Ettore Scola – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 78 https://www.carmillaonline.com/2017/12/14/divine-divane-visioni-cinema-porno-78/ Thu, 14 Dec 2017 22:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42128 di Dziga Cacace

È dovere del cinema trasformare le persone in veri comunisti (Kim Jong Il)

908 – 300 di Zack Snyder, USA 2007 Trecento veri uomini, questi Centocelle boys in tanga in similpelle a qualunque temperatura Giove mandi sulla terra, depilatissimi e pettinati ma virili sul serio, mica come quei busoni pedofili degli ateniesi, eh! E la prova ce la dà subito la regina Gorgo (Lena Headley, per inciso: spartanamente gnocchissima) che si spupazza Leonida prima della pugna, venendone fuori una belligerante chiavata in stilizzate posizioni da pornazzo, tanto che per un [...]]]> di Dziga Cacace

È dovere del cinema trasformare le persone in veri comunisti (Kim Jong Il)

908 – 300 di Zack Snyder, USA 2007
Trecento veri uomini, questi Centocelle boys in tanga in similpelle a qualunque temperatura Giove mandi sulla terra, depilatissimi e pettinati ma virili sul serio, mica come quei busoni pedofili degli ateniesi, eh! E la prova ce la dà subito la regina Gorgo (Lena Headley, per inciso: spartanamente gnocchissima) che si spupazza Leonida prima della pugna, venendone fuori una belligerante chiavata in stilizzate posizioni da pornazzo, tanto che per un momento ho pensato a una conclusione con evidente money shot. Del resto questo è un film pornografico. Viceversa i persiani sono guidati dall’equivoco omaccione Serse, inanellato come una cotta di maglia e zeppo di piercing. Nelle file del suo esercito anche dei ninja che sembrano mutanti post nucleari (gli immortali) e l’omunculo traditore Efialte, uno che pare uscito dallo sgabuzzino di Pulp Fiction. Traditi da questo gobbo di Notre Dame (sgorbio = cattivo), i trecento burini spartani andranno incontro alla bella morte. E sapete che vi dico? CAZZI LORO: tenevo troppo per i persiani, io. 300 è un classico film da polemica davanti a una birra. Per cui stappatevene una e vi dico la mia: io l’ho trovato semplicemente non divertente come mi sarei aspettato e abbastanza fascista come invece previsto. Non così divertente perché noiosetto, senza gran ritmo e perché mi aspettavo più botte e azione, qualcosa che almeno appagasse il mio lato pagano. E fascista invece perché è una lagna continua su onore, rispetto, libertà, “non mi arrendo”, “puntate qui al cuore”, “bello morire così” e via via littoriamente declamando, mancando giusto un rauco “Roma ladrona”. Durante la visione ero così distaccato che in testa resuscitavano nomi che non sentivo dalle scuole medie, tipo Milziade. Ma chi cazzo era Milziade? Era lui che aveva corso fino a Maratona? Ma no, dai, con la milza che scoppia non può essere lui… e Filottete, chi era costui? E poi, scusate: ma i persiani dovevano passare esattamente da lì, da quel cunicolo stretto stretto delle Termopili? Con le migliaia di chilometri di costa della Grecia è quello l’unico punto da cui imbucarsi? Maddai! 300 è un fumettone (Frank Miller, infatti) secondo la peggiore accezione del termine, graficamente elegante (e questo lo apprezzo, ma finisce lì, dopo 10 minuti), completamente irreale, fotografato in toni rossobruni virati appena al seppia e sessualmente ambiguo, cosa che di per sé potrebbe anche essere una qualità. Se non fosse che l’omosessualità latente degli spartani sfugge gaiamente di mano alla regia e palesa il tentativo di nasconderla sotto una virilità tutta proclamata, tipica del fascismo. E invece quella degli avversari è esplicitata, sommandola agli altri buoni motivi per difendersi – in questo scontro di civiltà – da chi viene da Est. In 300 non c’è solo il terrore e l’odio per l’invasore diverso (e storicamente potrebbe anche starci) ma anche il fastidio mal celato per ogni devianza: l’omosessualità non meno dell’invasione culturale, l’imbastardimento dei costumi, il drammatico perdere la limpieza de sangre. E tutto mentre nel mondo reale la stessa cultura che ha prodotto questo film riusciva a distruggere manufatti storici che avevano resistito 3000 anni. Un film come questo, per innovazione tecnica, storia raccontata e battage pubblicitario pervasivo entra nell’immaginario, nel repertorio culturale, specialmente di chi è debole neuronalmente. Eroismo, fratellanza, sacrificio e purezza contro lascivia, malvagità, ricchionaggine, mollezza e infingardia (o come si dirà). È tutto narrato per exempla icastici, esasperati, leggibili immediatamente, com’è nella miglior tradizione epica, ma di 30 secoli fa. E per questo 300 è un film pericoloso. Perché diverte (cioè distoglie, o almeno ci prova e dagli incassi direi che ci riesce) ed è (apparentemente) bello da vedersi. Ora: la vicenda la conosciamo tutti e non avremmo certo potuto sperare in una versione politically correct. Non mi scandalizzano certe deformazioni storiche (che leggo esserci state e in gran copia) anche perché è da quando ho sette anni che so delle Termopili e non me l’hanno mai raccontata in maniera molto diversa. Però qui i persiani diventano addirittura creature bestiali. Nel loro esercito (di schiavi, che in realtà i persiani non avevano mentre a Sparta esistevano eccome) militano anche mostri degni de L’armata delle tenebre. La corte di Serse (conciato come una Priscilla in scala 1 e ½ a 1 e con la voce di Amanda Lear) è popolata di debosciati e suicide girls dalla sensualità putrida in un delirio di intolleranza ripugnante, questa sì. È tutto talmente pacchiano che quando Leonida perde la pazienza – cioè quando ha la forza e la velocità di sferrare il colpo di giavellotto che potrebbe chiudere la vicenda – riesce soltanto a sfregiare l’orrido Serse e a strappargli un piercing sulla guancia, una fallibilità umana che agli occhi della regia ingigantisce ancora di più l’eroismo del personaggio di fronte alla natura bestiale dell’avversario.
Ecco: è grave un film così? Bisogna guardarselo senza menate e sentendosi echeggiare nella testa il memento dell’amico un po’ ciula che ti dice “e fattela ‘na risata”? No: vedo che qualunque mentecatto fascistello, su Facebook e nella vita, trova in questo Better dead than red dei tempi classici una fonte ispirazionale. E vi posso dire? Questa non è Sparta, questa è una pericolosa cazzata. (Dvd; 21/1/12)

909 – Requiem for a Dream di Darren Aronofski, USA 2000
Madre, figlio, ragazza e amico, finiscono tutti malino causa droghe assortite da cui si crede di poter uscire: drogati di tivù, di soldi, di zucchero, di carne rossa, di successo, di visibilità, di sesso, di soldi, di bellezza, di pillole, di coca, di eroina. Perché la droga è una sostanza che altera stato fisico e mentale con conseguenze sulla salute ed è riconosciuta come tale solo in base al contesto sociale, politico e legislativo in cui viene consumata, al di là della gravità degli effetti fisici che comporta. Può sembrare banale ma ce lo dimentichiamo spesso e il film, invece, va dritto al punto. È bellissimo da vedere ma un po’ angosciante da seguire: con pellicole così grafiche, così stilizzate, io ho un problema: non mi scatta la partecipazione. Requiem for A Dream non è compiaciuto ma è anche troppo tirato a lucido per sembrarmi compassionevole, troppo freddo e distaccato, a mio parere. Per cui non lo partecipo, lo subisco. Detto questo, qualche scintilla di vitalità l’ho provata di fronte a Jennifer Connelly, che – anche truccata da drogata marcia, imbruttita dall’abbrutimento – rimane la ragazza più bella di tutti i tempi. Lo era anche in Phenomena, in The Hot Spot, in C’era una volta in America e pure – paffuta nei suoi quindi anni – in quella fetecchia di Labyrinth. E sapete perché? Ma perché è la più bella ragazza di tutti i tempi, stupidi! Quante volte devo ripeterlo? E continuerà a esserlo anche quando avrà 70 anni. E non vi dico il perché, ci potete arrivare da soli. Ciao. (Dvd; 22/1/12)

910 – Una palla al cazzo che non t’immagini: Zathura di Jon Favreau, Usa 2005
Più che Zathura, spazZathura. Buio, noioso, ripetitivo, senza che i protagonisti abbiano un ruolo attivo, subendo invece le bizze di un gioco magico trovato da dei bambini in cantina. E ti chiedi tutto il tempo: “chissà quale sortilegio, chissà quale escamotage”. E invece, niente: il gioco ti proietta nello spazio e son cazzi tuoi. È una sorta di seguito di Jumanji, se non ho capito male, anche se ogni legame col film (e romanzo) è reciso. Anche qui, per salvarsi dal mondo in cui si è proiettati, bisogna giocare e vincere, ma se – per quel che mi riguarda – faceva schifo Jumanji, figuratevi questo. I bimbi protagonisti poi sono simpatici come un herpes e alla fine trovo motivo di soddisfazione solo nel volto scontroso di Kristen Stewart. Film brutterrimo che alle bimbe passa (ma un po’ Sofia si rende conto). Mediamente considerato dai critici (…) e rifiutato dal pubblico, non senza motivo, risultò un flop clamoroso al botteghino, incassando meno della metà del budget speso. Godo. (Dvd; 25/01/12)

911 – L’onesto Brubaker di Stuart Rosenberg, USA 1980
Ah, quel solido cinema anni Settanta, con belle storie, ritmo interno e grandi caratterizzazioni! Brubaker non lo vedevo da oltre vent’anni ed è un film carcerario democratico, non individualista come Fuga da Alcatraz, ed è qui che si misura tutta la distanza tra un Clint Eastwood e un Robert Redford, eh! (Vabbeh, la faccio facile. Ma ci siamo capiti). Il film è riformista come il direttore del carcere di Wakefield in Arkansas, uno che porta l’orologio sulla destra, che prova a cambiare le cose dall’interno, iniettando forzosamente un po’ di democrazia tra i detenuti. Gli concede le elezioni e un consiglio del carcere, li chiama a partecipare. Solo che non funziona, troppi nemici. E anche chi potrebbe essere liberato preferisce rimanere schiavo del sistema e chiamarsi fuori dall’assunzione di responsabilità. E alla fine, questo Brubaker, da che parte sta? È un film velleitario, come viene accusato di essere il suo protagonista, o è un film tragicamente realista, che dimostra l’impossibilità della riforma? Io – da menscevico parolaio, quale alla fin fine sono – mi fido della buona fede del regista e penso a un film sincero, che fa vedere quali siano i problemi. E la scena finale coi carcerieri che salutano l’ormai ex direttore è una commovente concessione alla retorica strazzacore, inverificabile nella realtà, che leggo come un augurio onirico: forse un dì ci arriveremo. Per fortuna da noi non è (ancora) in agenda rendere le carceri delle aziende con un profitto economico in attivo, a qualunque costo, con tutto quello che ne consegue quando è il guadagno la legge suprema (va anche detto che peggio di come son messe, certe nostre carceri, non so se si potrebbe… ma vabbeh). Ma in USA ci pensò quel cercopiteco di Reagan e gli effetti sono stati devastanti, con una popolazione carceraria altissima, a livelli dell’Unione Sovietica di Stalin, e non scherzo, tenuta in parte in detenzione proprio perché fonte di profitto (arresti facili per quisquilie, regime carcerario gestito autonomamente che prevede allungamenti di pena in base a regolamenti interni, condizioni di vita atroci per consentire il guadagno, lavoro sfruttato a pochi centesimi all’ora… Orwell fatto e finito). E il film è profetico nel parlarci anche delle dirigenze del PD con 30 anni di anticipo: riformatori e finti liberali che fanno qualche passetto a favore di telecamera, che incassano interviste e stampa e rendita elettorale e tutto rimane come prima. Robert Redford era all’apice della gloria prima della mummificazione e so solo che quando Brubaker affronta i suoi avversari, questi rispondono come i lettori del Giornale e di Libero. Ma di oggi, non nell’Arkansas degli anni Settanta. (Diretta Iris; 29/1/12)

912 – Più scomoda del previsto, Una poltrona per due di John Landis, USA 1983
Premetto che vedere questo film a febbraio è come festeggiare il Natale a marzo. E rivedendolo – ahi! – lo ritrovo meno scintillante di quanto ricordassi. Però dobbiamo mettere nel conto il mio precoce invecchiamento e le tantissime visioni passate, per cui, facendo la tara, credo che sia ancora il vecchio amato capolavoro, un’adorabile fiaba natalizia aggiornata agli anni Ottanta. C’è la sapienza chirurgica della costruzione e il crescendo inarrestabile, sono tante le situazioni comiche e in generale il ritmo è sostenuto. Stupisce, oggi che tutto è addomesticato, la mancanza di ogni correttezza politica (su neri, handicap, omosessuali) in un film che poi – fatto salvo l’affetto innegabile – ha invece una morale solo apparentemente eversiva, in anni di reaganomics rampante. Quella dei protagonisti (un cialtrone che si arrangia, un ragazzo “bene” ridotto in povertà e una prostituta dal cuore d’oro) è una rivincita contro gli straricchi e avidi Duke & Duke (con Reagan e Nixon in foto sulla scrivania) per arrivare allo stesso risultato: ricchi sfondati con barca ai tropici, sfruttando gli stessi meccanismi economici e senza metterli in discussione. Mah, consueta confusione ideologica yankee! Ma chi sono io per fare la morale? Sono i sensi di colpa televisivi che mi fanno vedere male i film, ecco cosa, mannaggia. Cast eccezionale (Dan Aykroyd, Eddie Murphy, Denholm Elliott, Don Ameche, Ralph Bellamy e – gulp! – Jamie Lee Curtis) e musica di Elmer Bernstein che saccheggia alcuni classici (riconosco Mozart ed Elgar). Nel mio personalissimo taccuino rilevo anche una marea di parolacce che rendono felici Elena e Sofia e poi una nota amara che rimanda al talento che fu di John Landis. Ma è comunque Natale, dài, SMETTILA. (Dvd; 5/2/12)

913 – I nuovi mostri di Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola, Italia 1977
Questo l’ho visto la prima volta in un alberghetto in Francia nell’autunno del 1994, in una serata in cui avevo beccato anche un film a episodi giapponese che non mi son segnato e che non saprò mai più quale titolo avesse: c’era un tizio in coda in macchina, ingorgato in non so quale tangenziale nipponica, che metteva fine alle sue sofferenze pisciando in una lattina. Se magari qualcuno l’ha visto e mi dice cos’è, mi fa cosa grata, perché vorrei completare il file con tutti i film della mia vita e questo mi manca. Esiste il file, giuro. Vabbeh. Dunque, de I nuovi mostri questa è l’edizione televisiva, più corta di quella per le sale. Ed è un film che non mi era piaciuto granché allora e non mi fa impazzire neanche stasera: lo trovo – come tanto cinema italiano di quegli anni – di un cinismo un po’ ipocrita, che si appoggia a moduli satirici e grotteschi prevedibili e che tenta degli agganci alla realtà quotidiana per sentirsi gggiovani. Ma se avete la pazienza di leggere fino in fondo troverete anche un parziale pentimento tardivo. Scola ha la parte del leone e firma quattro episodi. L’uccellino della Val Padana vede Ugo Tognazzi sfruttare le qualità canore della moglie Orietta Berti, storia ambientata al Picchio Rosso di Formigine dove, di lì a pochi anni, avrebbe cambiato il corso della storia Vasco Rossi. Ma non c’entra niente (però ho il bootleg). Hostaria è una epocale ed esilarante litigata in cucina tra un cuoco (Tognazzi) e un cameriere (Vittorio Gassman), gay e amanti, tutto mentre la clientela radical chic apprezza un cibo di dubbia fattura. In Come una regina Alberto Sordi abbandona la madre in una tremenda casa di riposo privata. L’elogio funebre è probabilmente l’episodio più famoso del lotto, con Albertone senza freni nel ricordare un collega attore, elogio che culmina nel famoso “stocazzo!” che Blob dedicava spesso al giornalista Onofrio Pirrotta, appena morto mentre scrivo e che, invano, aveva tentato di bloccare l’ingiuria più volte riproposta (che ovviamente tutti hanno carognescamente ricordato anche nei coccodrilli dedicatigli). Dino Risi ha la regia di tre episodi. Tantum Ergo è feroce, ma gli yankee lo definirebbero half baked, perché parte bene e poi rimane sospeso, un po’ lì, con un alto prelato che seda con belle e fatue parole la plebe di una parrocchia di periferia aizzata da un giovane e combattivo prete. Con i saluti degli amici è poco più di un’orrenda barzelletta sui siciliani omertosi anche in punto di morte. Senza parole narra un amore fulminante e falso, con sorpresina finale. E mentre lo vedevo continuavo a chiedermi chi fosse il partner mediterraneo della bella hostess Ornella Muti. Ma dove l’ho visto, questo? E quel nome, Yorgo Voyagis… Lo butto su Google e, patapam!, è Giuseppe nel Gesù di Zeffirelli, ecco chi! Però l’episodio… mah. Infine c’è Monicelli che firma solo due storie. La prima è Autostop con di nuovo la Muti, bella e intelligente (e abbastanza cagna, in termini recitativi), uccisa dal maschilista Eros Pagni (orco qualunquista e reazionario che, pur ritenendosi “femminista”, sfrutta il lavoro nero e non esita a sparare non appena si senta in pericolo). Boh: mi sembra poco sincero nella sua schematicità, come a voler accalappiare facilmente un po’ di pubblico giovane. L’altro episodio è Pronto soccorso, che parte da un’idea bellissima: il ritratto di un nobilastro dissoluto, volgarissimo e legato alle gerarchie ecclesiastiche romane, che dovendo soccorrere un morto di fame mostra il suo vero volto: indifferente più che ipocrita, in definitiva letale. Però è tutto talmente grottesco e spinto in avanti che la macchietta dopo un po’ mi risulta insopportabile e l’episodio dura 14 minuti interminabili. Questo Sordi sembra che ci parli dell’Italia del 2012, dove tutto, e il suo contrario, è confluito nel berlusconismo che lecca il culo al Vaticano e fa contemporaneamente partouzes con le ragazzine raccattate da amici equivoci: Giovan Maria Catalan Belmonte è un ricettacolo di confusione lessicale (linguaggio magniloquente e improvvise impennate volgarissime), culturale (il monumento a Mazzini che diventa dedicato a Mussolini) e religiosa (osservante lefevriano senza pietà alcuna). Però l’amara chiusa finale è un anti climax che mi pare non valga lo sviluppo (eterno). Penso tutto questo e poi la collega Alez che vede lontano, certamente più lontano del mio sguardo appannato, mi fa notare come la chiusura a cerchio abbia un preciso e spietato significato. E in effetti ci sta eccome e quello che forse scambio per pigrizia registica e cinismo è una trovata notevole. Ma che faccio ora, riscrivo tutto? No. Continua a non piacermi la forma, ma sul significato (e quindi sul valore ultimo dell’episodio) credo abbia ragione lei. (Dvd; 10/2/12)

914 – Fate la storia senza di me di Mirko Capozzoli, Italia 2011
Fate la storia senza di me è un documentario intenso e a tratti dolente, molto, che racconta la vita e la morte di Alberto Bonvicini, ragazzo torinese che con la sua vicenda attraversa paradigmaticamente gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Però è come se la regia rimanesse a distanza. Perché la materia è densa ed entrare in un’altra vita è difficile e la vita di Bonvicini era difficile assai, da esplorare e soprattutto da vivere. Il rischio era di fare un bignamino sulle tensioni degli anni della contestazione, okay, perché il protagonista ha vissuto sia il dramma dei manicomi – arrivandoci per burocrazia da un orfanotrofio – che quello delle carceri, ha frequentato attivamente il movimentismo giovanile, sfiorato il terrorismo (rifiutato recisamente) e infine è stato vittima della droga e poi dell’Aids. Il Bignami viene evitato, e ha un senso perché si racconta la Vita e non la Storia. Però, qui, sembra che si faccia sempre un passo indietro anche di fronte all’esistenza del protagonista suo malgrado, dedicando un approfondimento solo al famigerato dottor Coda, l’“elettricista”, che seviziava i suoi pazienti a colpi di elettrochoc. È come se la telecamera si ritraesse di fronte al dolore, allo sgomento e anche alla commozione della famiglia adottiva e intellettuale della Torino borghese, che rimane sconvolta da questo ciclone, un ragazzino che a 14 anni ruba una macchina e finisce in carcere minorile, che rimane coinvolto (e poi assolto) nella vicenda agghiacciante dell’Angelo azzurro, che si dissocia da chi stava abbracciando la lotta armata con la fatidica frase “Fate la storia senza di me”, che finisce in carcere con una marea di addebiti poi rivelatisi fasulli e che, lì dentro, diventa eroinomane. Sono belle e interessanti le testimonianze di compagni di strada, in prigionia e nella politica, sfrondate di ogni retorica e molto umane: Albertino cercava solo un po’ di tranquillità. E la troverà finalmente lavorando prima al quotidiano Reporter con Enrico Deaglio e poi in tivù, con Giuliano Ferrara, morendo infine di Aids. Ma la storia di questo ragazzo – che ha lasciato un segno indelebile in tutti quelli che gli son stati amici – è solo sfiorata, delicatamente, narrando in modo ellittico e lasciando la voglia allo spettatore, secondo me troppa. Ma credo sia colpa mia, ché vorrei sempre un film definitivo che non si potrà mai realizzare. (Dvd; 18/2/12)

915 – Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Robert Zemeckis, USA 1988
Ullalà! Nei miei primi anni di vita assieme a Barbara, Roger Rabbit era un film visto e stravisto. Lei possedeva il videoregistratore e questo film era uno dei pochi posseduti in Vhs, un regalo natalizio, immagino. Siccome a casa di Barbara le registrazioni erano sempre qualcosa di stocastico (cassette da 90 minuti per film da due ore, programmazioni sballate, nastri smagnetizzati, titoli messi alla cazzo, film scomparsi nel magma della videocassetta da 4 ore) alla fine ricordo di averlo visto più volte, nonostante le proteste di Barbara che se un film lo vede una volta sola, le basta per sempre (mentre io continuerei a rivedere sempre lo stesso film, possibilmente Novecento). Comunque, per farla breve, lo conosco bene, questo Zemeckis, e lo incontro di nuovo a oltre vent’anni dall’ultima volta. Lo regalo a Sofia che si sente adulta pur non capendo una mazza di questo intrigo molti anni Quaranta, con la cantante sciantosa, l’investigatore privato alcolizzato e questioni di testamenti ed eredità. Ma la commistione tra animazione e attori in carne ed ossa, tra Disney e Spielberg e tra atmosfere noir e commedia, funziona anche per lei, che si diverte, perché non c’è niente da fare: pupe, pistole e cascatoni fan divertire chiunque, e gli americani lo sanno bene. Rivisto, il film è simpatico e denso, più per grandi con le loro memorie da bambini che per bambini stessi. Bravissimi gli attori (su tutti lo straordinario Bob Hoskins), oleografica e convincente la ricostruzione degli USA di metà secolo scorso, straordinarie (per l’epoca, ma ancora validissime) le invenzioni e gli effetti speciali. Il gioco metacinematografico è intelligente (tutto il mondo dei cartoni è utilizzato e affettuosamente parodizzato), i rimandi ironici alla modernità azzeccati (la critica alla civiltà delle autostrade) e il ritmo è indiavolato, come certi cartoni insegnano. In effetti, nel suo campo, trattasi di un piccolo capolavoro. (Dvd; 19/2/12)

916 – Los Cronocrímenes di Nacho Vigalondo, Spagna 2007
Sono solo a casa, temporaneamente abbandonato da tutte le mie donne che provano l’ebbrezza delle nevi. Ho un carico di lavoro pesantissimo e modero il malumore con un film consigliato dall’amico Mauro, sempre raffinato suggeritore, dalla musica brasiliana al cinema con un quid. La tagline di questo film distribuito nel mondo come Timecrimes potrebbe essere pochi soldi, tante idee. E aggiungo: quattro attori, quattro ambientazioni e mille idee di scrittura. Il classico piccolissimo film tutto fosforo dove la mancanza di milioni di euro, di attori di fama e di chissà quali invenzioni tecnologiche non si sente minimamente. La vicenda narra di viaggi nel tempo e detta così sembra che ci sia pure il dottor Enigm. Invece il contesto è il più borghese e innocuo che si possa pensare. Hector (un Toni Servillo iberico e dinamico) è nella sua nuova casa di campagna assieme alla moglie. Guarda al di là del recinto con un binocolo e nota una ragazza che si spoglia. Va a vedere da vicino e un uomo tutto bendato lo ferisce a un braccio. Hector scappa e arriva in un misterioso centro studi, dove l’antitesi visiva dello scienziato pazzo (ma non meno pericoloso) sta facendo degli esperimenti sui viaggi nel tempo. E da lì si rimane prigionieri di un loop temporale ben gestito. Vi dico solo che Hector sarà uno e trino e la vicenda non perde colpi, anzi: alza sempre più la posta in gioco e regge fino alla fine. Bellissimo, nella sua astrusa semplicità: non vi ricordo cosa succede non perché voglia evitarvi spoiler ma proprio perché io, a riassumere trame fantascientifiche con diversi piani della realtà, vado in fusione cerebrale. Comunque: film da vedere, sul serio. (Dvd; 20/2/12)

917 – Chitarromani! It Might Get Loud di Davis Guggenheim, USA 2009
Mi godo l’ultimo giorno di libertà familiare, dedicando un po’ di tempo alla mia passione preferita, la pornografia, e scelgo un film dedicato alla chitarra, quel It Might Get Loud che sembrerebbe il Graal per gli amanti della 6 corde. Ma la chitarra è un paravento neanche troppo occulto, perché qui si parla di creatività, di musica, di rock e di come uno strumento sia esattamente tale, per esprimere ed eventualmente portare al pubblico delle idee. A confronto tre generazioni e tre modi di diversi di essere musicisti. Ci sono: Jimmy Page, la divinità suprema del rock degli anni Settanta; The Edge (chitarrista degli U2), che cresce nella contestazione punk a quel mondo; Jack White, l’ultimo ribelle e inventore, che negli anni Zero ha riportato quelle sonorità nel mainstream, soprattutto grazie all’usurato ma geniale riffone di Seven Nation Army (il po-poppopo-poopoo cantato negli stadi). Si parla di rapporto con la tecnologia, di chitarra come oggetto del desiderio, di tecnica come mezzo e non come fine (non c’è un assolo in tutto il film, uno che sia uno, e non se ne sente minimamente il bisogno): diverse chitarre, diversi modi e diverse capigliature, perché si può essere rockettari anche con un sacco di effetti, un computer e un berrettino sulla pelata, come The Edge. Non c’è un vero sviluppo narrativo, purtroppo, e il film ha un aplomb in palese contraddizione con l’idea di rock che la chitarra suggerisce, ma detto ciò il film si fa vedere: qualche idea è carina (il Jack White adulto che insegna a sé stesso giovane cos’ha imparato crescendo) o lo stesso White che costruisce uno strumento a corda in qualcosa come 5 minuti secchi. Alla fine, però, rimane la sensazione di un elegantissimo lavoro un po’ inerte. (Dvd; 25/2/12)

(Continua – 78)

E’ in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la preazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band)

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La narrazione delle migrazioni nel cinema italiano https://www.carmillaonline.com/2017/11/24/la-narrazione-delle-migrazioni-nel-cinema-italiano/ Fri, 24 Nov 2017 22:15:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40108 di Gioacchino Toni

Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.

Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito [...]]]> di Gioacchino Toni

Dall’inizio del Novecento ai nostri giorni, il cinema italiano ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Facendo riferimento ad alcuni film emblematici, è possibile tratteggiare, almeno per sommi capi, le modalità principali con cui il cinema nazionale ha raccontato tutte queste migrazioni.

Andando alle origini dell’epopea cinematografica, nell’affrontare il fenomeno migratorio, le produzioni del periodo del muto risultano fortemente debitrici nei confronti di una serie di opere letterarie che hanno costruito gli elementi distintivi e ricorrenti caratterizzanti l’immaginario emigrazionistico nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento, elementi successivamente ripresi e inaspriti dal fascismo con l’intenzione di esprimere una decisa contrarietà nei confronti di tutti quegli italiani che abbandonavano la patria. Tra le opere letterarie che maggiormente hanno contribuito a costruire tale immaginario relativo alle migrazioni si possono indicare gli scritti di Edmondo De Amicis quali la poesia Gli emigranti (1881), il racconto Dagli Appennini alle Ande – contenuto nel romanzo Cuore (1886) – ed il reportage giornalistico romanzato Sull’Oceano (1889), i poemetti pascoliani Italy. Sacro all’Italia raminga (1904) e Pietole (1909), oltre alla novella pirandelliana L’altro figlio (1923).

Edmondo De Amicis, autore che ha affrontato l’epopea dell’emigrazione italiana di fine Ottocento verso le Americhe attraverso registri che vanno dal reportage di viaggio, al romanzo popolare fino alla poesia, in Sull’Oceano racconta l’attraversata transoceanica, compiuta alcuni anni prima, che gli ha consentito sia di osservare gli italiani a bordo di una grande nave durante il lungo viaggio sia di raccogliere testimonianze circa i loro stati d’animo di migranti che si allontanano dalla terra d’origine.

Lo scrittore descrive l’imbarco degli emigranti nel porto di Genova tratteggiando le differenze sociali dei passeggeri, la miseria dei più, la commozione e l’angoscia al momento della partenza.

Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo [il piroscafo], congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti […] sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. […] Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy. […] Due ore dopo che era cominciato l’imbarco, il grande piroscafo, sempre immobile, come un cetaceo enorme che addentasse la riva, succhiava ancora sangue italiano […] Finalmente s’udiron gridare i marinai a poppa e a prua ad un tempo: – Chi non è passeggiere, a terra! Queste parole fecero correre un fremito da un capo all’altro del Galileo. In pochi minuti tutti gli estranei discesero, il ponte fu levato, le gomene tolte, la scala alzata: s’udì un fischio, e il piroscafo si cominciò a movere. Allora delle donne scoppiarono in pianto, dei giovani che ridevano si fecero seri, e si vide qualche uomo barbuto, fino allora impassibile, passarsi una mano sugli occhi. A questa commozione contrastava stranamente la pacatezza dei saluti che scambiavano i marinai e gli ufficiali con gli amici e i parenti raccolti sulla calata, come se si partisse per la Spezia

Nel descrivere “L’Italia a bordo” De Amicis, oltre a soffermarsi su come la promiscuità forzata a cui sono sottoposte le famiglie funzioni da acceleratore di tutte quelle dinamiche conflittuali determinate dalla difficile convivenza, si dilunga anche sulla specifica composizione sociale delle diverse classi di viaggio.

Per effetto dell’agglomerazione in cui erano costretti a vivere […] quella moltitudine di emigranti dava luogo, nel corso di pochi giorni, a una molteplicità e varietà di casi psicologici e di fatti, quale appena suol darla a terra, nello spazio di un anno, una popolazione quattro volte maggiore […] Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe […]. Tutti i posti erano occupati. La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna. […] Della Liguria il contingente solito […] diviso in brigatelle, spesate del viaggio da un agente che le accompagna, al quale si obbligano di pagare una certa somma in America, entro un tempo convenuto. […] Nella terza classe c’era il popolo, la borghesia nella seconda, nella prima l’aristocrazia

Dal racconto emergono anche notizie circa le incombenze burocratiche e le particolari tipologie contrattuali con cui sono sfruttati gli emigranti dagli stati in cui approdano.

tutta la popolazione del Galileo si dava moto, perché se il tempo durava bello, si sarebbe arrivati in America la sera dopo, forse ancora in tempo per isbarcare, e bisognava preparar le robe con comodo, e intendersi un po’ tra amici e conoscenti intorno al da farsi. L’affare più grave era l’iscrizione per lo sbarco, il decidere, cioè, se convenisse di andare o no dal Commissario a farsi notare fra coloro che intendevan di valersi delle offerte del Governo argentino, il quale pagava le spese dello sbarco agli immigranti che lo chiedessero, e dava loro vitto e ricovero per cinque giorni, e a quelli che si recavano nelle provincie dell’interno, il viaggio gratuito. Quell’atto di farsi o non farsi iscrivere era chiamato dagli emigranti “dichiarar di voler essere o no con l’emigrazione”. Certo, i vantaggi erano grandi; ma eran grandi anche le diffidenze, poiché quella generosità del Governo (era un Governo!) dava a sospettare che vi si celasse qualche tranello, e che l’accettarla, fra l’altre cose, fosse un vincolare fin d’allora la propria libertà riguardo alla scelta dei luoghi e alle condizioni dei contratti. Ciò nonostante, i più accettavano

Raccontando l’imminente arrivo nel Nuovo mondo De Amicis trova modo di insistere su alcuni aspetti del carattere dei propri connazionali soffermandosi sul senso di dignità che, nonostante la miseria, caratterizza questa gente volenterosa di presentarsi in terra straniera con il necessario decoro e sulla tendenza ad ironizzare sull’italico pressapochismo. La parte finale è invece contraddistinta da un crescendo di retorica patriottica.

Siccome si credeva d’arrivare a Montevideo di pieno giorno, così, fin dalla mattina all’alba, cominciò fra gli emigranti un lavoro di ripulitura generale, affrettato e rude, che volevano salvare al possibile il decoro nazionale, non presentandosi all’America in aspetto di pezzenti lerci e selvatici […] tutti i passeggieri, appoggiati al parapetto o seduti, si voltarono verso occidente, ad aspettare l’apparizione del nuovo mondo […] Dopo il mezzogiorno i passeggieri cominciarono a dar segni di stanchezza. A quella gente che aveva avuto tanta pazienza per tre settimane, non ne rimaneva più un briciolo per le ultime ore. E molti già s’indispettivano e si lagnavano. Come mai non si vedeva nulla? Gli ufficiali avevan dunque sbagliato i calcoli? La terra si sarebbe già dovuta vedere. Oramai non saremmo più arrivati in giornata. E Dio sa quando si sarebbe arrivati. — Piroscafi italiani! — era tutto detto: fortuna quando s’arrivava entro l’anno. E facevan delle allusioni maligne, quando passava un ufficiale, guardandolo di mal occhio […] — L’America! Mi corse un brivido per le vene. Fu come l’annunzio d’un grande avvenimento inatteso, la visione immensa e confusa d’un mondo, che mi ridestò tutt’in un punto la curiosità, la maraviglia, l’entusiasmo, la gioia […] al primo tumulto era seguito un grande silenzio. Tutti stavano con gli occhi fissi su quella striscia di terra nuda, dove non vedevano nulla, immobili e assorti […] come se al di là di quella macchia rossastra apparissero già al loro sguardo le vaste pianure su cui avrebbero curvato la fronte e lasciato le ossa. Pochi parlavano. Il piroscafo volava, la striscia di terra s’alzava e s’allungava. Era la costa dell’Uruguay. Non si vedeva né vegetazione né abitato. Parecchi che s’aspettavano di scoprire una terra maravigliosa, parevan delusi; dicevano: — Ma è tale quale come i paesi nostri […] cessato il primo effetto dell’apparizione […] scoppiò a prua un’allegrezza smodata […] Quando misi piede a terra, mi voltai a guardare ancora una volta il Galileo, e il cuore mi batté nel dirgli addio, come se fosse un lembo natante del mio paese che m’avesse portato fin là […] si vedeva ancora la bandiera, che sventolava sotto il primo raggio del sole d’America, come un ultimo saluto dell’Italia che raccomandasse alla nuova madre i suoi figliuoli raminghi (da E. De Amicis, Sull’Oceano, 1889).

Per quanto riguarda Giovanni Pascoli, il suo interesse per il fenomeno dell’emigrazione è testimoniato dal poemetto in due canti Italy. Sacro all’Italia raminga riprendente le vicende realmente accadute a due fratelli emigrati dalla Garfagnana in America che fanno ritorno in patria con la piccola Molly ammalata di tisi. I due fratelli sperano che l’aria di casa e le cure della nonna possano curare la bambina. Nonostante i problemi linguistici, che rendono difficoltosa la comunicazione tra Molly, che non conosce la lingua italiana, e la nonna, si crea tra le due un forte affetto. Tragicamente alla guarigione della piccola corrisponde l’ammalarsi, fino alla morte, della nonna ed a questo punto gli emigranti ripartono alla volta dell’America. Le difficoltà di comunicazione tra la nonna e la bambina permettono a Pascoli di sperimentare nel testo un curioso intreccio di parole ed espressioni inglesi, italo-americane e lucchesi. Nel Canto secondo, dove alla guarigione della bambina fa seguito la malattia mortale della nonna, Pascoli tratta del dramma di chi, trovandosi costretto a lasciare la propria terra, finisce per rifarsi un nido altrove. L’immagine del nido abbandonato dalla rondine-madre, ricorrente nelle opere pascoliane, viene qui utilizzata per rappresentare il dramma dell’emigrazione. Nell’opera viene stabilito un parallelismo tra la madre che desidera riunire a tavola i propri figli e la patria italiana – madre ancestrale – che con un suo grande ululo ai quattro venti richiamerà a casa il sui figli dispersi in terre lontane.

Dagli Appennini alle Ande (1916) di Umberto Paradisi

Il cinema muto attinge, dunque, da tali modelli letterari, enfatizzando gli elementi melodrammatici che presentano l’emigrazione come fenomeno di distacco traumatico dalla famiglia e del paese, come viaggio verso l’ignoto in cui è possibile perdersi per strada. Nella cinematografia italiana dei primi decenni del Novecento l’emigrazione appare decisamente contrassegnata da paura, lutto, fatalità e senso di colpa.

Al fine di ricostruite le modalità principali con cui il cinema italiano ha raccontato nel corso del tempo i fenomeni migratori risulta decisamente prezioso lo studio di Massimiliano Coviello curatore del lemma “Emigrazione” nel volume curato da Roberto De Gaetano, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Vol. 1, (Mimesis, 2014) [su Carmilla]. Sarà proprio all’analisi di Coivello che qui si farà costantemente riferimento.

Un’idea delle modalità di rappresentazione degli emigranti italiani nel cinema muto dei primi decenni del Novecento è data dai film L’emigrante (1915) di Febo Mari e Dagli Appennini alle Ande (1916) di Umberto Paradisi. L’opera di Mari, primo film italiano senza sottotitoli, narra il fallimento di un emigrante che, recatosi in Argentina per garantire un futuro migliore alla famiglia, si trova costretto a far rientro a casa, dopo essersi trovato a svolgere lavori dequalificati e malpagati e dopo essere incorso in un infortunio. Il film di Paradisi, che riprende palesemente l’opera deamicisana, viene realizzato con finalità educative e celebrative del sacrificio compiuto per la Patria e la famiglia. Il viaggio del protagonista verso l’Argentina alla ricerca della madre, che ha abbandonato la famiglia ed il paese in cerca di lavoro, è connotato da sentimenti quali lo sconforto e il senso di solitudine. Una volta giunto nel lontano paese, il giovane riesce a cavarsela di fronte alle tante avversità incontrate grazie a qualche intervento della provvidenza. Dopo tante peripezie il protagonista ritrova la madre gravemente malata in balia dei rimorsi provocati dalla scelta di abbandonare la famiglia.

Circa la rappresentazione degli emigranti italiani tra gli anni ’30 e primi anni ’40, secondo l’analisi di Coviello

il cinema di regime addosserà alla figura dell’emigrante non solo i rimorsi per aver abbandonato gli affetti familiari ma anche l’imprudenza di aver minato la coesione nazionale e aver tralasciato gli obblighi verso la patria, colpe che potranno essere espiate solo attraverso un ritorno dai tratti epici. Nel riportare gli emigranti in patria, il cinema del periodo fascista ha sfruttato meccanismi melodrammatici per costruire l’immagine di un Paese finalmente coeso in cui diventava possibile riscattarsi e progettare il proprio futuro (p. 320).

In tali narrazioni i soggetti che fanno ritorno al paese d’origine dimenticano i motivi per cui sono emigrati e si ritrovano nel loro spazio di partenza senza alcun problema di riadattamento e consapevoli delle grandi migliorie portate dal regime durante la loro assenza. «I film del periodo fascista che raccontano storie di emigrazione sono innanzitutto una risposta alla sua causa principale, ossia la mancanza di terre coltivabili. Prima attraverso le bonifiche e poi con l’impresa coloniale, il cinema contribuisce alla costruzione di un mito della terra nel quale trovare la soluzione ai drammi dell’emigrazione» (p. 321).

Il film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano viene girato per celebrare il decennale della Marcia su Roma ed affronta il periodo che intercorre tra il 1914 e il 1932, tentando di esaltare tanto il progresso industriale promosso dal regime quanto il mito contadino. La narrazione si sviluppa attorno alle vicende di una famiglia dell’Agro Pontino che passa dalla miseria nelle paludi insalubri alle bonifiche delle terre effettuate dal regime, dalla Prima guerra mondiale alla “vittoria mutilata” e dalla crisi economica di fine anni ’20 sino alla fondazione di Littoria, che consente agli emigranti di trovare un posto di lavoro ed un’abitazione. Forzano miscela materiale documentario e finzionale con intenti palesemente propagandistici e la narrazione tende ad essere scandita da alcuni elementi simbolici ricorrenti, come la bandiera italiana al cui cospetto avvengono le separazioni e le riunificazioni familiari. Come in altri film del periodo, la pellicola di Forzano insiste molto sul rapporto tra generazioni, al fine di mostrare il più possibile la continuità storica rispetto al passato.

Nel periodo coloniale, il fascismo, anche grazie al cinema, tende a riferirsi ai nuovi territori annessi come a lontane propaggini dell’Italia; il trasferimento in quelle terre remote viene pertanto presentato in maniera molto diversa rispetto agli spostamenti migratori verso altri paesi. Ad esempio, nel film Bengasi (1942) di Augusto Genina i coloni italiani che si oppongono alle truppe inglesi vengono presentati come difensori della madrepatria, della sua estensione coloniale.

Passaporto Rosso (1935) di Guido Brignone viene realizzato praticamente in concomitanza con l’inizio della campagna d’Etiopia. La pellicola è invece ambientata tra il 1890 ed il 1922 ed il titolo si riferisce proprio al documento di espatrio rilasciato dalle autorità agli emigranti. Il film è costruito su una serie di parallelismi tra gli eventi narrati e l’attualità coloniale, in modo da suggerire al pubblico una lettura dell’emigrazione come tappa necessaria, per quanto sofferta, in attesa del colonialismo fascista.
Il film narra le vicende di una coppia di emigranti italiani trasferirtisi in Argentina che si prodigano, insieme ad altri connazionali, nella fondazione della colonia Nueva Italia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, il figlio dei due, che non ha mai messo piede in Italia, pur non intendendo mobilitarsi in favore della madrepatria, partirà per il fronte soltanto per sostituirsi al padre, invece intenzionato a partire nonostante l’età avanzata. Sarà la vita al fronte, sul Carso, a rivelare al giovane il significato ed il valore dell’essere italiano: «Mio padre aveva ragione, la patria l’abbiamo nel sangue». Caduto in combattimento, la medaglia al valore viene ritirata dal figlio che non ha fatto in tempo a conoscere. Ancora una volta nel cinema di epoca fascista si insiste sul passaggio di testimone tra le diverse generazioni.

Massimo Coviello, nella sua analisi, dedica spazio anche al film Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, in cui l’Africa Orientale diventa luogo d’incontro tra un padre emigrato per necessità, dopo aver servito la patria come aviatore nella Prima guerra mondiale, di cui si sono perse le tracce e suo figlio, anch’egli aviatore delle truppe fasciste e partito volontario in AOI. La guerra, nuovamente, diviene terreno di ricongiungimento generazionale. Per certi versi questa pellicola anticipa una serie di opere realizzate tra gli anni ’30 e ’40 che narrano storie sospese tra l’Italia e il continente latinoamericano, come La grande luce – Montevergine (1939) di Carlo Campogalliani, Harlem (1943) di Carmine Gallone e Catene (1949) di Raffaello Matarazzo. «In tutti e tre i film, nel pieno rispetto della struttura melodrammatica, l’emigrazione è uno spazio intermedio, più o meno temporaneo, in cui i personaggi attraversano vari stadi di trasformazione, nell’attesa che la tragedia ceda il passo al lieto fine» (p. 327).

Secondo lo studioso i melodrammi e le commedie degli anni ’30 e ’40, più che narrare di veri e propri fenomeni di emigrazione, tendono a sfruttare episodi di migrazione circoscritti nel tempo e utili all’evoluzione del racconto fino alla risoluzione dei conflitti iniziali.

Dagli anni del muto al cinema del periodo fascista, dallo sguardo deamicisiano all’obbligo morale del ritorno, sino al melodramma migratorio: l’emigrante è rappresentato come un soggetto incapace di emanciparsi e di ricollocarsi nei contesti di arrivo. I suoi drammi non si esauriscono con l’arrivo e, al contrario, si amplificano attraverso la colpa dell’abbandono (dei propri familiari, della terra d’origine). Si dovrà attendere la fine degli anni quaranta e l’avvio dei flussi migratori verso i paesi dell’Europa del Nord, l’Australia e l’America Latina perché il cinema rimoduli i sentimenti connessi allo spostamento, rivendichi la loro dimensione politica e si apra ad un cammino della speranza (p. 330).

Con il cinema neorealista cambiano diverse cose, sia dal punto di vista delle finalità che intende darsi il cinema, sia da quello delle estetiche scelte per perseguirle. A proposito di ciò scrive Coviello:

Nel regime estetico inaugurato dal neorealismo si attua una simbiosi tra la macchina da presa e il personaggio: i confini tra mostrare e vedere, tra la cattura passiva da parte di un occhio meccanico e la capacità immaginativa che si insedia nell’atto della visione, tendono a confondersi e a sovrapporsi. A partire da uno sguardo erratico ma mai inconsapevole, le logiche narrative riproducono sullo schermo il vagabondaggio, la deambulazione e lo spaesamento dei soggetti all’interno di ambienti che, deformati dalla guerra, restano ancora da decifrare (pp. 332-333).

È una realtà spaesata, quella uscita dalla guerra, quella che si trova a presentare il cinema neorealista, dunque una realtà erratica e fluttuante che fatica ad essere, che non può essere, più di tanto orienta. I personaggi di queste pellicole sono per forza di cose deboli, spaesati, erranti; sono spesso spettatori delle trasformazioni in corso e tendono ad agire in base a ciò che si trovano di fronte senza un fine consapevole.

All’illusoria riscrittura della storia, alla strumentale edificazione di un’epopea capace di coniugare le grandi opere di bonifica e l’urbanizzazione all’interno del Paese con la spinta coloniale con cui il fascismo ha tentato di estirpare le radici dell’emigrazione all’estero, il cinema neorealista contrappone una configurazione narrativa che individua nell’atto del migrare – inteso come movimento dominato dall’incertezza del soggetto che lo compie, ricerca di nuovi spazi vitali, negoziazione e riconfigurazione delle identità in rapporto ai mutamenti sociali – una delle principali forze trasformatrici, dentro e fuori i confini italiani (p. 333).

Secondo la studiosa Stefania Parigi

Tutto il cinema del dopoguerra è un cinema della migrazione, intesa come riconquista del Paese e, allo stesso tempo, come perdita delle radici, come esperienza di spaesamento, come vertigine di un’identità dispersa o esplosa. Da una parte gli spazi urbani avvolgono i protagonisti in spirali di spersonalizzazione, di squilibri e di mancanze; dall’altra il territorio fisico e culturale dell’intera Italia mostra, insieme alle sue diversità, tutta la propria natura conflittuale (S. Parigi, “L’emigrante neorealista”, in: Italy In&Out. Migrazioni nel/del cinema italiano, Quaderni del CSCI – Rivista annuale del cinema italiano, n. 8, 2012, p. 56).

In film come Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati e Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi, il fenomeno migratorio viene affrontato ricorrendo all’epopea del viaggio che rivela i grandi cambiamenti geografici e sociali che costellano i percorsi. Nei due film siamo di fronte ad emigranti irregolari, privi dei requisiti richiesti per l’espatrio, a testimonianza di un fenomeno di migrazione clandestina in crescita a partire dal secondo dopoguerra nonostante le politiche ufficiali di sostegno all’emigrazione basate su accordi tra le nazioni che prevedono l’invio di manodopera italiana in cambio di materie prime.

In Fuga in Francia, seguiamo il viaggio di un gruppo di individui verso il confine e tra questi, oltre a chi è in cerca di lavoro, non manca chi intende abbandonare il paese al fine di lasciarsi alle spalle un passato in cui si è macchiato di atrocità in seno al fascismo. Nel corso del viaggio un ex gerarca viene individuato dai compagni di viaggio e da quel momento entrano in conflitto la volontà di chi intende consegnarlo alla giustizia ed il cinismo del fuggiasco pronto, di nuovo, a qualsiasi nefandezza pur di assicurarsi la libertà a scapito degli altri. Sarà il figlio di questo fascista a rompere i rapporti col padre e a facilitare la sua cattura in Francia. Siamo così messi di fronte ad una rottura generazionale in cui i figli devono essere pronti a rompere i legami coi padri quando questi si sono macchiati di colpe indelebili. La nuova Italia deve saper recidere nettamente i legami col Ventennio fascista: è questo il messaggio che si palesa nell’opera di Soldati.

Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi

Nel film di Germi, Il cammino della speranza, la chiusura delle miniere nell’agrigentino obbliga intere famiglie ad intraprendere il viaggio verso la Francia, un cammino della speranza, appunto, che li costringe ad attraversare un’Italia del tutto ignota ed il film ci mostra come ad ogni tappa di questo interminabile viaggio gli emigranti si trovino a dover riconfigurare la loro identità. I personaggi del film di Germi rappresentano un popolo in cammino che prova a rinascere dopo la tragedia della guerra. «Se Paisà (Rossellini, 1946) ripercorreva da Sud a Nord il Paese per seguirne e testimoniarne la liberazione, nel film di Germi l’attraversamento coincide con una fuga verso uno spazio poco più che sognato» (p. 335). Secondo David Forgacs in entrambe le pellicole l’attraversamento del Paese diventa l’occasione per mettere a contatto le diversità regionali in una visione globale della nazione che rinasce (D. Forgacs, “Neorealismo, identità nazionale, modernità” in: L. Venzi, a cura di, Incontro al Neorealismo. Luoghi e visoni di un cinema pensato al presente, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 2007).

In Stromboli, terra di Dio (1950) di Roberto Rossellini compaiono diverse soggettività migranti. La profuga lituana Karin, interpretata da Ingrid Bergman, che vive “da straniera” il territorio e le regole sociali in cui è proiettata, trovandosi di fronte al rifiuto del visto per emigrare in Argentina, finisce con lo sposare un militare italiano che la conduce alla propria terra natale, l’isola di Stromboli. La coppia si trova a doversi confrontare con un tessuto sociale deformato dai processi migratori: una terra che ha visto da una parte i giovani emigrare in Australia e gli anziani fare ritorno sull’isola dopo essere stati emigranti all’estero.

In Emigrantes (1948) di Aldo Fabrizi, qui all’esordio come regista, si racconta di una famiglia romana costretta dalla povertà a imbarcarsi verso il Sudamerica. Dopo la partenza da Roma e le trafile burocratiche presso il Consolato argentino a Genova, i protagonisti del film si imbarcano su una nave affollata per raggiungere l’Argentina ove, tra mille peripezie, riescono a sistemarsi. Scrive a tal proposito Coviello: «Il film di Fabrizi è una minuziosa ricostruzione delle fatiche dell’emigrante al quale non manca il lieto fine con tanto di matrimonio annunciato tra nazionalità e classi sociali differenti, tra la figlia del manovale italiano e l’ingegnere edile argentino» (p. 337).

Sempre attingendo dal prezioso studio di Massimiliano Coviello “Emigrazione” si tratta ora di vedere quanto accaduto a partire dalla seconda metà del Novecento iniziando dalla rappresentazione degli emigranti italiani proposta dalle commedie realizzate tra gli anni ’50 ed i ’70, periodo caratterizzato, oltre che dalla prosecuzione dell’emigrazione verso l’estero, dalla “grande migrazione interna”, cioè da un massiccio spostamento dalle zone rurali del Sud verso le città industriali del Nord e dal cosiddetto “miracolo economico”.

Scrive a tal proposito Coviello: «Industrializzazione, esodo, inurbamento di massa, modernizzazione, miracolo economico: mentre questa successione causale di fenomeni sociali ed economici pone gli italiani di fronte a grandi cambiamenti, il cinema […] scandaglia e svela i meccanismi tragicomici, grotteschi, alla base del progresso e della conquista “forzata” del benessere» (p. 339). A titolo esemplificativo si possono citare film come I vitelloni (1953) e La dolce vita (1960) di Federico Fellini, Una vita difficile (1961) di Dino Risi, Il boom (1963) di Vittorio De Sica.

Molti personaggi che popolano le pellicole di questo periodo incentrate sulla questione migratoria soffrono di nostalgia ma, sottolinea Coviello, con gli anni ’60, la commedia inizia a mettere in scena la deflagrazione della società negli anni del boom economico.

La soggettività introflessa su cui si fonda la chiusura nostalgica è alla base della disseminazione degli stereotipi comportamentali che caratterizzano le forme di rappresentazione commediche, grottesche e quindi in bilico tra il comico e il patetico, dell’emigrante. La riconoscibilità dell’italiano all’estero, come del meridionale emigrato al Nord, è contrassegnata da una spessa patina di cliché, ma questi ultimi, al pari di una presunta capacità di adattamento (“l’arte di arrangiarsi”), lungi dal costruire quello spazio discorsivo necessario alla negoziazione di norme e valori, sono la causa di un volontario e fin troppo esplicito disadattamento o, all’estremo opposto, di un’integrazione subita o delegata (p. 342).

Numerosi emigranti messi in scena dalle commedie degli anni ’60 e ’70, si pensi, ad esempio, a diversi personaggi interpretati da Alberto Sordi, «indossano maschere della prestazione (l’immagine del sé proposta in pubblico) attraverso un eccesso di dissonanza» (p. 342). Si tratta sovente di personaggi impostori sia con gli altri sia con se stessi, veri e propri millantatori, «caricature afflitte dal peso delle origini nei confronti delle quali non riescono a creare uno scarto, chiusi all’interno di stereotipi che li rendono estranei rispetto ai contesti di arrivo» (p. 343).

Ne Il diavolo (1963) di Gian Luigi Polidoro

la trasferta di lavoro verso la Svezia viene “deformata” già a partire dal viaggio in treno, dove il finestrino dello scompartimento si trasforma in uno schermo sul quale la voce di Sordi proietta le sue attese e lascia trasparire bellezze nordiche. Il personaggio interpretato da Sordi è un catalizzatore di pulsioni plasmate dall’immaginario massmediatico – è una guida turistica acquistata prima della partenza a orientarlo nei comportamenti – che vanno alla ricerca di soddisfacimento. Ancora una volta, non si tratta di compiere degli aggiustamenti alla propria identità, ma di imporre una differenza e di subire gli scacchi dell’estraneità. Invece, quando il desiderio è di assomigliare all’altro, Sordi lo asseconda sfruttando modelli precostituiti, “indossando” stereotipi che risulteranno fallimentari (p. 343).

Coviello sottolinea come ne Il gaucho (1964) di Dino Risi si possano individuare due diversi modelli d’integrazione fallimentare dell’emigrante. Al primo modello è riconducibile il personaggio interpretato da Amedeo Nazzari, un esempio di nostalgia patologica per l’Italia, esplicitata come anacronistica. Il secondo modello, di cui veste i panni Nino Manfredi, è quello di chi, avendo fallito nel far fortuna, si torva a dover vivere nell’ombra, tentando di celare il più possibile il suo essere straniero e povero.

La commedia è un potente strumento per esasperare e deformare molti dei temi e dei correlati passionali legati all’emigrazione. Bloccato nei cliché, all’emigrante non resta che un destino parodico. L’orizzonte commedico non garantisce alcuna negoziazione ma solo il modellamento o lo scontro grottesco con un mondo ostile. Se la colpa aveva marchiato la figura dell’emigrante durante il fascismo e imposto una dinamica narrativa fondata sul riscatto attraverso il ritorno, nel modello sentimentale della commedia l’eccesso nostalgico si manifesta anche attraverso l’impossibilità del rimpatrio. Chiusura nel sé, incapacità di comunicare con l’altro o, al contrario, conformazione, assuefazione: le forme della commedia scandagliano i tratti patologici della nostalgia attraverso maschere consonanti o dissonanti rispetto a modelli sociali già infermi (p. 346).

Permette? Rocco Papaleo (1971) di Ettore Scola

In film come Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Tutto a posto e niente in ordine (1974), entrambi di Lina Wertmüller, il mondo operaio di chi ha lasciato il Sud per stabilirsi al Nord è presentato come esasperato dalle conflittualità tanto politiche quanto amorose. In Permette? Rocco Papaleo (1971) di Ettore Scola, attraverso la parabola di un pugile fallito che diviene minatore in Alaska, si racconta il desiderio di chi, intendendo riscattarsi socialmente, finisce travolto dalla frenesia consumistica lungo le strade di Chicago.

Coviello si sofferma anche su un paio di commedie dei primi anni ’80 in cui ravvisa il tentativo di abbandonare o di denunciare i cliché, dopo averli subiti: Bianco, rosso e Verdone (1981) di Carlo Verdone e Ricomincio da tre (1981) di Massimo Troisi. Uno degli episodi che strutturano il primo dei due film, incentrato su personaggi che attraversano l’Italia per recarsi a votare, ha come protagonista Ametrano, un emigrante lucano trasferitosi a Monaco di Baviera che fa ritorno in Italia proprio per recarsi alle urne al paese natale. Il tragitto compiuto da questo emigrante si rivela un incubo costellato da una serie interminabile di angherie: l’Italia si rivela del tutto inospitale nei confronti di chi vi fa ritorno, seppur momentaneamente, dopo essersi trasferito all’estero. Nella commedia di Troisi, invece, il protagonista tenta di opporsi allo stereotipo che identifica per forza di cose nel napoletano presente al nord un emigrante. Ad essere rivendicato dal protagonista è il “diritto al viaggio”, «la possibilità di trasformare la sua identità, senza per questo doversi allontanare dalle sue origini culturali» (p. 347).

Nell’ambito delle migrazioni comprese tra gli anni ’50 e ’70, le difficoltà di integrazione sono al centro di diverse pellicole che adottando prevalentemente il tono drammatico. Nel cortometraggio Il bar di Gigi (1961) di Gian Vittorio Baldi, ad esempio, vengono documentai gli incontri in un bar che funge da punto di ritrovo a Torino per molti emigranti, mentre in Fata Morgana (1962) di Lino Del Fra ad essere documentate sono le storie degli emigranti in viaggio sul treno che dal Sud li porta a Milano.

In Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti si mostrano le vicissitudini di una famiglia costretta a lasciare il Sud, dopo la morte del padre, in cerca di lavoro nella Milano industriale. A proposito di tale pellicola scrive Coviello: «Man mano che la trasformazione identitaria, le prospettive di integrazione e l’assorbimento nella vita urbana si manifestano […], l’integrità del nucleo originario, l’iniziale coesione familiare si disgrega» (p. 349). Se il contatto col nuovo spazio urbano settentrionale in cui viene a trovarsi a vivere segna il disfacimento della famiglia meridionale, nel film Così ridevano (1998) di Gianni Amelio c’è chi opta per una volontaria autoesclusione dalla città e dalla società in cui si trova proiettato e l’unico contatto che ha con esse è dato dal luogo di lavoro, mentre il resto delle giornate è trascorso frequentando solo gli scantinati fatiscenti abitati dai suoi pari. L’emigrante catapultato all’interno dei cancelli della grande industria del Nord, costretto a fare i conti con la catena di montaggio, è invece raccontato da Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat Nam (1973) di Ettore Scola, film che ricorre anche ad alcune immagini documentarie.
Se ne Il posto (1961) di Ermanno Olmi si narra il trasferimento dalla campagna brianzola alla metropoli milanese, nel film I fidanzati (1963) il medesimo regista focalizza invece l’attenzione su un individuo che si trova a dover affrontare una trasferta lavorativa in una Sicilia rurale, passando le sue giornate tra la desolazione dei caseggiati industriali ed un mondo contadino a lui del tutto sconosciuto.

Non mancano nemmeno film che fanno riferimenti a tragici episodi reali che hanno toccato gli emigranti italiani all’estero. Nel film La ragazza in vetrina (1961) di Luciano Emmer, ad esempio, la lunga sequenza che mostra i minatori intrappolati rimanda palesemente al disastro consumatosi soltanto qualche anno prima, nel 1957, nelle miniere di Marcinelle, in Belgio, ove hanno lasciato la vita tanti emigranti italiani.

Nel cortometraggio Emigranti (1963) di Franco Piavoli viene mostrato lo spaesamento generato dalla grande stazione ferroviaria di Milano negli emigranti che

manifestano la loro incapacità di adeguamento, l’impossibilità di acquisire punti di riferimento. Lo spaesamento indica quella condizione di radicale incapacità di gestione dell’ambiente circostante, a cui si accompagna la consapevolezza di essere fuori posto. D’altra parte, la condizione di spaesamento contraddistingue anche il viaggio di ritorno e il reinserimento del migrante. A partire dall’interazione tra i ricordi personali e l’ambiente considerato familiare, il soggetto ha bisogno di rintracciare, attraverso quelle forme di interazione quali il discorso o la memoria collettiva, gli elementi che suturino il divario, temporale e culturale, accumulato. Il rischio è la percezione di un sentimento di duplice estraneità, all’interno e all’esterno della propria dimora (p. 352).

A partire dagli anni ’90 l’immigrazione verso l’Italia inizia a divenire un fenomeno importante, vissuto ed affrontato dal mondo politico, non senza una nutrita dose di demagogia, soprattutto come “emergenza da arginare”. Il cinema italiano nell’affrontare la questione di questo diverso e nuovo tipo di immigrazione ha spesso elaborato particolari modalità di rappresentazione, come ad esempio il miscelare fiction ed immagini documentarie di repertorio.

I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come vengono rappresentati gli zombie in molti film e serie televisive, come folla indistinta, come orda trasandata che avanza mettendo in pericolo la vita delle comunità civili. Si tratta di un vero e proprio processo di deindividualizzazione quello operato dai media nel rappresentare i nuovi arrivati che finisce con l’agire in profondità nell’immaginario collettivo.

Dai cinegiornali di epoca fascista al racconto cinematografico delle migrazioni, l’inquadratura oggettiva, il totale, è espressione del controllo sul territorio e sui corpi compressi nello spazio inquadrato. Il totale delle navi sovraccariche di migranti – inquadratura che esclude il punto di vista soggettivo – collabora alla costruzione della massa migrante, insieme compatto in cui le singolarità si annullano. I mass media nazionali mostrano, spesso attraverso le immagini prodotte dagli stessi apparati legalizzati di cattura ed espulsione, i profughi che da alcuni decenni sbarcano sulle coste italiane come un insieme ammassato su imbarcazioni di fortuna. Attraverso questo registro stilistico – esemplificato dal totale dall’alto che esprime un punto di vista estraneo alla diegesi (oggettiva irreale) – si realizza un processo di fusione che degrada e dissolve le identità in una massa (p. 356).

Lamerica (1994) di Gianni Amelio

Si può individuare una data precisa in cui i media italiani hanno iniziato a trattare i fenomeni migratori: l’8 agosto 1991, quando il mercantile Vlora approda al porto di Bari con a bordo ventimila albanesi in fuga dalla miseria ed attratti dall’immagine dell’Italia offerta dai canali televisivi italiani captati in Albania. A quell’evento si ispira il film Lamerica (1994) di Gianni Amelio, il cui incipit propone un parallelismo tra le immagini dei cinegiornali di epoca fascista che raccontano l’annessione “civilizzatrice” dell’Albania al Regno d’Italia (1939-1943) e l’arrivo degli albanesi lungo le coste pugliesi nei primi anni Novanta. In questo intreccio di immagini del passato e del presente, immagini documentarie ed immagini di fiction, si ha una moltiplicazione dei piani temporali utile a ricomporre i legami tra i fenomeni migratori. All’intreccio tra passato coloniale ed immigrazione albanese, si aggiunge la storia del protagonista del film, un militare italiano che alla fine della Seconda guerra mondiale non riesce a far rientro in Italia e resta in Albania sotto falso nome per evitare guai. Restato senza identità, il protagonista perde totalmente la nozione del tempo tanto che, pensando di trovarsi ancora negli anni ’40, s’imbarca su una nave stipata di albanesi in fuga dal paese immaginando di emigrare in America. Sul finale del lungometraggio Amelio inserisce un palese riferimento alle immagini televisive del mercantile Vlora preoccupandosi però di scomporre nelle sue singolarità la massa di emigranti sull’imbarcazione attraverso primi piani dei volti dei passeggeri e sguardi in macchina rivolti allo spettatore. L’autore si oppone così a quel processo di deindividualizzazione operato dai media nel mostre l’arrivo dei migranti.

Lo scritto di Coviello, a proposito dell’arrivo del mercantile Vlora al porto di Bari, cita anche La nave dolce (2012) di Daniele Vicari e Anija (2013) di Roland Sejko, due produzioni documentarie che ricorrono ad immagini di archivio rimontate e rielaborate attraverso zoom, rallentamenti e modifiche cromatiche per farle dialogare con racconti di alcuni protagonisti di quel viaggio verso l’Italia. «Queste interviste costituiscono il controcampo delle immagini di repertorio e se ne discostano non solo perché girate nel presente ma anche perché danno un volto e una voce agli individui prima compressi nella massa anonima, in quell’orda che i media dell’epoca hanno commentato e rappresentato come una minaccia» (p. 359).

Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese

Paolo Lago, nel libro La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema (Mimesis, 2016), nel capitolo dedicato alle “Navi emigranti e dell’esilio”, si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. A tal proposito scrive lo studioso: «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione” si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea Lago, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti.

Tornando ai migranti che giungono sulle coste italiane, Paolo Lago si sofferma invece su Terraferma (2011) di Emanuele Crialese. All’arrivo in Italia i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello subito un secolo prima dai migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi. Nel film viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

A proposito di Terraferma Coviello, nel suo studio, sottolinea come la figurazione dell’indistinto raggiunga i suoi estremi:

Mentre all’inizio del film il peschereccio sul quale lavorano alcuni dei protagonisti avvista in mare un gommone e porta in salvo un gruppo di migranti, nella seconda parte questi ultimi riappaiono nella notte, alla stregua di un banco di pesci. Eliminato il mezzo di trasporto, i naufraghi nuotano all’unisono nel mare buio non appena intravedono una fonte luminosa, per poi essere brutalmente allontanati a bastonate. La sequenza è speculare a una precedente in cui i turisti in villeggiatura affollano un’intera barca e, al ritmo di Maracaibo, ballano in attesa di tuffarsi. Senza soluzioni di continuità sembra possibile passare dalle navi che salpavano per il “nuovo mondo” [come nel film Nuovomondo] ai gommoni che approdano lungo le coste pugliesi e siciliane. Ciò che si sottopone al processo di indistinzione risulta facilmente assimilabile, “digeribile” oppure, proprio perché reso irriconoscibile, espulso. Pur producendo effetti opposti – nel primo caso il superamento del confine, l’esclusione nel secondo –, le due procedure non hanno conseguenze molto differenti. Infatti, in entrambi i casi, il processo di traduzione e negoziazione delle soglie tra le culture viene ostacolato e, nel caso dell’espulsione, annullato (pp. 360-361).

Con la globalizzazione non sono spariti i confini:

Pur mantenendo il suo statuto di tecnologia giuridico-politica utile a regolare il regime della legalità attraverso la dicotomia accesso/espulsione, il confine si è deterritorializzato, separando le sue funzioni di controllo dallo spazio cartografico, e diventando condizione esistenziale, dispositivo biopolitico in grado di determinare le possibilità di vita o di morte per coloro che tentano di raggiungere l’Europa. Il dispositivo di assoggettamento del confine implica meccanismi di soggettivazione che costringono il migrante a rendersi invisibile […], bruciando i documenti […] o nascondendosi nelle navi cargo e nei traghetti. I confini “virtuali”, deterritorializzati, sono le stesse imbarcazioni che trasportano i migranti nel Mediterraneo e che vengono monitorate e spesso respinte dagli organismi di sorveglianza delle frontiere (pp. 361-362).

Nel documentario A Sud di Lampedusa (2006), di Andrea Segre, Stefano Liberti e Ferruccio Pastore, si racconta l’attraversamento del deserto del Sahara da parte di tanti migranti attraverso camion di trafficanti senza scrupoli. In Come un uomo sulla terra (2008), di Riccardo Biadene, Andrea Segre, Dagmawi Yimer, la migrazione libica è invece raccontata direttamente da Yimer che partecipa all’opera sia come testimone-narratore sia come regista che, con la sua videocamera, registra storie per poi compararle con i documenti televisivi.

In Mare chiuso (2012), di Andrea Segre e Stefano Liberti, si raccolgono le immagini e le voci registrate direttamente dai migranti con l’intento di mostrare punti di vista diversi da quelli messi in onda dalla televisione italiana a proposito dei flussi migratori. Il punto di vista dei migranti raccolto attraverso i loro smartphone documenta la disumanità dei respingimenti in mare. Dei CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione, presenti in molte città italiane, si occupano alcuni documentari come, ad esempio, In nome del popolo italiano (2012) di Gabriele Del Grande e Stefano Liberti, La vita che non Cie (2012) di Alexandra D’Onofrio ed EU 013. L’ultima frontiera (2013) di Raffaella Cosentino e Alessio Genovese.

Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi

Una serie di opere documentano gli ambienti degradati in cui si trovano a vivere i migranti ed il loro venire a contatto con gli ambienti benestanti delle città. Appartengono a tale filone opere come Il resto della notte (2008) di Francesco Munzi, Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana, La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, Terra di mezzo (1996) ed Ospiti (1998) di Matteo Garrone, Civico 0 (2007) di Francesco Maselli, Good morning Aman (2009) di Claudio Noce. Storie di solidarietà sono narrate da Il villaggio di cartone (2011) di Ermanno Olmi, ove si racconta di una chiesa ormai chiusa al culto in attesa di essere sconsacrata che diviene rifugio per un gruppo di individui definiti “clandestini” dalla legge italiana ed “ospiti del Signore” dall’anziano parroco locale, ed in Isole (2011) di Stefano Chiantini.

Una parte della recente cinematografia italiana ha provato a raccontare l’attraversamento della penisola da parte degli immigrati, i loro sentimenti dello spostamento, scegliendo di restituire allo spettatore l’azione di uno sguardo “altro” che prova a collocarsi all’interno di un paesaggio spesso deturpato dall’azione umana, nella precarietà dei luoghi di lavoro, tra i pregiudizi della socialità (p. 366).

Pummarò (1990) di Michele Placido racconta di un immigrato ghanese che, intenzionato a raggiungere il Canada, decide di far visita al fratello in Italia. Durante l’attraversamento della penisola alla ricerca del fratello, il protagonista incontra le varie forme di sfruttamento a cui sono sottoposti i migranti. Una storia analoga è raccontata dall’opera documentaria Lettere dal Sahara (2005) di Vittorio De Seta ma, in questo caso, il protagonista, dopo aver subito le angherie riservate ai migranti, decide volontariamente di far ritorno in Senegal, ove racconta la sua tragica esperienza italiana ad altri suoi compaesani. Il resto è storia dei nostri giorni tutta da scrivere, filmare, raccontare e, soprattutto, determianre.

Ricapitolando

Il cinema italiano da inizio Novecento ai nostri giorni ha costruito, a suo modo, una storia dei flussi migratori ed ha contribuito a rafforzare o a contestare percezioni e giudizi sociali nei confronti dei migranti. Nei film in cui la migrazione è considerata una colpa ed un rimorso doloroso, il ritorno si propone come via obbligata per la redenzione. Il cinema fascista e quello coloniale tendono a nascondere le cause politiche ed economiche del fenomeno dell’emigrazione italiana, mentre invece esaltano la figura del colono in quanto artefice del progetto espansionistico. Tra gli anni ’30 e ’40, la cinematografia nazionale riduce l’emigrazione ad un fatto individuale, senza mai mettere in luce le dinamiche che determinano migrazioni di massa. Al termine della Seconda guerra mondiale, il cinema neorealista ha affrontato il fenomeno ponendo l’accento sul riscatto sociale cercato attraverso l’emigrazione. La commedia, dagli anni ’60 agli anni ’80, ha dato immagine ad una figura dell’emigrante schiacciata tra la nostalgia delle origini e l’integrazione forzata e ha dato vita ad una galleria di personaggi spesso grotteschi costruiti sui cliché dell’italiano all’estero e del meridionale al Nord. Negli anni ’90, il cinema nazionale ha iniziato ad affrontare le migrazioni verso l’Italia ed il confronto con l’altro ha spesso fatto ricorso a soluzioni espressive in cui immagini documentarie e finzione si sono spesso intersecate al fine di «costruire un immaginario con cui disinnescare le retoriche massmediatiche, le barriere culturali e i dispositivi biopolitici che relegano i migranti nella condizione esistenziale di confinati […] Attraversando la storia delle migrazioni e dei fili che le intrecciano sino al presente, il nostro cinema si affaccia sul contemporaneo e ci offre immagini in cui scoprire l’altro e ripensare la nostra identità» (p. 370).
 

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Lo vedi quante cose che ci sono da salvare, con la guerriglia culturale? (A.F.A.)

ddv6601732 – Tant’è, Flags of Our Fathers è un film destrorso di Clint Estwood, USA 2006 Ormai ‘sta faccenda dell’idolatria sbarazzina e manifesta di Eastwood mi pare cominci a diventare proprio una veltronata pericolosa. Perché ci risiamo anche stavolta: come in Salvate il soldato Ryan di Spielberg, qui si racconta tronfiamente dell’ultima guerra “giusta” degli Stati Uniti e, siccome viviamo in anni in cui – tanto per cambiare – gli USA si ritengono in missione per conto di Dio a menare mazzate per il mondo, alla fine l’assunto [...]]]> di Dziga Cacace

Lo vedi quante cose che ci sono da salvare, con la guerriglia culturale? (A.F.A.)

ddv6601732 – Tant’è, Flags of Our Fathers è un film destrorso di Clint Estwood, USA 2006
Ormai ‘sta faccenda dell’idolatria sbarazzina e manifesta di Eastwood mi pare cominci a diventare proprio una veltronata pericolosa. Perché ci risiamo anche stavolta: come in Salvate il soldato Ryan di Spielberg, qui si racconta tronfiamente dell’ultima guerra “giusta” degli Stati Uniti e, siccome viviamo in anni in cui – tanto per cambiare – gli USA si ritengono in missione per conto di Dio a menare mazzate per il mondo, alla fine l’assunto autoassolutorio è che se avevamo ragione da vendere allora – con nazi e musi gialli –, vuoi che abbiamo torto marcio oggi con quegli arabi isterici e puzzoni? E son mica io che mi faccio i film, eh, è Clint, perbacco! Flags of Our Fathers ci racconta di come una foto (quella celeberrima della conquista del monte Suribachi, in quell’isolaccia vulcanica di merda che è Iwo Jima) abbia significato moltissimo per la vittoria finale alleata e per risparmiare vite, anche giapponesi. E allo scopo ci si servì pure della menzogna e della più bieca propaganda… e questa sarebbe la parte più interessante e problematica del film, sennonché c’è una retorica di fondo – le immagini della bandiera, gli sguardi persi nel vuoto, la voce interiore del protagonista – che tutto appesantisce, calcando la mano su aspetti patriottici ed esistenziali che non avevano alcun bisogno di essere spiegati e dispiegati come una gigantesca stars and stripes. E anche il montaggio e la costruzione a incastro della vicenda, con le progressive scoperte e i dolorosi ricordi che affiorano, non mi son piaciuti per niente: meccanici, prevedibili e sempre un po’ fuori luogo. E non mi han fatto impazzire neanche le facce degli attori e la fotografia. E… insomma: ‘sto film mi ha fatto proprio cagare, diciamolo dritto come va detto, esteticamente e politicamente. A proposito della foto famosa, tra l’altro: l’autore, Joe Rosenthal, si è battuto una vita per difendersi dalla diceria che la foto fosse organizzata ad arte. Tutto nasce da un equivoco: il reporter ha visto dei marines che innalzavano la famosa bandiera. È accorso sulla cima del vulcano e ha fotografato un secondo gruppo di soldati che ripeteva (autonomamente) il gesto e dopo gli ha chiesto di posare sotto la bandiera. Quando Rosenthal ha spedito i rullini (non sapendo come avesse fotografato, mica c’erano le digitali, pora stella) ha fatto una sommaria descrizione del materiale e credendo che la foto migliore fosse quella in posa, l’ha indicata come tale. E da lì l’equivoco, corroborato dai sospetti di altri giornalisti e rilanciato più volte nel corso degli anni, al punto che alcuni hanno anche suggerito di ritirare il Pulitzer vinto con lo scatto. E invece era una bella fotina originale, brutti infingardi. Ma ribadisco: il film è confuso, non riuscito, destrorso e imperialista, tiè. (Dvd; 19/1/09)

ddv6602733 – L’isterico Cani arrabbiati di Mario Bava, Italia 1973
Straculto inedito per 25 anni che non riesco ad apprezzare granché (perché lo trovo interessante sì, ma anche bruttino, ecco perché) e che i critici estrosi portano in gran stima, come concentrato pulp ante litteram di efferata ultraviolenza, turpiloquio scatenato e generale insensatezza criminale, cose che – non si discute – 40 anni fa erano decisamente una bella botta. Però del primato me ne frega assai (a me importa chi fa le cose bene, come Pelé col Brut 33, non per primo) e questa regia di Bava padre è lontanissima dal suo classico tocco magico e sognante: è iperrealistica, sadica e compiaciuta di una rozzezza registica sicuramente programmatica ma per nulla affascinante nel suo sgangherato pauperismo. Dunque: c’è la classica rapina a mano armata che va subitissimo in vacca, con strascico di morti e fuga con ostaggio femmineo sulla macchina di uno sfigato che sta portando all’ospedale il figlio malato. Il “Dottore” sembra saperla lunga però si accompagna a due psicopatici, l’esuberante “Trentadue” (al cui confronto i 24 centimetri di Siffredi sono una bazzecola) e il sanguinario “Bisturi” (un inedito Don Backy, che sembra il giovane Stallone, isterico e sudato, tanto quanto il film stesso). Recitazione non particolarmente curata, montaggio scomposto, dialoghi acidi, fotografia lattiginosa, musica di Stelvio Cipriani pessima. Molta azione (anche psicologica) e ritmo non disprezzabile in un’Italia che sembra arcaica: il finale è riuscito, abbastanza inaspettato seppur intelligentemente anticipato dai titoli di testa, ma il film – nel complesso – mi pare che appaghi il gusto per la rarità di certi cinesegaioli piuttosto che essere un capolavoro misconosciuto come si va dicendo. (Dvd, gennaio 2009)

ddv6603734 – Viva Viva Santana! di Tom McQuade, USA 1988
Siccome mi sono imbarcato nella missione impossibile di raccontare la storia dell’incompreso compagno Carlos Santana, non posso esimermi dal vedere alcuni dvd che aspettano nella mia videoteca da eoni. Questo è un documentario che nel 1988 celebrava i vent’anni di carriera della band del magico chitarrista, con tante clip (dal 1969 fino al 1987) tratte da concerti o apparizioni televisive. Ogni tanto Carlos commenta e racconta e magari copre una splendida Samba Pa Ti del 1973 (argh!). Però l’idea è carina, le immagini incredibili, i completini del leader atroci. Per uno come me è il Nirvana, per qualunque altra persona non so. La cosa migliore è il pezzo conclusivo di un concerto tenuto a Santo Domingo nell’arena tipo teatro greco de La Romana (già di per sé una location kitschissima: l’ho visitata con imbarazzo primomondista quindici anni fa e i locali si vantavano che lì si fosse esibito Nicola Di Bari, per dire): un improvviso e violento acquazzone tropicale costringe a chiudere la baracca prima che qualcuno ci rimanga secco, fulminato attaccato allo strumento. Ma i Santana non mollano, le percussioni impazzano, la chitarra è senza freni e il pubblico è galvanizzato e balla nella pioggia, riparandosi con dei cuscini rettangolari che sembrano delle pizze da consegnare. A fine brano l’organizzatore nervosissimo annuncia che il concerto è finito per garantire l’incolumità dei musicisti ma dalle facce contrariate capisci che la band sarebbe andata avanti a rischio scossa mortale. Eccezionale: se il buon gusto latita nell’abbigliamento e in certe esagerate soluzioni musicali, comunque Santana rimane uno dei più grandi di sempre. Siccome non è cool nessuno lo ricorda mai, anzi, semmai ne mette in evidenza i peccadillos, ma per me nessuna musica rock ha corazon y cojones come la sua. Se voglio l’epica vado con lo Springsteen del 1978; se voglio salire a un livello diverso di percezione del reale datemi gli Allman Brothers del 1971; se devo sfogarmi, urlare e ballare prendo i Deep Purple del 1972. Ma se voglio tutte queste cose assieme, un po’ di jazz e anche una spruzzata di orgogliosa cafonaggine, beh, c’è solo Carlito. (Dvd; 23/1/09)

ddv6604735 – Il pessimo Signore e signori, buonanotte di Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola, Italia 1976
Un orrendo film a episodi firmato oltre che dai registi anche dai più grandi sceneggiatori nostrani (Age e Scarpelli, Pirro, Maccari, De Bernardi, Benvenuti) tutti riuniti in militante cooperativa e interpretato – tolto Sordi – dai senatori della commedia all’italiana Gassman, Tognazzi e Manfredi, più Villaggio e Mastroianni. Ma il risultato è deludente, freddo, pretenzioso e fuori misura: non fa ridere quasi mai (salvo forse l’episodio “di costume” del Disgraziometro – a me il Villaggio carogna diverte sempre), non fa granché pensare quando c’è un intento satirico esplicito ed è minimamente più interessante solo quando emerge una vena poetica (Tognazzi barbone, per esempio) o semplicemente realistica. L’ideale palinsesto di un futuribile terzo canale – che dà l’ossatura al film – risulta perlopiù una raccolta di sketch e barzellette di scarsa efficacia politica e credibilità, una sorta di qualunquismo “di sinistra” facilone che riesce difficile accettare come impegno reale, anche quando se ne avverte una sincerità (seppure mal espressa, vedi l’episodio napoletano Sinite Parvulos). Per quel che mi riguarda ritrovo quel cinismo di certo cinema italiano anni Settanta, greve e strafottente, col solito umorismo sui dialetti, sui morti di fame, sui difetti fisici, per non parlare delle tette messe lì perché fanno allegria a noi maschiacci che denunciamo i fascisti, la CIA, la chiesa, la tivù, le forze dell’ordine e i politici ma alla maniera nostra, da cazzoni. Mah, una fetecchia di film: solo un anno dopo un film commerciale senza pretese – vituperato dalla critica parruccona – come Il… Belpaese racconta e satireggia gli anni Settanta molto meglio, anche senza vantare i galloni autoriali di questa porcata. E non mi metto a citare neanche i primi Fantozzi, dài. (Dvd, febbraio 2009)

ddv6605736 – Bellissimo, lo ammetto, Letters from Iwo Jima di Clint Eastwood, USA 2006
Più intenso, umano, delicato – e decisamente riuscito – del film dedicato ai soldati americani a Iwo Jima, questo Letters nobilita il dittico di Eastwood. Però non illumina a posteriori Flags of Our Fathers mentre esserne l’ideale controcampo in qualche maniera gli nuoce, perché il dietrologo che s’annida in me ne vede la funzione equilibratrice e democristiana. Là guerra necessaria e giusta, qui guerra imposta e salvata solo dal proprio onore, ma comunque guerra sbagliata. Però dico sempre un sacco di vaccate, per cui non son neanche tanto sicuro di essere d’accordo con ciò che ho appena scritto. Letters from Iwo Jima è narrato pacatamente ed è atroce, lirico e commovente. È bella la struttura, funziona il montaggio, abbacina la fotografia e splendono gli attori, tutti in parte. Bello e straziante, sofferta e doverosa lode a Clint. Boh. Sarà che sono stremato dal sonno. Infatti Elena è molto simpatica, di giorno: amabilmente grassa e ridanciana. La notte però è meno gradevole. Ieri sera è andata a letto alle 20.10 e si è addormentata in pochi minuti in braccio a me che le cantavo Nebraska di Springsteen. Siccome non so andare oltre la seconda strofa, forse è per sapere come va a finire la murder ballad che s’è svegliata alle 21.00. L’ha riaddormentata Barbara, ma alle 22.15 la piccina ha urlato come Bruce Dickinson degli Iron Maiden. Da genitori responsabili l’abbiamo lasciata fare e si è riaddormentata di nuovo. Alle 23 è ripartito l’urlo Scream for me Long Beach che stavolta ci ha un po’ turbato, avendo nervi ormai fragilini. Però Barbara l’ha nuovamente assopita. A mezzanotte invece è stata un po’ più dura e son serviti 40 minuti per calmarla mentre io divoravo furiosamente a morsi un Negronetto. Avete presente il libro d’auto aiuto Fate la nanna? L’ha scritto un argentino (secondo me un nazista in fuga) senza figli, molto rigido con genitori e neonati, e non serve veramente a un cazzo, ecco. Alle 2 e 40 Sofia ha un attacco di tosse degna di Sandro Ciotti ed Elena viene prudenzialmente spostata in camera nostra per non farla svegliare. Cosa che però accade pochi minuti dopo, tanto che ne approfitta per ciucciare una tetta di Barbara che è troppo stravolta per far resistenza come consigliano tanti pediatri belli riposati perché la notte dormono, loro. Siccome alle 6 la palla di lardo richiede ancora latte bisogna darglielo se si vuol provare a sonnecchiare ancora un’oretta. Infatti alle 7 e 30 Elena si sveglia fresca come una rosa, sorridente e gutturale, pronta a una nuova giornata di borborigmi entusiasti. Siamo stremati. (Dvd; 8/2/09)

ddv6606737 – Gli imprevedibili turbamenti erotici di Cenerentola di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson e Hamilton Luske, USA 1950
Il classico dei classici che mai avevo visto prima. Esilino però ben costruito, fiaba perfetta per Sofia. Devo dire che l’ho visto pensando ad altro, anche perché grazie a Elena ho raggiunto nuovi traguardi cognitivi e ho capito cos’ha provato Padre Karas nella famosa scena del vomito verde de L’esorcista. Vabbeh. Dove lavoro ormai siamo in tanti a esser diventati genitori per cui spesso, a pranzo, si finisce a parlare della figliolanza. E di cinema per bimbi, praticamente l’unico che vediamo. Ci scambiamo pareri e dvd e siccome siamo una redazione di zozzoni (e mi assumo la responsabilità più alta) ci siamo ridotti ad eleggere la miglior CILF, cioè il Cartoon I’d Like to Fuck. Personalmente voto sempre la Jasmine di Aladdin, conturbante bellezza orientale profumata di spezie. Trilli di Peter Pan non mi attizza per niente anche se essere una gnocca tascabile potrebbe rappresentare un bel vantaggio. Della Sirenetta ho già detto, paventando l’ipotizzabile connubio ittico-genitale. E questa Cenerentola? No, non mi attizza per niente, tutta in ordine, borghesissima, buonissima, con gli occhioni sgranati. L’unico momento in cui mi suscita pensieri sporchi è quando le sorellastre Anastasia e Genoveffa le stracciano addosso l’abito da sera impedendole di andare al gran ballo del principe. E in questa scena degna di un lesbo prison-movie, Cenerentola, scarmigliata, coi capelli mossi e il respiro affannoso ha un suo perverso perché. Ma solo lì, eh. Ragazzi, io devo tornare a dormire, prima o poi. (Vhs; 17/2/09)

ddv6607738 – Accontentiamoci di Asterix e i vichinghi di Stefan Fjeldmark e Jesper Møller, Francia 2006
Devo dare un’educazione alla piccina che va per i 4 anni: a casa mia Asterix è un totem da adorare e procedo con la proposizione di un film recente che ha radici antiche, infatti la storia ricalca l’albo Asterix e i normanni del 1966, ma sposta l’azione anche nelle terre del Nord dove vivono gli ottusi vichinghi che mangiano tutto condendo con panna e salmone. Alla trama si aggiunge una vicenda d’amore tra il giovane Spaccaossix (nel fumetto era Menabotte) e Abba, nuovo personaggio figlio di Grandibaff. Spaccaossix è vegetariano, pacifista (ergo smidollato) e gli piace la musica dance, mentre nel ‘66 era un capellone che amava il beat (da ascoltare rigorosamente all’Olimpix di Lutezia!). Accetto i tradimenti a Goscinny e Uderzo e trovo il film passabile nonostante certi giovanilismi (il linguaggio gergale atroce, il piccione SMS, la moglie di Grandibaff Ikea… tra vent’anni sarà obsoleto anche questo cartoon). Più che altro apprezzo la fedeltà del disegno, dai personaggi agli sfondi, anche nella resa tridimensionale; le musiche ruffianeggiano tra cover d’annata e qualche botta di modernità. Sofia ne rimane entusiasta, io – da vecchio fan – approvo sornione e generoso. Ma a parte francesi, bimbi e vecchi rincoglioniti (come me), a ‘sto film non trovo un pubblico. (Dvd; 14/03/09)

ddv6608739 – L’investimento piramidale in Lost – Quarta serie di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2008
Innanzi tutto, attenti agli spoiler, perché mi scapperanno. Dunque: sette mesi dopo la terza serie, ci buttiamo sulla quarta non appena la piccola Elena ce lo permette. Apro un inciso, doloroso: siamo arrivati anche a 13 sveglie notturne e a 3 notti bianche consecutive (il Festival del Samba di casa Cacace) ma adesso va leggermente meglio: ho deciso di dormire in camera col mostro. A intuito ho cominciato a intimarle degli ssssh, appena lei prende a lamentarsi nel sonno, perché la carogna non si sveglia mai però sbadiglia, piange, urla, singhiozza mentre dorme: forse è un precoce pavor nocturnus, forse sono i postumi della sesta malattia, forse l’anticipazione dei denti che stanno uscendo, forse è una bestemmia che non voglio qui riportare. Boh. Io più o meno sto sveglio fino alle 5 del mattino quando passo la palla a Barbara che s’è fatta nel frattempo circa 7 ore di sonno. Io ne dormo 3 e poi si riparte. Ho la faccia ridotta come un cesto di vimini, per capirci. Però – come dicevo – qualche mezz’ora si trova ed è sempre un piacere tornare a perdersi sull’isola, un piacere enorme. E anche un gran casino: adesso abbiamo anche i flashforward e i viaggi nel tempo che si sovrappongono a flashback di diversa “profondità” temporale, giocando spesso sull’equivoco se siano ambientati prima o dopo il crash landing che ha dato avvio alla storia. Ogni puntata ha in serbo qualche tranello e tu abbocchi all’amo se non stai attentissimo a tutti i particolari, come un cellulare troppo grosso per essere post salvataggio… cose così; una sfida continua ai tuoi sensi di spettatore, alla tua conoscenza dei meccanismi narrativi, alla tua credulità portata sempre più a livelli esasperanti. L’apparato tecnico è clamoroso come sempre (non pensi mai: è televisione; lo vedi sempre come cinema e a un livello superiore). Gli attori hanno facce eccezionali, a parte Evangeline Lilly, Kate, che mi irrita perché sembra un coniglio farcito di botox. Il cuore della serie è il fatto che c’è un futuro in cui è stato fatto credere che il volo 815 sia finito in fondo all’oceano e si siano salvati solo sei persone (gli ormai popolarissimi Oceanic Six). Ma come si arriva a tutto ciò? Chi ha organizzato la messinscena? Chi sono i sei? E gli altri? Fioccano anche le ipotesi teologiche. L’incredibile manipolatore Benjamin è Dio. O forse no, ma l’isola è il Paradiso. O l’Inferno. E sono tutti morti. O gli spettatori sono tutti morti. Io sono morto, su questo non ci piove. Non capisco veramente più una minchia, ma se E.R. è il drama televisivo per eccellenza, e 24 è il thriller perfetto, allora Lost condensa action, thriller complottistico, fantascienza e tutta la pop culture degli ultimi 40 anni in maniera sublime, realizzando la fiction perfetta, che ti fa prigioniero sull’isola che non c’è. Perso, per sempre, in attesa che ci spieghino cosa cazzo è successo. (Aggiungo: il finale della serie fa presagire brutte cose, e tempero l’entusiasmo di questo parere: all’improvviso mi son sentito come quelli che aderiscono ingenuamente a un programma di investimento multilevel, o comunque una di quelle truffe piramidali dove continui a versare soldi – e qui coinvolgimento spettatoriale – in attesa del riscontro finale… oh, non è che questi fanno crac e a me rimane in mano un pugno di mosche? Mah). (Dvd; aprile 2009)

ddv6609740 – L’esotico Kiriku e la strega Karabà di Michel Ocelot, Francia/Belgio 1998
Fiabona africana molto serena che a Sofia piace da impazzire: credo che l’avrà vista venti volte tra aprile e maggio. Lo dessero ora in un cinema, potrei salire sul palco e recitarne a memoria alcune scene, tipo Rocky Horror Show. Kirikù è un neonato da incubo che parla e cammina come un adulto e appena uscito dalla pancia di mammà decide di rimettere le cose a posto perché l’efferata strega Karabà ha ammazzato tutti i maschi del villaggio, gli ha tolto l’acqua e pretende i gioielli delle donne. Insomma una Totò Riina della giungla al cubo. Ma Kirikù, con la sua intelligenza, i consigli del nonno e l’aiuto degli animali scopre perché Karabà è così cattiva e incazzata. E risolve: lei diventa una gnocca maestosa, lui uomo fatto e presto vivranno tutti felici e contenti, copulando allegramente ai margini della savana. Film poetico e coloratissimo, dal ritmo pacato ma steady e accompagnato da belle musiche etniche di Youssou N’Dour. Il disegno sembra semplice ma è evocativo e ricchissimo di texture e composizioni geometriche e cromatiche. Karabà ha la voce di Veronica Pivetti, ma visto il perenne grugno sarebbe stata più giusta Irene. (Dvd; tutto aprile 2009 e oltre, aiuto)

ddv6610741 – Il rivelatore Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris, USA, 2006
Molto carino e molto amaro. Sotto la buccia agrodolce c’è il veleno di una nazione che vuole e deve essere vincente e sta perdendo tutto da anni. Little Miss Sunshine è un film intelligente che molti sempliciotti hanno visto come una curiosa commedia dal piglio indie, ma così non è, non solo. Seguitemi nel mio carruggio: è l’autoanalisi di un paese abitato da bambini che non vogliono o non sanno diventare adulti, che desiderano a ogni costo un premio che li gratifichi, anche in modo vicario. Soldi, sesso, fama, e talvolta semplicemente affetto. Capito? Bene. Solo che non ho voglia di aggiungere altro, semmai vi vorrei parlare di un’altra cosa: Barbara e io ci stiamo avvicinando all’anno senza sonno, causa la piccola Elena. Quando sento gente entusiasta delle notti bianche che ormai qualunque sminchiatissima Pro Loco organizza, lo vorrei invitare a passarsi qualche seratina a casa mia. Siamo avvolti in una perenne nebbia mentale, ma ci sono alcune cose che ho imparato e voglio trasferire ai futuri padri. Allora: posso affermare con sicurezza che i bimbi sotto un anno non dormono, ma nel caso miracoloso che ciò avvenga bisogna evitare alcune cose che provocano la loro immediata sveglia. E sono:
A) L’accensione di una meritata sigaretta. Di solito il neonato attende esattamente la prima boccata, poi fa capire rumorosamente la sua disistima per il genitore fumatore e se si potesse tradurre la lallazione individuereste parole come “polmoni”, “cardiocircolatorio” e “cancro”, son sicuro.
B) La telefonata, specialmente se improcrastinabile e per lavoro. Mentre il segnale dà libero si può già apprezzare qualche singulto del piccino, ancora equivocabile per un’allucinazione sonora. Nel momento in cui il chiamato risponde, avete la certezza che invece il bimbetto è sveglio e quando provate a spiegare la situazione per richiamare più tardi, il neonato sta probabilmente urlando in maniera che non servano ulteriori delucidazioni.
C) L’accensione del PC. La casa tace nel buio e vi dite: potrò adesso concedermi un rilassante solitario sul PC? Potrò magari controllare la posta? Scrivere due righe? Sì, evvai! Accendete il PC e fin lì tutto bene. Ma se aprite un programma cominciano i guai. Il top del pericolo si raggiunge con l’apertura del gioco Hearts. Il demonio a orologeria strepita improvvisamente mentre state realizzando un cappotto epocale. Vi distrae, dimenticate il conto della carte e vi prendete una fracassata di punti. E dovete pure riaddormentare lo stronzetto.
D) La cosa più pericolosa: la defecazione. Siete sulla tazza, finalmente rilassati, in una fin troppo a lungo rimandata seduta espulsiva. Sta cominciando il download ed esattamente a metà strada avvertite l’urlo disumano della Belva che vi costringe a rimangiarvi tutto o a troncare a metà il discorso.
Tutte queste belle cose, per dirvi che nottetempo io ormai evito di fumare, telefonare, accendere il computer e sommamente cagare. Di solito finisce che mi rifugio in cucina dove ingurgito bulimicamente Caprice des Dieux interi, che sbuccio come banane e divoro tali e quali, ecco come son ridotto. (Dvd; 16/4/09)

(Continua – 66)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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La grande bellezza https://www.carmillaonline.com/2014/04/04/la-grande-bellezza/ Thu, 03 Apr 2014 22:01:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13666 Pensierini di Dziga Cacace

???????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????553 – La grande bellezza di Paolo Sorrentino, Italia/Francia 2013 Mi violento e accetto la proposta di Barbara, ché in fondo ha ragione pure lei: sabato al cinema. Propone il San Carlo dove ho visto diversi film negli anni Novanta, tutti rigorosamente proiettati trapezoidalmente in maniera grottesca. Rifiuto. Allora c’è il Centrale, che ha solo 100 posti. Accetto. Ci avventuriamo in centro sulla vecchia Ka, fradicia di pioggia, ma la fortuna aiuta gli audaci: troviamo posto vicino alla sala e poi, arrivati a dieci minuti dalla proiezione, anche dentro. Seconda fila. Quando vedi i puntini dello schermo [...]]]> Pensierini di Dziga Cacace

???????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????553 – La grande bellezza di Paolo Sorrentino, Italia/Francia 2013
Mi violento e accetto la proposta di Barbara, ché in fondo ha ragione pure lei: sabato al cinema. Propone il San Carlo dove ho visto diversi film negli anni Novanta, tutti rigorosamente proiettati trapezoidalmente in maniera grottesca. Rifiuto. Allora c’è il Centrale, che ha solo 100 posti. Accetto.
Ci avventuriamo in centro sulla vecchia Ka, fradicia di pioggia, ma la fortuna aiuta gli audaci: troviamo posto vicino alla sala e poi, arrivati a dieci minuti dalla proiezione, anche dentro. Seconda fila. Quando vedi i puntini dello schermo significa che sei un po’ troppo appiccicato, ma me ne faccio una ragione perché ci rendiamo conto subito che questo non è un film che si possa vedere in tivù o sul computer. È visivamente straordinario, montato benissimo e fotografato in modo scintillante da Luca Bigazzi, stabilendo un’imbarazzante distanza figurativa con tanto anonimo cinema italiano. Tutto l’apparato di supporto è al massimo livello: la scelta della musica, mai banale (anche quando estremamente easy e kitsch, vedi Sinclair vs. Carrà o l’atroce remix house di Tu vuo’ fa’ l’americano); i volti e le interpretazioni del cast (tutte facce che raccontano storie solo a vederle, specialmente le donne: Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Serena Grandi, Isabella Ferrari), i dialoghi, essenziali e (furbescamente) aforistici e citabili. La vicenda, narrata per brevi flash e sequenze più corpose, è sostanzialmente il bilancio di una vita: Jep Gambardella, giornalista dominus delle notti romane e un tempo romanziere con un ormai introvabile esordio, riflette guardando la povertà del presente, la vacuità del mondo che lo circonda, risolvendosi infine a riprendere a scrivere: solo la bellezza ci salverà. Forse.
All’inizio sembra un film sull’Italia devastata di oggi, osservandone il profilo più effimero (le terrazze romane di pseudo intellettuali, gli insulsi spettacoli d’arte concettuale, la vita notturna della capitale), poi man mano che il film cresce intorno alla figura di Toni Servillo (gigione, sì, ma se lo può permettere, sinceramente) la morale diventa universale e il nostro paese è solo lo sfondo perfetto per la riflessione di Sorrentino e del suo personaggio che proustianamente rievoca quando ha perso l’innocenza e la bellezza, il ricordo della quale lo porterà di nuovo a scrivere. I critici si sono scannati tra detrattori ed esaltatori, tirando fuori a più riprese La dolce vita, che fotografava con amarezza l’Italia del boom, mentre questa Grande bellezza ne sancisce la fine, dove “tutto è solo un trucco”, come la grande illusione del cinema dimostra. Certo, c’è Roma, c’è un giornalista e c’è un finale di speranza su un volto femminile innocente, quasi a ricordarci che non si possa fuggire da Fellini, ma il paragone mi sembra pigro per tanti motivi e la poetica del regista napoletano è autonoma e ha del miracoloso oggi, in una cinematografia nazionale che fa quasi sempre della povertà una scusante a priori. Là, in Fellini, c’era un giornalista che assisteva alla crisi di fede di una nazione che diventava ricca (e la crisi passava dall’intellettuale suicida al popolino in attesa di miracolo, tutto mentre il Cristo volava via alto nel cielo di Roma), qui in Sorrentino è tutto rovesciato: l’Italia che diventa povera (non solo materialmente) è lo sfondo della crisi personale di un uomo che la fede la ritrova. Se formalmente alcune cose rimandano a Fellini (più Roma che La dolce vita, e sicuramente non la struttura, nel riminese sempre per lunghe sequenze, qui più frammentata), è proprio diversa la sostanza e mi stupisce che bastino un nano, qualche suora e un prelato goloso per cascare nell’equivoco semplificatorio (e nessuno che invece colga nel prefinale l’omaggio alla serenità bertolucciana in quel dolly che ascende mentre diverse coppie ballano in un prato). E poi – se vogliamo dirla tutta – ci sono anche tantissimo Pasolini, molto Flaiano, Scola e tutta quella modalità visiva di rappresentazione metafisica da De Chirico in giù, e se la citazione o il rimando sono funzionali al racconto e non fini a se stessi, non vedo il problema.
Poi, oh, io non sono all’altezza di un commento serio (e tanti che ho letto sui quotidiani meriterebbe di finire dentro il film, polverizzati dall’ironia di Gambardella e inchiodati alla loro inutilità), ma lo ammetto: sono stato ubriacato da questa Roma vista attraverso il filtro barocco dell’artificio (come quando la Ferilli cammina nella galleria prospettica del Borromini, a Palazzo Spada). Una vertigine iconografica da far girare la testa, travolti da muri rossi e mattoni sbreccati, marmo, fontane, acqua e antiche dimore di nobili decaduti, statue, turisti che muoiono per troppa bellezza, suore e preti e cardinali, pini mediterranei e giardini e rovine e monumenti, il Tempietto del Bramante e il Colosseo, teatro, yoga e danza e vibrazioni inesistenti ma spacciate per tali, tatuaggi, abbronzature, droghe e iniezioni di collagene e plastiche facciali e corporee perché questa è l’Italia: un corpo in disfacimento martoriato dalla chirurgia estetica per mascherare cosa siamo diventati.
“Roma ti fa perdere un sacco di tempo” e ti emoziona, ti sconvolge, ti mette di fronte a una bellezza ineguagliabile e tanto più schiacciante se paragonata alla bruttezza attuale, intellettuale e antropologica. E ti tradisce, come ricorda Verdone che torna al paese, deluso: “Che cosa avete contro la nostalgia?”. Io niente, figurati che ho nostalgia anche degli anni Ottanta… ci pensavo ieri: chi era Spadaccia? Si può avere nostalgia di Gianfranco Spadaccia? Mah!
La consapevolezza che Gambardella acquisisce dopo due lutti, un ennesimo compleanno e un’inaspettata prova d’amore (in ordine sparso “Alla mia età una bella donna non è abbastanza”, “È stato bello non fare l’amore con te” e ancora “Che belle persone che siete!”) mi ha conquistato e commosso, come son stato emozionato alle lacrime dal breve incontro con madame Ardant (questo è il cinema!) o sorpreso dal trovare l’impunito Venditti al ristorante.
E poi, ne La grande bellezza, non c’è il consueto piagnisteo contro gli altri, sentendosi gli unici puliti e giusti: il protagonista sente la sua appartenenza al marciume che deride e, certo, questa ambiguità può dar fastidio. È un’ironia reazionaria che diventa anche autoassolutoria, perché Gambardella e Sorrentino fan parte del mondo che criticano e non se ne chiamano fuori radicalmente, ulteriore (involontario?) segno di quell’identità nazionale che il film fotografa in modo impietoso.
La grande bellezza Cacace 2Ma queste son letture dovute anche a come critica e politica hanno accolto il film, e mi pare che affrontino solo uno dei versanti. È il lato esistenziale che viene sottovalutato (perché si presta poco anche a considerazioni, se non che questa è una storia che abbiamo già sentito: non avvertite profumo di fragole?) ed è lì che trovo – a differenza della freddezza troppo spesso rimproverata al regista – un calore nella narrazione, avvolta dalla luce soffusa e rosata che incendia Roma al tramonto e all’alba. Il regista partecipa la disillusione, la consapevolezza e infine la ritrovata felicità di Gambardella (“Il futuro è meraviglioso, Stefa’”), ci fa vedere l’amarezza di Verdone (erano ANNI che lo volevo in un ruolo drammatico, non a fare la macchietta: non è vero che è sempre se stesso, qui c’è dolore!) o la profondità ignorante della Ferillona (perfetta, tutto sommato) che sta affrontando il dramma della malattia con la sola voglia di vivere.
Mi lascia perplesso la meccanicità del finale (il miracolo coi fenicotteri e la “santa” simil Madre Teresa che ricorda l’importanza delle radici con grottesco didascalismo), ma m’è talmente piaciuto il film che avrei già voglia di rivederlo, per goderne ancora. E son pochi i film che mi hanno provocato questa reazione in tempi recenti. Ah: l’Oscar, giusto. Siccome la visione di Roma è folgorante si presagisce una vittoria. Gli americani amano le cartoline dall’Italia, si sa, ma qui di cartoline – se la cartolina è la banalizzazione del bello – io ne vedo poche, mentre il testo, come grammatica e significati, mi sembra lontanissimo dalla comprensione di Hollywood. O forse no. Boh, vedremo. (Cinema Centrale, Milano; 1/2/14)
P.s.: mi ero sbagliato, tanto per cambiare: il film vince l’Oscar e subito parte la consueta divisione dell’Italia tra pro, contro e superiori annoiati. Mediaset lo manda in onda due giorni dopo la vittoria (con audience stratosferica) e a quel punto tutti possono dire la loro, con epica punteggiatura di commenti su Facebook e Twitter minuto per minuto, come se si trattasse di una partita di calcio. La politica si appropria del film, proponendo cittadinanze onorarie e quant’altro, equivocando il titolo con un’esaltazione della capitale. Di suo Sorrentino ci mette un’atroce pubblicità per la 500 di Lapo (“La piccola grande bellezza”) che mi fa ripensare criticamente tutto l’entusiasmo sincero che ho messo nello scrivere questo pezzo un’ora dopo che ero uscito dal cinema: dovrei aspettare sempre almeno un anno prima di scrivere, innanzitutto per capire, poi per elaborare.
E se ho dimenticato qualcosa significa che non ne valeva la pena.

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