Etiopia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Vuoti di memoria https://www.carmillaonline.com/2020/03/12/vuoti-di-memoria/ Thu, 12 Mar 2020 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58551 di Armando Lancellotti

Paolo Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia, Editori Laterza, Bari, 2020, pp. 244, € 20,00

Il più grave e cruento eccidio di cristiani africani è stato compiuto da soldati italiani e si è trattato di un insieme coordinato di azioni di “polizia coloniale” finalizzate alla repressione e alla vendetta. È accaduto poco più di ottant’anni fa, a seguito di una guerra di conquista imperialistica, che ha conosciuto il più ampio dispiegamento di uomini, armi, mezzi e risorse di tutta la storia del colonialismo europeo in [...]]]> di Armando Lancellotti

Paolo Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia, Editori Laterza, Bari, 2020, pp. 244, € 20,00

Il più grave e cruento eccidio di cristiani africani è stato compiuto da soldati italiani e si è trattato di un insieme coordinato di azioni di “polizia coloniale” finalizzate alla repressione e alla vendetta. È accaduto poco più di ottant’anni fa, a seguito di una guerra di conquista imperialistica, che ha conosciuto il più ampio dispiegamento di uomini, armi, mezzi e risorse di tutta la storia del colonialismo europeo in Africa, eccezion fatta per il conflitto anglo-boero. Una guerra che ha visto i soldati italiani fare ricorso ad armi messe al bando una decina di anni prima da accordi internazionali sottoscritti dall’Italia stessa, che si è assunta la responsabilità di attaccare un paese sovrano e compartecipe di quella Società delle Nazioni che avrebbe dovuto impedire l’aggressione tra stati membri. È successo in un momento estremamente critico per le relazioni internazionali nella prima metà del XX secolo, quando l’Europa stava rapidamente avviandosi sulla strada del secondo conflitto mondiale, così da favorire un sostanziale disinteresse delle cancellerie europee per le sorti del paese aggredito. Una violenta guerra di aggressione che ha contribuito in maniera determinante all’avvicinamento e all’alleanza tra due dittature e due regimi – quello fascista e quello nazionalsocialista – che, seppur ideologicamente strettamente apparentati, avevano espresso, fino a poco prima, finalità diverse e talvolta divergenti.

Una strage così brutale da poter essere considerata paradigmatica della violenza scatenata da una guerra condotta da un regime totalitario e con finalità totalitarie, tra le quali, ad esempio, quella di introdurre una legislazione di discriminazione e segregazione razziali in un paese prima ingiustificatamente aggredito, poi sconfitto, con il sistematico ricorso anche ad armi chimiche ed infine sottomesso, attraverso una spietata politica di repressione di ogni forma di dissenso e di resistenza. Un crimine di guerra che ha avuto il suo culmine nel massacro di un’intera comunità religiosa, cristiana, perpetrato da militi cattolici dell’esercito di un paese governato da un regime confessionale, che meno di una decina di anni prima aveva sottoscritto un concordato col Vaticano che aveva inteso “consacrare” il connubio, solido e duraturo, tra fascio e altare.

Insomma, questo crimine così grave e violento è avvenuto in Etiopia, nell’Africa Orientale dell’Italia fascista, tra il febbraio e il maggio del 1937, come vendetta per l’attentato subito dal viceré Rodolfo Graziani ad opera di alcuni resistenti anti italiani ed ha portato alla morte, come effetto di una serie di azioni tutte coordinate e sovraintese dalle più alte autorità del regime e del governo coloniale, di poco meno di diecimila persone, duemila delle quali erano monaci, teologi, professori, studenti, pellegrini della città conventuale di Debre Libanos, ossia il centro più importante della chiesa cristiana ortodossa etiope (o copta).

Di una pagina di storia tanto tetra quanto densa come questa, la memoria collettiva di un paese dovrebbe conservare ed alimentare il ricordo, ma la realtà dei fatti è di tutt’altro segno: dell’eccidio di Debre Libanos, delle sue premesse, dell’insieme delle circostanze e degli eventi, delle sue conseguenze gli italiani conoscono poco o nulla. E questo si deve, più ancora che agli sforzi del regime fascista di occultare quei fatti nel 1937 e negli anni successivi, a quella gigantesca operazione di rimozione della memoria storica avvenuta nel secondo dopoguerra e che ha condotto all’oblio delle pagine più oscure del fascismo italiano, delle sue guerre, dei suoi crimini e alla sostituzione di essi, nel profondo della coscienza collettiva, con il mito autoassolutorio degli “italiani brava gente”, di cui si è scritto in altre occasioni [qui e qui] e su cui qui si ritorna a riflettere, a seguito della recente pubblicazione per Laterza dell’interessante libro di Paolo Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia.

Borruso insegna storia contemporanea all’Università cattolica di Milano e da anni porta avanti le sue ricerche sull’Africa contemporanea, sull’Etiopia in particolare, sul colonialismo italiano, prestando una speciale attenzione ai fenomeni e agli aspetti religiosi, come in questo suo ultimo lavoro sulla strage di Debre Libanos, in cui l’accento è spesso posto sulla convergenza di fattori politici e religiosi, di interessi e di finalità del regime fascista e della Chiesa cattolica italiana, da intendersi come elementi che concorsero a creare i presupposti per scatenare e condurre a termine la guerra d’Etiopia, in un clima di piena collaborazione tra Stato e Chiesa: alla volontà del fascismo di “lavare l’onta” di Adua e di realizzare il sogno dell’impero africano, si aggiungevano le pretese civilizzatrici proprie dell’ideologia arrogante tipica di ogni colonialismo, che in questo caso facilmente si confondevano e si mescolavano con uno spirito missionario distorto, alimentato dal disprezzo per l’eresia scismatica del cristianesimo miafisita etiope. Gli obiettivi politici e militari del regime e quelli religiosi del cattolicesimo italiano si sovrapposero dal momento in cui la Chiesa abissina venne individuata come colonna portante della società e del sistema politico ed istituzionale dell’impero cristiano africano del negus neghesti, che da sempre, nella sua lunghissima storia, aveva trovato nella fede e nella consacrazione della Chiesa le basi della propria autorità. I più alti vertici dello Stato italiano, da Mussolini, al Ministro delle colonie Lessona, fino al viceré d’Etiopia Graziani, si convinsero sia dell’indissolubilità del legame tra Stato neghussita e Chiesa locale, sia dell’attività di sostegno o addirittura di organizzazione, da parte della Chiesa etiope stessa, della resistenza e della guerriglia anti italiana, anche dopo la fine della guerra e il ritiro del negus nel suo esilio londinese.

Infliggere un colpo mortale alla Chiesa etiope avrebbe significato destrutturare la società, quanto rimaneva del sistema politico precedente, l’identità e la coscienza nazionali della colonia appena conquistata, al fine di sottometterla totalmente. Una sottomissione che per la Chiesa italiana avrebbe dovuto essere anche religiosa, affinché la più antica comunità cristiana d’Africa potesse essere ricondotta sotto l’autorità cattolico-romana, più di millecinquecento anni dopo quel Concilio di Calcedonia del 351 che aveva segnato la separazione tra l’ortodossia cattolica e le chiese monofisite. La sconfitta e la completa sottomissione dell’Etiopia avrebbero condotto al trionfo della Roma fascista e della Roma cattolica in un unico colpo.

Il più convinto interprete di questa politica della inflessibile durezza della conquista, insieme al duce stesso, almeno fino a quando quest’ultimo non decise, tra la fine del 1937 e l’inizio del 1938, di correggere parzialmente la linea di condotta governativa in AOI, fu il generale Rodolfo Graziani, che durante gli otto mesi del conflitto aveva condotto le azioni militari sul fronte meridionale e che, dopo il rientro in Italia di Badoglio, assunse il titolo di viceré d’Etiopia. Fin dai primi mesi della sua esperienza di governo, si diede come obiettivo quello della “pacificazione” del territorio, ovverosia quello dello sradicamento di ogni forma di resistenza etiopica ed è in questo contesto che presero il via le grandi operazioni di “polizia coloniale”, che dovevano condurre all’assoluta imposizione della legge fascista e degli italiani sulla popolazione locale, il cui ruolo poteva essere solo quello dei sudditi sottomessi. Come ebbe a dire lo stesso Mussolini, nel governo dell’impero africano non sarebbe stata tollerata alcuna “mezzadria”; il comando sarebbe spettato solo agli italiani.

Insomma, nel caso dell’Africa Orientale Italiana, ad obiettivi, contenuti e metodi propri di ogni imperialismo coloniale, si aggiunse la natura totalitaria del regime politico del paese conquistatore, che fece dell’impero africano fascista un unicum nella storia del colonialismo. Un qualcosa di unico in particolare per la violenza praticata e per il disprezzo espresso nei confronti delle popolazioni indigene, disprezzo che individuò uno dei suoi bersagli principali nella Chiesa ortodossa etiopica, considerata l’anima nascosta della resistenza abissina. Ne conseguì, pertanto, la decisione presa da Graziani, qualche giorno dopo il 19 febbraio ’37, data dell’attentato alla sua vita al quale sopravvisse, di infliggere una punizione esemplare alla Chiesa etiopica, sulla base delle prove raccolte dalle autorità italiane che gli attentatori in fuga avevano fatto tappa al convento di Debre Libanos. Si trattò di un’occasione che Graziani, col pieno appoggio di Mussolini, non volle lasciarsi scappare e che si concretizzò nel «più grave crimine di guerra» compiuto dagli italiani, come si dimostra in questo interessante libro di Paolo Borruso, il quale, sulla base dell’ormai nutrita letteratura sull’argomento (gli studi di Campbell, Del Boca, Rochat, Labanca, giusto per citare i più importanti) e di accurate ricerche d’archivio, fornisce un’attenta e molto ricca disamina dei fatti accaduti tra febbraio e maggio 1937 in Etiopia.

Nei primi capitoli l’impresa abissina dell’Italia fascista viene collocata nel suo complesso contesto storico-politico nazionale ed internazionale e di particolare interesse risultano le pagine dedicate allo studio della posizione assunta dalla Chiesa cattolica italiana e dal Vaticano riguardo al cristianesimo etiopico, sia prima della guerra, quando organi e apparati ecclesiastici italiani si impegnarono a fondo nell’organizzare una sistematica campagna denigratoria nei confronti della Chiesa abissina, sia durante la guerra stessa, quando l’appoggio al paese in armi e al suo governo non venne mai fatto mancare, nelle prediche ai fedeli, negli articoli sulla stampa ecclesiastica o attraverso qualsiasi altro strumento utile allo scopo. Al contesto nazionale che si preparava alla guerra si aggiunse poi la cornice delle relazioni politiche internazionali, tutte incatenate a quella politica dell’appeasement che si rivelò essere una trappola letale non solo per l’Etiopia, ma, nel corso degli anni successivi, anche per l’Europa e che sarebbe culminata nella Conferenza di Monaco del 1938. Le pagine del libro incentrate sulla guerra [si veda anche qui], preparata con incidenti di frontiera creati e predisposti ad arte – soprattutto lungo l’incerto confine tra Somalia italiana ed Etiopia –, iniziata nell’ottobre del 1935 e conclusa nel maggio del 1936, conducono poi alla parte centrale del lavoro di Borruso, quella che ricostruisce nel dettaglio l’attentato a Graziani del 19 febbraio e soprattutto la furia vendicatrice che si scatenò subito dopo.

Alla mattanza condotta dai fascisti ad Addis Abeba nelle giornate immediatamente successive al 19 febbraio e che fece secondo le stime più contenute almeno 3000 morti tra i civili della capitale, si sommarono poi la cattura e l’uccisione di centinaia di cantastorie, accusati di fare propaganda anti italiana, di molti cadetti della scuola militare di Olettà, di decine di alti ex funzionari governativi. A questi, nei mesi successi, si aggiunsero altre all’incirca 1500 persone sommariamente fucilate, prima ancora che prendesse il via la fase ultima del “generale repulisti”, come ebbe modo di definirlo lo stesso viceré. L’attacco a Debre Libanos fu affidato al generale Maletti, che nelle prime settimane di maggio, con la sua marcia di avvicinamento al convento, causò la morte di 2500-3000 civili, insieme alla distruzione di una quantità enorme di beni materiali e giunse alla città conventuale per la festività del 20 maggio, giorno dedicato al santo Takla Haymanot, a cui è intitolato il convento stesso, consapevole di trovare molti pellegrini e fedeli, insieme ai religiosi del monastero. Secondo le ricostruzioni, l’eccidio, perpetrato tra il 20 e il 29 maggio, di monaci, preti, diaconi, insegnanti, pellegrini, ecc. toccò le 2000 vittime, prima catturate, poi momentaneamente internate, di seguito trasferite con alcuni camion verso località circostanti precedentemente scelte, ed infine fucilate e inumate in approssimative fosse comuni. Maletti e i suoi non si fecero sfuggire neppure l’occasione di razziare i beni e gli oggetti di culto preziosi custoditi nel monastero, che, trasferiti in Italia, non furono mai più ritrovati. Nei mesi successivi, fino a luglio, i pochi sopravvissuti alla strage vennero trasferiti – si trattò di alcune centinaia – nei campi di concentramento italiani in Africa, in particolare nel terribile campo somalo di Danane, dove molti morirono. Le puntuali analisi e le lucide riflessioni di Borruso seguono le vicende della strage di Debre Libanos per poi estendersi agli altri aspetti della politica di sottomissione fortemente voluta dal viceré Graziani: la legislazione razzista e segregazionista emanata nello stesso 1937 e la politica di discriminazione dei meticci, allo scopo eugenetico di difesa della razza bianca italiana attraverso la sua netta separazione da quella nera africana, che costituiscono di tale politica due momenti di essenziale importanza.

A più di ottant’anni di distanza, la strage di Debre Libanos rimane ancora qualcosa di sostanzialmente sconosciuto all’opinione pubblica di quel paese che ne fu responsabile, quell’opinione pubblica che invece – forse anche a causa di questi abissali vuoti di memoria – non si è indignata tanto quanto avrebbe dovuto quando, nel 2012, ad Affile, sua città natale, per iniziative delle autorità cittadine, è stato eretto un mausoleo in onore del principale responsabile di queste brutalità: Rodolfo Graziani.

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Il reale delle/nelle immagini. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica https://www.carmillaonline.com/2015/11/12/il-reale-dellenelle-immagini-potere-ideologia-violenza-dellimmagine-fotografica/ Thu, 12 Nov 2015 22:45:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26497 di Gioacchino Toni

etica_fotografiaRaffaella Perna, Ilaria Schiaffini, Etica e fotografia. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, Derive Approdi, Roma, 2015, 154 pagine, € 16.00

«L’intrattabile realtà della fotografia si sposa oggi con una fruizione sempre più frettolosa, o “distratta”, per usare le parole di Benjamin: l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione» (I. Schiaffini, p. 12)

Il saggio raccoglie una serie di contributi volti ad indagare ciò che è ben sintetizzato dal sottotitolo del [...]]]> di Gioacchino Toni

etica_fotografiaRaffaella Perna, Ilaria Schiaffini, Etica e fotografia. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, Derive Approdi, Roma, 2015, 154 pagine, € 16.00

«L’intrattabile realtà della fotografia si sposa oggi con una fruizione sempre più frettolosa, o “distratta”, per usare le parole di Benjamin: l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione» (I. Schiaffini, p. 12)

Il saggio raccoglie una serie di contributi volti ad indagare ciò che è ben sintetizzato dal sottotitolo del saggio stesso: Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica. In estrema sintesi, ad essere affrontati nei diversi interventi sono: il ruolo delle immagini traumatiche in un contesto ove pare sempre più importante condividerle e commentarle piuttosto che osservarle e comprenderle; la funzione del fotografo come testimone e produttore di informazioni; il rapporto tra fotografia ed etnografia nel suo tentativo di trasformarsi da strumento di dominio a mezzo di socializzazione; il carattere documentale della fotografia dei campi di prigionia e dei profughi; il ruolo dell’immaginario bellico e della costruzione dell’identità di genere prima e dopo l’avvento della fotografia; la questione della censura del corpo delle donne ed il ruolo assunto a tal proposito dall’immagine fotografica; il rapporto tra fotografia e Movimento del ’77; il dominio ad opera di uno stile unico ed omologante della cultura visuale della contemporaneità; l’epica contemporanea in alcuni esempi di sinergie tra letteratura e fotografia.

Immagini di stragi, di massacri e di torture compaiano con sempre maggior frequenza sui diversi mezzi di comunicazione ponendo, ancora una volta, d’attualità la questione relativa all’eventualità o meno di mostrare tali immagini e l’obbligo di interrogarsi circa il senso ed il fine che tali visioni vengono ad avere in un contesto, come quello attuale, votato alla mercificazione più spietata. Di fronte a tale tipo di immagini, sostiene Ilaria Schiaffini, tornano a confrontarsi coloro che ritengono la loro diffusione una sorta di obbligo al fine di suscitare una reazione morale e quanti, invece, vedono nella proliferazione forsennata di tali immagini il rischio dell’anestetizzazione.
Susan Sontag, nel celebre saggio pubblicato nel 1973, On Photography (Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, 1978), sosteneva che la fotografia traumatica finiva col provocare un effetto di paralisi nell’osservatore a causa del senso di impotenza da cui veniva investito. A proposito di effetto anestetizzante, John Berger, nel suo “Photographs of Agony” in About Looking del 1980, (“Fotografie d’agonia” in Sul guardare, 2009) segnala come nella foto traumatica le distanze di ordine temporale, culturale e geografico che intercorrono tra l’evento riprodotto e l’osservatore possano provocare, dopo lo shock iniziale, un senso di inadeguatezza morale superato tramite rimozione od attraverso un distaccato gesto di beneficenza. Tale distanza tra immagine traumatica ed osservatore decontestualizza l’evento facendogli perdere valenza politica.
La diffusone delle immagini traumatiche è utile al fine di denunciare le atrocità e rendere una qualche forma di giustizia alle vittime o, viceversa, rappresenta un superamento della soglia di rispetto dell’altrui dolore? Inoltre, tale esposizione, quanto ha a che fare con un insensibile, macabro e profittevole voyeurismo? Si pensi a quante trasmissioni televisive hanno costruito la loro fortuna in termini di audience e relativi introiti pubblicitari sulle immagini drammatiche. Ci si potrebbe spingere addirittura a chiedersi se qualche traccia di inconsapevole voyeurismo è presente anche in chi, in tutta onestà, decide di mostrare tali immagini col nobile fine di denuncia.
Oltre all’aspetto voyeuristico, l’autrice sottolinea come l’attualità sia contraddistinta anche da un’evidente esibizione narcisistica, in entrambi i casi ciò è consentito anche dai particolari e diffusi dispositivi tecnologici e comunicazionali contemporanei. Voyeurismo ed esibizionismo finiscono col «modificare non solo le modalità di ricezione e apprensione delle informazioni, ma anche le relazioni sociali e affettive, con un impatto dirompente nelle nuove generazioni» (p. 12).
L’antica questione dell’autenticità dell’immagine fotografica pare essere tornata d’attualità, se mai ha conosciuto un periodo d’oblio, e non solo a causa dell’estrema malleabilità dell’immagine digitale perché, secondo Ilaria Schiaffini, se «ci spostiamo dalla teoria del dispositivo fotografico alla pratica dei suoi usi sociali, possiamo concludere che il paradigma realistico documentario della fotografia sopravvive col digitale, e che all’idea di autenticità si è sostituita quella, diversa ma affine, di credibilità. (…) Quali che siano le potenzialità di simulazione della realtà nell’era digitale, inalterato sembra rimanere il valore probatorio della fotografia, l’attestazione di realtà che essa è in grado di introdurre nell’osservatore fin dalle origini» (p. 7).
Per quanto riguarda gli usi attuali della fotografia, secondo Ilaria Schiaffini, a determinare conseguenze etiche e politiche rilevanti non è tanto la tecnologia di produzione, più o meno manipolabile, quanto la pratica della condivisione che sui social media è istantanea e non mediata da un’agenzia di stampa o da un editore. Oggi tutti gli individui possono divenire fotogiornalisti occasionali visto che attraverso un semplice smartphone possono riprendere un evento e diffonderlo istantaneamente ad un numero potenzialmente infinito di destinatari. Tutto ciò può essere letto tanto come forma di democratizzazione dell’informazione quanto come forma di controllo sociale. Inoltre, sostiene Schiaffini, la libertà individuale di realizzare e distribuire fotografie, produce una democrazia illusoria se ciò non si traduce in responsabilità individuabili.
In un panorama come quello attuale, in cui, sostiene la studiosa, «l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione» (p. 12), occorre affrontare una riflessione sull’immagine fotografica che coinvolga più ambiti disciplinari, nella consapevolezza di come l’indagine sulla fotografia debba oggi più che mai tenere in considerazione i suoi usi nell’ambito di un web evoluto in direzione di un alto livello di interazione tra gli utenti e di condivisione di materiali. Da tale premesse nasce il volume Etica e Fotografia nell’ambito di un convegno tenutosi presso l’Università di Roma La Sapienza allo scopo di intrecciare riflessioni sull’immagine fotografica derivanti da diversi ambiti disciplinari e sensibilità.

riis_008Antonella Frongia affrontando il ruolo del fotografo nel suo essere testimone e produttore di informazioni, si sofferma sulla valutazione etica dell’esibizione di immagini di violenza ad un pubblico che non ha assistito direttamente a tali eventi. Di fronte a situazioni particolarmente cruente è opportuno o meno fotografare? Tali immagini si devono diffondere pubblicamente o è meglio censurarle al grande pubblico? Altra riflessione sviluppata dalla studiosa riguarda «il tema della violenza in rapporto all’ontologia del mezzo fotografico» (p. 15), questione cara a diversi teorici che in passato hanno ragionato circa la violenza intrinseca al medium fotografico, come Metz, Baudrillard, Barthes ed, in particolare, Susan Sontag. Se buona parte delle letture critiche pongono l’accento sul fatto che guardare significa imporre il proprio sguardo sull’Altro, è però possibile opporre ad una visione così drastica una lettura della fotografica volta a mettere in luce il suo essere un processo più che un atto.
L’intervento di Antonella Frongia si sofferma in particolare sull’operato di Jacob Riis, fotografo che a fine Ottocento ha documentato i bassifondi newyorchesi attraverso scatti notturni ottenuti grazie ai lampi di polvere di magnesio. Si è più volte insistito sulla violenza di tali bagliori che, in ossequio alle teorie del determinismo sociale a cui si rifaceva Riis, avrebbero dovuto, secondo una logica di denuncia sociale, esporre i “fatti”, relativi alle miserie del lumpenproletariat urbano, a cui rispondere poi con un’azione sociale volta a migliorare le cose. La fotografia di Riis può essere letta come mezzo di svelamento dello stato di miseria a cui è costretta una parte di popolazione newyorchese, ma anche come atto violento ed aggressivo, volto a ledere la privacy dei cittadini meno abbienti per finalità commerciali. Sebbene la critica nei confronti dell’uso della luce violenta del flash ha una sua ragion d’essere, secondo la studiosa, a ciò si dovrebbe affiancare l’idea che probabilmente lo stesso Riis cercava nelle sue fotografie un minimo di interazione con gli individui ripresi; se alcuni personaggi si mostrano accecati dai lampi del falsh, dunque in balia del gesto autoritario dello scatto del fotografo, altri sembrano interagire nei confronti di tali bagliori palesando sguardi di resistenza conflittuale. Ciò non toglie che anche in tali foto non viene meno il rapporto gerarchico autoritario che vede il fotografo compiere un atto di violenza nei confronti di chi viene dapprima sottoposto ad un lampo abbagliante e poi ritratto senza alcun consenso, ma resta il fatto che forse è possibile scorgere nell’autore l’idea di come anche in questo tipo di fotografia dei “fatti” vi sia una componente di interazione in cui i soggetti ripresi hanno un, seppur piccolo, momento attivo.

Antonello Ricci si occupa del rapporto tra fotografia ed etnografia a partire dalla loro nascita e dal loro sviluppo pressoché contemporaneo nel corso della seconda metà dell’Ottocento, in un ambiente permeato dalla cultura positivista. Vista l’importanza che l’antropologia dell’epoca concede allo sguardo ed all’osservazione è inevitabile che la fotografia venga ad avere un ruolo importante nel rilievo antropometrico. Alle misurazioni del corpo si aggiunge il dato fotografico. Non è difficile individuare nella fotografia antropometrica un atto estremamente violento nei confronti della persona costretta ad esibire il proprio corpo nudo in maniera tutt’altro che spontanea, ad assumere una postura innaturale in «una messa in scena del tutto estranea alle prospettive emiche dell’autorappresentazione» (p. 31), incurante del punto di vista di chi viene fotografato a proposito delle modalità rappresentative della persona e del disinteresse per le «ricadute a livello simbolico, religioso, mitico e rituale che la ripresa fotografica e la conseguente esposizione/rappresentazione figurativa porta con sé nell’orizzonte culturale della persona ripresa» (p. 31). Fortunatamente, in età contemporanea, la fotografia etnografica si è indirizzata verso una riduzione della distanza tra studioso-ricercatore e soggetto della ricerca, in ossequio ad una concezione della fotografia come “veicolo di socializzazione” tra fotografo e soggetto fotografato.

andersonville-1864Adolfo Mignemi indaga il carattere documentale delle immagini aerofotografie dei prigionieri e dei profughi dalla Guerra di secessione americana fino alla Seconda guerra mondiale. Per quanto riguarda la Guerra di secessione americana vengono affrontate in particolare le immagini di Camp Sumter, ad Andersonville, ove l’esercito sudista raccoglie ben 45.000 prigionieri di guerra. Tali fotografie testimoniano le tremende condizioni di vita dei prigionieri, condizioni che causeranno la morte per malattia e stenti di quasi 13.000 reclusi. A proposito della Grande guerra viene posto l’accento sull’uso della fotografia come arma di propaganda da parte dei diversi governi nazionali e di come si sviluppi una vera e propria ossessione per rappresentare la potenza militare del proprio esercito a confronto con la debolezza dell’avversario. Non di rado si tende a voler evidenziare anche la superiorità del proprio soldato dal punto di vista sociologico e razziale, tanto che si può parlare di nascita una “immagine del nemico” connessa alle strategie di propaganda. Altra documentazione importante riguarda il genocidio degli armeni da parte del governo dei Giovani turchi. Particolare attenzione viene poi riservata alla cosiddetta “pacificazione della Cirenaica” portata avanti dal governo italiano attraverso atrocità di ogni tipo, armi chimiche comprese. In tal caso l’album fotografico che correda il volume di Rodolfo Graziani rappresenta una documentazione importante.
Dagli anni Trenta si inizia a disporre di documentazioni visive significative al fine di rivelare l’ideologia sottesa alle immagini ufficiali. Sempre a proposito degli anni Trenta, le aggressioni italiana all’Etiopia e giapponese ai territori cinesi sono documentate da numerose fotografie che mostrano un incredibile campionario di atrocità che spazia dalle rappresaglie sui civili, agli stupri di donne fino all’utilizzo dei prigionieri come sagome per esercitare le reclute al combattimento all’arma bianca. Un passaggio significativo dell’intervento di Mignemi riguarda il fatto che le fotografie di quelle atrocità, così come quelle scattate dai telefoni cellulari nel corso delle guerre recenti, come in Afganistan, non sono state realizzate per denunciare i fatti, ma al fine di diffondere compiaciute immagini-ricordo. Da ciò deriva la necessità di «ricostruire la natura e i caratteri del rapporto tra immagine pubblica e immagine privata intesa come terreno di emulazione lessicale e linguistica e campo di sperimentazione di vere e proprie parafrasi visive». (p. 48).
Interessante anche lo svilupparsi in diversi paesi, tra questi l’Italia, e non solo nei territori coloniali, di una modalità di rappresentare il “nemico interno” come una patologia da estirpare anche attraverso il ricorso a strutture pensate in funzione dello stato di guerra; si tratta di una vera e propria militarizzazione dei rapporti sociali e di una totale sospensione democratica, tanto che in tali strutture viene ritenuta legittima l’arbitraria eliminazione fisica dei prigionieri.
È con la Seconda guerra mondiale, sottolinea lo studioso, che la fotografia si impone decisamente come strumento di costruzione delle immagini dei prigionieri a scopo propagandistico. Ad esempio, dalla diffusione di immagini relative allo sterminio di ebrei nei territori occupati dell’Europa orientale, si comprende come vi fosse una «conoscenza diffusa in Germania di quanto stava accadendo in quei territori e la totale assuefazione a una crescente spirale di violenza il cui principale obiettivo è consolidare il principio che nel conflitto in corso vi sono avversari che per la Germania devono necessariamente essere annientati» (p. 49).
Risulta importante tener presente che il racconto trasmesso dalle immagini suscita nel corso del tempo emozioni anche opposte, pertanto ogni immagine fotografica deve essere assolutamente contestualizzata “all’universo visivo” dell’epoca in cui è stata realizzata.
Esistono anche fotografie scattate clandestinamente dai prigionieri stessi. Celebre il caso delle fotografie scattate da un prigioniero polacco ad Auschwitz-Birkenau che, dopo essere restate a lungo chiuse in un cassetto, nel momento in cui vengono diffuse subiscono pesanti ritocchi volti a drammatizzare ulteriormente il contenuto rendendole così del tutto inattendibili dal punto di vista storico. Tra le altre immagini scattate da prigionieri vengono ricordate quelle dell’ufficiale italiano Lido Saltamartini, prigioniero in India degli inglesi, e le foto realizzate dal tenente Vittorio Vialli durante la sua prigionia in Germania ed in altri territori occupati.
Per quanto riguarda la testimonianza fotografica dei profughi, è a partire dalla Seconda guerra mondiale che si ha diverso materiale a disposizione e, nel saggio vengono ricordate immagini riguardanti profughi italiani in Svizzera sia nell’ambito delle vicende relative la riconquista nazifascista dell’Ossola che dei profughi sfuggiti dalla RSI e concentrati nel campo di Woeschnau.
Se, dopo la fine della guerra, per un periodo compreso tra gli anni Cinquanta fino circa alla fine del secolo, il fotografo tendeva a qualificarsi come testimonianza neutrale, ultimamente le cose sembrano di nuovo cambiate, tanto che «le sue immagini assumono sempre più il connotato di un’arma non facilmente dominabile. È l’eredità di un profondo mutamento degli immaginari visivi individuali e collettivi con lo sfumare della percezione del reale nella produzione di immaginari artificiali dai caratteri molto realistici, proveniente, da un lato dalla consuetudine con le più recenti tecnologie mediatiche tutte individualistiche e individualizzanti; dall’altro con il perdersi delle pratiche di costruzione di immaginari visivi collettivi che deriva, ad esempio, dalla pratica della visione cinematografica pre-televisiva». (pp. 58-59)
L’immagine fotografica contemporanea è sempre più difficilmente identificabile come rappresentazione di una situazione reale o simulata; occorre pertanto imparare a distinguere la manipolazione del contenuto dell’immagine dall’uso manipolatorio delle immagini.

Lucia Miodini affronta la questione dell’immaginario bellico e della costruzione dell’identità di genere. «L’opinione comune condanna l’atto di violenza, ma non considera le premesse culturali che lo rendono possibile. La violenza maschile sulle donne si spiega solo all’interno di uno scenario culturale diffuso e condiviso. Per uscire da queste cornici culturali e ideali, un primo passo è la decolonizzazione dell’immaginario» (p. 64). Nel suo intervento l’autrice intende individuare le connessioni che legano l’immaginario bellico e la violenza maschile sulle donne a partire dai nazionalismi Otto-Novecenteschi. Miodini invita a non pensare alla guerra come evento accidentale ma come “fatto sociale totale” la cui logica è «materializzata nei discorsi e nelle rappresentazioni dell’alterità» (p. 65). Dai dipinti alle immagini delle pubblicità la rappresentazione della donna sembra «legittimare l’esistenza dell’aggressione sessuale come dato irrinunciabilmente estetico» (p. 66). Tra Sette e Novecento ricorrono spesso narrazioni volte ad utilizzare l’immagine della donna come personificazione dell’intera nazione: «la donna violata, metafora della nazione aggredita sessualmente da un tiranno oppure dall’invasore straniero. Immagine paradigmatica, rivelatrice della differenza sessuale che ritorna, seppure con diversa connotazione, in gran parte dell’odierna produzione mediatica» (p. 68). Il tema dello stupro è ossessivamente presente nei discorsi nazional-patriottici ed il corpo della donna diviene metafora della comunità nazionale violentata dall’invasore. Soprattutto nel Novecento «si consolida l’associazione tra razzismo e sessualità e il formarsi dello stereotipo della razza inferiore dedita alla libidine» (p. 68). Lo stupro viene considerato un’offesa contro la morale e la «perdita della virtù corrompe l’anima della donna stuprata e la rende impura, la fragilità femminile accentua la necessità che la donna sia guidata e protetta» (p. 68). «Rapportare l’etnicità al genere ed all’eterosessualità ha di fatto reso possibile una nuova concettualizzazione del nazionalismo. La politicizzazione dello stupro e l’uso nazionalistico della violenza sessuale nei conflitti degli anni Novanta evidenziano una prospettiva qualitativamente diversa: nuova è la costruzione dell’appartenenza etnica attraverso lo stupro, che funziona come arma bellica» (p. 69). Lo stupro pare derivare direttamente dal modo con cui la mascolinità si rapporta col potere, tanto che le vittime della violenza sono coloro che esulano dal modello virile dominante, dunque donne in primo luogo, ma anche uomini appartenenti a categorie discriminate, prigionieri compresi.
Negli ultimi decenni, inoltre, spesso aggressori ed aggredite appartengono al medesima etnia e la difesa della parte aggredita viene presa da una comunità etno-nazionale “superiore”, tanto che, continua la studiosa, l’aggressione alle donne nell’età contemporanea sembra simboleggiare una contrapposizione sovranazionale tra barbarie e civiltà.
Nella guerra si esprimono al massimo livello gli ideali di virilità e cameratismo ed, a ben guardare, suggerisce Miodini, l’immaginario contemporaneo veicolato dai media, in molti casi, non sembra aver davvero messo in crisi tali ideali di mascolinità volta alla sopraffazione. «La violenza è qualcosa cui gli uomini sono stati socializzati, come espressione identitaria e culturale della propria maschilità o virilità, come modo di affermazione sociale» (p. 70).
Dalle fabbriche di immaginario contemporanee scaturiscono anche figure femminili che si fanno portatrici di virtù virili mostrare in atteggiamenti violenti. A tal proposito l’autrice si chiede quanto questi atteggiamenti rispondano a desideri femminili o quanto siano la proiezione dell’immaginario maschile.
Al fine di decostruire l’immaginario bellico, ove si radica la violenza maschile nei confronti delle donne, occorre analizzare i dispositivi della visione e gli sguardi con cui si affrontano le immagini, visto che essi «concorrono alla prefigurazione del potere che le immagini esercitano e al piacere che suscitano» (p. 71). Miodini riflette sulle modalità di visione occidentali a partire dagli albori dell’età moderna, ricordando come esse siano strutturate attorno ad un tipo di rappresentazione prospettica che porta all’interno dell’immagine lo sguardo ed il soggetto guardante, soggetto che non è neutro: l’osservazione occidentale è avvenuta ed avviene attraverso uno sguardo maschile. Allo stesso modo la rappresentazione visiva delle proporzioni ideali del corpo umano ha la forma del nudo maschile, così come nudo e maschile è l’archetipo eroico del guerriero in battaglia. Ancora nella prima metà del Ventesimo secolo, la figura eroica del soldato viene rappresentata nei media e nei monumenti della memoria attraverso nudità ed eroismo.
«Nella cultura occidentale gli uomini si mettono in luce mostrando il proprio valore in battaglia, la morte eroica diviene così il momento di massima visibilità, che conferisce significato a una vita intera. La visibilità fornisce, infatti, alla guerra sia il criterio della sua rappresentazione sia quello della sua motivazione» (p. 73).
All’inizio del Novecento il diffondersi dell’immagine fotografica è parallelo alla massificazione e anonimia del soldato caduto in guerra. A lungo il fotoreporter viene percepito come eroe di guerra, poi, dagli anni Novanta, in piena globalizzazione delle immagini, il mito inizia a decadere: a cambiare drasticamente sono le forme di consumo delle immagini tanto che, sull’onda delle riflessioni di Virilio, si può parlare di «inversione della pulsione scopica del voyeurismo (…) Non si vuole vedere la guerra ma essere visti» (p. 75).
Secondo Miodini la questione principale nell’immaginario bellico contemporaneo è la costruzione dell’identità mediatica. La violenza, ai nostri giorni, non è «la conseguenza di una contrapposizione tra identità diverse, ma è essa stessa uno dei modi in cui si è prodotta l’illusione di identità» (p. 77), ed, aggiunge la studiosa, la fotografia autoprodotta e condivisa in rete è la pratica che simboleggia tale illusione. «I media funzionano come tecnologie di genere, come possibile luogo di strutturazione delle nostre identità femminili e maschili. Il genere è una collezione di rappresentazioni culturali concorrenti e talora contraddittorie e di significati simbolici antagonistici, tutti connessi all’elaborazione sociale della differenza sessuale» (p. 78). Rifacendosi agli studi di Consuelo Corradi (Sociologia della violenza. Modernità, identità, potere. 2009), l’autrice conclude che il «concetto di genere non è sufficiente a comprendere i cambiamenti in corso: la violenza maschile sulle donne si manifesta nel vuoto d’identità. È nel dominio del corpo, nella prossimità della carne, nella fisicità dei sessi che sta una parte importante della violenza maschile contro le donne» (p. 78).

Federica Muzzarelli affronta la questione della censura a proposito del corpo delle donne. La dimensione della corporalità è da sempre, da un punto di vista culturale, filosofico e religioso, associata al mondo femminile, tanto che «il corpo delle donne è stato tradizionalmente vissuto come l’interfaccia della loro identità» (p. 81). Relegate ai margini della cultura ufficiale, sostiene la studiosa, le donne hanno costruito a partire da tale isolamento strategie di rivendicazione di «un’autonomia borderline e di un’attiva sperimentazione delle proprie esigenze esistenziali ed estetiche» (p. 81). Viene così rovesciata una condizione di inferiorità in «arma di incredibile vantaggio su chi, gli uomini, erano già allineati al sistema, al sistema appartenevano naturalmente e culturalmente» (pp. 81-82). Nel momento in cui, nell’estetica novecentesca, il gesto ed il corpo conquistano una centralità a lungo negata, «la dimestichezza e la familiarità delle donne con le dinamiche del corpo le predisporrà quasi in posizione di imprevedibile vantaggio» (p. 82). Non è un caso, sostiene la studiosa, se la presenza femminile nell’arte coincide, oltre che con l’emersione del femminismo tra fine Ottocento ed inizio Novecento, con l’affermarsi delle filosofie dell’esperienza mondana e della tecnologia indicale fotografica e cinematografica che ben si presta al recupero del gesto. I temi della corporeità risultano presenti in molta produzione artistica femminile a testimonianza, sostiene Muzzarelli, di un processo di ricomposizione, riappropriazione ed autodeterminazione fisica. Per le donne la fotografia si mostra un’importante alleata «all’emancipazione dello sguardo e dunque del ruolo» (p. 83).
La studiosa si focalizza su alcuni episodi della fotografia contemporanea «in cui è l’immagine, è il corpo stesso delle donne (presentato o rappresentato), a essere mostrato censurato o piuttosto a essere stato messo in discussione» (p. 83). Vengono analizzati i casi relativi alle fotografie scattate dal Sonderkommando nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau relative ad un gruppo di donne denudate e condotte verso le camere a gas, foto successivamente ritoccata e manipolata, o le foto censurate di Ida Irene Dalser, amante e moglie di Mussolini, rinchiusa come pazza, o, ancora, il rifiuto dalla rivista “Interview” di pubblicare le foto scattate da Cindy Sherman negli anni ’80 per una casa di moda in quanto, mettendo in scena se stessa, fuoriesce totalmente dai canoni stereotipati di bellezza richiesti dal mondo della moda e delle copertine patinate.
Il contributo di Federica Muzzarelli si chiude sull’interessante confronto proposto da Nicolas Mirezoeff tra il lavoro fotografico di Nan Goldin, Nan one month after being battered (Autoritratto. Un mese dopo essere stata picchiata. 1984) che mostra ancora i segni della violenza privata, e le fotografie realizzate da Weegee, Ethel, the Queen of the Bowery degli anni ’40, ritraenti una donna che guarda in macchina mostrando il suo occhio nero. A partire da tale confronto, la studiosa invita a cogliere come nel passaggio «dall’essere un oggetto del voyeurismo maschile al divenire testimone autobiografico in prima persona [risieda] la rivoluzione che ha cambiato il ruolo delle donne nel Novecento» (p. 89).

mettiamo tutto a fuocoRaffaella Perna indaga il rapporto tra fotografia e Movimento del ’77 partendo da una pubblicazione del 1978 edita da Savelli: Mettiamo tutto a fuoco! Manuale eversivo di fotografia di Fabio Augugliaro, Daniela Guidi, Andrea Jemolo e Armando Manni. La storica pubblicazione aveva l’obiettivo di collegare gli aspetti pratici del fotografare con una serie di questioni teoriche volte sia a denunciare le modalità informative dei media ufficiali sia a decostruire il linguaggio fotografico e, soprattutto, a riflettere sul rapporto tra fotografia e Movimento del ’77. L’ambizione era quella di individuare una modalità fotografica anticelebrativa in grado di esprimere dall’interno dei movimenti i desideri e le aspirazioni politiche dei partecipanti.
In particolare è grazie al diffondersi del pensiero femminista che saltano le barriere tra pubblico e privato e viene valorizzata la riappropriazione del piacere e del desiderio. Lo scritto di Raffaella Perna si focalizza proprio sugli “aspetti soggettivi del Movimento”, mettendo in luce il diffondersi di una “fotografia della soggettività” riferita non soltanto alla diversificazione delle tematiche affrontate ma anche ad un differente rapporto tra il fotografo e il soggetto ritratto basato su uno sguardo dall’interno del Movimento e sul senso di fratellanza e sorellanza tra fotografo e militanti.
vivere a milano bonasiaAll’interno del clima conflittuale che attraversa il paese negli anni ’70, si diffonde un uso della fotografia volto a testimoniare le lotte ed i drammi del Paese. È all’interno di tale contesto che esce nel 1975 il libro Come eravamo (Savelli edizioni) che documenta, attraverso le foto di Adriano Mordenti e Massimo Vergari, un decennio di lotte studentesche romane, dai primi anni ’60 ai primi anni ’70. Si tratta di una rievocazione “dall’interno”, come suggerisce lo stesso titolo, che si focalizza su alcuni momenti particolari, come gli scontri e gli arresti, offrendo un’immagine eroica degli eventi. Anche il libro fotografico del 1976 Vivere a Milano (CSAPP), che ricostruisce, attraverso gli scatti di Aldo Bonasia, una serie di manifestazioni milanesi, segue la medesima logica della pubblicazione romana ma, puntualizza Perna, nel caso milanese risulta particolarmente interessante l’ultima immagine fotografia che esce totalmente dalla logica delle altre immagini: viene mostrato un ragazzo mentre si buca. La dimensione epica del movimento in lotta lascia il posto al dramma dell’emarginazione dell’individuo. Inoltre, sottolinea la studiosa, cambia anche la relazione tra fotografo e soggetto; nelle restanti immagini il fotografo «pur trovandosi nel mezzo dell’azione, non intrattiene uno scambio diretto con le persone ritratte, mentre in quest’immagine tra il fotografo e il giovane davanti all’obiettivo il rapporto è privo di mediazioni» (p. 100). Tale fotografia sancisce il passaggio «dalla rappresentazione dei drammi collettivi (…) al racconto dei traumi e dei drammi privati» (p. 100).
La pubblicazione di Uliano Lucas, L’istituzione armata (1977, T. Musolini, Torino) si occupa delle forze armate di polizia e di militari di leva offrendone una visione sfaccettata: «Lucas documenta con uno sguardo partecipe e dall’interno la vita quotidiana dei soldati, i momenti di convivialità tra le reclute e il processo di sindacalizzazione della polizia. Il libro assume il carattere di una ricerca sociologica» (p. 101). Anche in Tano D’Amico è centrale l’interesse per la soggettività e ciò e particolarmente evidente in È il 77 (1978, Libri del no, Roma). In tale pubblicazione, sottolinea Raffaella Perna, si possono ritrovare le due anime della fotografia di D’Amico: le immagini di piccole storie ed eventi marginali rispetto agli accadimenti e le fotografie di denuncia. Nel primo caso le fotografie di Tano D’Amico restituiscono la dimensione quotidiana, i desideri e le aspirazioni degli attivisti.
Una parte importante dell’analisi della studiosa riguarda il rapporto tra fotografia ed esperienza femminista a partire dall’analisi del libro fotografico Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne (1976, Savelli) di Paola Agosti, Silvia Bordini, Rosalba Spagnoletti ed Annalisa Usai, illustrato dagli scatti di Agosti. In questo caso le fotografie sono scelte collettivamente e, nella sezione finale del libro, viene dato spazio a fotografie di carattere intimo a testimonianza della volontà di «esprimere anche il lato privato e “interno” dell’azione femminista» (p. 105)
mercoledìImportante risulta l’analisi della produzione di Paola Mattioli a partire dall’incontro col femminismo. In particolare vengono passati in rassegna Cosa pensi del femminismo? (1975) e Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo (1978, ed. G.Mazzotta, Milano), testo nato dall’esperienza collettiva di Adriana Monti, Diana Bond, Bundi Alberti, Mercedes Cuman, Esperanza Núñez, Silvia Truppi, oltre Paola Mattioli. «Il libro raccoglie materiali individuali ed esperienze collettive incentrate sull’immagine femminile e sul rapporto tra donne: il corpo, la soggettività, la sorellanza, le disparità tra i sessi, il desiderio di non conformarsi a modelli estetici e culturali percepiti come estranei e alienati» (p. 106). A proposito di tale pubblicazione e, più in generale, dell’intera opera di Paola Mattioli, la studiosa sottolinea come «la fotografia non è intesa soltanto come ricerca formale, ma anche e soprattutto come un mezzo per esplorare l’identità e, nel contempo, per creare e rafforzare le relazioni umane» (p. 106).

Il saggio di Michele Smargiassi si occupa del ruolo del ritocco fotografico a partire dalla celebre fotografia vincitrice del World Press Photo Award 2012 di Paul Hansen relativa al funerale dei fratellini palestinesi Suhaib e Muhammad [FOTO], in cui l’autore stesso è intervenuto ritoccando a posteriori i colori con la finalità di drammatizzazione degli eventi. Analizzando tale esempio lo studioso si interroga circa la portata della modifica: tale intervento varia soltanto la presentazione o anche il significato? Nel fotogiornalismo più volte si è assistito a discussioni a proposito della manipolazione del contenuto (es. aggiungere o togliere dettagli) ma se e quanto lo stile influenzi il contenuto appare una questione decisamente più controversa. La proposta di Smargiassi è quella di leggere il colore oggi come «la risorsa retorica che con ogni evidenza (…) viene chiamata in causa dai fotografi per conferire ai propri lavori una riconoscibilità o uno stile. Se questo risultato si ottiene essenzialmente in postproduzione, non sono certo i software ad averlo creato. I fotografi dell’era analogica sapevano scegliere quel pellicola usare per ‘tirare su i rossi’ o per ottenere quella certa “dominante fredda”» (p. 116).
Il dibattito circa la liceità o meno del manipolare i colori nel fotogiornalismo, sottolinea lo studioso, non deve dimenticare che esso nasce con «la più stilizzata delle coloriture fotografiche: il bianco e nero» (p. 117), nel suo arcobaleno di sfumature, comunque. Ancora oggi, per certi versi, si tende a leggere il bianco e nero, tanto in fotografia quanto nelle immagini in movimento, come una sorta di marca di autenticità. Occorre tener presente che per molto tempo il bianco e nero ha rappresentato l’unica opzione possibile, una costrizione tecnica che ora non è più tale; essa rappresenta, al limite, soltanto una opzione tra le tante, che il fotografo può scegliere. Dalla costrizione tecnica si è dunque passati ad una libera scelta. Sarebbe comunque troppo sbrigativo parlare genericamente di fotografia a colori visto che oggi ogni epoca ha i suoi colori ed ogni epoca tende a viverli come “naturali”, incapace di «vedere come artificiale e storicizzato il paradigma cromatico dominante» (p. 118). Ad esempio, «per noi, oggi, l’età di Proust ha i colori pastello degli Autochrome, certi servizi sulle star del cinema anni Cinquanta la satura nettezza delle stampe carbro, le vacanze anni Cinquanta ci vengono tramandate dalle dominanti slavate e opaline delle pellicole Ferrania…» (p. 117). E tutto ciò indipendentemente dal fatto che sia o meno dovuto a particolari emulsioni utilizzate all’epoca o del decadimento inflitto loro dal tempo.
Smargiassi ricorda che non vi è realismo fotografico che non abbia preteso di togliere di mezzo lo stile ed, al tempo stesso, non vi è realismo che non abbia finito col produrre un proprio stile. Tornando all’esempio della fotografia dai colori ritoccati del funerale dei fratellini palestinesi realizzata da Paul Hansen, lo studioso invita a non perdere tempo sulla questione se sia o meno lecito ritoccare luce e colori, piuttosto le domande che ci si dovrebbero porre a proposito di una fotografia come questa dovrebbero essere: «cosa sto vedendo davvero? Era un funerale o un corteo politico? Perché non ci sono donne?» (p. 125) ecc. In altre parole ci si dovrebbero porre domande che «portano dentro una situazione concreta e complessa della storia contemporanea e non ad un dipinto (…) Se la scelta di uno stile molto invadente distoglie da queste domande, forse la fotografia ha preso una strada sbagliata» (p. 125).
In conclusione del suo intervento l’autore, riprendendo la distinzione proposta da André Gunther tra ritocco (intervento che si mimetizza nel corpo dell’immagine e si nasconde all’osservatore ma che vuol confermare l’apparente realismo) e filtro (intervento che si mostra palesemente), Smargiassi si chiede se oggi i filtri non finiscano per mimetizzarsi anch’essi nella cultura visuale in cui si immergono. «Benché evidenti sulla superficie dell’immagine, scompaiono nella percezione comune ormai assuefatta a immagini tutte uguali. La scena visuale di oggi è colma di immagini filtrate, saturate e desaturate, chiunque ne consuma e chiunque ne produce, dai ragazzini smartphonizzati ai politici sempre più twittati, ai giornali autorevoli» (p. 126). Quando uno stile diventa così pervasivo, tende ad essere percepito come “naturale”, pertanto occorre davvero prestare attenzione al fotogiornalismo che «combina forti dosi di alterazione nei contenuti e ruffiano adeguamento ai gusti formali di massa» (p. 126). Nella contemporaneità il filtro può davvero trasformarsi in ritocco.

L’intervento di Andrea Cortellessa affronta l’epica contemporanea analizzando la produzione di Giorgio Falco e di Sabrina Ragucci. La disamina parte dalla pubblicazione di Pausa caffè del 2004 di Falco, autore definito da Aldo Nove come un contemporaneo poeta epico del mondo del lavoro precario. Cortellessa sottolinea come, in tale autore, la coralità pare capovolta rispetto al modello epico antico: «in luogo della totalità tradizionale il mondo di Pausa caffè è quello della più disgregata frammentazione sociale, della frammentazione emotiva di ciascuno di noi, della frammentazione del tempo e dello spazio» (p. 128), dunque, sostiene lo studioso, non poteva che ricorrere ad una tecnica narrativa fondata sul frammento. Non si potrebbe pertanto parlare di coro in quanto, continua lo studioso, «ogni singola tessera di quel mosaico [è] rigidamente monologica» (p. 128).
Nella seconda opera di Falco, L’ubicazione del bene, del 2009, i frammenti della rappresentazione modulare si accampano nel loro desolato isolamento senza presentarsi in unità di senso autonome. Tutto ciò viene a collocarsi in una contrada immaginaria, Cortesforza, una sorta di universo chiuso costituito da tanti non-luoghi. Nel descrivere l’universo messo in scena da Falco, Cortellessa ricorre alle parole di Peter Sloterdijk, e lo definisce “dentro il capitale”: «totalmente avvolto da una pellicola di merci e prezzi, incapaci di percepirsi (…) da una qualsiasi prospettiva esterna» (p. 130). Un unico ed eterno presente, senza un fuori e nemmeno un dentro; è la fine del mondo descritta tante volte dalla fantascienza ma qua ambientata nel presente e non in un lontano futuro.
Cortellessa sostiene che la fotografia risulta per certi versi sempre presente nei testi di Falco, anche quando materialmente non è direttamente presente sulle pubblicazioni; «più che della fotografia in quanto testo iconico sarà il caso di parlare, a proposito dei testi di Falco, dell’atto fotografico (…) ossia di quell’insieme di pratiche che ci consentono di parlare della fotografia come processo» (p. 133), nonché, continua lo studioso citando Philippe Dubois (L’Acte photographique, 1983 – L’atto fotografico, 1996), al tempo stesso come di una «vera categoria del pensiero». Dunque, secondo Cortellessa un pensiero fotografico, un’etica della fotografia, è alla base della narrativa di Falco e, continua lo studioso, la scrittura utilizzata ne L’ubicazione del bene può essere confrontata con la produzione dei New Topographics volta ad applicare al man-altered landcape lo stesso rigore che Ansel Adams riservava alla Wilderness. Falco sembrerebbe aver applicato alla sua scrittura la dislocated perspective dei New Topographics.
Già nel caso di L’ubicazione del bene è ravvisabile il contatto tra lo scrittore e la fotografa Sabrina Ragucci (sua l’immagine di copertina), la collaborazione tra i due prosegue, come ad esempio nel racconto Lo sguardo giù dal basso siamo noi (in Racconti, 2010), lungo una serie di produzioni sempre più sinergiche e sempre più strutturate, come nel caso di Condominio Oltremare (2014), ove risulta impossibile separare il testo di Falco dalle immagini di Ragucci. In questo ultimo caso, sostiene Cortellessa, «la scrittura non si presenta (…) quale didascalia dell’immagine, né viceversa l’immagine può essere considerata mera illustrazione del testo» (p. 137).

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Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica https://www.carmillaonline.com/2015/09/23/chi-ricorda-debra-libanos-come-un-falso-mito-cancella-la-memoria-storica/ Wed, 23 Sep 2015 21:30:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25059 di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità [...]]]> di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità dell’accaduto, prendevano una decisione di fatto non più differibile, visti i cospicui risultati raccolti nel frattempo dalla ricerca storica nonostante i numerosi ostacoli incontrati e, spesso, da quelle stesse istituzioni frapposti, e abbandonavano, quindi, quell’imbarazzante atteggiamento omertoso che aveva contribuito in modo decisivo a censurare e ad allontanare dall’orizzonte della memoria collettiva italiana i crimini coloniali ed in particolare quelli commessi in A.O.I. (Africa Orientale Italiana). Ben tre interpellanze parlamentari e il lungo ed aspro, nonché noto, confronto polemico, consumatosi a mezzo stampa, tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli avevano finalmente acceso e puntato i riflettori di una parte almeno dell’opinione pubblica sul passato coloniale italiano, su pagine di “storia patria” in buona sostanza sconosciute o quasi a molti italiani. Il successore alla Difesa di Domenico Corcione, cioè Beniamino Andreatta, ministro del primo governo Prodi, si trovò ad affrontare nel 1997 lo scandalo dei crimini commessi dai soldati italiani in Somalia durante la missione ONU nota come Restore Hope, a cui l’Italia partecipò con un impiego di uomini, denominato Missione Ibis, inferiore solo a quello statunitense e con cui non si lasciò sfuggire l’occasione né di rimettere piede in una sua ex colonia del Corno d’Africa, né di macchiarsi di violenze e crimini contro civili, come già accaduto in epoca fascista.

2Si potrebbe pertanto supporre che a partire da queste vicende della metà dagli anni ’90, ricostruite ed analizzate nel dettaglio anche da Simone Belladonna nel suo libro, sia andato via via aumentando l’interesse per l’imperialismo italiano e soprattutto per gli aspetti peggiori e criminali di esso (o “più criminali”, si potrebbe dire, essendo un’aggressione coloniale già in quanto tale definibile, oggi, come un crimine contro l’umanità, se si applica l’art.7 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998) e che all’infaticabile e meritorio lavoro di ricerca storica di Angelo Del Boca innanzi tutto, che già a metà degli anni ’60 faceva uscire il suo primo libro sulla guerra d’Abissinia, e di Giorgio Rochat in secondo luogo, si siano aggiunti gli sforzi di altri storici e ricercatori. Ed in parte è quanto è accaduto, poiché al maggior africanista italiano e all’esperto studioso di storia militare sopra citati si sono affiancati, sia prima sia dopo le ammissioni governative del 1996, altri storici che con i loro lavori hanno di molto ampliato ed arricchito, per quantità e qualità, la conoscenza sia della guerra d’Etiopia e dell’uso di gas e armi chimiche in particolare, sia, più in generale, di altre pagine cupe della nostra storia recente: l’imperialismo italiano nel suo complesso e i crimini dalle nostre truppe commessi non solo in Abissinia, ma anche in Libia, oppure nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale; i campi di internamento per civili su suolo italiano o nelle zone di occupazione militare, ecc. Per citarne alcuni, con la consapevolezza di, involontariamente, dimenticarne altri, si possono ricordare i lavori di: A. Aruffo, L. Borgomaneri, D. Bidussa, A. Burgio, I. Campbell, S. Capogreco, M. Dominioni, F. Focardi, N. Labanca, G. Oliva, D. Rodogno, E. Salerno ed anche S. Belladonna, il cui libro da poco dato alle stampe costituisce l’occasione per la stesura di queste riflessioni.

3Ma se dall’ambito ristretto degli addetti ai lavori, degli storici e dei lettori interessati al passato coloniale italiano otto-novecentesco ci spostiamo in direzione dell’opinione pubblica, da intendersi in questo caso come consapevolezza e conoscenza diffuse dell’imperialismo italiano, delle sue guerre e delle sue politiche di repressione e occupazione, allora lo scenario cambia bruscamente e si delinea un quadro di sostanziale ignoranza, formatasi nel corso degli ultimi settant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla perdita dell’impero; insipienza che va addirittura oltre l’amnesia o il ricordo sfocato e impreciso di un passato che inevitabilmente si allontana sempre più, perché consiste in una sostanziale non conoscenza di quel passato, cioè di un pezzo della nostra storia lungo una sessantina d’anni, quelli che separano l’Italia di Depretis da quella di Mussolini e del secondo conflitto mondiale, in quanto fu a partire dagli anni ’80 del XIX secolo fino alla guerra d’Etiopia e conseguente proclamazione dell’impero del 1935/’36 che l’Italia interpretò a più riprese una politica imperialistica di conquista coloniale dell’agognato “posto al sole” in terra d’Africa.
E non si trattò, come la vulgata più diffusa vorrebbe, di un colonialismo minore, più proclamato che praticato, ovvero, addirittura, bonario e benevolo, nonché – come ogni colonialismo occidentale ha sempre preteso di essere – civilizzatore. Per ambizioni e finalità, non ebbe molto da invidiare a quello di altre potenze europee del tempo e il suo carattere “tardivo” fu motivato dall’altrettanto tarda unificazione nazionale, un po’ come accadde all’imperialismo tedesco, bismarckiano prima e guglielmino poi. Prese le mosse, la conquista italiana di un “posto al sole”, negli anni ’80 dell’Ottocento e conobbe un momento apicale con la guerra italo-turca per la Libia del 1911/’12 e, quindi, nella sua fase “liberale” e non ancora fascista, si sviluppò negli stessi decenni in cui, per fare qualche esempio, la Francia si impossessò di Tunisia, Indocina, Marocco e l’Inghilterra prese il controllo di Suez e dell’Egitto, tasselli essenziali e strategici dei rispettivi imperi. Certamente i risultati italiani furono di ben minore portata, ma questo lo si dovette soprattutto a rapporti di forza nello scacchiere internazionale ed africano nei quali l’Italia era la parte debole, non certo alle intenzioni dei governi italiani, della classe dirigente liberale e dei settori del mondo economico coinvolti, soprattutto dai tempi di Crispi in poi. Per farsi largo tra le potenze del tempo, l’Italia intraprese due grandi guerre coloniali, che aggiunsero ulteriori elementi di criticità ai già incrinati e logori rapporti dei rispettivi scenari internazionali, che, pochi anni dopo l’una e l’altra guerra italiana, avrebbero condotto ai due conflitti mondiali: si tratta della già citata guerra di Libia e, ovviamente, di quella d’Etiopia. Ma il numero delle guerre potrebbe raddoppiare se si considera che tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, l’Italia – già fascista – fu impegnata nella riconquista di Tripolitania e Cirenaica e che quella del 1935/’36 fu, in realtà, la seconda guerra per l’Abissinia, preceduta da quella crispina, conclusasi con la disfatta di Adua del 1896, che costò più vittime di tutte le guerre risorgimentali messe assieme. La mussoliniana aggressione dell’impero etiope, poi, fu realizzata con un dispiegamento di uomini, mezzi, forze mai visto prima in una guerra africana o coloniale, tanto che, come ricorda Belladonna (S. Belladonna, cit, p.19) sulla scorta delle analisi di G. Rochat, si deve parlare di una guerra “nazionale”, non solo coloniale. «Guerra coloniale voleva dire un corpo di spedizione piccolo con molte truppe africane, obiettivi limitati e tempi lunghi, poca pubblicità e scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica (come la riconquista della Libia). Mandare centinaia di migliaia di soldati invece voleva dire toccare direttamente tutti gli ambienti: ogni rione, ogni parrocchia, ogni villaggio avrebbe avuto i suoi “ragazzi di leva”. Voleva dire mobilitare la grande macchina propagandistica del regime, tutti i giornali, le scuole, i parroci, le industrie. Appunto una guerra “nazionale” […]» (G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, pp.25-26).

E pertanto non solo per aspirazioni ed obiettivi politici o per mezzi ed uomini impiegati quello italiano non fu un colonialismo “minore”, ma anche per coinvolgimento, via propagandistica, dell’opinione pubblica e dell’intero paese. Se il caso etiope, sopra ricordato da Rochat, è il più evidente, poiché architettato e messo in opera dalla macchina della propaganda di un regime totalitario, per sua natura avvezzo al modellamento coercitivo del pensare collettivo e pubblico, non meno importante fu il caso della sbornia nazional-colonialistica degli anni attorno alla guerra di Libia, che forgiò i capisaldi dell’ideologia nazionalistica che poi traslò nell’interventismo del 1914/’15, e di seguito nel fascismo e che ripropose, sostanzialmente immutate, le sue parole d’ordine anche nel 1935/’36.

Sulla scorta di queste, seppur sbrigative, considerazioni, verrebbe da chiedersi perché allora quello italiano sia dagli italiani stessi considerato un colonialismo di rango inferiore e magari un po’ “straccione” o perché, peggio ancora, esso sia così poco ricordato e conosciuto.
Se poi si apre il capitolo dei crimini coloniali italiani le cose peggiorano ulteriormente e una spessa coltre di nubi sopraggiunge ed avvolgendoli nasconde i fatti più incresciosi e i comportamenti più violenti e criminali di cui si sono rese responsabili le forze armate italiane nelle colonie. E’ come se un fitto ed impenetrabile muro di nebbia impedisse alla coscienza collettiva degli italiani di vedere il proprio passato e le permettesse di vivere pacificata nella serena ignoranza della propria storia rimossa. A tal proposito basta gettare uno sguardo all’editoria scolastica, per rendersi conto come dei crimini di guerra italiani, dei gas in Etiopia, e prima ancora dei campi di concentramento libici in cui fu deportato il 50% della popolazione della Cirenaica, della brutale repressione contro la resistenza prima libica poi abissina, dei campi di internamento nei Balcani aggrediti e occupati insieme all’alleato nazista, ecc quasi non ci sia traccia. Pochi i manuali di storia che dedicano più di qualche riga o paragrafo a questi argomenti e quasi mai entrando nelle questioni con sufficiente profondità di prospettiva e accuratezza di analisi.

4E le cose non migliorano se passiamo dalla manualistica scolastica ad altri mezzi e prodotti culturali e di informazione: giornali, televisione, produzione documentaristica e cinematografica.
E allora gli studenti e gli italiani in generale conoscono qualcosa – sempre troppo poco, certo, ma comunque qualcosa – di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine, ma ignorano per lo più la strage di Debrà Libanòs, in cui la furia di fascisti e soldati italiani si scatenò in una rappresaglia che fu una vera e propria mattanza, per punire l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il generale Graziani, viceré di Etiopia dopo il rientro di Badoglio a Roma a guerra conclusa: prima venne la popolazione civile di Addis Abeba, che subì un pogrom squadrista che durò tre giorni; poi i notabili dell’etnia amhara, fucilati o deportati nei campi di concentramento, in particolare a Nocra in Eritrea e a Danane in Somalia; poi i cantastorie e gli indovini, accusati di propagare notizie anti italiane di villaggio in villaggio, che vennero arrestati e uccisi ed infine i monaci, i docenti di teologia, gli studenti del convento copto di Debrà Libanòs, considerato il centro nevralgico della resistenza abissina ed anche il luogo in cui gli attentatori fuggiaschi avrebbero trovato rifugio ed aiuto. [Per i fatti di Debrà Libanòs si veda, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005]

Se ci limitiamo anche solo all’episodio culminante del monastero, il numero delle vittime va da un minimo di 1400 circa a un massimo di 2000 circa, eliminate secondo modalità e logiche che non presentano sostanziali differenze da quelle delle cosiddette “eliminazioni caotiche” degli Einsatzkommandos nazisti sul fronte orientale e contro gli ebrei sovietici, o da quelle delle rappresaglie stragiste dagli stessi tedeschi utilizzate per reprimere la resistenza partigiana nell’Europa occupata ed anche in Italia. Questa la sequenza delle fasi principali dello sterminio: controllo militare del luogo, rastrellamento e concentramento delle vittime, trasporto con camion delle stesse in un luogo prescelto per l’esecuzione di massa, la piana di Laga Wolde non lontana dal monastero, uccisione tramite fucilazione e ammassamento dei cadaveri in fosse comuni. E non solo il modus operandi, ma anche la logica e le finalità che mossero i fascisti e i soldati italiani in Etiopia non differivano da quelle che avrebbero mosso i nazisti qualche anno dopo: repressione vendicativa della popolazione civile rea di collaborazione con i resistenti, rottura dei collegamenti tra partigiani e civili, governo e controllo del territorio tramite il terrore, dimostrazione di forza brutale.
E ancora, risulta difficile rilevare essenziali differenze tra gli ordini impartiti, tra gli altri, dal colonnello Herbert Kappler alle Fosse Ardeatine e le decisioni prese dal governatore del Regno del Montenegro, generale Alessandro Pirzio Biroli, che nel giugno del 1943, come rappresaglia per l’uccisione presso Podgorica da parte dei partigiani di 9 italiani del 383° reggimento di fanteria, fece fucilare 180 ostaggi, secondo una proporzione di 1 a 20, il doppio di quella applicata a Roma dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo1944. Ma di queste “Fosse Ardeatine jugoslave”, che ci vedono coinvolti in qualità di carnefici e non di vittime, non c’è memoria. [Per la repressione italiana della resistenza partigiana in Jugoslavia si vedano, tra gli altri: A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit; G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-43, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2003]

E, per aggiungere un altro ed ultimo esempio tra i tanti possibili di questa sperequazione della memoria storica, è grosso modo noto a tutti gli italiani, anche grazie alla ricca ed ottima produzione cinematografica americana, l’uso massiccio da parte statunitense di defoglianti durante la guerra del Vietnam, ma pochi in Italia sanno che una trentina di anni prima il Regio Esercito italiano avvelenò la popolazione, gli animali e la vegetazione dell’Etiopia con tonnellate di ordigni caricati con iprite o arsina.

5Ma quali sono allora le cause e i motivi di questa sperequazione della memoria, come poco sopra è stata definita, che porta la coscienza collettiva di un popolo, quello italiano, a conoscere e commemorare, come è doveroso e fondamentale, i crimini di guerra subiti, ma ad allontanare dal piano del proprio orizzonte visivo quelli compiuti?
Che cosa, dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, ha impedito e continua ad impedirci di impostare un rapporto con il nostro passato recente che sulla base di una verità storica seriamente ricostruita permetta di fare di quel passato stesso, per quanto scomodo o spiacevole possa essere, un tassello, un mattone per costruire un’identità storica collettiva consapevole e critica?
La ricerca storica procede nel suo lavoro di scavo e di ricostruzione, di indagine, di spiegazione e comprensione, ma non riesce a fare breccia nella coscienza collettiva, non è capace di sedimentarsi in essa perché si scontra con l’ostruzionismo pervicace di un mito collettivo, di una leggenda a cui, consciamente o inconsciamente, teniamo più che ad ogni altra immagine di noi stessi: la leggenda del “buon italiano”, degli “italiani, brava gente”. [Si vedano a tal riguardo, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit.; S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2004]

Si tratta di una rappresentazione collettiva ampiamente auto assolutoria e rassicurante secondo la quale l’italiano – per indole, carattere o storia – non sarebbe capace di atti efferati, di crudeltà e crimini e, pertanto, anche in tempo di guerra, sarebbe mite, bonario e tollerante, sempre ben disposto anche nei confronti del nemico, se non addirittura sentimentale e comunque sempre umano. Uno stereotipo in piena regola, costruito su misura come un abito sartoriale, tagliato e cucito da mani esperte per le migliori occasioni e per le foto in posa.
Un’autorappresentazione fantasiosa, tanto deformata quanto a sua volta deformante – di cui in seguito verranno indicate per sommi capi genesi e ragioni – che dal dopoguerra è andata progressivamente radicandosi, innervandosi per divenire infine contenuto e forma essenziali dell’immagine che il popolo italiano tende a proporre di se stesso.
Da simili premesse, quali conseguenze? Numerose e tutte venefiche, in quanto travisano la realtà e producono, nell’ordine, falsità, oblio ed ignoranza. E pertanto il colonialismo italiano sarebbe stato un “colonialismo umanitario”, che costruiva ponti, pozzi e strade, quasi più missionario che conquistatore, che esportava – non violava – civiltà. Proprio come vuole il più inattaccabile degli stereotipi a supporto dell’ideologia imperialistica, quello della missione civilizzatrice, del “fardello dell’uomo bianco”, che nelle sue varianti ha resistito, e resiste, ben oltre l’età storica del colonialismo. Sullo sfondo di una visione così edulcorata della presenza italiana in Africa non c’è posto per crimini, violenze o stragi, che risultano conseguentemente minimizzati, quando non totalmente rimossi. E il paradigma di pensiero si sposta facilmente dall’Africa all’Europa, ai Balcani o al fronte russo, dove, ancora una volta i crimini compiuti vengono dimenticati o addirittura – è il caso dell’ARMIR – responsabilità e ruoli vengono capovolti e i soldati italiani da “invasori” diventano “vittime”. [Si veda a tal proposito Th. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari, 2009]

Storture e travisamenti diventano riduzionismo e sfiorano il negazionismo quando si tocca la delicata questione del razzismo, che non riguarderebbe, se non limitatamente e in forme sempre blande, l’indole italiana, senza che di questa edulcorata lettura del fenomeno si possano trovare riscontri, dati e fatti comprovanti e a fronte, invece, delle Leggi razziali e antisemite del ’38 e dei provvedimenti legislativi segregazionisti e razzisti introdotti in A.O.I nel 1936 e 1937, che non solo mostrano come l’atteggiamento degli italiani in Etiopia fosse tutt’altro che fraterno e benevolo nei confronti della popolazione africana, ma anche dimostrano, scavalcando e confutando facilmente le interpretazioni minimaliste del razzismo italiano che immancabilmente lo vorrebbero spiegare come diretta emanazione e imposizione di Berlino su Roma, che esso conobbe invece una genesi e sviluppi propri e complessivamente autonomi dall’antisemitismo tedesco e collocabili per l’appunto in terra africana. [Si consulti E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2003]

E allora anche il ricorso ai campi di concentramento non rientrerebbe nelle modalità propriamente italiane di esercitare il potere, reprimere e combattere i nemici, nonostante la costruzione di campi, per condizioni di internamento terribili, in Libia prima ancora che sul territorio nazionale o nelle zone di occupazione in Jugoslavia. Il lager diventa quindi una esclusiva dei nazisti, che, per bilanciamento complementare del mito del “buon italiano”, assurgono a mito negativo, quello del “tedesco malvagio”, per indole o per tratto etnico-nazionale. [Si consultino, tra gli altri, E. Collotti, L. Klinkhammer, Il fascismo e l’Italia in guerra, Ediesse, Roma, 1996; F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, Roma-Bari, 2013]

6-1Di fronte ad un così ben articolato armamentario di distorsioni e banalizzazioni storiche, i tentativi non tanto di fare luce sui crimini coloniali italiani, da questo punto di vista un cospicuo lavoro è già stato e continua ad essere svolto, ma piuttosto quelli di divulgare i risultati della ricerca, affinché possano divenire parte essenziale di una autocoscienza storica nazionale consapevole e critica, sembrano quasi sempre destinati alla sconfitta. Tale è la resistenza opposta dal meccanismo di rimozione censoria del “buon italiano”. Ovviamente quello italiano non è l’unico caso di memoria storica collettiva di problematica incubazione e di distorta e gravemente parziale formazione: ne sono un esempio le memorie conflittuali che in Spagna si confrontano davanti al passato franchista e ai crimini dai nazionalisti compiuti, e poi negati, durante la guerra civile ed immediatamente dopo, in un paese in cui la fine del regime si è associata alla continuità istituzionale per mezzo della monarchia. Ma il confronto più significativo va fatto con la Germania, che, pur avendo dovuto fare i conti subito dopo la fine della guerra con il macigno dell’allora recente passato nazista e dei suoi crimini contro l’umanità, aveva mantenuto e coltivato per decenni un proprio mito, anch’esso auto assolutorio e rassicurante, quello del “blasone immacolato” della Wehrmacht. A partire dall’immediato dopoguerra era stata ripetutamente proposta la teoria secondo cui l’esercito si sarebbe comportato onorevolmente e sarebbe uscito “pulito” dal secondo conflitto mondiale e, soprattutto, dal nazismo. Esso non avrebbe fatto altro che adempiere al proprio dovere e non si sarebbe sostanzialmente macchiato di crimini o di atrocità, che, pertanto, sarebbero stati compiuti solo da SS e Waffen-SS, dalla Gestapo e dal partito. In questo modo un’istituzione forte dello stato – l’esercito – e il grosso della popolazione tedesca coscritta e inviata sui fronti a combattere erano privi di colpe particolari e venivano sottratti al sospetto di aver commesso atti efferati, mentre l’esclusiva dell’orrore veniva attribuita al regime, al partito e ai corpi di polizia da esso dipendenti. [Tra gli altri, si consultino F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma, 1997; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli editore, Roma, 1997]

Fu una mostra sui crimini della Wehrmacht organizzata dal Hamburger Institut für Sozialforschung tra il 1995 e il 1999 (Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944 – Guerra di sterminio. Crimini della Wehrmacht dal 1941 al 1944) e poi dal 2001 al 2004 (Verbrechen der Wehrmacht. Dimensionen des Vernichtungskrieges 1941–1944 – I crimini della Wehrmacht. Le dimensioni della guerra di sterminio 1941-1944) a creare scompiglio e a mettere in discussione l’assunto di fondo della leggenda del “buon soldato tedesco”. La prima mostra attraversò 33 città in Germania ed Austria per un totale di 800.000 visitatori e la seconda fu portata in 11 città tedesche, a Vienna e in Lussemburgo e raccolse 420.000 visitatori. [Sito ufficiale della mostra]
Le dimensioni e il successo di pubblico della Wehrmachtsausstellung e il dibattito e le polemiche che ne scaturirono evidenziano come fosse difficile per molti tedeschi misurarsi con un’immagine di sé diversa da quella fino a quel momento coltivata, come fosse impegnativo dover rinunciare all’idea di un esercito complessivamente estraneo alle inumane pratiche del regime e del partito e dover ampliare considerevolmente l’area del coinvolgimento attivo nei crimini del nazionalsocialismo fino a farvi rientrare, appunto, l’esercito nel suo complesso. Coinvolgimento generalizzato del popolo, dello stato, dell’intera società, degli apparati economici nella costruzione e realizzazione del regime e nelle sue imprese, dalla guerra alla Shoah, che la ricerca storica aveva già ampiamente appurato e dimostrato, sempre più abbandonando letture “hitleriste” e, dagli anni Settanta in poi, virando verso approcci di tipo strutturalista, ma nell’opinione pubblica il mito della “Wehrmacht pulita” aveva resistito ben più a lungo.

Anche in Italia, il mito degli “italiani, brava gente” trovò terreno fertile in cui attecchire nell’immediato dopoguerra, perché lo vollero un po’ tutti. Agli ex fascisti, che intendevano a tutti i costi evitare di dover rendere conto dei crimini compiuti, risultava utile far passare l’immagine buonista del soldato italiano, che, associata alle censure capillari operate dal regime negli anni precedenti su argomenti quali, per esempio, i gas in Etiopia di cui ovviamente non c’era traccia nella cospicua memorialistica coloniale, gettava fumo negli occhi e contribuiva ad avvalorare il teorema innocentista ed auto assolutorio. Tutto questo però, si badi bene, al costo di un tanto paradossale quanto totale capovolgimento dell’immagine dell’Uomo Nuovo fascista che il regime aveva teorizzato, propagandato e costruito per vent’anni. Di quell’idealtipo fascista l’esempio più fulgido era stato proprio Rodolfo Graziani, il “macellaio degli arabi” – secondo la definizione che ne avevano dato i libici – non certo l’immagine auto denigratoria e derisoria confezionata ad hoc di un soldato italiano forse un po’ bislacco e pasticcione, magari non efficiente come altri nel combattere, ma che compensa tali deficienze marziali con cameratismo, umanità e compassione anche verso il nemico.
Ma interessava anche al maggior partito di governo, la Democrazia cristiana, che si proponeva di conseguire il fine della riconciliazione popolare, della armonizzazione nazionale, attraverso un rapporto col recente passato che privilegiasse più la continuità che la rottura ed evitando l’epurazione della classe dirigente e militare precedente. A tal fine era quanto mai utile costruire una rappresentazione “vittimistica”, quindi assolutoria, di un popolo italiano interamente e sostanzialmente buono, che aveva subito e non voluto o condiviso il fascismo, corpo estraneo o parentesi malata, per dirla con Croce, nella storia del paese.
Ma anche ai partiti della sinistra e in particolare al Partito comunista la favola del buon italiano tornava comoda. Attraverso di essa era possibile sottolineare ed amplificare i meriti dell’Italia partigiana e di quella forza politica che più delle altre antifasciste l’aveva combattuta, il Pci appunto, contrapponendo un popolo buono ad un regime feroce. Si poteva impostare l’equazione, politicamente legittimante lo stesso partito, tra Resistenza e popolo italiano, il cui risultato sarebbe stato quello di un partito comunista parte integrante della nazione e forza politica nazionale, anche a costo di rinunciare alla necessaria epurazione e alla doverosa punizione dei maggiorenti e dei criminali del precedente regime. Il tutto culminò, come è noto, nell’amnistia da Togliatti stesso voluta per il conseguimento – per dirla con le parole del segretario del Pci – “della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani”.
E diedero il loro contributo a questa mitopoiesi postbellica anche gli Alleati, per i quali l’Italia, paese strategico e confinante con la “cortina di ferro” e da governarsi più in continuità con il passato che attraverso traumatiche rotture, era così importante da meritare un trattamento diverso da quello dei suoi alleati del Patto Tripartito, con i quali aveva scatenato e combattuto la seconda guerra mondiale e così non vennero mai istruite una “Norimberga italiana” o una “Tokio italiana”. I criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia, dalla Grecia o dalle ex colonie africane non furono mai consegnati e le pene inflitte da tribunali italiani furono poche, lievi e incommensurabilmente inadeguate ai crimini perpetrati.

Ma se tutto questo spiega il passato, perché ancora oggi, quando ci separano dalla guerra di Etiopia ottant’anni esatti, quando le ragioni del dopoguerra sono ormai soltanto analisi storica, parlare dei gas in Abissinia e di altre atrocità continua a suscitare come automatica reazione la riproposizione della formula magica del “buon italiano”?
Possibile che quelle motivazioni, così strettamente legate al periodo fascista e coloniale, alla sua fine e alla problematica costruzione di una nuova identità nazionale, in un paese prima aggressore e poi aggredito, prima nemico degli Alleati poi in parte cobelligerante, spaccato in due territorialmente e politicamente, attraversato dalla lotta partigiana e dalla guerra civile, tessera fondamentale nel nuovo mosaico europeo della guerra fredda, ecc, possibile – ci si chiedeva – che ancora oggi mantengano un senso?
O dobbiamo forse, più semplicemente, rassegnarci ad ammettere che, al di là di tutte le considerazioni di ordine storico e politico sopra abbozzate ed indipendentemente da esse, a noi italiani piacciono questi panni? Ci sentiamo bene in essi? Ci rassicura l’immagine un po’ da commedia e un po’ da tragedia di un italiano sempre succube degli eventi della Grande Storia che lo sovrastano, ma capace anche di ricostruirsi un proprio piccolo mondo privato, nella famiglia, nel borgo o quartiere, con gli amici o i commilitoni, dove è in grado di conservare e coltivare quel lato umano che lo caratterizzerebbe comunque e sempre e che gli consente, quando poi dalla Grande Storia è chiamato alla guerra, di combattere con onore, ma mai con brutalità e talvolta di fraternizzare pure col nemico e di fare all’amore con le donne dei paesi invasi, mai, ovviamente, di violentarle?
Qualunque sia la spiegazione, è certo che tale falsa e sciocca, menzognera e meschina autorappresentazione collettiva è così radicata in noi che riemerge ad ogni occasione buona e contribuisce, oggi come in passato, a mantenere umido e pronto il terreno per la semina dei più nefasti revisionismi e giustificazionismi, atti a riabilitare un passato vergognoso attraverso il potente fertilizzante dell’ignoranza della storia.
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Immagini, in ordine dall’alto al basso:
– manifesto della R.S.I, Vogliamo essere comandati dai negri? Giammai! Italia, 1944
– copertina di A. Del Boca, La guerra d’Abissinia 1935-41, Feltrinelli, Milano, I edizione, 1965.
– copertina di S. Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015
Gruppo di militari italiani intorno a una bomba C.500.T caricata a iprite
– cartolina coloniale, Armamenti, 1935-‘36
La raccolta dei cadaveri della rappresaglia fascista, Addis Abeba, febbraio 1937

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La stampa sportiva italiana e gli afroamericani, 1935-1970 https://www.carmillaonline.com/2014/08/09/stampa-sportiva-italiana-gli-afroamericani-1935-1970/ Sat, 09 Aug 2014 00:23:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16631 di Carlo Trombino

boxer,heavyweight,joe,louis,match,primocarneraQuando si pensa al rapporto tra sport e cultura afroamericana vengono in mente principalmente due immagini: il pugno chiuso di Carlos e Smith alle olimpiadi di Città del Messico 1968, e, naturalmente, la grazia e la furia di Cassius Clay, che nel 1964 divenne un fedele di Elijah Muhammad e cambiò il proprio nome in Mohammed Ali.

In realtà, come vedremo, già da molto prima, sia gli atleti che la comunità afroamericana avevano cominciato a usare lo sport come strumento di protesta e di rivendicazione politica, o quantomeno come strumento di [...]]]> di Carlo Trombino

boxer,heavyweight,joe,louis,match,primocarneraQuando si pensa al rapporto tra sport e cultura afroamericana vengono in mente principalmente due immagini: il pugno chiuso di Carlos e Smith alle olimpiadi di Città del Messico 1968, e, naturalmente, la grazia e la furia di Cassius Clay, che nel 1964 divenne un fedele di Elijah Muhammad e cambiò il proprio nome in Mohammed Ali.

In realtà, come vedremo, già da molto prima, sia gli atleti che la comunità afroamericana avevano cominciato a usare lo sport come strumento di protesta e di rivendicazione politica, o quantomeno come strumento di identificazione collettiva.

Non dobbiamo sorprenderci, quindi, se tali questioni in Italia vennero affrontate prima sulle pagine sportive dei quotidiani e soltanto in seguito arrivarono le analisi socio-politico-culturali del Black Power.

Per trattare un argomento del genere non possiamo che partire dal 1935, dall’incontro di pugilato fra Joe Louis e Primo Carnera, eroe del fascismo.

L’incontro tra Primo Carnera e la nuovissima “stella nera del pugilato” ha avuto il pregio di suscitare grande interesse negli ambienti nordamericani sin dal suo annuncio; ma dopo il colpo di scena del Madison Square Garden, dopo la sconfitta di Max Baer e l’incoronazione a nuovo re del pugno di James Jimmy Braddock, l’urto tra l’ormai popolare Joe Louis ed il gigante italiano, che vanta ancora negli Stati Uniti una folta schiera di ammiratori, è assurto ad avvenimento di prim’ordine.

Così la Stampa di Torino raccontava l’attesa per il match fra Louis e Carnera, in un articolo apparso sulle pagine sportive che, fin dal titolo, metteva in chiaro l’approccio fascista alla questione: Carnera deve domare Joe Louis, la “pantera nera“.

Carnera, “creduto imbattibile“, aveva da poco perso la corona dei pesi massimi contro Max Baer, e l’incontro con Louis doveva segnare la sua rinascita.

Sappiamo che nei ghetti urbani e nella “Black Belt” l’incontro tra Primo Carnera e Joe Louis aveva un significato particolare: il 1935 fu l’anno in cui l’Italia fascista aggredì l’Etiopia, e in molti leggevano l’incontro geopoliticamente: sulla stampa americana apparve una vignetta in cui i due pugili proiettavano le ombre di Mussolini e Selassie. Qualcosa di più di un semplice incontro di pugilato, quindi. E l’autore del sopracitato articolo lo sapeva bene, ricordando ai lettori che “non vi dovrebbe essere dunque dubbio che, se Primo riuscirà a far abbassare bandiera al minaccioso pugile di colore, il posto di principe ereditario sarà riservato a lui e, aggiungiamo noi, con molta gioia dei buoni yankee che, ogni qualvolta vedono profilarsi all’orizzonte la minaccia nera, perdono la calma. La riconoscenza verso Carnera se riuscirà ad abbandonare l’incubo sarà sentita e il premio per il prezioso servizio non dovrebbe mancare“. Nessun riferimento alla guerra d’Etiopia, ma si sottolineava che i “buoni yankee” sarebbero stati più che contenti di una sconfitta del “negro”:

Come sappiamo, non ci sarebbe stato nessun alloro per Carnera che venne umiliato sul ring da Louis, scatenando la gioia degli afroamericani che poterono gioire per l’umiliazione, quantomeno simbolica, degli aggressori d’Etiopia.

Appare però chiaro che su entrambe le sponde dell’Atlantico questo evento sportivo assumeva tratti di elevata politicizzazione.

Ecco come, il 27 Giugno 1935 il quotidiano torinese raccontava la sconfitta del gigante friulano; in primo piano, l’incontenibile gioia di Harlem.

La vittoria del negro Joe Louis su Primo Carnera allo stadio Yankee di New York è stata festeggiata per l’intera notte nel quartiere negro di Harlem, i cui abitanti sembravano impazziti dalla gioia. Essi hanno invaso le strade armati di tutto ciò che poteva produrre rumore: tamburi, trombe, sirene, campane e campanelli, bidoni di benzina e altro, originando una musica infernale che non ha lasciato dormire nessuno per qualche chilometro all’ingiro.

Notte di baraonda.

L’entusiasmo dei negri che erano in numero di almeno centomila è stato tale che una delle sue conseguenze è stata la rottura di tutti i vetri dei carrozzoni tranviari e di decine di automobili. Il traffico del quartiere è stato completamente bloccato per ore e ore.

Seguiva la fredda cronaca dell’incontro che segnò per sempre le fortune di Carnera. Il cronista si soffermava sulle “labbra carnose” e i “balzi felini” di Louis, che due giorni prima era stato dipinto come una “pantera da domare” e che ha scatenato “la musica infernale” dei suoi tifosi.

Quello dell’irrazionalità selvaggia di ogni espressione proveniente dai “negri” americani è un leitmotiv che continuò a imperversare sulla stampa italiana almeno fino alla metà degli anni sessanta, quando invece i movimenti a sinistra del PCI (e, in certa interessata misura, il PCI stesso) cominciarono a guardare con favore alle proposte politiche provenienti dai ghetti.

La Stampa continuò naturalmente a seguire le imprese di Joe Louis, malcelando la gioia per la sconfitta contro l’ariano (detto “l’ulano della morte”) Schmeling che “fece piangere i negri di Harlem“.

Ancora 5 anni dopo il match con Carnera, nel 1940, quando Louis sfidò Arturo Godoy a New York, la Stampa parlava dei “Battaglioni di negri che si dirigevano da Harlem verso il Madison Square Garden intonando canzoni inneggianti al campione del mondo“. Sappiamo (in Italia ne parlò diffusamente Fernanda Pivano in una serie di articoli su varie testate raccolte poi in un volume dal titolo Beat Hippie Yippie) che negli anni ’30-’40 le manifestazione di massa degli afroamericani non furono solo quelle dovute alle vittorie di atleti come Joe Louis, ma che in quei decenni attorno alla figura di Marcus Garvey si svilupparono i primi passi di quello che sarebbe poi diventato il Black Power; e la retorica Garveysta, il “farsi nazione” dei discendenti degli schiavi, prevedeva anche sfilate in uniforme per le vie di Chicago e New York.

Alle Olimpiadi di Berlino del 1936, in cui Jesse Owens trionfò dinanzi a Hitler, la stampa italiana si esaltò per le gesta impressionanti del corridore che polverizzò tutti i record del mondo. Ma nello stesso anno 1936 il quotidiano torinese coglieva l’occasione di una gara fra lo stesso Owens e un cavallo per sminuire la statura atletica di Owens:

Non siamo riusciti ad immaginare la gara di Pittsburgh ed a rievocare quella di Berlino, senza che una punta di ribrezzo ci salisse alla gola. Ci è parso impossibile che la meraviglia saettante sulla pista americana in lotta con la bestia, potesse identificarsi col fenomeno atletico che conobbe l’onore del trionfo tributatogli dai centomila spettatori dello Stadio Olimpico.

La propaganda fascista, in questa e in altre occasioni, dimostra di saper apprezzare le capacità atletiche degli afroamericani. Il biasimo infatti viene posto più sul capitalismo a stelle e strisce che non su Jesse Owens, che anzi veniva esaltato come “meraviglia saettante”, “macchina umana perfetta” o addirittura come “superuomo”, epiteti lontani dalla retorica razzista del regime che di lì a poco avrebbe partorito le infami leggi razziali.

Nel dopoguerra, politica, sport e rivendicazioni dei diritti civili andarono sempre più a intrecciarsi. In Italia non furono più i giornali borghesi a occuparsene ma fu soprattutto l’Unità.

Fu l’Unità l’unico giornale che dedicò ampio spazio all’assassinio di Malcolm X nel febbraio 1965, argomento che gli altri giornali confinarono nelle pagine della cronaca nera. Fu l’Unità a parlare dell’assassinio di Megdar Evers, ben prima che gli altri giornali si videro costretti a parlare del razzismo americano a causa degli omicidi di attivisti e uomini religiosi nel Sud della metà degli anni ’60.

Non ci stupiamo dunque che il profeta Elijah Muhammad, fondatore della Nation of Islam, fece la sua comparsa sulle pagine dei quotidiani italiani proprio sulle colonne dell’organo del PCI, e, nel 1964, faceva capolino in un articolo pubblicato sulle pagine sportive.

Ma già prima di quella data, nel 1961, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci aveva dimostrato grande attenzione per le rivendicazioni politico-sportive degli atleti afroamericani.

Lo dimostra un articolo del 1961 su un fatto poco noto e che non venne trattato dagli organi di stampa più filo-americani: In USA per protesta contro la segregazione I negri disertano una gara d’atletica.

Tutti gli atleti negri invitati alle riunioni finali di atletica di Houston nel Texas si sono rifiutati ieri sera di partecipare alle gare in segno di protesta contro le disposizioni razziali tra gli spettatori in base alle leggi razziste dello stato. Gli spettatori negri avrebbero dovuto infatti sedere in recinti speciali separati da qeulli riservati ai bianchi. Tra gli atleti negri che avrebbero dovuto prendere parte alle gare finali figuravano Ralph Boston e John Thomas. LA decisione degli sportivi negri, che è stata seguita dalla diserzione in massa degli spettatori di colore, ha praticamente fatto fallire la riunione di atletica.

Erano gli anni della protesta non violenta, dei freedom riders, di Rosa Parks e della diffusione di pratiche di disobbedienza civile antirazzista. Gli anni in cui il fulcro della protesta era negli stati segregazionisti del Sud. L’articolo dell’Unità proseguiva citando proprio i freedom riders:

D’altra parte la lotta dei pellegrini della libertà continua e si va rafforzando. Altri viaggiatori sono partiti da Washington per forzare le leggi razziste. I nuovi “viaggiatori” prendono il posto dei loro compagni arrestati in vari stati segregazionisti.

Pochi anni dopo, con la rivolta di Harlem del 1964 e soprattutto con quella, particolarmente sanguinosa, di Watts del 1965 la lotta antirazzista degli afroamericani si sarebbe spostata dalle campagne del sud alle metropoli del Nord e dell’Ovest, costringendo anche la stampa borghese italiana a trattare l’argomento.

E fu proprio in quegli anni che il campione di boxe Cassius Clay decise di convertirsi alla Nation of Islam. Ancora l’Unità fu la prima ad accorgersi della svolta, e nel 1964 citava il Molto Onorabile profeta Elijah Mohammed all’interno di un articolo di pugilato sulle pagine sportive. La citazione proviene da una raccolta di brevissime intitolato “Mazzinghi contro Mott” in cui di sfuggita si raccontava della conversione di Clay.

Da Los Angeles si è poi appreso che il campione dei pesi massimi Cassius Clay ha presentato a un giornalista di Los Angeles una bella ragazza come sua moglie. Clay, che ha 22 anni ed è membro della setta dei musulmani neri, ha concesso una intervista a Brad Pye, del Los Angeles Sentinel, nel suo albergo mentre si trovava in quella città. Durante l’intervista, il pugile ha presentato al giornalista una avvenente modella di 24 anni, Sonji Roi, che pure appartiene alla stessa organizzazione razziale. Nella stanza d’albergo di Clay, a quanto riferisce Brad Pye, si sarebbe svolto il seguente colloquio:

“Cara, dì al signore che sei mia moglie “, ha detto CLay.

“Sì, siamo sposati”, ha risposto la ragazza.

“Cara, dì al signore chi è il tuo capo”.

“L’onorevole Elijah Muhammad”.

“Cara, dì al signore per chi moriresti”.

“Per l’onorevole Elijah Muhammad”.

Come è noto, Elijah Muhammad è il capo della setta dei musulmani neri, a una riunione della quale, avvenuta a Los Angeles domenica scorsa, lo stesso Clay ha partecipato prendendo anche la parola.

Dopo l’intervista, il pugile e la ragazza sono partiti alla volta di Chicago, dove Sonji Roi risiede.

La madre del campione, intervistata a Louisville, ha affermato di non sapere se la storia fosse vera o meno, ed ha aggiunto che il figlio non le ha detto di essersi sposato.

La signora Clay ha però spiegato che pochi giorni fa ha saputo dall’altro figlio, Rudy, che Cassius aveva effettivamente sposato la ragazza.

Vediamo qui che l’appartenenza di Clay/Ali ai “musulmani neri” diventa poco più che un pettegolezzo riguardante il campione del mondo. Interessante anche che l’estensore dell’articolo dice che “è noto” che Muhammad è il capo dei musulmani neri, a dimostrazione che i lettori de l’Unità avevano già avuto modo di conoscere “l’organizzazione razziale”.

Ma non erano solo i quotidiani a occuparsi dell’argomento. Anche un settimanale come il Guerin Sportivo se ne interessò e, cosa ancora più significativa, furono i lettori a rivolgersi al Guerino con domande sulla situazione dei “negri d’America”.

In passato sul Guerin Sportivo scrivevano firme prestigiose come Antonio Ghirelli, Gianni Brera, Giovanni Arpino e soprattutto Luciano Bianciardi, che tenne una rubrica in cui rispondeva alle domande dei lettori. Erano gli ultimi dolenti anni di vita dello scrittore maremmano, e la rubrica fu interrotta nel 1971 proprio a a causa della morte di Bianciardi. Le sue pagine sul Guerino sono state raccolte nel libro “Il fuorigioco mi sta antipatico”, edito nel 2011 da Stampa Alternativa. Le risposte di Bianciardi sono fenomenali, ma è da notare come il pubblico di un giornale sportivo come il Guerino si mostrasse attento a tutto ciò che succedeva nel mondo, chiedendo lumi al sempre caustico Bianciardi.

Ecco quindi domande su Mohamed Ali ma anche su Angela Davis e sul razzismo istituzionale bianco. Bianciardi, che anni prima aveva tradotto il famoso saggio sugli hipster di Norman Mailer The White Negro, conosceva bene la situazione degli afroamericani. Nel suo romanzo risorgimentale del 1964, La Battaglia Soda, un personaggio americano intonava le canzoni dei “raccoglitori di cotone negri dell’Alabama”.

Vediamo nel dettaglio le domande e le risposte apparse sul Guerino riguardanti gli afroamericani.

Carissimo Bianciardi, come giudica il furore razzistico che si è scatenato contro il negro Cassius Clay alla vigilia del suo incontro con il bianco Jerry Quarry? E’ civile un popolo che alimenta, nell’anno 1970, queste odiose discriminazioni?

Espressioni come “furore razzistico” e “odiose discriminazioni” usate dai lettori di un giornale come il Guerin Sportivo, certamente non un foglio militante, spiegano bene la misura in cui molti italiani percepivano la condizione di subalternità delle masse nere americane.

La risposta di Bianciardi è come al solito sorprendente, dimostrazione del suo animo da polemista ma anche dell’approccio anarchico e contrario a qualsiasi rivendicazione di superiorità razziale, quand’anche proveniente da un popolo che lo stesso Bianciardi riconosce come vittima del razzismo bianco.

Carissima signorina Terzi, io giudico ignobile il razzismo, in qualunque forma esso si manifesti. Anche il razzismo, per ipotesi, negro. Lo so che i negri americani hanno molte cose da digerire e da scordare, e che noi dobbiamo aiutarli in questo. Ma sono contro. Sono contro le intemperanze svizzere e anche italiane contro i terroni, sono contro gli svedesi di complemento, sono contro ogni sopraffazione dei più bianchi, dei più belli, dei più ricchi, dei più puliti contro i più neri, I più brutti, i più poveri, i più sporchi. Sono contro la pubblicità che ci spiega che Calimero, in fondo, è soltanto sporco. E contro i detersivi che lavano più bianco. Ci hai mai pensato? Una camicia rossa, lavata a dovere, diventa bianca oppure resta rossa? Un popolo che discrimina non è civile. Ma Lei davvero crede che gli Stati Uniti, questo paese così progredito, ma nato qualche secolo fa colla pistola in pugno, possa chiamarsi civile? No, guardi, viva la faccia di questa povera Italia sfottuta e invasa da tutti (cominciò Odoacre e finì, per il momento, Eisenhower) che bene o male i suoi negri se li tiene.

C’è molto in questa risposta: il rifiuto della società americana “così civile e così progredita eppure nata con la pistola in pugno” e il rifiuto di ogni razzismo, anche quello implicito e apparentemente innocente di Calimero.

Ma c’è anche un passaggio, all’inizio, che denota una profonda conoscenza dell’argomento non ché un atteggiamento diffuso tra gli intellettuali italiani (Fernanda Pivano su tutti) dell’epoca: il rifiuto di un “ipotetico razzismo negro” è sicuramente dovuto alla conoscenza diretta delle derive più estreme dei movimenti afrocentrici tra gli anni ’60 e ’70. Un argomento sul quale Bianciardi ebbe modo di tornare, sollecitato ancora dai lettori del Guerino. Questa volta si chiedeva un’opinione sulla figura di Angela Davis:

Signor Bianciardi, Lei afferma di non sapere chi sia Angela Davis: si vergogni! La invito a documentarsi e ad esprimere su questo meraviglioso personaggio della storia d’oggi un giudizio (possibilmente) onesto.

Signor Pozzi, io so benissimo chi è Angela Davis, ma non ne voglio parlare perché il discorso mi fa male alle budella, mi creda. Abbia pazienza, dia tempo al tempo, e quando avrò digerito il gran magone per l’arresto della filosofa negra (magone che mi impedisce di dare un giudizio sereno) ne parlerò.

Bianciardi ha ben chiara l’importanza della figura di Angela Davis, e probabilmente l’epiteto di “filosofa negra” fu dovuto all’effettiva conoscenza dei suoi scritti. Ricordiamo che tra il 1967 e il 1971 ci fu un vero e proprio boom editoriale di pubblicazioni riguardanti la lotta degli afroamericani: biografie, scritti politici e romanzi invasero le librerie e vendettero migliaia di copie nel periodo che fu sicuramente quello di maggiore influsso della cultura dei ghetti americani sul pubblico italiano.

Se Bianciardi aveva grande rispetto per Angela Davis, non si può dire lo stesso per quanto riguarda “Cassio/Maometto” Ali.

A proposito di Clay ti dirò che il personaggio non mi è simpatico. Vedi, io non sono razzista e quindi ho il diritto di dire, chiaro e tondo, se e quando un negro mi è antipatico. E poi non sono sicuro che abbia sempre vinto in modo ‘pulito’. L’incontro col povero Sonny Liston non fu per niente chiaro.

Bianciardi era profondamente antirazzista, e sentiva il bisogno di rivendicarlo per poter parlare male del simbolo degli afroamericani. Una visione del mondo molto avanzata per l’epoca, propria di uno straordinario intellettuale che, non a caso, venne emargianto in vita dall’industria culturale.

Un antirazzismo, quello di Bianciardi, che anche al giorno d’oggi ci appare avanzato, in un’Italia che, a differenza degli anni ’70, vive sulla propria pelle le contraddizioni dell’identità razziale degli “italiani dalla pelle scura”.

Nell’Italia del 2014 assistiamo al penoso spettacolo di un campione dello sport come Mario Balotelli che, cominciando a interrogarsi sulla propria identità di afroitaliano in modo molto meno audace rispetto agli atleti americani del secolo scorso, viene quotidianamente insultato in maniera razzista proprio da quei lettori di rotocalchi sportivi che, a differenza del pubblico del Guerin Sportivo degli anni Settanta, non hanno nessuna remora a mostrare pubblicamente il volto orribile della discriminazione.

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