Errico Malatesta – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Vita passionale di un’anarchica https://www.carmillaonline.com/2024/12/27/vita-passionale-di-unanarchica/ Fri, 27 Dec 2024 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86235 di Paolo Lago

Francisco Soriano, Claudia Valsania, Virgilia D’Andrea. Una poetica sovversiva, introduzione di Giorgio Sacchetti, Nova Delphi, Roma, 2024, pp. 272, euro 15,00.

È scritta con passione questa monografia su Virgilia D’Andrea di Francisco Soriano e Claudia Valsania, e riesce meravigliosamente a trasferire sulla pagina la passione poetica e politica di una grande scrittrice e poetessa che meriterebbe un ben più ampio spazio nella storia letteraria italiana del Novecento. Non si tratta di una semplice biografia ma di un’attenta disamina critica dell’opera e della militanza di Virgilia D’Andrea, la quale è stata non solo una letterata ma anche un’importante attivista [...]]]> di Paolo Lago

Francisco Soriano, Claudia Valsania, Virgilia D’Andrea. Una poetica sovversiva, introduzione di Giorgio Sacchetti, Nova Delphi, Roma, 2024, pp. 272, euro 15,00.

È scritta con passione questa monografia su Virgilia D’Andrea di Francisco Soriano e Claudia Valsania, e riesce meravigliosamente a trasferire sulla pagina la passione poetica e politica di una grande scrittrice e poetessa che meriterebbe un ben più ampio spazio nella storia letteraria italiana del Novecento. Non si tratta di una semplice biografia ma di un’attenta disamina critica dell’opera e della militanza di Virgilia D’Andrea, la quale è stata non solo una letterata ma anche un’importante attivista anarchica che ha segnato la storia dell’anarchismo di inizio Novecento. In ogni parola di Soriano e Valsania vibra una forte tensione militante e la stessa scrittura del saggio sembra attingere alla forza poetica di D’Andrea: la sua è infatti una poesia che prende spunto direttamente dalle ingiustizie dei potenti nei confronti dei più deboli. Nata a Sulmona, in provincia dell’Aquila, nel 1888, orfana dei genitori, si trovava in un convento quando nel 1900 Gaetano Bresci uccise il re Umberto I, colpevole di aver decorato il generale Bava Beccaris che aveva ordinato di sparare sul popolo inerme e affamato che chiedeva il pane compiendo una strage. Bresci è stato solo un folle e un criminale oppure è stato spinto da una qualche superiore motivazione? – si chiese Virgilia. E da qui iniziò probabilmente la sua personale presa di coscienza delle numerose violenze inflitte ai poveri e ai diseredati da parte del potere. Nel suo romanzo Torce nella notte, D’Andrea, infatti, non manca di sottolineare l’assoluta insensibilità dei governanti nei confronti delle vittime del terremoto che nel 1915 colpì l’Abruzzo e rase al suolo Avezzano: poverissime frange di popolazione abbandonate a sé stesse nel momento del bisogno ma non certo dimenticate quando si trattava di richiamarle per la leva obbligatoria allo scoppio della prima guerra mondiale per difendere la “patria” (parola che per la scrittrice è la conseguenza di un egoismo collettivo e nasconde “ambizioni di dominio e di sfruttamento”). Virgilia D’Andrea, successivamente, entrò a far parte dell’Unione sindacale e si dedicò all’attività di sindacalista, insieme al suo compagno, Armando Borghi, uno dei leader del movimento anarchico, collaborando a “Umanità Nova”. Venne perseguitata e arrestata e, dopo l’avvento del fascismo, dovette riparare in Germania, in Olanda, a Parigi e, infine, negli Stati Uniti dove morì nel 1933.

Il saggio si compone di diversi capitoli che costituiscono varie finestre sulle opere e sull’attività letteraria e militante di Virgilia: molti di essi sono dedicati a personaggi che hanno rivestito un’importanza fondamentale nel suo percorso politico, come Pietro Gori, Ottorino Manni, Sante Pollastro, Michele Schirru. Un capitolo del libro è dedicato a una interessante disamina della rivista “Veglia”, fondata da Virgilia D’Andrea nel 1926 e da lei diretta: si può notare che un periodico fondato e diretto da una donna è sicuramente qualcosa di non comune per l’epoca. Soriano e Valsania analizzano in modo filologico e preciso gli interessanti articoli presenti negli otto numeri di “Veglia”, firmati anche da importanti attivisti e letterati. Il primo numero della rivista è caratterizzato da un editoriale firmato dalla stessa Virgilia, dal titolo Braciere ardente, che poi andrà a costituire un capitolo del romanzo Torce nella notte: “Il testo racconta del momento in cui l’anarchica vede nascere intorno a lei, nei suoi compagni di esilio, l’idea di una rivista mensile che fosse «la eco di tutte le nostre voci» e insieme lo spazio strappato al buio per essere restituito all’«Ideale», segnando così il primo passo per la nascita di «Veglia»”. Sempre nel primo numero è presente anche un articolo del pittore e architetto futurista Vinicio Paladini, dal titolo L’influenza dell’anarchia nell’arte, firmato con lo pseudonimo Vasco dei Vasari. La grande arte, per l’autore dell’articolo, è data dall’indipendenza degli artisti da qualsiasi forma di potere, in aperta opposizione agli accademismi di ogni tipo sottoposti alle logiche di controllo che lo stesso potere esercita: ecco allora – tra gli altri – grandi artisti come Corot, Millet, Cézanne, Degas, Courbet, Manet, Van Gogh che non hanno piegato la testa di fronte alle imposizioni del potere. Il secondo numero di “Veglia” è invece dedicato “ai tragici eventi che riguardarono Sacco e Vanzetti” mentre risulta interessante, fra i molti analizzati da Soriano e Valsania, un altro testo scritto da Virgilia D’Andrea presente nel n. 6 di “Veglia”, intitolato Adolescenza luminosa e dedicato a Anteo Zamboni, il quindicenne che nel 1926, a Bologna, attentò alla vita di Mussolini e venne catturato da Carlo Alberto Pasolini, ufficiale dell’esercito padre di Pier Paolo Pasolini. Sempre nel n. 6 risulta interessante la presenza di una poesia firmata da “uno sconosciuto consigliere comunale di Ravenna” dal titolo Imprecazione poetica contro i ricchi nei giorni di loro maggiore esultanza: si tratta della prima stesura di un componimento di Lorenzo Stecchetti (alias Olindo Guerrini), poeta scapigliato e realista, che molto ricorda le taglienti rime del più famoso Canto dell’odio. A Sacco e Vanzetti è poi dedicato anche l’ultimo numero, il n. 8, che reca in copertina un’inquietante illustrazione (riprodotta insieme ad altre in appendice al volume) in cui vediamo la Statua della Libertà che, invece della fiaccola, tiene una sedia elettrica nel suo braccio levato al cielo (ancora più inquietante dell’immaginario kafkiano che, in Amerika, rappresentava il braccio alzato recante una spada).

Nel capitolo intitolato “Richiamo all’anarchia”, Soriano e Valsania si concentrano sull’importante attività di conferenziera di Virgilia D’Andrea: in Chi siamo e che cosa vogliamo, conferenza tenuta a New York il 20 marzo del 1932, “Virgilia ben argomenta la sua idea di anarchia laddove sfida chi afferma che senza un governo, una legislazione, una repressione non può esistere l’ordine”. Interessante è ricordare come la poetessa e attivista ritrovi nella storia della letteratura un pensiero anarchico ante litteram, addirittura a partire dall’Iliade, laddove il personaggio di Tersite, emarginato e deforme, si scaglia contro gli dei e contro qualsiasi forma di potere. Fino a Shakespeare, Cervantes, Victor Hugo, Zola, per giungere poi agli autori prediletti Carducci, Pascoli, Rapisardi, Ada Negri e Pietro Gori, incontriamo personaggi spinti da una sorta di spirito anarchico, ribelli e indomabili, personaggi che D’Andrea sente vicini e affini alla sua ispirazione. Un’altra conferenza, tenuta a New York il 6 gennaio 1929, è invece dedicata a Pietro Gori: “Con questo intervento-parafrasi sulla poesia di Pietro Gori, l’anarchica mostra tutta la sua magnificenza umana, etica, artistica e letteraria. Scorge nei versi di questo mirabile poeta risvolti di dolcezza ed eleganza difficili da riscontrare in altri scrittori”.

I due studiosi si concentrano poi sull’attività poetica di D’Andrea analizzando alcune significative poesie appartenenti alla raccolta Tormento la cui prima edizione uscì nel 1922 con una prefazione di Errico Malatesta: “I testi poetici di Tormento rappresentano un chiaro esempio di poesia civile, non riconducibile tuttavia a uno specifico canone, partorito in una cornice storica dominata da autoritarismi e sistemi di governo che non esitavano a utilizzare metodi violenti per reprimere le libertà di pensiero e di parola”. Successivamente, incontriamo l’analisi di alcuni saggi politici e letterari dell’autrice: in I “bravi” sulla fossa di Manzoni, D’Andrea afferma che Manzoni, con il personaggio di Renzo, ha dato vita alla voce del popolo perennemente oppresso; in Perché cercate il vivente tra i morti?, dedicato a Giacomo Matteotti, “Virgilia apre la sua narrazione immaginando di ripercorrere quanto accaduto a Matteotti nel momento dell’omicidio e il dialogo con i suoi assassini”.

Il capitolo finale è dedicato al sodalizio culturale, affettivo e umano fra Virgilia D’Andrea e Armando Borghi fino alla scomparsa di lei, avvenuta a New York nel 1933 a causa di una grave malattia: unendosi a lui, Virgilia si immedesimò nelle battaglie che egli portava avanti in seno al movimento sindacale e trovò un sincero compagno di ideali e di lotta. Nelle parole dello stesso Borghi, la scomparsa di Virgilia D’Andrea lasciò un vuoto incolmabile nel movimento anarchico e nella cultura letteraria e poetica. Virgilia D’Andrea non va dimenticata, anche e soprattutto oggi, in questi tempi di buio e d’incertezza. Il bel volume di Soriano e Valsania, con passione e vera militanza culturale, ci aiuta a tenerla viva: lei, la sua lotta e la sua opera.

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Virgilia D’Andrea, una poesia https://www.carmillaonline.com/2024/11/25/virgilia-dandrea-una-poesia/ Mon, 25 Nov 2024 21:45:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85591 di Francisco Soriano

Fu Errico Malatesta a curare la prefazione della prima edizione di Tormento, silloge poetica di Virgilia D’Andrea pubblicata a Milano nel 1922. Proprio il 13 marzo di quell’anno, come già ricordato,[1] un attento funzionario di polizia della questura di Milano la denunciò per vilipendio e istigazione all’odio di classe.

Malatesta, come moltissimi altri anarchici del suo tempo, nutre nei confronti di Virgilia una profonda stima personale, umana e politica. L’anarchica divenne un punto di riferimento per molti anarchici in esilio dopo essere stata costretta a fuggire all’estero: l’esempio più lampante è la collaborazione di moltissimi intellettuali [...]]]> di Francisco Soriano

Fu Errico Malatesta a curare la prefazione della prima edizione di Tormento, silloge poetica di Virgilia D’Andrea pubblicata a Milano nel 1922. Proprio il 13 marzo di quell’anno, come già ricordato,[1] un attento funzionario di polizia della questura di Milano la denunciò per vilipendio e istigazione all’odio di classe.

Malatesta, come moltissimi altri anarchici del suo tempo, nutre nei confronti di Virgilia una profonda stima personale, umana e politica. L’anarchica divenne un punto di riferimento per molti anarchici in esilio dopo essere stata costretta a fuggire all’estero: l’esempio più lampante è la collaborazione di moltissimi intellettuali e anarchici alla pubblicazione, a Parigi, degli otto numeri in veste raffinatissima della rivista “Veglia”, che rimane un’esperienza unica nel panorama mondiale delle riviste di opposizione e di lotta. Così Errico Malatesta scrive in esergo alla raccolta poetica Tormento:

Qui troverai, o lettore, la storia di questi ultimi anni quale fu sentita e vissuta da chi nelle alterne vicende di vittorie e di sconfitte, di fulgide speranze e di disinganni amari conservò fede nell’ideale di fratellanza umana, di giustizia, di benessere, di pace e di progresso per tutti. […] Ella si serve della letteratura come di un’arma; e nel folto della battaglia, in mezzo alla folla ed in faccia al nemico, o da una tetra cella di prigione, o da un rifugio amico che alla prigione la sottrae, lancia i suoi versi come una sfida ai prepotenti, uno sprone agli ignavi, un incoraggiamento ai compagni di lotta.[2]

Le qualità di Virgilia D’Andrea come letterata e poetessa, come anarchica e biografa, sono indubbiamente oggetto di studio e riflessione anche se, come è avvenuto per secoli anche nei confronti di altre donne di lettere impegnate in lotte ideologiche, le sue opere hanno subito un vergognoso ostracismo, una sistematica cancellazione, un subdolo oblio. I testi poetici di Tormento rappresentano un chiaro esempio di poesia civile, non riconducibile tuttavia a uno specifico canone, partorito in una cornice storica dominata da autoritarismi e sistemi di governo che non esitavano a utilizzare metodi violenti per reprimere le libertà di pensiero e di parola. Violenze ampiamente e puntualmente subite da Virgilia D’Andrea con il carcere e la censura: donna tenace e straordinariamente incisiva nella critica politica, sociale e antropologica del fascismo, volta a metterne a nudo i rituali lugubri e retorici, che nulla avevano a che fare con la tradizione culturale italiana, soprattutto rinascimentale e risorgimentale. L’azione di smascheramento che l’anarchica attuò con precisione, in prosa e in poesia, nei saggi e negli articoli giornalistici, durante le conferenze e i comizi, danneggiò l’immagine del fascismo, falso e privo dell’umanesimo al quale la poetessa si ispirava.

Errico Malatesta

I testi poetici di Virgilia D’Andrea rappresentano documenti storici importanti a testimonianza di eventi che hanno segnato una pagina brutale del nostro Paese. Quelle della scrittrice e poetessa sono visioni antagoniste, di opposizione fiera e, soprattutto, di discernimento politico, mai veicolate da un impulso fine a se stesso. Virgilia D’Andrea ha progettato e fortificato in un arco temporale molto breve il suo credo, arricchito da una fede monolitica che aveva come scopo il perseguimento di obiettivi e valori dei quali tutti sono testimoni: libertà, giustizia sociale, uguaglianza, contrarietà alla guerra. Originalità poetica e conoscenza delle regole metriche e sintattiche della lingua rendono i testi di Virgilia D’Andrea un affresco elegante e abbastanza imperturbabile al passaggio del tempo, quest’ultimo caratterizzato dai tentativi talvolta subdoli di cancellazione sistematica di tutto quello che rappresenta asimmetria ai valori della produzione, dello sfruttamento, delle politiche editoriali. Virgilia D’Andrea è vittima di questo riprovevole e silenzioso sistema di oscuramento, non meno colpevole della censura che ha prodotto danni indicibili, in tempi non lontani, al nostro Paese.

Ancora Errico Malatesta ci avverte del temperamento letterario e politico dell’anarchica di Sulmona, scomparsa prematuramente in un ospedale di New York nel 1933 dopo una gravissima malattia:

Tu troverai, o lettore, qui appresso condensata in pochi poemetti, la storia di un’anima gentile e fiera che si affaccia alla vita piena di un sogno d’amore e della vita esperimenta tutti i dolori, tutti i disinganni, tutti i disgusti. Ella vede la gente umana dolorante e con essa soffre e freme; vede l’ingiustizia trionfante, la boria e l’insensibilità dei padroni, l’abbiezione e la viltà dei servi. Ma non si accascia sotto il peso del suo sogno infranto, e si ribella e lotta perché il sogno si realizzi un giorno; e, pronta a tutti i sacrifizii, continua a lottare e lotterà fino al trionfo auspicato, o fino alla morte.[3]

Il 1922 fu un anno orribile per le persecuzioni attuate dai fascisti, con uno squadrismo becero e assassino: milizie armate bastonavano e uccidevano i dissidenti nelle strade e nelle proprie abitazioni. Virgilia D’Andrea e Armando Borghi, ad esempio, non venivano neppure ammessi ad albergare negli hotel, perché si temevano le ritorsioni dei fascisti. Intanto l’anarchica chiese e ottenne il passaporto per la Germania. Il 22 dicembre 1922 partì per Berlino per partecipare al Congresso operaio sindacale internazionale e non fece mai più ritorno in Italia: visse per tutta la sua breve esistenza nella sofferenza e nelle ristrettezze economiche che attanagliavano centinaia di esiliati. La coppia dunque riuscì a fuggire affidando le valigie al tipografo Enrico Zerboni, lo stesso che aveva stampato Tormento: purtroppo quest’ultimo verrà arrestato e le valigie sequestrate dalla polizia. Dopo il mandato di cattura emesso dalla questura di Milano contro Borghi e Virgilia D’Andrea, i due decisero di rimanere a Berlino, ma il 27 febbraio 1923 Virgilia subì una denuncia per il suo libro. Il rapporto della polizia politica fascista ne descrive dettagliatamente la copertina:

Il libro ha la prammatica copertina rossa. In alto, in nero, la figura d’una donna alata, con disperata espressione di invocare dall’alto, verso cui vola, la liberazione dalle catene, cui è legata nei polsi, e che sono trattenute in una seconda vignetta, in fondo alla pagina, da mani artigliose di evidente marca borghese, e nell’intermezzo è semplicemente stampato: Virgilia D’Andrea, Tormento. Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito. A Berlino, Virgilia sta male, anche a causa della miseria e della denutrizione, che le provocano svenimenti.[4]

Nel primo anniversario della morte di Virgilia D’Andrea, Auro D’Arcola le dedica uno scritto apparso il 12 maggio 1934 sull’“Adunata dei Refrattari” che citiamo a testimonianza del contributo che l’anarchica ha fornito alla propaganda delle idee anarchiche soprattutto con la sua opera letteraria:

L’apostolato di Virgilia D’Andrea è stato breve, perché breve è stata la sua vita; ma è stato intenso. Vi ha portato il senso squisito di un’arte bellissima; il coraggio di tutte le temerità; la tenacia dell’eroismo; e un pensiero profondamente umano che tutto comprendeva e tutto abbelliva. […] La poesia di Virgilia D’Andrea, fosse scritta in versi o in prosa, era espressione di un pensiero vigoroso che non conosceva alla ragione e al sentimento altri limiti che quelli della vita.[5]

Il ritorno dell’esule (Bologna, dicembre 1919).[6]

Virgilia D’Andrea dedica la lirica Il ritorno dell’esule a Errico Malatesta. I due anarchici erano legati umanamente da affetto e stima profonda. Soprattutto Malatesta aveva ben inteso le qualità di Virgilia e la modalità di lotta politica che la scrittrice sosteneva coraggiosamente con le armi della parola.

Egli ritorna. Da la nave bianca

Guarda le azzurre austerità profonde…

Attorno attorno una dolcezza stanca

Scende dall’alto e perdesi nell’onde.[7]

L’immagine della “nave bianca” è momento di purezza e accoglienza: quale altro colore avrebbe potuto rappresentare meglio questo momento? Per Virgilia, tuttavia, non vi è una felicità appagante, assoluta. Fra le “austerità profonde”, infatti, una “dolcezza stanca” si perde nelle onde. Malatesta ritorna dall’esilio, una vita fra prigioni, sorveglianza e lontananza che mai più potrà essere rivissuta, perché il tempo ci trascina nel suo ineluttabile e quotidiano cono d’ombra. Ad accogliere l’anarchico, fiero combattente, “un ribelle coro”, le cui note “vibrano” in un poetico “silenzio appassionato e arcano”. Lo sguardo è sereno, forte dell’ideale che persegue lo spirito di un militante vero: “le pupille placide e severe”, le notti “palpitanti di febbre e di tensione”. Eppure, in questo vagare senza sosta, a perseguire un lontano ideale, mai le speranze hanno trovato ostacoli, in quell’“attesa folle e inutile soffrire”. Sotto i cieli tersi i “sofferenti”, i “miseri”, i “dispersi” sono invitati al canto, affinché alle verità e alle promesse, a quel pensiero che si materializza nelle “fulgenti aurore”, nella mente di ogni uomo finalmente si apra il “varco”, “vindice e possente”. Virgilia canta un sogno:

E in piedi, avvinti e liberi, cantate,

L’inno d’un vasto e rinnovato mondo…

Mentre si squarcia il sogno rigiurate,

A questa fede, un palpito profondo.[8]

Ancora un cuore “d’acciaio” e di “granito”, in fondo, per fronteggiare “l’urto immane della ‘rossa’ storia”.

* In anteprima al volume Virgilia D’Andrea: una poetica sovversiva, in uscita nel mese di novembre per i tipi di Nova Delphi, pubblichiamo la parafrasi di una delle poesie di Virgilia D’Andrea, dalla raccolta Tormento (1922), testo colpito dalla censura fascista dei tempi.

[1] Cfr. supra, p. 17.

[2] Virgilia D’Andrea, Tormento, con prefazione di Errico Malatesta, Galzerano, Casalvelino Scalo 1976, citato nella versione elettronica consultabile al link: https://bibliotecaborghi.org/wp/wp-content/uploads/20 16/01/d_andrea_tormento.pdf, pp. 12-13.

[3] Ivi, p. 12.

[4] Acs, Cpc, b. 1607, fasc. 3033, D’Andrea Virgilia.

[5] Auro D’Arcola (Tintino Persio Rasi), “Coraggio, e viva l’Anarchia!”, in “L’Adunata dei Refrattari”, XIII, 12 maggio 1934, n. 19, p. 1.

[6] Ead., Il ritorno dell’esule, in Tormento cit., pp. 32-33.

[7] Ivi, vv. 1-4, p. 32.

[8] Ivi, vv. 25-28, p. 33.

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La bolscevizzazione e la fine della rivoluzione russa https://www.carmillaonline.com/2019/09/04/la-bolscevizzazione-e-la-fine-della-rivoluzione-russa/ Wed, 04 Sep 2019 20:45:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54228 di Sandro Moiso

Antonio Senta (a cura di), Gli anarchici e la Rivoluzione russa (1917-1922), Mimesis edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 166, 16,00 euro

I dieci saggi che compongono il testo curato da Antonio Senta sul rapporto intercorso tra anarchici e Rivoluzione russa esplorano un tema già più volte affrontato dalla storiografia, non solo anarchica. In tale opera, però, i contributi scritti da Alexander Shubin, Marcello Flores, Giuseppe Aiello, Mikhail Tsovma, Selva Varengo, Pietro Adamo, Roberto Carocci, Lorenzo Pezzica, Davide Bernardini, Massimo Ortalli e dallo stesso curatore, rivisitano la questione da tutte le [...]]]> di Sandro Moiso

Antonio Senta (a cura di), Gli anarchici e la Rivoluzione russa (1917-1922), Mimesis edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 166, 16,00 euro

I dieci saggi che compongono il testo curato da Antonio Senta sul rapporto intercorso tra anarchici e Rivoluzione russa esplorano un tema già più volte affrontato dalla storiografia, non solo anarchica.
In tale opera, però, i contributi scritti da Alexander Shubin, Marcello Flores, Giuseppe Aiello, Mikhail Tsovma, Selva Varengo, Pietro Adamo, Roberto Carocci, Lorenzo Pezzica, Davide Bernardini, Massimo Ortalli e dallo stesso curatore, rivisitano la questione da tutte le angolazioni possibili offrendo così una ricca panoramica del punto di vista anarchico sui vari aspetti della Rivoluzione dal 1917 agli anni immediatamente successivi.

I testi costituiscono gli atti elaborati in occasione di un seminario promosso dalla Biblioteca Panizzi e dall’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, tenutosi l’1 e il 2 dicembre del 2017 presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e ci è sembrata particolarmente efficace la sintesi degli stessi elaborata dal curatore nella sua Introduzione, di cui riportiamo qui di seguito alcune parti.

Essenziale nell’intendimento di questo lavoro è la distinzione tra rivoluzione russa e rivoluzione bolscevica. Purtroppo è ancora assai diffusa l’opinione che la rivoluzione russa coincida con quella bolscevica, o d’ottobre. Tale identificazione porta con sé il giudizio secondo cui Lenin sarebbe stato il protagonista massimo di tutto il processo rivoluzionario culminato con l’insurrezione dell’autunno del 1917 e con l’instaurazione del governo sovietico.
La rivoluzione russa è in realtà qualcosa di ben più lungo e complesso: iniziata nel 1905 con la “domenica di sangue” divampa fino al 1907, per placarsi fino al febbraio 1917, quando scoppia di nuovo, tuonando fino alla metà del 1921. Il periodo preso in esame da questo testo è quello che va dall’inizio del 1917 al 1921-1922, con alcuni accenni ed excursus ad anni precedenti e successivi. All’interno di tale periodo si succedono più fasi: la rivoluzione, insieme sociale e politica,liberale e plebea, del 1905-1907, quella di fatto spontanea del febbraio 1917, cui segue lo sviluppo del movimento rivoluzionario sotto il governo provvisorio, l’insurrezione di ottobre – che segna il trionfo della politica quale atto di volontà di una minoranza che riesce a mutare il corso della storia -, la guerra civile del 1918-1920, i tentativi di dare vita a una terza rivoluzione, sociale e sovietista, schiacciati nel sangue dal Partito bolscevico fattosi Stato.

[…] Un contributo, quello del testo che avete tra le mani, che intende concorrere ad arricchire la riflessione storiografica sull’anarchismo, settore che negli ultimi decenni ha avuto uno sviluppo quantitativo e qualitativo di cui è stato tratto un provvisorio bilancio1.
Esso si affianca alle varie pubblicazioni speciali, ai convegni e alle iniziative che si sono tenute in occasione del centenario. I più acuti tra i fautori dell’ottobre russo si interrogano oggi per capire se – cito dal discorso commemorativo di Mario Tronti in Senato del 26 ottobre 2017- “il vero punto di catastrofe dell’intero progetto” sia chi i soviet si siano “fatti partito”. Riflessione tardiva, certo, ma che potrebbe essere importante […]

Necessario, quindi, nel centenario mettere in evidenza la visione anarchica e la sua critica anticipatrice alle caratteristiche autoritarie della rivoluzione bolscevica e dei suoi esiti, in quanto caso concreto di una rivoluzione che si fa Stato. Tale critica si delinea già nel 1918-1919 e diventa patrimonio comune del movimento nel 1921, dopo la repressione violenta del movimento machnovista e della comune di Kronštadt. Alla morte di Lenin, nel 1924, Errico Malatesta scrive su “Pensiero e Volontà”: “egli, sia pure con le migliori intenzioni, fu un tiranno, fu lo strangolatore della Rivoluzione russa – e noi che non potemmo amarlo vivo, non possiamo piangerlo morto. Lenin è morto. Viva la libertà!”
A cento anni di distanza la visione libertaria degli eventi russi emerge nella sua ricchezza e perspicacia. Essa intende far sopravvivere la rivoluzione al bolscevismo, o meglio far vivere la rivoluzione facendo a meno dei due pilastri su cui poggia il bolscevismo: il partito e la polizia segreta. Nel fare ciò gli anarchici provano anche a metter e in moto processi, seppur frammentari di autogoverno popolare, appoggiando i soviet più radicali, come quello di Kronštadt, o l’autogestione delle campagne come nelle zone influenzate dal machnovismo.
Falliscono, schiacciati dal bolscevismo, dalle forze reazionarie e da un’insufficiente capacità di azione autonoma da parte delle masse, lasciando anch’essi insoluta la problematicità del rapporto tra la rivoluzione e la necessità della sua difesa militare, ovvero tra rivoluzione e guerra civile. Un rivolgimento radicale reca con sé un grado inevitabile di lotta militare, col suo portato di abbrutimento: bisognerebbe quindi rinunciare e accontentarsi di un gradualismo riformista incapace di intaccare alla radice i rapporti sociali? Immagino di no. Tuttavia queste e altre questioni scaturite dalla rivoluzione russa nel loro inestricabile intreccio tra tensione all’emancipazione e dolorosa perdita di libertà paiono ancora oggi irrisolvibili.


  1. G. Berti, C. De Maria, L’anarchismo italiano. Storia e storiografia, Biblion Milano 2016  

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“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi”. Gli Arditi del popolo: dalle trincee della Grande Guerra all’antifascismo armato https://www.carmillaonline.com/2016/06/28/armateci-pure-uomini-sanguinari-lora-della-riscossa-suonata-anche-gli-arditi-del-popolo-dalle-trincee-della-grande-guerra-allantifascismo-armato/ Tue, 28 Jun 2016 21:30:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31439 di Armando Lancellotti

gli-arditi-del-popolo-milieuAndrea Staid, Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata al fascismo 1921-22, Milieu edizioni, Milano, 2015, 128 pagine, € 11.90

L’editore Milieu nel 2015 ha ripubblicato un libro di Andrea Staid – uscito per la prima volta nel 2007 – che considera una pagina breve, ma non per questo secondaria, della storia italiana del primo Novecento: una pagina di opposizione armata a quello squadrismo fascista che, come un’onda in piena, a partire dall’autunno del 1920, investì prima le campagne padane e travolse poi l’intero paese, contribuendo in modo decisivo [...]]]> di Armando Lancellotti

gli-arditi-del-popolo-milieuAndrea Staid, Gli Arditi del popolo. La prima lotta armata al fascismo 1921-22, Milieu edizioni, Milano, 2015, 128 pagine, € 11.90

L’editore Milieu nel 2015 ha ripubblicato un libro di Andrea Staid – uscito per la prima volta nel 2007 – che considera una pagina breve, ma non per questo secondaria, della storia italiana del primo Novecento: una pagina di opposizione armata a quello squadrismo fascista che, come un’onda in piena, a partire dall’autunno del 1920, investì prima le campagne padane e travolse poi l’intero paese, contribuendo in modo decisivo a portare Mussolini alla guida del governo. Gli “autori” di questa pagina furono coloro che per primi – sostiene Staid – compresero «il male del fascismo, ovvero gli Arditi del popolo, gli anarchici, i socialisti e comunisti. A onor del vero solo la base di questi movimenti e non i vertici capirono quello che stava succedendo (area libertaria a parte). I leader di questi movimenti proletari non compresero nel 1921 l’importanza di resistere al neonato movimento fascista, non avevano capito l’importanza di costituire (per usare le parole di Errico Malatesta) un fronte unico proletario e antifascista». (p. 6)

E quello delle responsabilità dei partiti socialista e comunista, che anziché sposare l’iniziativa degli Arditi del popolo la abbandonarono a se stessa, è argomento centrale del saggio di Staid, il quale ritiene che «i partiti della sinistra ufficiale infatti non hanno voluto sostenere in nessun modo questo movimento, prendendo le distanze, in ogni occasione, da tutto ciò che rappresentava l’operato degli Arditi antifascisti. Lo stesso partito comunista, per bocca di Terracini, denuncerà gli Arditi del popolo senza mezzi termini di essere una manovra della borghesia». (p. 21)

Le ragioni dell’ostracismo socialista e comunista nei confronti degli Arditi del popolo sono da ricercare, scrive Staid, tanto nella strategia politica dei due principali partiti della sinistra italiana – uno, il PSI, propenso alla firma del “patto di pacificazione” proposto dal governo Bonomi e in generale ad una politica riformistica, l’altro, il PCI, mosso da una volontà di egemonia politica e partitica sul proletariato italiano – quanto nelle incomprensioni o incompatibilità ideologiche, in buona parte dovute – ci sembra – alla genesi e alla natura eccentriche degli stessi Arditi del popolo.

Questi ultimi infatti nascono nell’estate del 1921, per iniziativa dell’anarchico Argo Secondari, interventista e volontario nelle file degli Arditi, da una «scissione della sezione romana dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia (l’associazione che organizzava gli ex combattenti dei gruppi speciali d’assalto della Prima guerra mondiale) con l’intento di difendere le masse lavoratrici dalle azioni squadristiche dei fascisti». (p.12) Nelle settimane e nei mesi successivi «gli Arditi del popolo si diffondono rapidamente su quasi tutto il territorio nazionale. Vi aderiscono migliaia di giovani e di lavoratori di varia tendenza politica, che vedono nel movimento un efficace strumento di opposizione alla violenza delle camicie nere». Secondo la ricostruzione dell’autore, nel momento di massima diffusione e fortuna «l’organizzazione antifascista risultava strutturata, nell’estate del 1921, in almeno 144 sezioni che raggruppavano quasi 20 mila aderenti». (p.29) Ma alla fine dell’anno la situazione è già radicalmente cambiata: «Dall’ottobre-novembre del 1921, fino alla marcia su Roma, infatti l’associazione antifascista sopravvive precariamente e in semi-clandestinità, senza raggiungere l’ampiezza di consensi che l’aveva caratterizzata all’atto della sua nascita» (p. 12) e conservando una significativa consistenza solo in alcune città, come Parma, Ancona, Bari, Civitavecchia e Livorno, dove riuscì, «con risultati differenti, a opporsi all’offensiva finale fascista nei giorni dello sciopero generale “legalitario” dell’agosto 1922». (p.30)

Insomma, se gli Arditi del popolo sono consustanziali al più generale “arditismo” e al combattentismo italiani (e questa è la linea interpretativa scelta dallo stesso Staid, il quale non condivide la lettura di Giorgio Rochat, che invece tende ad allentare il legame tra l’arditismo antifascista e il sovversivismo degli ex combattenti, poi prevalentemente confluiti nelle file del fascismo stesso, e che ritiene che le origini degli Arditi del popolo siano da trovare nella storia e nelle tradizioni del movimento operaio); se sono un prodotto delle trincee della Grande Guerra e di fatto anche di quell’interventismo e di quel militarismo che si riflettono poi nell’organizzazione e nella disciplina prettamente militari degli Arditi antifascisti; allora si nutrono di un humus psicologico, culturale e politico che non era stato – prima e durante la guerra – quello dei socialisti neutralisti, né – successivamente – lo sarebbe stato dei comunisti italiani. Questo, da un lato, può aiutare parzialmente a capire, anche se non a giustificare, l’ostruzionismo socialista e comunista nei confronti dell’arditismo popolare e dall’altro – ed è forse l’aspetto più interessante delle vicende studiate da Staid – ci deve portare a riconsiderare con estrema attenzione storico-politica quella materia psicologica, sociale e politica, indeterminata e magmatica, che si forma nelle trincee, sotto il fuoco di bombe e granate, per fusione e liquefazione di una intera generazione di italiani e che si risolidifica in forme diverse, spesso divergenti ed anche antitetiche, come nel caso dell’arditismo popolare ed antifascista da un lato e, dall’altro, del più frequente arditismo combattentistico, evolutosi poi in fiumanesimo dannunziano, sansepolcrismo e squadrismo.

Se in generale la Grande Guerra è stata per milioni di popolani, operai e soprattutto contadini italiani una prima esperienza, anche politica, di massa, a maggior ragione questo vale per quelli, come coloro che poi sarebbero stati gli Arditi del popolo, che in trincea si costruiscono, o consolidano, una coscienza politica di classe, o almeno divengono consapevoli di quali siano i veri nemici contro cui combattere: lo Stato ed il potere borghesi; ovvero, ancor più semplicemente, per coloro che coltivano un rancore crescente contro i padroni che li hanno mandati a combattere e a morire.

E proprio negli anni del centenario della prima guerra mondiale e delle celebrazioni ufficiali retorico-nazionalistiche è ancor più importante – secondo l’autore del saggio – non dimenticare «gli ammutinati delle trincee della Grande Guerra che si ribellarono al fronte, disertando, sparando agli ufficiali, disobbedendo agli ordini dati dai loro carnefici. Sono storie di rifiuto individuale e collettivo, un’insubordinazione, una non-collaborazione contro l’esercito, dettata dall’orrore di una guerra-fabbrica di morte». (p. 8) [si veda a tal proposito il caso dell’ammutinamento della Brigata Catanzaro su Carmilla]
E come è necessario fare riemergere, dal generale e profondo oblio in cui sono stati relegati, gli ammutinati delle trincee, così occorre riconoscere l’importanza che meritano agli Arditi del popolo e alla loro opposizione armata allo squadrismo fascista, che non va confusa – sostiene Staid, sulla scorta delle argomentazioni di Eros Francescangeli – con l’antifascismo delle Brigate internazionali in Spagna o con quello della lotta partigiana, in quanto a «differenza della lotta di liberazione dal nazifascismo, l’opposizione allo squadrismo intentata dagli arditi del popolo venti anni prima non è iscrivibile nel contesto della contrapposizione tra democrazia e totalitarismo, ma si colloca interamente nello scontro sociale, prima che politico fra partiti, leghe, associazioni del movimento operaio da una parte e classe dominante dall’altra». (p. 24)

legaproletaria3_Tornando alla questione dei rapporti difficili tra i gruppi dirigenti dei più importanti partiti politici proletari dell’Italia degli anni Venti e gli Arditi del popolo, nonostante questi ultimi si sviluppino in stretta relazione con la Lega proletaria. Mutilati, Invalidi, Reduci, Genitori e Vedove dei Caduti in Guerra – cioè l’associazione dei reduci proletaria e socialista, trait d’union «tra fabbrica e trincea, tra combattentismo e movimento operaio» (p. 18) e che sorge in aperta polemica con l’Associazione Nazionale Combattenti, accusata di essere un’organizzazione borghese – Staid spiega come innanzi tutto il PSI boicotti gli Arditi popolari perché intenzionato a tentare la via politica del “patto di pacificazione” e della mediazione col nemico fascista, mentre il PCI definisca una posizione di chiusura verso gli Arditi del popolo «poiché, a detta del Comitato esecutivo, costituitisi su un obiettivo parziale e per giunta arretrato (la difesa proletaria), dunque, insufficientemente rivoluzionario. La difesa proletaria doveva realizzarsi esclusivamente all’interno di strutture controllate direttamente dal partito, e gli Arditi del popolo – definiti infondatamente “avventurieri“ e “nittiani“ – dovevano considerarsi alla stregua di potenziali avversari». (p. 32)

Sul piano teorico-programmatico, quindi, la principale critica comunista riguarda una presunta “immaturità” politica di un movimento nato come reazione difensiva all’attacco sferrato dalle squadre fasciste e che non colloca esplicitamente la propria azione in una prospettiva rivoluzionaria finalizzata alla dittatura del proletariato. Sul piano pratico-organizzativo, un comunicato dell’Esecutivo, pubblicato su Il Comunista il 14 luglio 1921, spiega che «L’inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve essere a base di partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici di partito; e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura provenienti da altri partiti o comunque sorte al di fuori del loro partito». (p. 33)

La linea della dirigenza comunista – espressa chiaramente da Ruggero Grieco, che vede negli Arditi del popolo uno strumento della borghesia e in particolare delle manovre antigiolittiane di Nitti – non cambia nonostante al suo interno si delineino posizioni diverse, come quella dell’Ordine nuovo di Antonio Gramsci, che continua a dare voce ai comunicati di Secondari e a diffondere notizie sugli Arditi del popolo e nonostante le parole di apprezzamento per il movimento di Argo Secondari espresse da Lenin sulla Pravda del 10 luglio 1921 o le critiche di settarismo rivolte ai compagni italiani da Bucharin, secondo il quale il PCI avrebbe dovuto entrare nel movimento degli Arditi del popolo, per imprimere in seguito ad esso una forma più marcatamente classista.

Se alle preclusioni socialiste e comuniste si aggiungono le iniziative prefettizie volute dal governo Bonomi e la politica “dei due pesi e delle due misure” di una Magistratura accondiscendente nei confronti di squadristi e ras e severa verso gli Arditi del popolo o altre organizzazioni di difesa proletaria, diviene semplice comprendere perché l’antifascismo armato del biennio 1921-’22 non abbia potuto incidere più di tanto, se non in alcune situazioni particolari.

Solo gli anarchici – afferma Staid – hanno sostenuto pienamente l’arditismo popolare, «sia l’Unione sindacale italiana che l’Unione anarchica italiana furono, per tutto il biennio 1921-‘22, sostanzialmente favorevoli alla struttura paramilitare di autodifesa popolare. […] Il contributo libertario alla lotta armata antifascista incontrò però ostacoli a causa della frammentarietà, della modesta consistenza numerica e della non omogeneità del movimento anarchico e anarcosindacalista». (p. 41)
Anche in questo caso però non mancano completamente perplessità o cautele, dovute innanzi tutto «alla diffidenza propria degli anarchici verso organizzazioni di stampo militare» (p. 41) e in secondo luogo all’assenza di un preciso progetto rivoluzionario libertario all’interno degli Arditi del popolo. Nonostante questo però l’Unione anarchica italiana, riunitasi nell’agosto del ’21 a Roma, decide di appoggiare gli Arditi, mantenendo la propria specificità politica e rispettando quella degli Arditi stessi ed esprimendo – come recita la dichiarazione del 14-15 agosto 1921 – «simpatia e riconoscenza per l’opera di difesa da essi compiuta a vantaggio delle libertà proletarie e popolari». (p. 42)

Il tal modo – secondo Staid – gli anarchici danno concreta esecuzione alla teoria del “fronte unico” antifascista, espressione con cui «intendevano un legame prettamente rivoluzionario, che sarebbe dovuto partire dal basso, a livello locale, fra individui anche appartenenti a partiti politici diversi, ma con un obiettivo minimo comune» (p. 43): vincere le resistenze dello Stato e organizzare la vita e la società su nuove basi.

Occorre ricordare però che se le dirigenze di PSI e PCI negano il loro aiuto agli Arditi del popolo, altrettanto non fanno tanti militanti socialisti e comunisti, che invece aderiscono al movimento e per esempio combattono e con successo sulle barricate di Parma, a cui il libro di Staid dedica il terzo capito e come dimostrano anche le testimonianze dirette dei protagonisti delle giornate dell’agosto 1922 a Parma, di cui l’autore riporta qualche stralcio nel capitolo quarto, raccolte nel 1982 dall’Istituto storico della Resistenza di Parma e dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e confluite nel documentario Le barricate di Parma, di Anna Paola Olivetti e Paola Zanetti (1983). Segue infine una sezione fotografica che dà un volto agli Arditi del popolo e una forma alle barricate di Parma e che arricchisce questo breve, ma interessante libro di Andrea Staid.

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Sta attraversando l’Italia il reading musicato “Arditi del popolo. Le voci dalle barricate” di Andrea Staid. Musiche di Jacopo Tarantino al clarinetto e Jacopo Raimondi al sound design

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Quell’orribile maggio di guerra https://www.carmillaonline.com/2015/11/12/quellorribile-maggio/ Wed, 11 Nov 2015 23:00:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26506 di Sandro Moiso

estate di guerra Luigi Fabbri, La prima estate di guerra. Diario di un anarchico (1 maggio – 20 settembre 1915), a cura di Massimo Ortalli, BFS edizioni, Pisa 2015, pp. 126, € 12,00

Il diario di Luigi Fabbri, recentemente pubblicato dalle edizioni della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, costituisce ancora, ad un secolo dalla sua originaria stesura, un documento davvero straordinario per comprendere da un punto di vista di classe gli avvenimenti che precedettero ed accompagnarono l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915.

Molto è stato infatti scritto su quello che alcuni si attardano ancora a chiamare “maggio radioso”, [...]]]> di Sandro Moiso

estate di guerra Luigi Fabbri, La prima estate di guerra. Diario di un anarchico (1 maggio – 20 settembre 1915), a cura di Massimo Ortalli, BFS edizioni, Pisa 2015, pp. 126, € 12,00

Il diario di Luigi Fabbri, recentemente pubblicato dalle edizioni della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, costituisce ancora, ad un secolo dalla sua originaria stesura, un documento davvero straordinario per comprendere da un punto di vista di classe gli avvenimenti che precedettero ed accompagnarono l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915.

Molto è stato infatti scritto su quello che alcuni si attardano ancora a chiamare “maggio radioso”, sia dal punto di vista storico che documentaristico, ma il diario di Fabbri ci immette direttamente, per così dire, al centro delle aspettative, dei tentennamenti, delle riflessioni e delle delusioni che si svilupparono all’interno di un fronte classista che avrebbe dovuto essere omogeneo e che invece tale non fu.

Tale disomogeneità non fu soltanto dovuta alla tradizionale divisione tra movimenti e partiti di classe e repubblicani oppure tra anarchici e socialisti, ma si manifestò quasi da subito anche all’interno di quelle forze che avrebbero dovuto contrastare radicalmente l’immane carneficina che si andava consumando in Europa a partire dall’anno precedente.

Non soltanto il tradimento di Benito Mussolini o il voltafaccia repubblicano dopo la sconfitta della “settimana rossa” oppure le scelte del sindacalismo rivoluzionario finirono quindi con l’impedire ed ostacolare qualunque presa di coscienza anti-militarista a livello di massa, ma anche l’estremismo di alcuni, l’infantilismo o, peggio ancora, l’opportunismo di singoli militanti contribuì a facilitare l’entrata in guerra dell’Italia, nonostante le numerose manifestazioni di dissenso e di protesta, spesso spontanee, che si erano andate sviluppando tra i lavoratori e i soldati richiamati alla leva fin dai mesi precedenti.

Come afferma Giampietro Berti in uno studio sull’anarchico marchigiano: ”Luigi Fabbri nasce come anarchico nell’ultimo decennio dell’Ottocento – il decennio crispino e della crisi di fine secolo – , ma si esprime come anarchico nell’età giolittiana. C’è quindi una doppia anima nel suo anarchismo. Vi si trova, allo stesso tempo, una componente esistenziale o, per meglio dire sentimentale (vale a dire a-razionale), che lo forma moralmente e politicamente durante gli anni duri ed eroici del movimento operaio e socialista; e una componente razionale che gli permette di dare il meglio di sé durante il primo quindicennio del secolo1

E’ proprio questa sorta di “doppia identità” intellettuale che permette a Fabbri di analizzare con estrema precisione e, talvolta, con mal celata disillusione gli avvenimenti e le scelte che accompagnano l’orribile maggio e i mesi che lo precedono e seguono immediatamente.
Infatti già nel novembre del 1914, in una lettera inviata ad una compagna, “l’anarchico fabrianese si era detto «estenuato e sfiduciato ed anche nauseato.[…] certi momenti mi domando se non sarebbe meglio tacere, e lasciare che la bufera passi, […] lasciare cioè che il popolo s’abbia il governo che merita, i politicanti che merita e la guerra che merita»”2

Nonostante tutto, però, Fabbri continuò a portare avanti sulle pagine di “Volontà”, di cui fu direttore fino al maggio del 1915 dopo la fuga di Errico Malatesta a Londra, una campagna antimilitarista in cui cercò comunque di marcare sempre la differente posizione dei socialisti-anarchici di cui era esponente, sia nei confronti delle altre componenti del movimento operaio, sia delle confuse e rumorose correnti libertarie favorevoli alla partecipazione bellica. Mentre soltanto dopo la definitiva chiusura del periodico libertario decise di affidare le sue riflessioni ad un diario, destinato fin dall’inizio a diventare oggetto di pubblicazione.

Quello che fin dai primi giorni di maggio non mancò di sottolineare fu come quella guerra che doveva essere rapida e breve si stesse rivelando come un immane macello, così come rivelavano le corrispondenze degli stessi giornali borghesi dai fronti già aperti dall’agosto precedente .
No, il popolo non vuole la guerra. Per la parte più incosciente, non aperta alle idee, la guerra non è voluta per ragioni tutt’altro che simpatiche. Eppure tali masse costituiscono la maggioranza stragrande del paese, che subisce passivamente i fatti per legge di adattamento; se la guerra si farà, com’è certo, altrettanto certamente marceranno compatte; – cominceranno col subire la guerra come una sventura, ma finiranno col parteciparvi con tutte le apparenze della buona volontà…fino al giorno in cui non la bestemmieranno, quando ne saranno stanchi o si determineranno fatti che creeranno un prevalente stato d’animo diverso” ( 10 maggio, pag. 33)

Il messaggio di Fabbri è chiaro e valido ancora per l’oggi: una volta iniziata una guerra non si può arrestare, almeno fino a quando non arrivi ad un punto di rottura psicologico, fisico, economico, militare e sociale. “Soltanto se l’opposizione alla guerra sapesse diventare opposizione antimonarchica e passare i ponti della legalità prima della guerra, questa potrebbe essere evitata. Se no, no!” ( pag . 34)

Nei giorni che precedono immediatamente l’entrata in guerra le manifestazioni antimilitariste sono ancora numerose e diffuse: basti pensare che oltre a quelle spontanee, spesso organizzate dal basso dalle famiglie dei richiamati, tra il 1° maggio e il 2 maggio vi furono in Italia più di 400 comizi pubblici rivolti in tal senso. Certamente la stampa borghese tendeva però ad ignorare tale realtà per dare molto più spazio e visibilità a quelle degli interventisti. Lasciati liberi di spadroneggiare sulle piazze in finte rivolte e manifestazioni di protesta, spesso capeggiate da ufficiali e carabinieri. Gli stessi che in caso di manifestazioni operaie e antimilitariste non avevano esitato a prendere e a revolverate la folla.

Sarà lo stesso Fabbri a sottolineare come non siano “le sfuriate pseudo-rivoluzionarie di Mussolini e del suo variopinto contorno a pretese sovversive” (15 maggio, pag. 41) a costituire lo strumento principale della diffusione della propaganda interventista ma, piuttosto, la propaganda della stampa borghese e della sua cultura di stampo “classico” a diffondere anche tra i giovani, studenti soprattutto, l’idea della necessità di una guerra irredentista contro l’Austria.

Peccato soltanto che, per quanto un luogo comune della stampa interventista sia sempre stato quelle delle popolazioni “irredente” in fremente attesa dell’arrivo delle truppe italiane: “Dopo l’inizio della guerra italo-austriaca […] pare ora che in tutto ciò ci fosse molta esagerazione. Sempre più si diffonde la notizia che invece quelle popolazioni mostrino una vera ostilità contro gli italiani. Ciò è confermato dalle notizie, lasciate passare dalla censura,, di interi villaggi che il comando militare ha dovuto far evacuare, internandone gli abitanti, perché essi costituivano un vero pericolo alle spalle delle linee combattenti […] Dovunque si sono eseguite fucilazioni” (21 giugno, pag. 67)

Però, in un contesto pur ancora difficile per i fomentatori del conflitto, gli ostacoli che si frappongono ad una possibile iniziativa di classe sono di varia natura. Intanto l’ambigua posizione del Partito Socialista che, sventolando la parola d’ordine della neutralità, finì con l’accomunarsi ai germanofili e austriacanti nella medesima fiducia in una soluzione ministeriale. ”Se si fosse, unanimemente, adottata da tutti i sovversivi la formula della «guerra alla guerra» e la si fosse sostenuta esclusivamente sul terreno popolare, rivoluzionario e dell’azione diretta, forse, si sarebbe salvaguardata qualche posizione elettorale di meno e si sarebbe corso qualche rischio personale di più, ma si sarebbe rimasti meglio a contatto con l’anima proletaria, si sarebbe ottenuto dalla propria attività un miglior risultato” (14 maggio, pag. 40)

Ma se da un lato l’educazione legalitaria e parlamentarista diffusa tra le masse dai socialisti aveva contribuito a diffondere la paura per le conseguenze di una autentica sollevazione tra le stesse file proletarie, dall’altro la propaganda bellicista poteva valersi delle strida di coloro che atteggiandosi ancora a veri rivoluzionari, giustificavano la partecipazione al conflitto in mille modi, sia tra gli ex-socialisti che tra gli anarchici più esagitati.

Oltre che della repressione e delle misure cautelari preventive cui fu sottoposto chiunque osasse levare la voce contro il conflitto. Come lo stesso Fabbri ebbe modo di vivere sulla propria pelle con un internamento in carcere cui fu sottoposto tra il 22 e il 29 maggio. A queste prime contenute misure seguirà poi l’istituzione di reparti speciali costituiti interamente da sovversivi e ribelli proletari destinati ad “operazioni militari in cui la strage è prevista; dei reparti di truppe devono sgombrare il terreno per gli altri, saggiarlo, rompere i reticolati, ecc. La maggior parte dei soldati che ne fan parte è per ciò condannata a morte sicura.[…] <> hanno scritto dal fronte dei romagnoli” (20 settembre, pag. 121)

E’ solo in questo contesto che è possibile comprendere appieno il ruolo vile e servile svolto da Mussolini nei confronti dell’imperialismo italiano e anglo-francese. Non nell’avere davvero mobilitato milioni di italiani, ma di aver contribuito a diffondere l’autentica lue dell’odio nazionalista ed interventista tra le fila del proletariato allontanandolo dalle autentiche posizioni anti-imperialiste e anti-belliciste che avrebbero potuto condurre la sue lotte a ben altri esiti.
Quanto danno ha fatto quest’uomo, in soli dieci o dodici mesi di attività giornalistica! Quanto odio ha seminato! Quante idee ha contorte e confuse nell’animo di suoi lettori più deboli, più ingenui e più incolti!” (26 agosto, pag 103)

In queste parole si può cogliere tutta la responsabilità, illimitata, di Benito Mussolini nel fuorviare la lotta di classe e la falsità e l’infingardaggine di tutti coloro che hanno cercato e ancora cercano di cogliere e individuare nel fascismo e nel suo duce un’anima proletaria e una differente funzione sociale del suo autoritarismo. Sarà così proprio Fabbri, più che i teorici del Partito Socialista e del nascente PCd’I negli anni successivi al conflitto, ad individuare lucidamente nel fascismo una controrivoluzione preventiva svolta tutta in funzione anti-proletaria e classista.

da fabriano a montevideoIl diario si conclude nei giorni in cui Fabbri è richiamato alle armi, ma molte sarebbero ancora le considerazioni, ivi contenute, degne di essere segnalate per la loro preziosa lucidità ed avvedutezza di giudizio, tanto da rendere la sua lettura un esercizio costante di confronto con le tante opinioni accumulatesi a ”sinistra” sui conflitti e sul dispiegamento politico-militare imperialista così come sull’azione proletaria, sia spontanea che organizzata.

A questo punto però è preferibile segnalare ai lettori l’ampio catalogo dedicato dalla BFS alle opere, alle corrispondenze e alla vita dell’intellettuale e militante anarchico, nato a Fabriano nel 1877 e morto in esilio a Montevideo (Uruguay) nel 1935. Così oltre gli Atti del convegno tenutosi a Fabriano nel 2005 e già segnalati in nota, occorre qui ricordare:

Luigi Fabbri, Epistolario ai corrispondenti italiani ed esteri (1900 – 1935), a cura di Roberto Giulianelli

Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia di un uomo libero

Santi Fedele, Luigi Fabbri. Un libertario contro il bolscevismo e il fascismo

Cui andrebbe ancora aggiunto: Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva. Riflessioni sul fascismo, Zero in condotta, Milano 2009


  1. Giampietro Berti, Il posto di Luigi Fabbri nella storia del movimento anarchico italiano, in Da Fabriano a Montevideo. Luigi Fabbri: vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista, ( a cura di Maurizio Antonioli e Roberto Giulianelli), Atti del convegno tenutosi a Fabriano l’11 e il 12 novembre 2005, BFS edizioni, Pisa 2006  

  2. Roberto Giulianelli, Prefazione a La prima estate di guerra, pag. 10  

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Il sogno di Cafiero https://www.carmillaonline.com/2014/06/03/sogno-cafiero/ Mon, 02 Jun 2014 22:19:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15108 di Sandro Moiso

cafieroPier Carlo Masini, Cafiero, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp. 280, € 20,00

Amici, vediamo di affrettare il più presto che possiamo la rivoluzione, imperocché, lo vedete, i nostri amici si lasciano così morire: o in carcere, o in esilio, o pazzi per forti dolori”. Le parole finali, pronunciate con commozione, del discorso tenuto da Carlo Cafiero ai funerali di Giuseppe Fanelli, già compagno del Pisacane, veterano dell’Internazionale e morto pazzo a 49 anni nel 1877, sembrano contenere una premonizione del destino del Cafiero stesso.

Vita e destino che  nel loro sviluppo e nella loro drammaticità, costituiscono il nerbo [...]]]> di Sandro Moiso

cafieroPier Carlo Masini, Cafiero, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp. 280, € 20,00

Amici, vediamo di affrettare il più presto che possiamo la rivoluzione, imperocché, lo vedete, i nostri amici si lasciano così morire: o in carcere, o in esilio, o pazzi per forti dolori”. Le parole finali, pronunciate con commozione, del discorso tenuto da Carlo Cafiero ai funerali di Giuseppe Fanelli, già compagno del Pisacane, veterano dell’Internazionale e morto pazzo a 49 anni nel 1877, sembrano contenere una premonizione del destino del Cafiero stesso.

Vita e destino che  nel loro sviluppo e nella loro drammaticità, costituiscono il nerbo e la forza di quella che costituisce, di fatto, la biografia più importante dell’internazionalista pugliese e, allo stesso tempo, “l’opera nella quale si riassume e si esalta la vicenda umana e intellettuale del suo autore1.

Pier Carlo Masini (1923 – 1998) può infatti essere considerato uno dei rappresentanti più insigni del lavoro storiografico militante svolto in Italia sul Movimento Operaio e le sue origini.
Amico, sin dalla gioventù, di Gianni Bosio fu da questi invitato ad entrare nel comitato di redazione della rivista “Movimento operaio” fin dalla sua fondazione, ma preferì sempre mantenere la propria autonomia di militante anarchico nei confronti di imprese di carattere più istituzionale, più vicine agli storici di area socialista e comunista.

Questa scelta se, da un lato, ne fece una sorta di “isolato” nel panorama intellettuale italiano del dopoguerra e degli anni successivi, dall’altro gli permise di sviluppare una maggiore attenzione nei confronti di quelle posizioni anarchiche e comuniste che da sempre avevano segnato la specificità del movimento operaio italiano nel suo sviluppo storico. Le “eresie” del movimento operaio, da quelle anarchiche a quelle della Sinistra Comunista Italiana cui avrebbe voluto dedicare uno studio dal titolo “La sinistra dissidente: i gruppi minoritari di sinistra in Italia dal 1926 al 1961”, costituirono infatti, fin quasi al termine dei suoi giorni, il vero campo di indagine dello storico toscano.

Anche se la prima edizione della biografia di Carlo Cafiero uscì nel 1974, gli studi che ne avevano permesso la realizzazione erano iniziati circa 25 anni prima. E se altre furono ancora le opere centrali del lavoro di ricerca di Masini2 , certo il Cafiero costituì un po’ il coronamento di una ricerca durata una vita. E l’attuale riedizione dell’opera è completamente rivista alla luce delle ricerche che l’autore continuò a condurre praticamente fino alla fine dei suoi giorni.

Più volte, nel corso della sua vita, lo studioso si era trovato a ripercorrere fisicamente le orme di Carlo Cafiero; talvolta casualmente e, talaltra, volontariamente come quando, nel 1947, con una comitiva di compagni anarchici aveva percorso il cammino seguito dalla banda del Matese settant’anni prima, nel 1877. Ma quello che avvicina di più lo storico al soggetto del suo studio fu proprio la passione militante che fece sì che molti dei suoi studi facessero spesso la loro prima comparsa nelle riviste militanti di carattere libertario oppure nelle edizioni di Azione Comunista ancor più che in quelle di indirizzo meramente storiografico.

Il motivo di ciò lo si può ben individuare in una lettera, riportata nella postfazione curata da Franco Bertolucci, scritta ad Aldo Venturini, il 23 luglio 1955, dopo che Giangiacomo Feltrinelli aveva allontanato dalla direzione di “Movimento operaio” Bosio per sostituirlo con Armando Saitta.
Saitta, insieme ad altri storici «puri», ha la fissazione del superamento dei limiti «corporativi» della storia del movimento operaio, nel senso che la storia della classe operaia dovrebbe essere parte di una storia unitaria, e quindi in definitiva «l’altra faccia» della storia della borghesia in quanto classe egemone. Questa impostazione, giusta se si limitasse a postulare l’inquadramento della storia del movimento operaio nella storia generale, civile, della società tutta intera, presenta il pericolo di una interpretazione neutra, non militante, di questa storia, o peggio di una sua interpretazione «borghese»” (pag. 251)

Questa opposizione militante ai dogmi ed alle derive istituzionali legate alla storiografia “di partito” sembra richiamare idealmente lo scontro che accompagnò la breve ed intensa vita politica di Cafiero che, dopo essersi avvicinato alla Prima Internazionale in occasione della Comune di Parigi, ebbe poi, soprattutto con Friedrich Engels, un duro confronto proprio sulle modalità di indirizzo e direzione di quella prima esperienza di organizzazione sovranazionale e partitica dei lavoratori.

Engels che, qui occorre dirlo, proprio sul movimento operaio italiano prese una delle sue maggiori cantonate, finendo col liquidare un’esperienza che si andava sviluppando tra mille difficoltà, ma anche con apporti originali ed interessanti, con supponenza, settarismo e autoritarismo prettamente teutonico. E che ottenne come unico risultato quello di fare approdare Carlo Cafiero e il nascente movimento operaio italiano sulle sponde dell’anarchismo bakuniniano.

Brevissima e intensa fu la stagione vissuta politicamente da Cafiero prima che la follia, forse già in lui latente, lo trascinasse fuori dal mondo e lo immettesse nel circuito dei manicomi e dell’interdizione. Poco più di dieci anni, tra il 1871 e il 1883.
Un ex-leader del Movimento Studentesco, anni fa, scrisse un libro di memorie sul ’68 intitolandolo presuntuosamente “Formidabili quegli anni”. Come si sarebbe potuta intitolare, allora, un’opera dedicata alla vita del militante anarchico ottocentesco?

Dalla adesione alla Prima Internazionale alla prima traduzione italiana del primo libro del Capitale di Marx in compendio; dalla promozione delle assemblee internazionali di lavoratori da cui sarebbe scaturita l’Alleanza Internazionale dei Lavoratori e dal primo esperimento guerrigliero-insurrezionale in chiave socialista sulle montagne del Matese fino alla formazione del primo raggruppamento politico socialista degli operai in Italia.

Questo lo straordinario percorso di un rivoluzionario che, proveniente da una famiglia agiata e ricca del Sud, spese fini all’ultimo quattrino per favorire la causa rivoluzionaria, riducendosi in miseria. Come testimonia un rapporto della questura di Milano del 1882: “Pel trionfo del suo programma e della lotta internazionale ha sciupato tutto il suo patrimonio di qualche centinaio di migliaia di lire, sussidiando i compagni e somministrando loro i mezzi per la distruzione della proprietà e dell’ordine attuale e per la guerra fra le classi sociali” (pag. 3).

Un’esperienza che, al contrario di quanto pensato da Engels, proiettò il nascente movimento operaio italiano in un ambito internazionale rendendolo da subito protagonista centrale delle lotte dell’ultimo quarto del XIX secolo. Accanto ai terroristi e ai populisti russi che all’epoca avevano iniziato a scuotere il modo ad Oriente come ad Occidente e di cui Cafiero finì con lo sposare, con esiti deludenti per entrambi, una delle rappresentanti più sconosciute, Olimpiada Kutuzova, che aveva percorso a piedi migliaia di verste nella steppa russa per fuggire dalla prigionia siberiana.

Ma molti altri nomi entrano nella sua biografia: da Michail Bakunin, con cui fu legato da un autentico rapporto di collaborazione e, talvolta, di amore-odio dovuto alla spendaccioneria del secondo, a Errico Malatesta con cui condivise la militanza e, anche, la partecipazione al fallito moto insurrezionale del Matese. Dalla bellissima Anna Kuliscioff, donna intelligente e indipendente di cui sicuramente si innamorò, ad Andrea Costa da cui fu separato sia a causa dell’amore per la stessa Kuliscioff sia, soprattutto, per le scelte politiche che questi avrebbe fatto a favore dello strumento partitico e parlamentare. Ma in cui, alla fine, lo stesso Cafiero, rassegnandosi un attimo prima della follia, riconobbe l’inevitabile passaggio verso la maturità politica del movimento.

Nato il 1° settembre del 1846 da una famiglia benestante di Barletta, “ben accetta a Dio, al re, alle banche e perfino agli elettori” (pag. 2), e dopo aver lasciato gli studi presso il seminario vescovile di Molfetta per seguire gli studi in Legge presso l’Università di Napoli, Cafiero fu, fino ai 24 anni, un giovane di bell’aspetto e dai modi elegantissimi, amante della vita mondana, del teatro e delle donne. Che nel 1870 si trovava a Parigi, ma che alle prima avvisaglie della guerra franco-prussiana lasciò per recarsi a Londra.

Qui, proprio in occasione della Comune di Parigi entrò in contatto con Marx ed Engels da cui “venne incaricato di recarsi subito in Italia per accertare lo stato del movimento e imprimergli un orientamento rispondente all’indirizzo del Consiglio Generale” dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (pag. 11).

Da quel momento Carlo sarebbe diventato non solo la pecora nera della sua famiglia che, come riferiva ancoro lo stesso rapporto della Questura di Milano, “non condivide ma deplora i suoi principi di condotta”, ma anche uno degli uomini su di cui si concentrò maggiormente l’attività di indagine e repressione delle Questure d’Italia. E fu la Comune, più ancora che la teoria del nascente socialismo scientifico, l’impulso decisivo per Cafiero, così come per tanti altri giovani italiani, a incamminarsi dietro le bandiere dell’Internazionale3 .

A partire da questo punto, con tutte le rotture e le scelte che ne seguiranno, ebbe origine una vita intensa (conclusasi a 46 anni nel 1892), una militanza quasi unica che portava in sé già tutti i germi dell’anomalia o dell’eresia italiana all’interno del Movimento Operaio. Una specificità che si sarebbe manifestata negli anni a venire non solo nella diffusione del movimento anarchico, ma, anche, nella formazione di un socialismo che sarebbe poi sfociato, con la nascita del PC d’I di Amadeo Bordiga, in una delle esperienze più radicali del comunismo novecentesco e di cui il pensiero di Gramsci avrebbe costituito soltanto uno smorto riflesso.

Un percorso che dagli ideali risorgimentali e democratico-borghesi avrebbe portato, già nello stesso Cafiero, all’intuizione di una società altra e che ebbe nel Sud d’Italia e, soprattutto a Napoli vista alla fine dell’ottocento come la polveriera d’Italia, uno dei suoi centri principali di evoluzione.
In cui il comunismo a venire non sarebbe più stato frutto dell’Utopia, ma ben radicato nelle lotte dei lavoratori, nella loro autonomia politica, nel contributo degli intellettuali che tradivano la loro classe d’appartenenza e nello sviluppo delle conoscenze tecnico-scientifiche. Un sogno dirompente che, forse inconsapevolmente, anche Lenin avrebbe fatto in seguito suo quando, nelle pagine del Che Fare?, avrebbe affermato che bisogna sognare!4

E’, dunque, quella di Masini un’opera da leggere e da studiare, pagina dopo pagina, per chiunque sia interessato alla storia del movimento operaio. Di cui non costituisce soltanto un’analisi delle origini, ma che proietta già il lettore in tutte le problematiche che questo ha dovuto e deve ancora affrontare nel suo percorso di liberazione dalla schiavitù salariale e dallo sfruttamento coatto dell’umanità.
Un testo che costituisce un autentico modello di indagine e di storiografia militante ed è davvero con orgoglio che la Biblioteca Franco Serantini di Pisa può rivendicarne la pubblicazione della nuova edizione ampliata.

Per finire, un libro appassionante, anche per la scelta operata dell’autore che, in una lettera del 1973, rivelava, in questi termini, di essere ben conscio della sua struttura espositiva: ”Devo precisarti che da vent’anni a questa parte i miei interessi si sono spostati da una angolazione storico-politica a quella storico-socio-psicologica. Insomma di Cafiero mi ha interessato e mi interessa molto di più delle sue vicende avventurose ed esterne (alle quali ho dato peraltro il dovuto spazio), la sua vicenda umana, la sua personalità, le ragioni della sua pazzia. Ma tutto questo giova ad una trascrizione drammatica e rende più moderna una interpretazione della figura” (pag. 268)


  1. Franco Bertolucci, Postfazione. Pier Carlo Masini, gli studi su Cafiero e la Prima Internazionale, pag. 233  

  2. Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, 1969; Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati, Rizzoli 1981 e, ancora, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana, Milano 1978  

  3. Si veda anche a tal proposito Maria Grazia Meriggi, La Comune di Parigi e il movimento rivoluzionario e socialista in Italia (1871 – 1885), La Pietra, Milano 1980  

  4. Ecco che cosa bisogna sognare!
    “Bisogna sognare!”. Scrivendo queste parole sono stato preso dalla paura. Mi è sembrato di trovarmi al Congresso di unificazione e di avere in faccia a me i redattori ed i collaboratori del Raboceie Dielo. Ed ecco il compagno Martynov alzarsi ed esclamare minacciosamente: “Scusate! Una redazione autonoma ha il diritto di ‘sognare’ senza l’autorizzazione preventiva dei comitati del partito?”. Poi si alza il compagno Kricevski, il quale (approfondendo filosoficamente il compagno Martynov che ha da molto tempo approfondito il compagno Plekhanov) continua ancora più minaccioso: “Dirò di più. Vi domando: ha un marxista il diritto di sognare se non ha dimenticato che, secondo Marx, l’umanità si pone sempre degli obiettivi realizzabili e che la tattica è il processo di sviluppo degli obiettivi che si sviluppano insieme con il partito stesso?”.
    La sola idea di queste domande minacciose mi fa venire la pelle d’oca, e non penso che a trovare un nascondiglio. Cerchiamo di nasconderci dietro Pisariev.
    “C’è contrasto e contrasto – scriveva Pisariev a proposito del contrasto fra il sogno e la realtà. – Il mio sogno può precorrere il corso naturale degli avvenimenti, ma anche deviare in una direzione verso la quale il corso naturale degli avvenimenti non può mai condurre. Nella prima ipotesi, non reca alcun danno; anzi, può incoraggiare e rafforzare l’energia del lavoratore… In quei sogni non c’è nulla che possa pervertire o paralizzare la forza operaia; tutt’al contrario. Se l’uomo fosse completamente sprovvisto della facoltà di sognare in tal maniera, se non sapesse ogni tanto andare oltre il presente e contemplare con l’immaginazione il quadro compiuto dell’opera che è abbozzata dalle sue mani, quale impulso, mi domando, l’indurrebbe a cominciare e a condurre a termine grandi e faticosi lavori nell’arte, nella scienza e nella vita pratica?… Il contrasto tra il sogno e la realtà non è affatto dannoso se chi sogna crede sul serio al suo sogno, se osserva attentamente la realtà, se confronta le sue osservazioni con le sue fantasticherie, se, in una parola, lavora coscienziosamente per attuare il suo sogno. Quando vi è un contatto tra il sogno e la vita, tutto va per il meglio”. Di sogni di questo genere, disgraziatamente, ce ne sono troppo pochi nel nostro movimento. La colpa è soprattutto dei rappresentanti della critica legale e del codismo clandestino, tronfi della loro lucidità e del loro senso del concreto.
    (Lenin, Che fare?, Einaudi 1971, pp.196 – 197)  

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