Espressionismo astratto – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Corpi, merci, identità. Arte nordamericana e sfera pubblica commercializzata https://www.carmillaonline.com/2021/05/29/corpi-merci-identita-arte-nordamericana-e-sfera-pubblica-commercializzata/ Sat, 29 May 2021 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66441 di Gioacchino Toni

«Di fatto, dalla seconda guerra mondiale in poi la storia dell’arte americana può essere descritta come una successione di strategie volte ad ampliare [la] sfera pubblica commercializzata, sia moltiplicando i tipi di manifestazioni visive realizzabili al suo interno che diversificando i soggetti che sono autorizzati a realizzarle» David Joselit

Negli anni Quaranta del Novecento gli approcci artistici di ordine concettuale sembrano rivelarsi inadatti ad un momento storico segnato non solo dagli orrori della guerra, dal ricorso all’atomica e dai campi di sterminio, ma anche da una percezione del futuro nel [...]]]> di Gioacchino Toni

«Di fatto, dalla seconda guerra mondiale in poi la storia dell’arte americana può essere descritta come una successione di strategie volte ad ampliare [la] sfera pubblica commercializzata, sia moltiplicando i tipi di manifestazioni visive realizzabili al suo interno che diversificando i soggetti che sono autorizzati a realizzarle» David Joselit

Negli anni Quaranta del Novecento gli approcci artistici di ordine concettuale sembrano rivelarsi inadatti ad un momento storico segnato non solo dagli orrori della guerra, dal ricorso all’atomica e dai campi di sterminio, ma anche da una percezione del futuro nel segno dell’incertezza in un panorama avviatosi al clima paralizzante e da caccia alle streghe della guerra fredda.

«Noi percepivamo la crisi morale di un mondo che era un campo di battaglia, di un mondo che era devastato dalla tremenda distruzione di una guerra mondiale incombente […] Era impossibile disegnare come prima – fiori, nudi sdraiati, suonatori di violoncello». Così l’artista nordamericano Barnett Newman ha sintetizzato il clima dell’immediato dopoguerra e non solo negli Stati Uniti.

All’interno di tale contesto è innegabile che vi siano state alcune poetiche artistiche che, più di altre, hanno saputo cogliere ed esprimere la sensazione diffusa di angoscia e lo hanno fatto concentrandosi sul rapporto tra individuo, spazio e materia, dunque riproponendo, in ultima analisi, la questione dell’identità dell’essere umano, ora vissuta però come problema di relazione con il cosmo nel suo essere spazio e materia. Si sta parlando di quella stagione “Informale”, per ricorrere al termine con cui viene solitamente indicata in ambito europeo, caratterizzante la scena internazionale a partire dagli anni Quaranta pur nelle inevitabile e profonde differenze locali.

Si tratta di una stagione che abbraccia l’arco temporale di un ventennio a cavallo della metà del Novecento che prende il via con le esperienze di artisti come Jean Fautrier, Jean Dubuffet, Arshile Gorky, Jackson Pollock, Alberto Burri, Lucio Fontana e che ha il suo corrispettivo nipponico nel Gruppo Gutai composto da Jiro Yoshihara, Sadamasa Motonaga, Kazuo Shiraga, Shozo Shimamoto e Atsuko Tanaka. Una stagione che giunge, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, a divenire un vero e proprio fenomeno di moda perdendo parte del potenziale espresso ai suoi albori.

È a partire dalle peculiarità specifiche dell’Espressionismo astratto nordamericano che lo studioso David Joselit nel suo American Art Since 1945, uscito in lingua inglese la prima volta nel 2003, propone un’analisi della scena artistica statunitense che dal primo dopoguerra giunge fino ai giorni nostri. Nel volume, recentemente tradotto in italiano da Maria Antonella Bergamin – David Joselit, Arte Americana dal 1945 (Postmedia books 2021) –, lo studioso, non accontentandosi delle letture più convenzionali del contesto artistico nordamericano, tendenti forse eccessivamente ad insistere sul ruolo esercitato dalle avanguardie storiche europee sulle neoavanguardie americane, ha inteso concentrarsi piuttosto sulle trasformazioni sociali ed estetiche che hanno caratterizzato il dopoguerra statunitense, trasformazioni che si paleseranno compiutamente nel corso degli anni Sessanta.

Tre sono le dinamiche interrelate su cui Joselit si è concentra: «il consolidamento di una sfera pubblica radicata nel consumo e nei mass media come la televisione e Internet; la manifestazione dell’identità personale come piattaforma prioritaria per la formulazione di rivendicazioni politiche negli Stati Uniti; e il passaggio degli oggetti artistici dai media tradizionali come la pittura e la scultura ai media “informativi” come il testo, la fotografia, gli oggetti ready-made e il video» (p. 9).

Secondo lo studioso l’arte nordamericana del dopoguerra dovrebbe essere vista come derivazione e rappresentazione delle nuove esperienze del pubblico prodotte dalla presenza pervasiva dei mass media visivi, dal mezzo televisivo degli anni Quaranta a Internet degli anni Novanta. «Date queste condizioni, l’identità – una questione presumibilmente privata – ha acquisito la forza politica in passato attribuita a identificazioni collettive come la classe e la nazione. Nell’era del dopoguerra, le esperienze del “pubblico” si verificano sempre più spesso in solitudine o in piccoli gruppi di fronte a uno schermo televisivo o a un computer» (p. 14).

Sarebbe proprio nella confluenza tra le nuove sfere mediatiche pubbliche e l’esperienza politicizzata dell’identità sviluppatasi in concomitanza con queste, che prende piede l’arte nordamericana del dopoguerra. Se tale combinazione è solitamente associata ai movimenti di liberazione degli anni Sessanta – riassumibile nello slogan “il personale è politico” – , secondo Joselit, l’associazione tra il personale e il pubblico (se non il politico) è però già ravvisabile nell’astrazione apparentemente apolitica dell’esperienza del cosiddetto Espressionismo astratto della New York School di artisti come Jackson Pollock, Willem de Kooning, Barnett Newman, Mark Rothko, Clyfford Still e Adolph Gottlieb.

Se l’individualismo può suggerire un’astensione dalla vita pubblica, l’individualità aveva un significato politico potente nell’epoca dell’immediato dopoguerra. Per molti americani durante la Guerra Fredda, l’individualismo – in quanto contrapposto ai modelli di governo associati al fascismo o all’Unione Sovietica stalinista – costituiva una reazione morale e politica adeguata alle nuove realtà globali […] lo sviluppo di uno “stile di vita” privato poteva assumere il significato di un atto pubblico. Se l’individualismo era adottato come una manifestazione politica dei valori americani, esso promuoveva anche lo sviluppo della società dei consumi evidenziando le capacità di valutazione e di analisi dei consumatori a fronte alla sbalorditiva varietà dell’offerta di prodotti nell’opulenta America del dopoguerra (pp. 14-15).

Nell’esperienza della New York School, sostiene lo studioso, il tipo di individualità privilegiato aveva a che fare con l’emozione eroica e la sofferenza di uomini eterosessuali bianchi, considerati all’epoca come rappresentanti “naturali” dell’intera umanità. Già in tale esperienza negli Stati Uniti la questione dell’identità viene posta come categoria pubblica, dunque politica.

Se da un lato le poetiche dell’Espressionismo astratto fanno coincidere la specificità di maschi eterosessuali bianchi con l’essere umano nella sua totalità, tale nozione astratta di comunità consolida e rappresenta una sfera pubblica ben precisa: quella degli Stati Uniti del dopoguerra e, nonostante «l’enfasi apparentemente apolitica degli artisti sull’autonomia, l’individualità e la trascendenza, la loro arte finì per essere associata a valori specificatamente americani» (p. 27).

Con l’esperienza Pop americana le azioni individuali e le ideologie collettive risultano filtrate dal mondo dei mass media. Gli artisti che si rifanno a tale poetica se da una parte tracciano «una mappa della commercializzazione dello spazio pubblico» (p. 61), dall’altra dimostrano come le merci finiscono per assumere «un ruolo di icone pubbliche cariche di valori ideologici al di là delle loro funzioni manifeste» (p. 61). Per questi artisti lo spazio pubblico degli anni Sessanta diviene una funzione della rappresentazione al pari di uno spazio fisico. Nelle opere Pop «la superficie pittorica delle merci – la loro “autorappresentazione” nella pubblicità e nel packaging – viene astratta e riformulata. Le icone che ne derivano tendono a oscurare la funzione utile dell’oggetto commerciale a favore delle sue associazioni ideologiche» (p. 89).

Se il Pop tende a concentrarsi sul “nuovo” e “patinato”, l’Assemblage ricorre invece al «versante più povero della società dei consumi» (p. 91). Si tratta di operazioni bene diverse, sottolinea lo studioso: nel primo caso un oggetto di consumo nuovo subisce un’operazione di traslazione in un diverso contesto (sull’onda del ready-made duchampiano), nel secondo si scorge invece un’operazione di dissenso sociale nel suo associare sovente oggetti di scarto ad esistenze anch’esse di scarto.

Soffermandosi poi sull’esperienza Minimal, lo studioso evidenzia come spesso si sia visto in essa una ridefinizione dell’arte come «relazione tra pubblico, spazi e cose più che come oggetto specifico e autosufficiente» (p. 103). Se tale ambito metteva in relazione «incontri scultorei» tra oggetti e spettatori al fine di evidenziare i meccanismi visivi e psicologici della percezione, nel corso degli anni Sessanta altre poetiche, come Fluxus, hanno invece sviluppato forme interattive di produzione artistica denominate “eventi”.

A metà tra performance e scultura, l’evento si fonda su un numero limitato di azioni collegate alla vita quotidiana che potevano passare quasi inosservate, differenziandosi in ciò dall’happening. Nonostante l’insistenza sul rifiuto di relazioni mercificate, indubbiamente Fluxus non manca di adottare, per quanto ironicamente, modalità desunte dal marketing aziendale in cui gli oggetti vengono riformulati come eventi e le reti di diffusione incorporate nell’opera d’arte.

Assemblage, Minimal e Fluxus, pur in modalità differenti, sostiene lo studioso, hanno esplorato «il posto occupato dalle merci nel mondo e in relazione ai singoli spettatori» (p. 114) ed è proprio attraverso la manipolazione degli oggetti commerciali che hanno inteso «comunicare attraverso il linguaggio pubblico condiviso della società dei consumi» (p. 127).

Nel corso della sua disamina, Joselit sottolinea come l’arte nordamericana degli anni Settanta si sia mossa verso una ridefinizione dell’arte come «puro atto di comunicazione» disinteressato alle «cose materiali», che invece erano parte integrante delle poetiche precedenti. «L’avvento dell’economia dell’informazione basata su tecnologie informatiche allora emergenti, combinato con la diffusione ormai generalizzata dei media elettronici come la televisione, trasformava l’informazione in una sostanza tanto “reale” e soggetta allo scambio dei mercati finanziari quanto qualunque altra merce solida» (p. 117).

La trasformazione dell’opera d’arte in flussi di informazione presupponeva una trasformazione in coloro che operavano in ambito artistico. Se tra i primi artisti concettuali, in prevalenza maschi bianchi, è ancora individuabile una retorica universalizzante, nel corso degli anni Settanta hanno teso ad evidenziare «le esperienze e condizioni di identità particolari basate su genere, razza e sessualità» (p. 145.)

Circa l’arte concettuale, in disaccordo con chi ha individuato la dematerializzazione dell’oggetto artistico, lo studioso vi coglie invece un nuovo tipo di materialità, consono a documentare le «proprietà intellettuali e fisiche dell’artista». (p. 145)

La nozione di arte come sequenza di proposte filosofiche ha […] una doppia implicazione. Mentre, da un lato, suggerisce un’universalità scientifica o logica nella quale la voce individuale dell’artista viene eclissata da autorità sociali senza volto […], dall’altro canto essa riporta nuovamente lo spettatore alla persona intellettuale e fisica dell’artista. Gran parte dell’arte concettuale può essere, quindi, intesa come un tentativo di mappare i confini dell’individuo come entità logica, sociologica o legale […] La cosiddetta dematerializzazione dell’arte prevede […] due tipi di dislocazione. In primo luogo, le opere d’arte venivano reinventate come estensioni della proprietà intellettuale e fisica dell’artista, e in secondo luogo l’enfasi conseguente sulle proposte o sulla body art richiedevano un passaggio da pratiche tradizionali come la pittura e la scultura a nuovi media basati sull’informazione come fotografia, video e testo (pp. 150 e 155).

Se inizialmente gli artisti concettuali tendevano a vedere le loro opere e la loro stessa presenza fisica come “proprietà privata”, nel corso degli anni Sessanta e Settanta spetterà al movimento delle donne evidenziare quanto il privilegio di “possedere” il proprio corpo dipenda dal genere. Dal punto di vista razziale si deve soprattutto alla comunità afroamericana la denuncia delle pretese egemoniche e totalizzanti dell’America anglosassone in ambito valoriale ed estetico.

Se nel corso degli anni Sessanta e Settanta la critica nei confronti dell’estetica tradizionale è spesso portata attraverso il testo e la fotografia, successivamente è la stessa idea di neutralità di tali mezzi informativi ad essere messa in discussione. Anziché porsi nell’ordine di idee di evitare il mercato, diversi artisti degli anni Ottanta e Novanta preferiscono considerarlo «come una sfera pubblica e i linguaggi commerciali come modalità del discorso pubblico» (p. 188). Le questioni del potere di “identificare” o di “identificarsi” sono state centrali negli ultimi decenni del vecchio millennio.

Rivendicando una piattaforma politica sulla base d uno “stile di vita” particolare, gli artisti, come gli attivisti, finiscono per maneggiare gli stessi stereotipi che vorrebbero disinnescare. Non è un caso che gran parte dell’arte più rilevante degli anni Ottanta e Novanta riconosca questo dilemma soffermandosi meno sulle categorie prestabilite dell’identità e più sulle intersezioni e le trasgressioni dei confini tra le stesse. Queste pratiche sono state etichettate di volta in volta come post-etniche, cyborg o post-umane dai teorici di punta degli anni Novanta. In modi diversi, ciascuna di queste categorie critiche auspica modalità di individualità basate sull’azione volontaria o sull’associazione più che su tratti biologici essenziali o su stereotipi culturali (p. 205).

L’emergere sin dal primo dopoguerra americano di una particolare forma di sfera pubblica massmediatizzata e consumista «ha evocato una politica dell’identità nella quale gli individui sono rappresentati attraverso stili di vita e attributi stereotipati intensamente mercificati» (p. 215). Diversi artisti degli anni Novanta intrecciando sociale e biologico hanno tratteggiato un nuovo mondo post-umano ove il corpo è concepito come sfera pubblica. A David Joselit, in chiusura della sua trattazione, non resta che auspicare che l’allentamento delle rigide differenze tra appartenenze di genere, sessuali ed etniche possa «offrire un’alternativa a un mondo ormai totalmente soffocato dalla commercializzazione di ogni gesto, pensiero ed emozione» (p. 215).

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Estetiche del potere. Arte, artisti e quel pasticcio putrefatto di carne umana difficile da rifiutare https://www.carmillaonline.com/2016/02/11/estetiche-del-potere-arte-artisti-quel-pasticcio-putrefatto-carne-umana-difficile-rifiutare/ Wed, 10 Feb 2016 23:01:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24806 di Gioacchino Toni

paparoni arte bello buono cattivoDemetrio Paparoni, Il bello, il buono e il cattivo. Come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni, Ponte alle Grazie, Milano, 2014, 417 pagine, € 26,00

“Non ci convinceranno a mangiare il pasticcio putrefatto di carne umana che ci offrono”. Così si esprime Hugo Ball riferendosi alla Prima guerra mondiale nell’ambito della rivolta dada contro il potere e l’arte che ne ha tessuto le lodi. Al di là del riferimento specifico alla carneficina bellica, l’affermazione si presta ad una riflessione più generale circa [...]]]> di Gioacchino Toni

paparoni arte bello buono cattivoDemetrio Paparoni, Il bello, il buono e il cattivo. Come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni, Ponte alle Grazie, Milano, 2014, 417 pagine, € 26,00

“Non ci convinceranno a mangiare il pasticcio putrefatto di carne umana che ci offrono”. Così si esprime Hugo Ball riferendosi alla Prima guerra mondiale nell’ambito della rivolta dada contro il potere e l’arte che ne ha tessuto le lodi. Al di là del riferimento specifico alla carneficina bellica, l’affermazione si presta ad una riflessione più generale circa il rapporto tra arte e potere. Quante volte gli artisti si sono accomodati a mangiare, o anche solo, più discretamente, ad assaggiare, il pasticcio putrefatto offerto dal potere? Quante altre volte sono stati obbligati a farlo? In quanti casi l’arte si è rivelata complice delle maggiori nefandezze dei dominanti? La questione del rapporto tra arte e potere è vecchia quanto il mondo e se si pensa che, fino ad epoche relativamente recenti, gli artisti hanno quasi sempre lavorato su commissione, non è difficile immaginare come un certo grado di asservimento sia risultato quasi inevitabile. Certo, non sono mancate le eccezioni, o i casi in cui, persino nelle opere celebrative, sono stati inseriti elementi di critica sfruttando la natura polisemica del linguaggio artistico. Se da una parte non mancano esempi di artisti in grado di insinuare dissenso, non mancano nemmeno casi in cui, invece, anche all’interno degli ambiti artistici più innovativi dal punto di vista formale, si rilevano elementi di contiguità col potere. Questa ultima casistica viene affrontata, ad esempio, da Jean Clair, nel suo testo La responsabilité de l’artiste, Gallimard 1997 (La responsabilità dell’artista, Allemandi, 1997) ove l’autore sfata il mito dell’artista ribelle e dell’avanguardia come arte all’opposizione, rivelandone complicità, più o meno consapevoli, con il potere. Nell’ambito di tali ragionamenti si inserisce il saggio di Demetrio Paparoni che, prendendo in considerazione il periodo che va dall’inizio del Novecento fino ad oggi, si propone di indagare come la politica condizioni la vita e la produzione degli artisti.

Trattandosi di indagare il rapporto tra politica ed arte, inevitabilmente una parte rilevante della trattazione è dedicata ai totalitarismi novecenteschi a partire da come il linguaggio neoclassico si riveli il modello di riferimento tanto per l’arte propagandistica sovietica di matrice realista, quanto per l’arte nazista. Sono, ad esempio, numerose le opere che celebrano Lenin e Stalin derivate dall’esaltazione neoclassica di Napoleone operata da artisti come Jacques-Louis David ed evidenti sono, nella stessa propaganda nazionalsocialista, i riferimenti neoclassici; si pensi, ad esempio, alla statuaria di Arno Breker ed alle opere cinematografiche di Leni Riefenstahl. “Ad accomunare l’arte gradita ai dittatori è l’idea dell’opera totale, dell’opera cioè che si identifica con l’intero contesto in cui è inserita. Muovendo dal presupposto che all’interno del regime tutto debba mirare al consolidamento di un progetto che si riconosce nel pensiero unico di chi governa, le dittature hanno considerato le arti strumenti al servizio del potere o dell’ideologia dominante” (pp. 18-19).
Il saggio ricostruisce la politica artistica attuata dal regime hitleriano a partire dal divieto di esposizione per le opere d’avanguardia e dalla regolamentazione della critica d’arte obbligata a sostituire le valutazioni artistiche con resoconti descrittivi delle opere. Il rifiuto per l’arte d’avanguardia non porta certo ad un realismo crudo, tanto che la poetica della “fotografia esatta” di August Sander, testimone della realtà delle cose, viene risolutamente censurata; l’arte nazionalsocialista mira piuttosto a forme di realismo idealizzato ed il Neoclassicismo, da questo punto di vista, diviene inevitabilmente il linguaggio da cui attingere. Nel 1937 a Monaco vengono allestite, pressoché contemporaneamente, due grandi esposizioni: la mostra relativa all’Arte Degenerata e la Grande Rassegna di Arte Germanica. Nella prima esposizione, vietata ai minorenni, vengono raccolte più di seicento opere appartenenti ai principali movimenti artistici del primo Novecento e messe a confronto con disegni realizzati dai “malati di mente” al fine di mostrare le analogie. Non manca nemmeno l’intento di dimostrare che dietro all’arte degenerata si celi un grande complotto giudaico-comunista. Soltanto una parte delle opere esposte viene distrutta; i lavori più importanti vengono invece venduti all’asta a Lucerna consentendo al regime di ricavare una cifra considerevole. Ad essere mandate al rogo nel falò di Berlino del 1939 sono infatti soprattutto le opere prive di mercato internazionale.
Nel saggio viene menzionato l’insolito caso di Emil Nolde, pittore che resta fedele agli ideali nazionalsocialisti anche quando la sua produzione espressionista viene accusata di essere arte degenerata. All’ostracismo del regime nei confronti della produzione pittorica di un artista di fede nazista, fa da contraltare l’apprezzamento estetico da parte di chi “si è opposto con energia al nazismo, o lo ha subito” (p. 371), tanto che Paparoni sottolinea come “nel valutarne i dipinti e gli acquerelli si è tracciata una linea di demarcazione tra la sua arte e le sue scelte etico-politiche”.
Sicuramente al servizio del Terzo Reich è Arno Breker, celebre soprattutto per le monumentali statue realizzate per il cortile d’onore del Palazzo della Cancelleria, volte a rappresentare l’ideale ariano di bellezza. Paparoni segnala diversi punti di contatto, dal punto di vista estetico e formale, tra le opere dello scultore tedesco e quelle realizzate in Unione Sovietica da Vera Mukhina. Entrambi si confrontano con la rappresentazione della “forma umana idealizzata dai rispettivi regimi” (p. 97), naturalmente le differenti visioni ideologiche si fanno sentire: nel caso sovietico, ad essere celebrata attraverso i robusti corpi è la classe operaia ed il suo duro lavoro nei campi e nelle fabbriche, mentre nel caso nazionalsocialista i possenti corpi intendono esaltare la perfezione ariana. Breker pare davvero incarnare l’ideale estetico dei totalitarismi visto che riceve proposte di lavoro da Franco, da Stalin che, addirittura, al termine della guerra, lo invita a trasferirsi in Unione Sovietica ed, ancora, nel 1971 viene chiamato da Hassan II, re del Marocco, per la realizzazione di una statua equestre in onore del padre.

arte francia occupataNel 1941, in occasione di un’imponente mostra di Breker a Berlino, vengono invitati a presenziare diversi artisti di fama mondiale provenienti da Parigi, tra questi i pittori Maurice Vlaminck ed André Derain. Le foto della loro partenza dalla Gare de l’Est parigina insieme agli ufficiali della Wehrmacht e della successiva visita ai principali musei tedeschi, sono sfruttate ad arte dal Governo tedesco e, di pari passo, l’accusa di collaborazionismo non tarda ad arrivare nei confronti di quanti si sono prestati alla macchina della propaganda nazista.

Risulta difficile convenire con Paparoni nel suo sminuire la portata del lavoro di Leni Riefenstahl. Nel saggio, al fine di ribaltare la testi di chi vede la grandezza della cineasta oscurata dalla sua fede nazista, si sostiene che, al contrario, nella sua produzione non sono ravvisabili valori artistici e che la sua notorietà è conseguenza “dell’enorme macchina propagandistica messa in moto dal regime per sostenerla” (p. 75). Pare limitativo affermare, come fa l’autore, che le sue opere non abbiano inciso sul cinema del dopoguerra; sono diversi gli esempi hollywoodiani da cui emergono riferimenti alle opere della cineasta tedesca. Lo studioso paragona la produzione di Rodčenko con quella della Riefenstahl sostenendo che la grandezza del primo è dovuta alla sua finalità di “dare vita a un linguaggio nuovo per scompigliare le carte” (p. 84), mentre la produzione della seconda si limita a voler “mettere ogni cosa al suo posto” (p. 84). Continuando col confronto, Paparoni sostiene che per quanto “le immagini dei ginnasti o delle parate militari di Riefenstahl e quelle di Rodčenko sembrano in alcuni casi assomigliarsi, esse rispondono a valori estetici diametralmente opposti” (p. 84). Non si vede perché questo confronto tra poetiche dovrebbe obbligatoriamente voler dire grandezza di uno ed, addirittura, inconsistenza dell’altra; non per forza un’estetica volta “all’ordine” deve essere sintomo di mancanza di valore estetico e di inferiorità rispetto ad un’estetica volta a “scompaginare le carte”. Tante volte il pendolo della storia dell’arte ha oscillato tra ordine e disordine, tra classicismo ed anticlassicismo, alternando momenti di innovazione radicale a ritorni all’ordine ma, non per questo, esteticamente parlando, al di là delle inevitabili preferenze personali, un’opzione deve per forza di cose negare valore all’altra. Nel suo stroncare la cineasta tedesca, Paparoni premette di esprimere un parere meramente estetico affrancandosi da ogni pregiudizio ideologico-politico, nella convinzione che si debbano analizzare le “qualità formali dell’opera al di là del fatto che essa promuova valori negativi o positivi” (p. 75). A supporto di tale impostazione l’autore cita l’esempio di come si possa tranquillamente attribuire un giudizio positivo all’opera di Nolde a prescindere dall’ideologia filonazista del pittore. Nonostante la premessa, resta l’impressione che comunque, nel caso della Riefenstahl, il pregiudizio ideologico continui ad incidere sul giudizio estetico. [Sull’argomento si rimanda allo scritto “Estetiche del potere. Sport e propaganda. Olympia di Leni Riefensthal” pubblicato su Carmilla]

Il passato nazionalsocialista continua a pesare sulla produzione artistica tedesca contemporanea e sul dibattito che ne scaturisce. A tal proposito, Paparoni, dedica spazio anche ad Anselm Kiefer, artista intento ad indagare l’identità problematica del popolo tedesco attraverso un viaggio a ritroso nella cultura germanica, tra i suoi miti ed eroi tradizionali, senza tralasciare l’universo nazionalsocialista, nella convinzione che non si possa tacere su nessuna parte del passato. Sull’operato dell’artista, quando tocca tali questioni, sostiene lo studioso, si scatenano inevitabilmente polemiche, così come “ogni qualvolta si torna ad analizzare le relazioni fra la Storia del popolo tedesco, il Romanticismo e la cultura espressa dal nazionalsocialismo” (p. 136). In particolare nel saggio vengono affrontate le polemiche suscitate in Germania dalla mostra, a cui prende parte lo stesso Kiefer, “De l’Allemagne, 1800-1939. De Friedrich à Beckmann”, tenuta a Parigi, al Louvre, nel 2013.
Se in ambito tedesco il passato nazista ha continuato ad essere problematizzato a livello culturale fino ai giorni nostri, in ambito italiano i conti col passato fascista per certi versi sono stati più all’insegna della rimozione; il più delle volte si è preferito non affrontare la questione, soprattutto evitando di interrogarsi circa gli elementi di continuità della politica culturale del dopoguerra con quella del regime. In ambito artistico si è preferito limitarsi a condannare all’oblio gli artisti maggiormente compromessi col fascismo e con essi la loro produzione. Soltanto sul finire degli anni ’70 in Italia cade il più o meno tacito ostracismo nei confronti di artisti direttamente legati al regime, come Sironi, e ciò avviene quando si afferma una generazione di giovani artisti che decide di attingere dal linguaggio artistico del passato ed, in particolare, dalle proposte del primo Novecento.

Nella Russia della Rivoluzione, l’ampia libertà espressiva goduta dagli artisti si interrompe soprattutto a partire dalla metà degli anni ’30, quando il Realismo socialista conquista il monopolio della scena obbligando di fatto l’arte ad esprimere “verità oggettive” contro ogni “soggettivismo”. L’arte d’avanguardia viene accusata di “formalismo”; il suo interesse per la forma e per il linguaggio viene ritenuto in contrasto con la “funzione rivoluzionaria dell’arte”. Anche negli anni della destalinizzazione di Chruščëv, la posizione ufficiale nei confronti dell’arte non cambia; viene infatti ribadito che “la vocazione delle arti sovietiche deve riflettere con sincerità la vita, ispirare il popolo nella costruzione del comunismo e instillare negli uomini i sentimenti più belli ed elevati e un profondo senso della bellezza”(pp. 169-171). Paparoni sottolinea come, paradossalmente, gli artisti sovietici che, dagli anni ’70, si sono trasferiti in Occidente per poter realizzare opere sperimentali, si sono trovati proiettati in un contesto in cui l’avanguardia pare avere perso la sua carica innovatrice e trasgressiva. Soltanto con la fine dell’Unione Sovietica il Realismo socialista cessa di essere imposto quale unica modalità artistica ma la produzione culturale russa si trova a fare i conti con una Chiesa ortodossa particolarmente attiva nella sua battaglia contro tutte le manifestazioni artistiche, e non, considerate blasfeme o contro la morale. Celebre l’attacco, nel 2003, di un commando di attivisti cristiani ortodossi, poi prosciolti da un tribunale evidentemente asservito all’asse di potere politico-clericale che domina il paese, ad una mostra moscovita incentrata sul ruolo dei simboli religiosi nella società contemporanea votata al consumismo. A proposito dell’attuale situazione russa, scrive Paparoni: “Questi fatti sembrano dimostrare che per via dei condizionamenti della Chiesa ortodossa sulla politica, e della politica sull’arte, in Russia l’avanguardia ha ragione di continuare a esistere. Lo testimonia l’inquietudine trasgressiva e iconoclasta serpeggiante, la voglia di rivalsa degli artisti su un sistema che una volta imponeva il Realismo socialista e che oggi impone dietro pressioni della Chiesa ortodossa regole considerate repressive” (p. 181).
Il saggio dedica uno spazio importante anche al burrascoso rapporto tra arte e potere politico nella Cina contemporanea, per certi versi la situazione cinese non è così differente da quella russa. Confrontando tutto ciò con quanto avviene negli Stati uniti od in Europa, l’autore sottolinea che mentre in Russia ed in Cina le azioni provocatorie degli artisti tendono ad avere, il più delle volte, finalità di denuncia sociale o politica, in Occidente, invece, si ricorre frequentemente allo scandalo come stratagemma per conquistare l’attenzione ed accrescere la fama ed il successo economico.

Il ruolo della politica nel panorama artistico occidentale è analizzato dal testo soprattutto in riferimento alla situazione nordamericana negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Sin da inizio Novecento, in ambito statunitense, il governo ed influenti fondazioni private comprendono l’importanza di una politica culturale volta a definire e celebrare l’identità culturale del paese anche se permane il timore, da parte dei settori più conservatori, ben da prima del maccartismo, di trovarsi di fronte ad un ambiente culturale profondamente segnato da infiltrazioni comuniste. La caccia alle streghe guidata da McCarthy porta ad un vero e proprio ostracismo nei confronti dell’arte europea d’avanguardia, accusata di contenere “il germe della sovversione”. A tal proposito, il senatore repubblicano del Missouri, George Dondero, nel 1949, intervenendo al Congresso, così si esprime: “dadaismo, futurismo, costruttivismo, suprematismo, cubismo, espressionismo, surrealismo e astrattismo. Tutti questi ‘ismi’ sono di origine straniera e non dovrebbero davvero trovare posto nell’arte americana. Sebbene non tutti siano mezzi di protesta sociale o politica, sono però tutti strumenti e armi di distruzione. (…) Il Cubismo mira a distruggere attraverso il disordine progettato. Il Futurismo mira a distruggere attraverso il mito della macchina (…) Il Dadaismo mira a distruggere attraverso il ridicolo. L’Espressionismo mira a distruggere scimmiottando il primitivo e il folle (…) L’Astrattismo mira a distruggere suscitando accessi di follia. Il Surrealismo mira a distruggere negando la ragione (…) Gli artisti degli ‘ismi’ cambiano la propria designazione con la stessa rapidità e prontezza delle organizzazioni del fronte comunista” (p. 42). Da qui la necessità di sostenere un’arte sinceramente americana, non influenzata dalla produzione europea. Nel saggio, oltre ad essere sottolineato come il discorso del senatore del Missouri ricalchi le tesi sull’arte degenerata espresse dal nazionalsocialismo, viene evidenziata anche la contraddittorietà statunitense nel suo volere da una parte una sorta di arte autoctona, valorizzante l’identità nazionale, mentre dall’altra, al fine di legittimare a livello mondiale una produzione artistica di un paese “culturalmente giovane”, auspica l’arrivo negli Stati uniti di opere europee al fine di mostrare come le due tradizioni siano accomunate da un “unico destino culturale”. L’arte europea viene ad essere da una parte rifiutata in quanto portatrice del germe sovversivo e dall’altra ritenuta necessaria al fine di legittimare quella nordamericana. Sul finire degli anni ’40, l’offensiva repressiva si concentra soprattutto sull’industria cinematografica hollywoodiana, ritenuta, per la sua capacità di raggiungere un pubblico vasto, ben più pericolosa rispetto all’ambito strettamente artistico.
Paparoni ricostruisce come il passaggio del testimone, non certo volontario, dalla Francia agli Stati uniti, per quanto riguarda la scena artistica occidentale, avvenga grazie alla coeva politica egemonica statunitense del dopoguerra. In particolare viene affrontato il rapporto arte/politica a proposito dell’arte astratta americana che, secondo Kozloff, viene utilizzata agevolmente dalla propaganda proprio perché apparentemente priva di contenuti espliciti o definiti. Inoltre, in quanto privo di contenuti narrativi, l’Espressionismo astratto, secondo Paparoni, può essere investito da un forte supporto teorico. Resta da verificare, secondo l’autore, l’incidenza della politica statunitense del dopoguerra a livello di ricaduta estetica sulle opere del periodo.
Se è pur vero che il bacino d’utenza delle mostre dell’Espressionismo astratto è tutto sommato risibile al fine di incidere sull’immaginario popolare americano ed internazionale, le ingenti cifre investite direttamente dalla Cia al fine di sostenere il movimento fanno pensare ad un obiettivo di più lunga prospettiva: esporre in Europa le opere dell’Espressionismo astratto americano significa prima di tutto agire sulla formazione e sulle preferenze culturali dei giovani europei. Nel primo dopoguerra, continua lo studioso, gli Stati uniti lavorano sulla capacità dell’arte di creare ed imporre nuovi modelli estetici affiancando il Piano Marshall nel suo obiettivo di colonizzazione europea.

banksy41Avvicinandoci ai giorni nostri, contestualmente alla rivoluzione telematica, sostiene l’autore, buona parte dell’arte occidentale pare aver rinunciato alla tensione etica che invece ha caratterizzato le avanguardie del passato, di queste l’arte più recente pare aver mantenuto i linguaggi ma non l’impianto ideologico. “Questo significa che l’artista contemporaneo non riesce a proporre un sistema linguistico che abbia l’ambizione di cambiare la società, preferendo concentrarsi su come far proprie le strategie di consenso e le logiche del profitto che costituiscono l’ossatura di quello stesso sistema borghese cui le avanguardie storiche erano ostili” (p. 12). L’attualità, pertanto, risulta dominata da quell’ideologia di mercato che si propone come pensiero unico e, sostiene Paparoni, “creare le proprie opere rimanendo indifferente alle logiche di mercato diviene così per l’artista una sorta di impegno socio-politico, sia che egli faccia arte per l’arte, sia che consideri il proprio lavoro filosofia politica, sia che affronti temi esistenziali o puramente linguistici. Nel nuovo millennio, l’impossibilità di rimanere estranei alle logiche generate dall’ideologia di mercato dell’era post-ideologica pone nuove questioni etiche cui l’artista non si può sottrarre, come non vi si può sottrarre la critica che, laddove svolga il ruolo di cassa di risonanza delle esigenze del mercato nega il suo ruolo, che è quello di far riflettere sul valore estetico e sociale dell’arte” (p. 374). L’atto d’accusa nei confronti dell’arte contemporanea ha sicuramente ragion d’essere ma senza dimenticare che anche nelle avanguardie del passato non sono mancati casi in cui al linguaggio eversivo non ha corrisposto una sostanza ed una volontà di critica altrettanto radicale, con diversi artisti volti più alla ricerca del successo e del profitto che non a fustigare il potere.

Tornando alle parole del tedesco Hugo Ball citate in apertura, non sono pochi gli artisti che, nel corso dei secoli, si sono accomodati ad assaggiare il pasticcio putrefatto offerto dal potere, sicuramente in diversi casi sono stati costretti a farlo, in altri si sono rivelati complici delle peggiori nefandezze dei dominanti ma non mancano nemmeno casi in cui, in punta di piedi o in maniera eclatante, l’arte ha avuto il coraggio di rifiutarsi, di contrastare e di denunciare. Come sempre, ad ognuno il compito di scegliere da che parte stare.

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