mitico-religioso lo scontro tra popoli come battaglia dei loro dei: e forse la protettrice della città vinta era proprio una dea-regina Ecabe. Ma anche spiegando il nome diversamente (per esempio Hekábē come semplice titolo divino di ogni regina del luogo, a postularne una pluralità e chiarire così la presenza di genealogie stranamente divergenti su una figura tanto importante) resta il fatto di una dignità archetipica della figura. Vederla avvilita e prigioniera è insomma qualcosa di molto più forte di quanto superficialmente percepibile: in scena è una crisi generale, di paradigmi.

A sua volta Cassandra non è semplicemente una profetessa ma una posseduta dal dio, forse il massimo dio di Troia: quei discorsi che Atena e Poseidone intrecciano all’inizio – dati certi presupposti, i vincitori finiscono malissimo – Cassandra lo rende oggetto di rivelazione tra le prigioniere. Se consideriamo che nell’ambito del collasso dell’età del bronzo ad abbattere le città degli eroi omerici furono con ogni probabilità anche lotte intestine, guerre civili, convulsioni sociali, ci rendiamo conto di quale sia il tipo d’innesco esplosivo di cui Cassandra stia parlando. I vincitori conosceranno la guerra nelle loro famiglie, nei loro rapporti di coppia: fuor di metafora, chi permette certi orrori anche nell’oggi la divisione se la troverà in casa a devastargli la vita, non capirà, ma avrebbe solo dovuto ascoltare… Ridurre Cassandra a quella che sa il futuro e non le credono è dunque banalizzante: e la prigionia avvilita di una figura come questa rende ancora più esplosiva la rivalsa che annuncia.

Andromaca. Lei non è – almeno per quanto possiamo sapere – figura di una dea, né posseduta da qualche dio. Eppure assurge ad archetipo: la sua struggente scena di addio da Ettore nell’Iliade potrebbe costituire (si è ipotizzato) un testo autonomo, a un certo cucito lì da un Omero. Il fatto è che Andromaca è – per antonomasia – la sposa del guerriero: la sposa del soldato, di ogni soldato del mondo, quella che vede partire il compagno e resta con il cuore in gola ad aspettare. Trovarla tra le prigioniere è un memento non da poco al pubblico ateniese: se qualcosa non va come previsto, se la guerra (del Peloponneso o qualunque altra) finisce male quello diventa il ritratto di tua moglie. Vederla prigioniera in quel campo è insomma particolarmente scioccante.

E infine Elena: per cui torniamo alle dee, perché l’ambigua, equivoca, pazzesca creatura per il cui fantasma (in tutti i sensi possibili) la gente s’è ammazzata per dieci anni mantiene ben chiaro uno statuto superumano. Feltrinelli ha appena pubblicato un romanzo di impressionante, persino imbarazzante bellezza scritto da un autore molto giovane, La Splendente di Cesare Sinatti, che ha vinto il Premio Calvino 2016 e che aiuta a capire quanto Elena abbia ancora da dirci nella sua spiazzante numinosità. Non si tratta insomma soltanto – diciamo così – della prigioniera che in qualche modo se la sfanga: Elena è la dimostrazione vivente della fragilità dei vincitori, del loro scarso controllo di fronte alle emozioni e alla stessa bellezza.

E insomma eccole, queste quattro donne infagottate tra le altre prigioniere. Come recita la presentazione dello spettacolo, “Una madre, una figlia, una moglie e un’adultera si trovano insieme, prive di una qualsiasi speranza e denudate dei loro abiti e del loro ruolo sociale, obbligate dal nemico ad assoggettarsi ad altre culture e religioni. La loro unica arma è la parola, strumento di un’urgenza di raccontare le proprie storie alla ricerca di una legittimazione in quanto persone”. Una parola che non permetterà loro individualmente di salvarsi (tutte, lo sappiamo, avranno sorti più o meno tristi – anche Elena, alla fine linciata delle vedove dei morti sotto Troia) ma che testimonia l’irriducibilità di ogni singola voce a quel cumulo di panni morti, protesta le loro ragioni a una pubblica coscienza e le traghetta come provocazioni nel tempo. Intercettare quelle voci, farle risuonare ancora, strapparle allo spazio del non-logos – della chiacchiera privata o pubblica o semplicemente della tacita rimozione di quei non-luoghi di prigionieri e profughi – è oggi importante quanto nell’Atene di Euripide.

E poi ci sono gli altri, i vincitori. Vediamo in scena il vilain Ulisse (Gabriele Valente) portatore della ragion di stato, il citato Menelao diviso tra brutalità e fragilità, alcuni silenziosi soldati greci (Gian Piero Craveri e Mariangelo Filo Rubini), nelle divise – non è strano – di eserciti moderni. Ma soprattutto c’è Taltibio (Lorenzo Audisio, molto efficace), araldo di Agamennone e “impiegato della guerra”: gestore nervoso, preoccupato e solerte del fastidio rappresentato dagli sconfitti. Neppure lui ha ancora capito quel che incombe: cioè l’esplosione di un mondo, delle solidarietà comunitarie, familiari e generazionali, fin dal tessuto concreto delle singole vite. Chi ha vinto male è destinato a perdere tutto.

È inevitabile domandarsi chi sia oggi Taltibio, quali ne siano i volti. Non ha necessariamente una divisa addosso, perché certi accordi internazionali sono firmati da civili o presunti tali; e può notarsi persino un certo sgomitare per entrare in quella parte, sedere a quei tavoli, garantire – a dispetto, magari, di strombazzate proteste di cambiamenti – una sorda, assoluta e criminosa continuità. Nel panorama grigio della stagione in cui viviamo chi è Taltibio? Chiudiamo con questa domanda e teniamocela stretta in un esame di coscienza, perché può aiutare a non cadere in buonismi da salotto.

Il cast di Ossa, tutti davvero molto bravi, comprende poi anche Anco Orsini (Enea), Umberto Biagini (un Anchise commovente), Arianna Vagnoni, Antonella De Bonis e Rosy Trischitta (Troiane/reporter) e Chiara Talarico, il cui ruolo mitico di Danaide danzatrice finisce con l’evocare una quinta principessa assente dalla scene, Polissena massacrata sulla tomba di Achille. Immagine di tutte le assenti dalle ‘Troiane’ di tutte le epoche perché, semplicemente, sono state cancellate: sta a noi cogliere anche il loro sussurro.

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