Eugenio Montale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “In un tedio / malcerto il certo tuo fuoco”: su “Maria Malva” di Emiliano Dominici https://www.carmillaonline.com/2024/04/28/in-un-tedio-malcerto-il-certo-tuo-fuoco-su-maria-malva-di-emiliano-dominici/ Sun, 28 Apr 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82323 di Paolo Lago

Emiliano Dominici, Maria Malva. Brucia il giorno per me, effequ, Firenze, 2024, pp. 304, euro 18,00.

Per parlare di Maria Malva, romanzo di Emiliano Dominici recentemente uscito per effequ, vorrei partire da questi versi di Eugenio Montale tratti da Le occasioni: “Pareva facile giuoco / mutare in nulla lo spazio / che m’era aperto, in un tedio / malcerto il certo tuo fuoco”1, ricordando anche la quartina finale dello stesso componimento: “La vita che dà barlumi / è quella che sola [...]]]> di Paolo Lago

Emiliano Dominici, Maria Malva. Brucia il giorno per me, effequ, Firenze, 2024, pp. 304, euro 18,00.

Per parlare di Maria Malva, romanzo di Emiliano Dominici recentemente uscito per effequ, vorrei partire da questi versi di Eugenio Montale tratti da Le occasioni: “Pareva facile giuoco / mutare in nulla lo spazio / che m’era aperto, in un tedio / malcerto il certo tuo fuoco”1, ricordando anche la quartina finale dello stesso componimento: “La vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi. / A lei ti sporgi da questa / finestra che non s’illumina”2. Il tedio, nella poesia di Montale, distende le sue nere ali sul ripetersi quotidiano dell’esistenza quasi come l’“Ennui” di Baudelaire, la “Noia” che aggredisce qualsiasi angolo della vita umana. I luoghi e gli ambienti di Maria Malva sono pervasi dappertutto da un tedio molto simile a quello descritto dal poeta ligure. Dominici, infatti, è davvero un grande dipintore di ambienti e di atmosfere, e sa muovere alla perfezione i suoi personaggi all’interno degli spazi che crea, come pedine sulla scacchiera tediosa e inconsistente della vita. Tutto scorre, tutto passa segnato nel profondo da un inarrestabile taedium vitae: il personaggio di Maria Malva appare come il fulcro perfetto di questo avvolgente spleen, una figura che si lascia trascinare dalla vita come da una corrente che non permette via d’uscita, che non permette di nuotargli contro. Lo spazio è nulla e “il certo tuo fuoco”, nella narrazione, diventa anch’esso un “tedio” perché è generato da quel “gesto sconvolgente” (come leggiamo nella sinossi del libro e sul quale non voglio rivelare di più) compiuto dal personaggio.

Maria Malva e gli altri personaggi si muovono su uno sfondo quasi inconsistente, quasi metafisico si potrebbe azzardare, laddove l’indeterminatezza dei luoghi conferisce loro una maggiore autenticità, spazi perduti nel lancinante percorso di un quotidiano meravigliosamente descritto dall’autore. Ma il luogo dove viene compiuto il gesto, un’anonima piazzetta con gli alberi e con una fontana di un’altrettanto anonima città, inchioderà a sé tutti i personaggi presenti. Perché, in fin dei conti, lo stesso personaggio protagonista – in una crudele metamorfosi – si muterà in luogo, in spazio, ed è proprio lì che gli altri convergeranno per cercare di risolvere l’angoscia straziante che si è insinuata in loro. I luoghi e gli ambienti sono incapsulati dalla penna dello scrittore all’interno di un “film dell’impossibile”, per utilizzare un’espressione coniata da Carlo Cassola per mezzo della quale lo scrittore grossetano si riferisce alla volontà di plasmare le sue storie come se animasse una stampa, un dipinto, e facesse muovere tutti i suoi personaggi3.

Strade e piazze anonime, senza volto, si srotolano come un tappeto di fronte all’incedere nomadico della protagonista che sembra quasi cercare di fondersi con gli ambienti in un totale anonimato e che cammina di lato alla vita con una grazia leggera come la neve. Assieme alle strade e alle piazze incontriamo negozi, bar, cinema altrettanto anonimi e altrettanto indimenticabili e, soprattutto, interni di appartamenti, sia quelli affittati dalla protagonista nei suoi spostamenti che quelli sfitti dove Maria si incontra con un ambiguo agente immobiliare. Le case e gli spazi domestici sembrano raccontare le proprie vite, inserite anch’esse in una spropositata macina, e lo fanno dopo aver perso qualsiasi parvenza di calore domestico. Non troveremo mai interni accoglienti nel romanzo, non troveremo mai spazi veramente confortevoli: essi appaiono come lo sfondo metafisico e nebbioso nei quali si rincorre l’angoscia dei personaggi. Sfondo metafisico sì, ma anche capace di lasciare una traccia indelebile nel lettore: più sono anonimi e incerti, funereamente indefiniti, più essi sono indimenticabili, più la loro descrizione ci avviluppa e ce li rende estremamente interessanti.

Su uno sfondo di questo tipo, la narrazione di Maria Malva si muove come una detective story, come una sottile indagine dai tratti noir e polizieschi che, per certi aspetti, potrebbe ricordare il “pasticciaccio” gaddiano. Una narrazione che trova il proprio baricentro nei vari personaggi che affiancano la protagonista e che saranno segnati indelebilmente dal gesto compiuto da Maria Malva: l’agente immobiliare Giorgio e la cartolaia Gemma, il solitario Martelli, il giovane youtuber Paolo, la colf Milagros e la bambina Anna, affetta da disturbi comportamentali, nonché i genitori di quest’ultima. Fra questi personaggi sembra svettare appunto il giovane studente youtuber che, trovandosi di fronte alla protagonista nel momento in cui compie il suo gesto disperato, invece di soccorrerla non trova di meglio che riprenderla con un cellulare. Il personaggio appare infatti completamente fagocitato dalla contemporanea digitalizzazione dell’esistenza nonché dall’iconizzazione iperbolica della realtà: qualsiasi situazione (sia essa costituita da un paesaggio o da una o più persone che interagiscono), invece che essere vissuta e conosciuta veramente, sembra essere fatta soltanto per essere fotografata o ripresa ed essere esposta online, in una sorta di esibizionistica ‘turisticizzazione’ esasperata della quotidianità. Come se riprendesse un concerto, uno spettacolo, una partita o un piatto servito al ristorante, Paolo sembra talmente inserito nel proprio universo digitale da riprendere fino in fondo la protagonista fino all’esito fatale. Sembrerebbe quasi una rilettura digitale del personaggio ‘moderno’ e primo-novecentesco di “Serafino Gubbio operatore”, appartenente all’omonimo romanzo di Luigi Pirandello (1925); mentre, durante le riprese di un film, si gira una scena con una tigre, un attore uccide un’attrice con un colpo di pistola e viene sbranato dalla tigre: Serafino Gubbio rimane impassibile e continua a effettuare le sue riprese come se niente fosse. Se il romanzo pirandelliano, nel 1925, vuole denunciare la condizione di ‘uomo-macchina’ del personaggio, un essere umano meccanizzato e disumanizzato, si potrebbe pensare che nel 2024 il personaggio di Paolo, che continua impassibile le sue riprese, rappresenti invece una sorta di uomo digitale e digitalizzato.

Sarà un percorso affascinante e sorprendente seguire ognuno di questi personaggi e seguire anche il flashback che occupa il capitolo centrale, dedicato al dipanarsi della vita della protagonista attraverso le sue vicissitudini. Un’immersione in una realtà languida e realistica, metafisica e come persa in una placida nebbia; sarà un piacere allora attraversare le strade e le piazze di indefinite città insieme ai personaggi e trovarsi ad un angolo imprecisato, magari vicino al cinema Diabolique, un luogo evocativo e dal bellissimo nome, che sa di noir e di fumetto, di anni Sessanta e di cultura pop, e lasciarsi completamente fagocitare.


  1. E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano, 1990, p. 111. 

  2. Ibid

  3. Cfr. C. Cassola, Il film dell’impossibile, in Id., La visita, Einaudi, Torino, 1982, p. 7 e seguenti. 

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Un incubo ad alta tecnologia https://www.carmillaonline.com/2023/07/11/un-incubo-ad-alta-tecnologia/ Tue, 11 Jul 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78209 di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene [...]]]> di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene di montaggio si assemblano appunto i “ciberneti”, automi che percepiscono ed elaborano informazioni che arrivano dall’ambiente. La parola di Terzago riesce a trasferire sulla pagina una dimensione di disumanizzazione senza precedenti: ogni singolo fonema scorre freddo, incastonato perfettamente in quello che segue e in quello che precede, come se formalmente, appunto, intendesse ricreare l’andamento di una catena di montaggio del futuro. Lo stesso operaio che deve seguire tutte le operazioni, e che spesso prende la parola, sembra pervaso della medesima disumanizzazione che grava ogni dove, su ogni spazio che lo circonda, in una dimensione metafisica ma continuamente sofferente a causa di uno spento dolore che sembra covare silenzioso sotto uno strato di cenere.

La parola di Ciberneti appare quindi meccanizzata, inserita nella macina polverizzante di un nuovo capitalismo che, come un Frankenstein ipermoderno (“surmoderno”, direbbe Marc Augé), diventa il creatore di tecnologici automi probabilmente destinati a trasformarsi a loro volta in forza lavoro, come i “replicanti” di Blade Runner di Ridley Scott, il cui assemblatore, l’ingegnere genetico J. F. Sebastian, conduce anch’egli una vita immiserita nella solitudine e nella disumanizzazione. Si potrebbe pensare a una costruzione di una poesia ‘operaia’ antitetica a quella allestita da Joseph Ponthus in Alla linea (Á la ligne. Feuillets d’usine, 2019) in cui emerge invece una personale dimensione corporea che coinvolge il lettore nella propria sofferenza fisica e psicologica. Se Alla linea è il lascito di un corpo sofferente che si rivolge a noi nella sua dimensione profondamente umana, Ciberneti è il resoconto macchinico di un perfetto congegno a orologeria che sembra essere riuscito ad annientare qualsiasi dimensione umana, rendendo simile agli automi gli stessi lavoratori impegnati nell’assemblaggio. Ciberneti racconta con grande maestria la glaciale freddezza del congegno del capitale: ogni parola si muove come una macchina e spesso le parole usate appartengono ad un gergo tecnico, come ad esempio “scialitico” o “derma”. Anche le parentesi che incontriamo nel testo assumono una forma meccanizzata e geometrizzata: nella poesia di Ciberneti non esistono infatti parentesi tonde ma solo quadre. Se la parentesi quadra può rimandare ad un altro contesto ‘tecnico’ come quello della filologia, si può pensare piuttosto che esse rappresentino l’avvenuta ‘robotizzazione’ delle parentesi tonde. Sembra che nel mondo di Ciberneti non ci sia posto per le linee curve e sinuose, ma solo per quelle rigide e geometriche.

In un mondo siffatto, gli ultimi lembi di natura rimasta non possono che spaventare e sconvolgere ma anche offrire una dimensione più umana e ‘confortevole’; così leggiamo in Il bisogno di energizzare il sistema albero: “Distraggono e spaventano, le foglie. Il verde inatteso: / distraggono dall’entità degli stipendi, dalla voce lunare / in radio, dalla subordinazione, dalla gerarchia. / Stavamo aspettando questo segnale, dice il neo-assunto: / deve essere la nostra via di esodo: galleggia verde su di noi / tangibile fantasma negli interminabili spazi della produzione”. Una “via di esodo” è allora forse possibile negli “interminabili spazi della produzione”? quegli spazi che riecheggiano forse in versione ipermoderna (o “surmoderna”, per utilizzare ancora il termine di Augé) gli “interminati spazi” che si trovano al di là della siepe dell’Infinito di Leopardi. La “via di esodo” potrebbe anche far pensare al “varco” montaliano ma, ancora una volta, l’ambiente naturale appare stravolto: non è più quello imprigionante ma comunque ancora incorrotto di – ad esempio – Meriggiare pallido e assorto.

Nella poesia successiva, intitolata Tosaerba automatici a guida satellitare, lo spazio naturale assomiglia a quello marittimo delle Cinque Terre descritte da Montale (Terzago, come leggiamo nella nota biografica, vive a La Spezia, porta d’ingresso delle Cinque Terre) mentre una serie di infiniti sostantivati (come nella citata poesia di Montale) scandiscono le azioni che devono essere compiute dall’operaio nei rari momenti di ferie e di tempo libero offerti dall’azienda (“…tra pini e castagni / raccogliere quelle tre varietà di funghi che conoscono tutti quanti. Concedersi tepidari; cercare asparagi / selvatici e staccare, dagli alberi, i frutti / non ancora maturi”). Tra l’altro, queste incursioni nello spazio naturale dovrebbero facilitare l’operazione dei tosaerba del titolo, il cui unico scopo è quello di antropizzare l’ambiente in maniera indiscriminata. Se al giorno d’oggi l’antropizzazione e la distruzione dell’ambiente naturale hanno già raggiunto livelli esorbitanti, fino a provocare tragedie come quella recente in Emilia Romagna (e a questo proposito si legga Violazione di Alessandra Sarchi, un romanzo che già nel 2012 scopriva scheletri negli armadi dei potenti, allestendo una storia di disboscamento e di cementificazione di corsi d’acqua nella campagna vicino a Bologna), nel futuro prossimo di Ciberneti l’ambiente naturale sembra essere ormai già stato allontanato in una dimensione irreale e fantasmatica.

In La terra del prato, infatti, “la terra del prato è stata messa / da un’altra parte. Adesso c’è impermeabilità”. Là dove c’era un prato adesso c’è una colata di calcestruzzo sormontata da “cespi di corrugato indeperibile”. La natura è stata sostituita da un ambiente artificiale: sembra quasi una rilettura “surmoderna” del processo descritto da Pier Paolo Pasolini ne Il pianto della scavatrice, ne Le ceneri di Gramsci. “Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore”, scrive Pasolini descrivendo la cementificazione degli spazi verdi attorno a Roma avvenuta nel corso degli anni Cinquanta. Ciberneti parla di una contemporaneità che è già futuro, una contemporaneità in cui quegli anni Cinquanta sembrano già preistoria come sembrano già preistoria le lotte operaie della fine degli anni Sessanta. In Un sogno a occhi aperti lo stesso abbrutimento procurato da un ciclo quasi ininterrotto di lavoro sfuma nell’irrealtà e nel sogno, perché “abbiamo / lasciato le nostre case quando era buio, sarà buio / quando ritorneremo e questo ci darà la sensazione / che sia stato tutto un sogno ad occhi aperti”. Lo stesso avveniva negli anni Sessanta e Settanta ma sembra che allora le azioni fossero immerse in una realtà fatta di corpi e di lotte; adesso, invece, nella ‘robotizzazione’ iperbolica dell’esistenza, ciò che è reale sfuma nel sogno e in una onnipresente dimensione virtuale. Più che a un sogno, allora, ci troviamo di fronte a un incubo: un incubo ad alta tecnologia.

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