esistenzialismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Africa nera, rossa e “bianca” https://www.carmillaonline.com/2024/12/11/africa-nera-rossa-e-bianca/ Wed, 11 Dec 2024 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85662 di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts [...]]]> di Sandro Moiso

Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, con una Postfazione di Carlo Formenti. Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 170, 16,00 euro.

“Mi sono convinta che la nostra comune condizione di neri è attraversata dagli effetti delle specifiche condizioni nazionali, di classe e di genere. Schiavismo e colonialismo forniscono il terreno storico sul quale razza, genere e nazionalità hanno scritto diverse versioni di soggettività nera. […] Questa qualità intrinsecamente multipla della soggettività nera richiede attenzione rispetto agli specifici sviluppi storici e discorsivi che hanno generato strategie sociali di subordinazione razziale”. (Denise Ferreira da Silva, “Facts of Blackness. Brazil is Not Quite the United States… And Racial Politics in Brazil?”, marzo 1998 )

Il testo, appena pubblicato nella collana «Visioni eretiche» della casa editrice Meltemi, ha sicuramente diversi meriti, ma mostra anche alcuni limiti di carattere politico, anche se, per iniziarne la lettura, conviene sicuramente illustrare i primi e presentare l’autore.

Kevin Ochieng Okoth è uno scrittore e ricercatore afro-inglese, fino ad ora mai pubblicato in Italia. Fa parte del Salvage Editorial Collective e collabora con il «London Review of Books». Ha conseguito un PhD in Teoria politica presso l’Università di Oxford e partecipa a conferenze, intervenendo su temi legati all’antimperialismo e ai movimenti anticoloniali del ventesimo secolo. Oltre a ciò, è uno dei fondatori di «Nommo Magazine» e, come si può intendere, fin dalle prime pagine del testo uscito il 22 novembre, il suo intento è principalmente quello di riportare il dibattito e la riflessione sulla moderna “tradizione” dei Black Studies e la Blackness, non soltanto afro-americana, sui binari della lotta di classe, dell’anti-imperialismo e dell’interpretazione marxista delle medesime, enormi e per troppo tempo sottostimate contraddizioni derivanti dalla differenziazione razziale insita nella società capitalistica fin dalle sue origini.

Per raggiungere il suo scopo, l’autore inizia dal “tramonto” dello “spirito di Bandung” – la conferenza tenutasi sull’isola di Giava nell’aprile del 1955, che mirava a costruire un fronte unito dei popoli africani, asiatici e latinoamericani per l’emancipazione dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistici – e dalle susseguenti illusioni create dalla decolonizzazione e i danni provocati dal dominio postcoloniale, per capire se resta oggi ancora una cultura rivoluzionaria nei paesi africani e delle condizioni di un suo possibile rilancio. Anche in un Occidente in cui un certo afro-pessimismo, di origine intellettuale e cattedratica, sembra voler negare qualsiasi possibile risoluzione dei problemi creati da una società profondamente razzializzata.

Infatti, a giudizio di chi qui scrive, è proprio la parte riguardante la critica di certi studi accademici condotti da universitari afro-americani e della concezione ontologica della blackness a costituire il contributo migliore dello studioso afro-inglese tra quelli contenuti nel testo, costituendone la parte forse più ampia. In cui viene sottolineata l’originaria idea di negritudine che ebbe origine tra gli intellettuali africani e antillani o caraibici di lingua francese, emigrati in Francia intorno alla metà del XIX secolo, come base della successiva riflessione sulla condizione “nera”.

Ispirati inizialmente dall’esistenzialismo e amati dagli intellettuali “bianchi” francesi, quasi tutti, dai surrealisti come i coniugi Cesaire fino a Frantz Fanon, dovettero fare i conti con una società che, pur nata sulle basi della Grande Rivoluzione, li trattava o li vedeva ancora e di fatto come ex-schiavi o rappresentanti di una società altra e primitiva, forse ancora pericolosa.

Da quelle annotazioni, che attraversano l’esperienza e la produzione dei teorici dell’iniziale negritudine, uscirono parole di odio e rivolta contro l’ordine “bianco” di cui si erano inizialmente, almeno intellettualmente, fidati. Ma, tutto sommato, escluso forse il caso di Fanon, non la rivolta materiale che toccò sempre, come fin dai tempi della rivoluzione haitiana condotta da Toussaint Loverture contro i dominatori francesi in epoca rivoluzionaria, alle masse sottomesse e sfruttate, uomini e donne che in quanto sauvages per l’ordine costituito riuscivano mettere in crisi l’ordine del discorso dei savants, sviluppatosi a partire dall’illuminismo.

Ed è proprio questo il filo rosso che, dalle origini del colonialismo bianco ed europeo fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento e ancora fino ad oggi, si dipana attraverso le tesi di Kevin Ochieng Okoth, distinguendo lo sforzo di rovesciare materialmente il mondo che ha creato e usato la differenziazione razziale per il proprio ineguale sviluppo da certi pruriti intellettuali, lungamente elencati e le cui tesi sono dettagliatamente illustrate, che vedono nella condizione Nera e nella contraddizione Nero/Bianco un elemento di irreparabile condizione schiavile del popolo africano e delle sue diaspore nei vari continenti in cui fu inizialmente e brutalmente deportato.

Finendo nella maggioranza dei casi col far sì che la protesta intellettuale finisca di rinchiudersi in quello che l’autore definisce come un nuovo afro-pessimismo (AP2.0) oppure di riscoprire in sé una nostalgia per un’Africa idealizzata e mai realmente esistita. Entrambe concezioni a-storiche che non sanno e, forse, non vogliono fare i conti con la Storia e con lo sfruttamento di classe, razza e genere che nella stessa affonda le sue radici.

Il rischio attuale, per l’autore, è infatti costituto dal fatto che il rimuginio di frange consistenti dell’intellettualità accademica, soprattutto afro-americana, sulle proprie condizioni all’interno delle istituzioni e sulle radici schiavistiche del proprio essere sociale e storico, assolutizzate una volta per tutte, finisca col rimuovere, più o meno coscientemente, qualsiasi ipotesi di rovesciamento dell’esistente in nome di una condizione, di fatto, monumentalizzata e resa astratta.

Una posizione lontana sia dall’esperienza del Black Panther Party che da quelle dei movimenti anticoloniali e antimperialisti che tra gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, misero fino al dominio coloniale europeo in Africa e diedero inizio a esperimenti, solo e sempre presuntamente, socialisti all’interno dei nuovi stati sorti da quelle feroci battaglie, politiche e militari, per il raggiungimento dell’indipendenza “nazionale”. L’esperienza, insomma, di tutte quelle iniziative rivoluzionarie che da Kevin Ochieng Okoth sono raccolte sotto la definizione di Red Africa.

Ed è in questa seconda parte del discorso che l’autore mostra una debolezza, propria, nella promozione di una concezione nazionalistica del socialismo “possibile”, che sorge, purtroppo, proprio dalle esperienze e analisi politiche di quel periodo, ancora fortemente influenzato dalla esperienza dei due blocchi, dalla Guerra Fredda e dalla persistente influenza dell’URSS e della Cina su un marxismo che si definì, sull’onda di Stalin degli anni Trenta, marxismo-leninismo e affezionato ancora all’idea del “socialismo in un paese solo”.

Esperienza che servì a travestire delle malferme rivoluzioni borghesi e nazionali da esperimenti socialisti, ma che, nei fatti, deluse e tradì le aspirazioni di liberazione collettiva e uguaglianza economica che avevano spinto gli appartenenti alle classi sociali e ai gruppi etnici meno favoriti ad una lotta che richiese, troppo spesso, grandi sacrifici e contributi di sangue.

Una sorta di illusione che non è possibile attribuire del tutto ad un marxismo originario, non marxista-leninista, che era rimasto troppo spesso all’interno di un’ottica eurocentrica non avendo fatto abbastanza i conti con la condizione coloniale dei popoli sfruttati dall’imperialismo e colonialismo occidentale, poiché sia per Marx, soprattutto, ma anche per altri rappresentanti del pensiero rivoluzionario materialista, la questione era stata tutt’altro che secondaria1.

Certo, come notano oggi gli studiosi, la rigida interpretazione del susseguirsi dei modi di produzione aveva spinto spesso il marxismo verso una concezione unilineare della Storia in cui un’autentica teleologia dello sviluppo e del progresso aveva spinto nel dimenticatoio le forme di produzione, sociali ed economiche, che contro quel modello di sviluppo si erano battute, talvolta con un certo successo. Ma, in fin dei conti, proprio in quella concezione affondavano le loro radici le rivoluzioni degli anni delle grandi lotte anticoloniali, facendo rientrare dalla finestra (lo sviluppo nazionale del mercato e delle attività economiche) ciò che era uscito dalla porta (attraverso la promessa di un’economia più egualitaria basata sulle tradizioni locali).

Kevin Ochieng Okoth fa molto bene a rimarcare più volte come ogni tratto culturale, sociale ed economico-politico, compreso quello delle differenti forme di schiavitù e delle loro conseguenze in ambiti diversi, siano state e siano tutt’ora conseguenza di diversi fattori storici e sociali, ma finire col rinchiudere tale giusta prospettiva in una sorta di rimpianto per il periodo dei paesi non allineati successivo alla conferenza di Bandung, cui si accennava all’inizio, e far ricader ogni responsabilità per i tradimenti delle rivoluzioni sulla pervasività dell’imperialismo americano e occidentale significa chiudere gli occhi su elementi altrettanto importanti per comprendere le successive sconfitte di quei progetti.

Intanto Bandung fu una conferenza di fatto a guida indonesiana e di un Sukarno che giusto dieci anni dopo, nel 1965, avrebbe dato vita ad uno dei più feroci massacri di civili e militanti comunisti dell’intero continente asiatico, certo con l’aiuto americano ma anche per sfrenato interesse nel mantenere il potere proprio e della borghesia indonesiana2.

Inoltre l’autore non fa cenno al fatto che gran parte delle rivoluzioni nazionali africane avvennero nei limiti dei confini geografici imposti fin dalla conferenza di Berlino del 1884/1885 che di fatto regolò la spartizione dei poteri e dei commerci occidentali nell’Africa Sub-sahariana. Confini che non tenevano conto delle divisioni tra lingue, culture ed etnie che caratterizzavano il continente e su cui spesso, ancora negli ultimi decenni gli interessi imperialistici occidentali, ma non solo, hanno potuto giocare.

L’unico rivoluzionario a cercare, forse, di superare tali limiti in un paese, il Congo belga, che prima di raggiungere l’indipendenza nel 1960 e denominarsi Repubblica democratica del Congo, copriva una superficie di 2.344.858 km quadrati pari o superiore a quella dell’Europa occidentale dal Portogallo alla Germani e dalla Gran Bretagna all’Italia, fu Patrice Lumumba con la sua idea di indipendenza e di unità africana che fu brutalmente soppressa, insieme a lui nel 1961 quando era primo ministro, liberamente eletto, di un paese di cui i belgi non volevano certo la piena indipendenza, vista anche l’enorme quantità di materie prime, minerali e metalli preziosi di cui era, e rimane, depositario.

Era toccato a Lumumba, il 30 giugno 1960, pronunciare lo storico “discorso dell’indipendenza” per un paese in cui una buona parte dell’amministrazione e i quadri dell’esercito restavano belgi, ma sfidò l’ex potenza coloniale decretando l’africanizzazione dell’esercito. Il Belgio rispose inviando truppe in Katanga (la regione mineraria) e sostenendo la secessione di questa regione. A settembre il presidente Joseph Kasa-Vubu revocò Lumumba e gli altri ministri nazionalisti. Lumumba dichiarò che sarebbe rimasto in carica e su sua richiesta il parlamento, acquisito alla sua causa, revocò il presidente Kasa-Vubu. La politica di Lumumba era antisecessionista, anticolonialista, antimperialista, filocomunista e mirava a diminuire il potere e l’influenza delle tribù ed a una maggiore giustizia sociale e autonomia del paese. In dicembre il generale Mobutu, succeduto a Kasa-Vubu, con un colpo di Stato fece arrestare Lumumba che il 17 gennaio1961 insieme a due suoi fedeli (Maurice Mpolo, ministro degli Interni, e Joseph Okito, presidente del Senato) fu giustiziato la sera stessa alla presenza di tutti i dirigenti del Katanga secessionista, mentre a partire dall’indomani molti dei suoi sostenitori furono eliminati con l’aiuto dei mercenari belgi3.

L’autore delle presenti righe si scusa per essersi dilungato su una vicenda che nell’economia del libro occupa poco spazio ed è narrata soltanto attraverso la testimonianza negativa della femminista anticoloniale Andrée Blouin, che svolse un importante lavoro come guida di organizzazioni femminili e come collaboratrice di vari governi del continente, tra cui quello di Lumumba, diventando una figura chiave nel movimento indipendentista congolese come stretta consigliera dello stesso Lumumba.

Verso la fine della sua autobiografia, ripercorre gli eventi che rappresentano il climax della sua vita politica: la crisi congolese, in particolare l’assassinio di Lumumba nel gennaio del 1961, che pose fine alle speranze di liberazione nazionale del paese. Blouin è al centro dell’azione mentre tenta di superare i dissidi fra le diverse fazioni per aiutarle a collaborare alla realizzazione di obiettivi comuni. Ma presto si rende conto che “i nostri fratelli lavoravano per il tradimento dell’Africa”: il rivale di Lumumba, il centrista filo-occidentale Joseph Kasavubu, che era strettamente legato agli Stati Uniti, ignora il mandato di Lumumba per formare il governo, tentando invece di formarne uno guidato da lui.

[…] Questo è, in qualche modo, un racconto scontato del tramonto della liberazione nazionale. Ma ciò che è interessante nell’analisi di Blouin sulla crisi congolese è il duro giudizio su Lumumba, che descrive spesso come troppo accomodante, timido e talvolta ingenuo. Il suo ritratto di Lumumba lo fa apparire sotto una nuova luce. Descrive vividamente il momento in cui Lumumba si costituisce dopo l’arresto della moglie – un momento drammatico non solo per la sua famiglia ma per i neri radicali del mondo intero. Per Blouin, la sua incapacità di mettere le esigenze della nazione al di sopra di quelle famigliari, come lei aveva spesso fatto, rappresenta niente di meno che un tradimento della liberazione nazionale. Blouin trasmette decisamente la sensazione che la rivoluzione africana, per usare una frase di Fanon, sarebbe stata più radicale se le donne che l’avevano innescata avessero trovato spazio nei governi post-coloniali, o se fossero state più intimamente coinvolte nel processo formale di decolonizzazione4.

Ma al di là di queste interessanti considerazioni sul ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel processo di liberazione africana che il tentativo di Lumumba di limitare il potere delle tribù in un contesto, quello africano, in cui sono presenti almeno ottocento lingue diverse di cui soltanto due scritte (il copto e lo swahili), lasciando libero spazio alle lingue dei dominatori (inglese, francese, portoghese, spagnolo e arabo moderno), considerate lingue di lavoro, avrebbe sicuramente contribuito ad aumentare e definire con più forza dal punto di vista dell’autonomia politico-culturale e che invece l’esaltazione della “tradizione” contribuì a limitare.

Una politica che i differenti leader delle varie rivoluzioni africane quasi mai perseguirono pienamente, rivendicando invece tradizioni nazionali spesso in conflitto tra di loro e delle cui divisioni approfittarono non soltanto l’imperialismo occidentale ma anche le politiche espansive dei rivali russi e cinesi, come ancora oggi si può rilevare in tutta l’Africa Sub-shariana. Politiche che in alcuni casi, come nelle colonie portoghesi e soprattutto in Angola, misero a dura prova l’esistenza dei neonati governi a causa delle rivalità tra russi e cinesi. Alla faccia della comune causa marxista -leninista.

Una confusione per cui, ancora oggi, una volta dimenticato il semplice fatto che sono le contraddizioni di classe ad essere trasversali sia alle questioni di “razza” che di nazione e genere, i paesi dei Brics, potenzialmente antagonisti economico-politici e militari dell’imperialismo occidentale, possono essere scambiati per non allineati e “socialisti”, negando nei fatti la storia degli ultimi settant’anni e le contraddizioni che ne sono conseguite.


  1. Si vedano in proposito gli scritti antropologici di Marx e sul colonialismo in India e in Cina oltre che sulla guerra civile americana, così come quelli sicuramente più tardivi di Amadeo Bordiga, pubblicati su «Prometeo» e «Battaglia comunista» e, dopo la scissione del Partito comunista internazionalista nel 1952, su «Il programma comunista» sulle questioni, come si diceva allora, “di razza e nazione” (qui).  

  2. Si veda: V. Bevins, Il metodo Giacarta, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021.  

  3. Sulla figura e sulle idee di Patrice Lumumba si vedano: A. Aruffo, Lumumba e il panafricanismo, Erre emme edizioni, Roma 1991; D. Van Reybrouck, Congo, Feltrinelli Editore, Milano 2014 e G. F. Venè, Uccidete Lumumba, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973.  

  4. K. Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 135-137.  

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Il desiderio, l’immaginario e i fantasmi rimossi della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2020/05/06/il-desiderio-limmaginario-e-i-fantasmi-rimossi-della-lotta-di-classe/ Wed, 06 May 2020 21:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59659 di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma [...]]]> di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma privilegiata. Questi ultimi, infatti, potevano inquadrare e colpire con sufficiente precisione singoli obiettivi, talvolta causando gravi perdite al nemico, ma chi puntò maggiormente sulle prime, potendo spaziare più lontano con lo sguardo, ebbe modo di colpire a distanza e in maggiore profondità.

La metafora della guerra sul mare potrebbe anche non piacere all’autrice, anarchica e antimilitarista, del libro qui recensito, ma può rivelarsi utile per guardare a due differenti approcci al problema del rovesciamento dei rapporti sociali e di produzione ancora vigenti.
Uno si accontenta di singoli, momentanei obiettivi (talvolta raggiunti, talvolta no), attraverso cui arrivare ad un cambiamento graduale, un passo dopo l’altro, destinato in realtà a non aver mai fine; mentre l’altro cerca uno scontro a tutto campo che allarghi la sua azione ad un orizzonte il più vasto possibile, per poter giungere ad una distruzione totale e definitiva dell’avversario. Questo secondo metodo può avere un margine momentaneo di errore un po’ più ampio, ma è sicuramente destinato a rivelarsi come l’unico possibile per una strategia di successo.

Anche la vita dei due equipaggi è in/comparabile: tristi, rinchiusi in un ambiente asfittico e buio i sommergibilisti, più baldanzosi e vivaci coloro che all’aria aperta su una tolda spazzata dal vento e dalle onde, ma illuminata dal sole, possono osservare l’orizzonte. Cogliendo con largo anticipo, anche ad occhio nudo, i mutamenti climatici e le mosse che potrebbero avvantaggiarli nella lotta contro il nemico. Senza parlare poi di quelli che possono librarsi in volo e spingersi a guardare con i loro occhi oltre l’orizzonte stesso. Anche al di là di quello temporale.

Annie Le Brun appartiene senza ombra di dubbio ai secondi, anzi ai terzi, in grado di volare oltre le miserie e le banalità del presente per provare a cogliere la gioia di vivere futura già in ogni istante del vissuto quotidiano. Nata nel 1942 a Rennes, è una poetessa surrealista, scrittrice e critica letteraria. Dopo aver incontrato André Breton a ventuno anni, prende parte alle attività del movimento surrealista dal 1963 fino all’autodissoluzione del gruppo. E’ autrice di numerosi testi di cui soltanto due sono stati tradotti in italiano: Disertate! (il femminismo è morto), pubblicato da Arcana nel 1978 e quello qui recensito. Inoltre, nel 1996, ha curato la prefazione all’edizione francese del Manifesto di Unabomber, L’avvenire della società industriale.

Con il testo edito in Italia nel 1978, Annie aveva già suscitato un certo scalpore, proprio contrapponendo la vita all’ideologia, l’azione alla ripetizione formale di concetti provenienti da un esistenzialismo filosofico virato al femminile da Simone De Beauvoir, che del maggior rappresentante di quella corrente di pensiero (Jean-Paul Sartre) era stata compagna nella vita.

Qui, dove la perseveranza sta al posto dello slancio, e la ripetizione al posto della convinzione, eccoci ben lontani da tutte quelle lavandaie, battilana, brunitrici, calzolaie… della Comune di Parigi che ci hanno svelato le radici della rivolta femminile nel cuore stesso della vita, nel momento stesso in cui essa era più minacciata. Non che io voglia qui opporre l’azione alla riflessione. Voglio piuttosto opporre l’incontenibile esplosione di un’idea, alle ardite speculazioni più o meno interessate di cui essa diviene poco a poco il bersaglio e di cui non mancano mai di ridurre la portata. Quando si tenga bene a mente la tensione di queste donne della Comune prese nella invenzione appassionata del loro destino particolare e collettivo, la falsa obiettività universitaria del Secondo sesso diviene insopportabile, per il suo non essere altro che un artificio capace di ingannare le inquietudini di una personale devozione filosofica1.

Secondo l’autrice, infatti, mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare l’illusoria differenza che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, il neo-femminismo si affannava e si affanna a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio, che spesso ha portato il movimento a sfociare nel carrierismo, nello psicanalismo più grossolano oppure in un prolisso rivendicazionismo. Nel denunciare tale impasse l’autrice fonde il suo stile con quello dei surrealisti e dei situazionisti, cui sarà sempre fedele, come anche nel testo recentemente curato da Martina Guerrini. Che, nell’Introduzione, può affermare:

Il mio incontro con il pensiero di Annie Le Brun è stato un lampo capace di aprire un orizzonte da troppo tempo oscurato. Il suo unico lavoro tradotto in italiano mi aspettava su una bancarella di libri, e mai come in quel momento è stato comprensibile quanto l’imprevisto fosse benvenuto. Da allora è stata una corsa forsennata ad approfondire, un’immersione in ampi spazi e in abissi profondi, accompagnati da una scrittura sensuale e ruvida allo stesso tempo, difficile, carica di negativo.
Questo testo non fa eccezione, né fa sconti alle sicurezze e ai rituali – teorici, politici, filosofici, artistici – e soprattutto evita accuratamente di dare indirizzi o soluzioni.
È la bellezza sconvolgente dell’autrice, che non si nasconde mai pur chiedendo ai lettori e alle lettrici di abbandonare i propri sentieri perché tutto sia chiaro, […] Vale la pena, certamente, faticare e scalare letteralmente la prima parte dell’Eccesso di realtà, per capire cosa è realmente un testo di critica radicale.
D’altra parte, inerpicarsi su alte vette e raggiungere orizzonti a pochi consentiti è infinitamente più affascinante che cercare e trovare ciò che nutre la noia dei pensieri battuti2.

E’ un percorso di analisi e riflessione ben preciso quello che il testo della Le Brun ci propone. Percorso che va dall’impoverimento del linguaggio contemporaneo, dovuto principalmente ad un abuso di tecnicismi e di vocaboli tratti da una terminologia che si vorrebbe scientifica e specialistica, all’inaridimento della poesia (e più in generale della letteratura), costretta ormai a ripetere soltanto cliché stilistici ed emozionali destinati a fare trionfare il principio di realtà all’interno di ogni discorso e di ogni riflessione. Si badi bene però, l’unica realtà possibile deve essere quella dell’esistente e non quella della sua negazione. Il principio di realtà dominante, derivato ed esaltato da quello degli specialisti, degli intellettuali e dei promotori del pensiero asservito può essere soltanto quello che nega la negazione del mondo che ci è imposto.

E’ questo l’eccesso di realtà di cui ci parla l’autrice. Una realtà che si confonde con il virtuale e che, attraverso la distorsione del linguaggio e della poesia, giunge a delimitare l’immaginario per mezzo della finzione di un certo grado di tolleranza e, ancora, a sradicare il desiderio, incanalandolo lungo una sorta di sistema binario in cui lo 0 e l’1 sono sempre definiti secondo le logiche della assuefazione sistemica al principio di massima soddisfazione possibile all’interno di ciò che già esiste, senza mai superarne i limiti.

Un processo di spersonalizzazione collettiva ottenuta per il tramite di moduli adeguati a soddisfare le più svariate formule identitarie, in cui il politically correct ha la funzione fondamentale di rimuovere l’individuo e le sue passioni, i suoi lati oscuri, la sua sessualità, veri motori di ogni rivolta. Che non può scaturire altrimenti che dall’incontro delle contraddizioni del reale con l’immaginario, non ancora massificato, prodotto da una psiche che affonda le sue radici nella carne e non nella realtà prodotta dal web e dai suoi master.

Ecco allora che «le parole di Shakespeare, Charles Bukowski o Emily Dickinson si trovano poste sullo stesso piano di quelle di Neruda e altri cantori stipendiati»3. Una poesia che non può e non deve contenere già il seme della rivolta, ma funzionare da antidepressivo in funzione della conservazione dell’esistente.

Bisogna forse ricordare che i totalitarismi del xx secolo si sono tutti distinti per un medesimo gusto inveterato per una cultura raggiante di felicità? Stalin e Hitler erano degli allegri buontemponi in materia culturale e su fino a Tito che, alla fine della sua vita, ha condannato tutto ciò che gli sembrava troppo tetro, per promuovere se non ordinare una letteratura e una musica “rosa”. Certo, le cose sono cambiate: la poesia è diventata l’antidepressivo che ci obbligano in ogni momento a ingurgitare…4

Per raggiunger l’obiettivo desiderato occorre far circolare “dizionari della contestazione” in cui:

in buona posizione troviamo premi Nobel, dal “molto politicamente corretto” Dario Fo allo sbirro stalinista Pablo Neruda, mentre non vi figurano, per esempio, i nomi di René Crevel e del poeta Benjamin Péret, disertore francese, condannato in tre paesi diversi, solo menzionato qua e là, in una frase, per la sua partecipazione a Dada, al surrealismo, o ancora per un poema “istericamente anticlericale” […] Ma ci si domanda se non sia meglio essere stati dimenticati piuttosto che figurare in una simile antologia, dove se Georges Bataille è citato come “scrittore francese”, Antonin Artaud è citato,proprio lui, come “scrittore dei limiti”.5

Scriveva Sigmund Freud in una lettera a Eric Jones del 17 maggio 1914: «Colui che permetterà all’umanità di liberarsi dall’imbarazzante sottomissione sessuale, qualsiasi stupidaggine scelga di dire, sarà considerato come un eroe»6.
Perché è proprio al punto di incontro tra impedimenti del reale, immaginario e sessualità che scaturisce il desiderio. Quel desiderio senza il quale non può esistere nemmeno il rovesciamento dell’esistente ovvero la rivoluzione. Perché solo dal desiderio più profondo può scaturire la passione.

Passione e possibilità di rivoluzione viaggiano l’una accanto all’altra. Minare la prima attraverso i percorsi di imposizione dell’unica realtà possibile significa, nella sostanza, minare e impedire la seconda. Impedendone anche soltanto il desiderio. Desiderio che per essere tale, vivo e provocatorio, può soltanto essere individuale, nato nel profondo di ognuno, ma che è destinato ad appassire e a morire ogni volta in cui è canonizzato in formule destinate a risistemarlo e impoverirlo. Per trasformarlo in una merce vendibile ad una maggioranza di consumatori passivi.

L’erotismo mercificato e fintamente liberato dalla cultura dominante odierna, si tratti della pruderie contenuta nelle pagine di noti scrittori invitati a scrivere racconti erotici per le riviste femminili o del voyeurismo mascherato nel discorso di tanti intellettuali e filosofi alla moda, oppure rimosso dal discorso neo-femminista, risponde in fin dei conti alla necessità di deerotizzare l’insorgenza, la ribellione spontanea, la rivoluzione. La fossilizzazione della quale avviene con un percorso lastricato da buone intenzioni, schemi e formule ripetute come mantra, buone per tutte le occasioni. Inutili e riduttive sempre, poiché destinate a rivitalizzare il conformismo dell’esistente.

Affinché la rivoluzione non sia patrimonio dei grigi burocrati e degli insoddisfatti petulanti, di ogni genere e convinzione, deve vivere di pulsioni e di passioni che non possono essere ridotte a formule, pena l’estinguersi ancora prima di essere entrata in scena. Come separarla infatti dalle giovani operaie pietroburghesi senza obblighi famigliari della rivoluzione del febbraio 1917? Come separarlo dalle donne della Comune e, infine, come separarla dall’irrefrenabile pulsione desiderante che animò la rivolta giovanile e operaia del ’68 e del ’77?

Oggi i linguaggi, i corpi, i desideri, le pulsioni devono essere codificati in una finzione di liberazione i cui promotori sono ben lontani, e non potrebbe essere altrimenti, da quella indicata, senza inutili pedagogismi, da Sade, Baudelaire, Rimbaud e dai surrealisti (cui oggi occorrerebbe anche aggiungere almeno un autore come James Ballard). Riscoprire tutto ciò, attraverso lo sguardo d’aquila e il cammino talvolta tortuoso della Le Brun, significa tornare alle origini della rivolta.

Quella che muove sempre da un moto individuale di rifiuto dell’esistente e delle sue leggi. Ciò che spesso non si sa come spiegare, ma che è immancabilmente destinato a diventare collettivo. Si tratti pure del manifesto di Unabomber o degli atti vandalici messi in atto dai giovani teppisti delle banlieue.
Farlo, significa tornare alla radici della negazione radicale, senza la quale non vi è cambiamento reale possibile. Liberando i fantasmi rimossi della lotta di classe dalle loro catene.


  1. A. Le Brun, Disertate!, Arcana 1978, pp. 10-11  

  2. M. Guerrini, Introduzione, A. Le Brun, L’eccesso di realtà, BFS Edizioni 2020, pp. 5-6  

  3. A. Le Brun, L’eccesso di realtà, op. cit. p.86  

  4. A. Le Brun, cit. p.86  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ivi, p.186  

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Gettare Martin Heidegger giù dalla torre? https://www.carmillaonline.com/2013/08/12/gettare-martin-heidegger-giu-dalla-torre/ Mon, 12 Aug 2013 21:55:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8197 di Girolamo De MicheleHeideggerSS.jpg

[Nella foto, Martin Heidegger è il primo seduto in basso a destra]

Nel 1944, parlando con un’allieva della guerra in corso, Martin Heidegger confessò alla studentessa di credere ormai sconfitta la Germania: «ma per carità», aggiunse, «non ne faccia parola con mia moglie!» Questo aneddoto (del quale sono debitore a Emil Cioran) dà la cifra morale e umana di un pensatore che pretendeva di meditare in modo autentico questioni come la verità e il destino dell’occidente, ma non trova il coraggio dell’autenticità in una banale conversazione privata con la moglie, fervente nazista.

Negli stessi anni, per restare nel [...]]]> di Girolamo De MicheleHeideggerSS.jpg

[Nella foto, Martin Heidegger è il primo seduto in basso a destra]

Nel 1944, parlando con un’allieva della guerra in corso, Martin Heidegger confessò alla studentessa di credere ormai sconfitta la Germania: «ma per carità», aggiunse, «non ne faccia parola con mia moglie!» Questo aneddoto (del quale sono debitore a Emil Cioran) dà la cifra morale e umana di un pensatore che pretendeva di meditare in modo autentico questioni come la verità e il destino dell’occidente, ma non trova il coraggio dell’autenticità in una banale conversazione privata con la moglie, fervente nazista.

Negli stessi anni, per restare nel campo dell’esistenzialismo, Sartre teneva all’Università corsi il cui contenuto avrebbe potuto costargli la vita (come accadde per Marc Bloch), Camus scriveva sulla rivista partigiana “Combat”, Lévinas e Primo Levi erano in campo di concentramento, Pareyson partecipava alle riunioni clandestine di Giustizia e Libertà, Pietro Chiodi evadeva dalla prigionia, tornava in Italia e riprendeva la via della montagna partigiana, Beckett, che pure era irlandese, si arruolava nella resistenza francese.

Mi è sempre rimasto il dubbio di come il vile Martin abbia annunciato alla consorte teutonica la capitolazione di Berlino e la morte di Hitler: posso immaginarlo uscire di casa in punta di piedi lasciando la radio accesa, e rifugiarsi in quell’angolo dove un contadino dagli occhi (ci mancherebbe!) azzurri, riposandosi con la pipa in bocca, se lo vedeva arrivare ogni giorno, anch’esso armato di pipa e tabacco.heidegger2.jpg Heidegger riteneva che in quei frangenti si raggiungesse la più autentica comunicazione fumando silenziosamente in compagnia: avrà il contadino, sfinito dal lavoro dei campi, pensato lo stesso di quel buffo omino tanto simile a quello della birra Moretti, vestito con assurdi calzoni alla zuava e giacche di taglio settecentesco? Eppure Martin Heidegger è considerato un gigante della filosofia. Intendiamoci: Essere e tempo è un grande libro, soprattutto là dove compie una ricca analisi della condizione umana (nel suo complicato linguaggio: del Dasein, dell’esser-ci) gettata nell’inautenticità, nell’alienazione, nella perdita di senso. Ma quando Jean-Paul Sartre dichiarò, nella conferenza L’esistenzialismo è un umanesimo, di considerarsi allievo dell’Heidegger di quelle pagine, Heidegger stesso gli rispose sprezzantemente rinfacciandogli l’interesse per l’uomo invece che per l’essere in quanto Essere. Il fatto è che ad Heidegger dell’uomo, delle sue sofferenze, del suo corpo, della fatica del lavoro, della differenza tra uomo e donna, in una parola della “condizione umana” per un verso non importava alcunché — come non gli importava nulla del destino degli ebrei e delle altre vittime dei Lager nazisti (l’unico suo accenno alla guerra è in favore dei prigionieri di guerra tedeschi). E per altro verso, il suo pensiero non s’è mai arrischiato in un vero confronto con la realtà. Il suo mondo iniziava e finiva nella sua baita nella Foresta Nera, immersa nel silenzio della tormenta di neve che «tutto nasconde»: è solo in queste condizioni che «l’interrogarsi del filosofo può farsi essenziale».

Cinico e pavido, Heidegger ha trovato la quadra in una forma di scrittura ed elocuzione filosofica che sempre Cioran, col dono della battuta che gli era proprio, definì «un’escroquerie philosophique»: Heidegger1.jpgogni volta che il suo pensiero tocca qualche punto essenziale, Heidegger se ne esce ingarbugliando il linguaggio. Con Heidegger l’insincerità truffaldina del linguaggio raggiunge livelli che solo Shakespeare aveva saputo toccare col suo Iago (personaggio che peraltro condivide con Heidegger il disprezzo per i “negri”). Facendo strame della sintassi e della filologia, Heidegger mette insieme espressioni la cui apparente profondità è l’effetto prodotto (per parafrasare il suo stesso linguaggio) dal «non-capirci-un’acca come la sua dimensione più propria»: Heidegger non si rivolge a interlocutori, ma ad ascoltatori che davanti al grado zero della significazione (cosa vorrà mai dire che «il niente nientifica»?) sgranano gli occhi, spalancano la bocca e, dopo aver cercato di cavare inutilmente il ragno dal buco, annuiscono gravemente per timore di passare per scemi. Il linguaggio di Heidegger è assertivo, oracolare, mistico: non potrebbe interessargli meno il linguaggio dell’operaio (ricordate il contadino che stava zitto e fumava la pipa?), l’analisi degli atti linguistici quotidiani, gli effetti che si producono nel mondo dando ordini o stipulando convenzioni. Wittgenstein si interrogò sul perché lui, che era architetto, non riusciva a comunicare con gli operai che gli costruivano la casa: si interrogò sui diversi giochi linguistici che denotano diverse condizioni sociali; Heidegger liquida il linguaggio quotidiano come «chiacchiera insignificante». Ma quando Carnap gli svela il giochino, sottoponendo ad analisi logica le sue affermazioni e chiedendogli perché mai «il niente nientifica» dovrebbe avere un senso filosofico e «la pioggia piove» no, Heidegger risponde accusando i neo-positivisti e i logici tutti di «stretta ed intima connessione col comunismo russo», roba che neanche Gasparri!

martin heidegger rundweg.jpg Il linguaggio è «la casa dell’Essere», diceva ad ogni piè sospinto: ma a condizione di accettare il fatto che per parlare dell’Essere ci manca il linguaggio, e dunque possiamo parlarne solo a condizione di non parlarne. La prova? Il fatto che lui stesso non ha terminato di scrivere Essere e tempo per la mancanza di un linguaggio adeguato all’Essere. E se il linguaggio viene meno a lui, non ci sono che due possibilità: o è l’Essere stesso che «si nasconde» (dove? Ma dietro se stesso, che diamine! Che sia il-giocare-a-nascondino la dimensione più autentica dell’Essere?), o è Heidegger che ha mal impostato l’analisi e non ha i mezzi per arrivarci. E allora perché larga parte della filosofia non ha, semplicemente, relegato ai banchi del rigattiere più vicino i libri di Heidegger? Perché l’heideggerismo è un ottimo pretesto per continuare a fare quello che i filosofi, tranne che per una breve parentesi e in modo minoritario, hanno sempre cercato di fare: studiare il mondo invece di impegnarsi a cambiarlo. Heidegger pone problemi seri: l’uomo è sopraffatto dal dominio della tecnica, disorientato dalla crisi della ragione, alienato. Possiamo uscirne? No: la crisi dell’uomo del Novecento è l’esito di qualcosa che è in marcia almeno da tre secoli. La questione della tecnica è in relazione con lo sviluppo della rivoluzione industriale, con quella che un marxista chiamerebbe sussunzione della società sotto il capitale? Per carità!, è tutta colpa di Socrate e Platone, che hanno dato avvio all’oblio della distinzione tra l’Essere e l’essere dell’ente come caratteristica del modo tecnico di pensare. E così, davanti alla crisi degli alloggi che affliggeva la Germania nel dopoguerra, Heidegger si poneva forse il problema della ricostruzione, dell’edilizia popolare, degli sfollati, delle politiche sociali? No: la crisi degli alloggi è solo una manifestazione di una più radicale crisi, quella del «non-sentirsi-a-casa-propria» come la dimensione più autentica dell’esser-ci. L’alienazione non ha una causa storica, sociale (come pensa un marxista), o individuale (come pensa la psicoanalisi): è una dimensione quasi eterna, contro la quale non c’è che da sperare che «dove massimo è il pericolo, là dimora ciò che salva». Cosa vuol dire questa frase? Heidegger non lo sa, ma l’ha detta Friedrich Hölderlin, che è un poeta, e quindi dev’essere sicuramente vera (e chissà cosa avrebbe pensato Hölderlin dei suoi versi usati come bigliettini dei Baci Perugina: non è anche questo un modo tecnico di pensare?). Una volta l’ha ripetuta in parlamento anche Buttiglione: il bello di queste frasi di cui non si capisce il senso è che le si può buttare lì, a caso, come il jolly a scala reale. Del resto siamo nell’età del dominio della tecnica, e «la tecnica non pensa» (come pure non pensano le penne stilografiche, il fiasco del Monopoli e lo stesso Buttiglione: ma questa è un’altra storia, direbbe l’indimenticabile Moustache). Dire che la tecnica non pensa è un ottimo modo per uscire dall’impasse intellettuale di chi non conosce la distinzione tra tecnica e tecnologia, tra tecnica e scienza, e in definitiva crede di sapere tutto delle pretese della tecnica e della scienza, ma poi chiama l’elettricista per farsi cambiar la lampadina.

In realtà un accenno a ciò che può salvarci Heidegger l’ha fatto trapelare: ormai, dice nell’ultima intervista, «solo un dio ci può salvare». «Un» dio, non «il» dio: forse ce ne sono molti? Possiamo, nel caso, scegliere tra il mitico Thor, Osiride o Zeus? Non è dato saperlo. Ma un filosofo che si affida a un dio non sta tradendo il proprio sapere? Se non è possibile operare per cambiare il mondo, tanto vale, invece di arrischiare la fatica del pensiero, andare in pellegrinaggio a Lourdes o a Pietralcina, o dal mago Otelma — o farsi dire cosa pensare dall’heideggeriano Ratzinger e dalla sua schiera di zelanti ripetitori (che, come la tecnica e il fiasco del Monopoli, non pensano: ascoltano, annuiscono ed eseguono). Se l’autenticità ci è negata per colpa di Platone, che vale condurre una vita autentica, o più modestamente sincera, ma scomoda, in luogo di una vita ipocrita, ma comoda e rassicurante? heidegger.jpg Cosa credete che abbia fatto Heidegger quando dovette scegliere tra l’amore per l’allieva Hannah Arendt e la moglie che non amava, ma alla quale era sposato? Credete che abbia corso il rischio della sincerità verso le proprie passioni? Se il linguaggio non è in grado di rendere conto delle proprie asserzioni e di rispondere delle proprie menzogne, allora sarà lo stesso scrivere bianco piuttosto che nero: cosa molto utile, per un filosofo che dopo essersi esposto «disertando nella prassi» (così disse Heidegger, distintivo nazista al bavero, al disertore Günther Anders) cerca di accreditarsi verso ambienti più moderati, dai quali avere una cattedra, un posto in una rivista, un invito a un convegno. Per prostituirsi intellettualmente con i circoli più reazionari dell’Accademia italiana, magari a ore alterne per salvarsi la coscienza. Heidegger è stato un perfetto trampolino per quei filosofi che in piena Restaurazione, dopo aver millantato di voler cambiare il mondo, sono tornati nello splendido isolamento delle proprie cattedre, per quei nostalgici dello storicismo che avevano tanta voglia di sentirsi dire che se non la Storia o la Provvidenza, ci pensa la storia dell’Essere, insomma il destino, a far sì che il mondo sia come sia, che il mondo non può essere diverso da come già-da-sempre è: al massimo lo si può amministrare un po’ meglio, non criticarlo. Se solo un dio può salvarci, che bisogno c’è di alzarsi alle 4 del mattino per andare a volantinare davanti a una fabbrica? Se la comprensione dell’esser-ci è negata dal nascondimento dell’Essere, perché preoccuparci del fatto che il da del Dasein, cioè banalmente il mondo in cui viviamo, è il mondo costruito dai Signori per lo sfruttamento dei Servi? Perché chiedersi cosa del nostro corpo — la determinazione sessuata, le passioni, i flussi di libido, i desideri, la pluralità delle ragioni, il conflitto permanente tra cuore e ragione — increspa la placida serenità di un pensiero che non si confronta mai col reale e resta sempre a fare il gioco dello specchio con se stesso? Se siamo tutti alienati e non c’è differenza tra la condizione maschile e quella femminile, tra il lavoro e l’ozio, tra il nord e il sud del mondo, perché uscire dai salotti e sporcarsi le mani col mondo?
L’heideggerismo è una sorte di élitaria torre d’avorio i cui occupanti passano il tempo a nientificare il niente, ossia a parlare del nulla: dopo tutto, perché buttarli giù dalla torre? C’è il rischio di ritrovarceli, noi della razza di chi rimane a terra (razza rude e pagana, beninteso), ancora tra i piedi.

Note

(*) Sono debitore, per il titolo, al saggio postumo di Luciano Parinetto Gettare Heidegger.
(**) Dopo la pubblicazione, su Liberazione del 14 agosto 2008, di questo testo, Roberta De Monticelli, che ringrazio per le parole di apprezzamento, mi ha segnalato il suo Contro Heidegger, liberamente scaricabile qui: www.unisr.it/docenti/ricerca/demonticelli/Contro_Heidegger.doc.

Questo testo è stato già pubblicato su Carmilla il 22 settembre 2008

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