erotismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nulla di cui vergognarmi: Aleister tra talamo e dungeon https://www.carmillaonline.com/2024/11/02/nulla-di-cui-vergognarmi-aleister-tra-talamo-e-dungeon/ Sat, 02 Nov 2024 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85038 di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Bagh-i-muattar. Profumi dal giardino di Abdullah, a cura di Vittorio Fincati, pp. 191, € 14, Studio Tesi, Roma 2019.

William Seabrook, Gli oscuri segreti di Aleister Crowley, a cura di Gabriele Scalessa, pp. 260, € 14, Arcoiris, Salerno 2024.

 

O uomo! come io posso discorrere con te, che non hai giaciuto sopra un letto, aspettando, timoroso, non si sa bene cosa; trepidante, balbettando sciocchezze per far finta di conversare; i tuoi occhi si chiudono per paura che tu non debba vedere la mossa del tuo amante e forse (oh, il peggiore dei mali!) che non [...]]]> di Franco Pezzini

Aleister Crowley, Bagh-i-muattar. Profumi dal giardino di Abdullah, a cura di Vittorio Fincati, pp. 191, € 14, Studio Tesi, Roma 2019.

William Seabrook, Gli oscuri segreti di Aleister Crowley, a cura di Gabriele Scalessa, pp. 260, € 14, Arcoiris, Salerno 2024.

 

O uomo! come io posso discorrere con te, che non hai giaciuto sopra un letto, aspettando, timoroso, non si sa bene cosa; trepidante, balbettando sciocchezze per far finta di conversare; i tuoi occhi si chiudono per paura che tu non debba vedere la mossa del tuo amante e forse (oh, il peggiore dei mali!) che non si spaventi di te; timoroso, oh! infinitamente timoroso per paura che si spaventi, per paura che potrebbe lasciarlo per te a dire le dolci parole (oh, le guance arrossate, le labbra morsicate!) il cui fuoco interiore accenderà il grande incendio? Come discorrere con te, il cui udito accelerato non lo ha conosciuto strisciare sempre più vicino, ancora spaventato di toccarti, non ha udito il battito del suo cuore, l’affanno del suo respiro? Come discorrere, se non hai provato un piede tremante che ti cerca, una mano furtiva sempre più vicina?

 

Il punto di forza della mia posizione è che non c’è nulla nella mia vita di cui io debba vergognarmi.

 

Nella sua sgomitante irriducibilità a qualunque tentativo di lottizzazione ideologica, nella sua impresentabilità a dibattiti moraleggianti, nell’eclettismo lisergico che continuamente sorprende su tanti fronti diversi, Aleister Crowley resta un mattatore delle librerie. E non stupisce che solo nell’ultimo periodo, oltre a tutti gli altri volumi che lo evocano – alcuni evergreen per studiosi di occulture, altri ripescaggi di un certo successo per un pubblico popolare –, siano usciti vari significativi testi legati a lui, sue opere tecnico-occultistiche o invece letterarie o studi sul suo lavoro. Nell’ampio pelago dell’offerta, anche per dar conto della varietà dei materiali, può aver senso ricordare due titoli: uno uscito da un po’ di tempo e l’altro fresco di stampa. Possono trovare un punto d’incontro superficiale su una nota comune un po’ pruriginosa, ma a livello più profondo danno conto della latitudine di un’esperienza culturale.

Bagh-i-muattar (“Giardino profumato” in persiano), concepito in India nel 1905, uscito anonimo a Parigi – non a Londra come in frontespizio, mai avrebbe passato la censura britannica – nel 1910 in sole duecentodieci copie, è un apocrifo varato dal Nostro, a ipotetica traduzione di un inedito persiano, attribuito a un fantomatico Abdullah El Haji, cioè Abdullah il verseggiatore, definito satirist in assonanza con satyr, satiro – il titolo di frontespizio suonerebbe Bagh-i-muattar. Il giardino profumato di Abdullah satirista di Shiraz, “Tradotto da un raro manoscritto indù del defunto maggiore Lutiy e da ‘un altro’”. Curato da uno specialista di esoterica, Vittorio Fincati, il testo si presenta in realtà come un disinvolto mix di prosa e poesia a carattere omoerotico, sul modello di scritti mistici islamici come quelli del verseggiatore Hafez che vedono l’amore per il divino – si pensi solo al biblico Cantico dei cantici – assumere forme di eros vivaciotto (doppi sensi à gogo, una dimensione un po’ luridamente scatologica) per un giovinetto.

Che per il bisessuale Crowley questa figura di fantasia rifranga il suo innamoramento appassionato per Herbert Charles Pollitt – si può non concordare con il curatore quando commenta “ma per amore, conoscendo Crowley, dobbiamo intendere una pura concupiscenza carnale”, a fronte di pagine delle sua vita dove qualche inaspettato sentimento, certo non nel segno della castità, pare paradossalmente emergere – può interessare fino a un certo punto: l’amasio del satirist, da un punto di vista narrativo e poetico, è qui una funzione più che un personaggio reale. E a trionfare in questi versi, tra venature sataniche o piuttosto sethiane, beffe ai monoteismi, affettazioni di conoscenze un po’ farlocche (il fatto che il suo presunto consulente, un preteso erudito indostano, si chiami Tantra come la celebre dottrina filosofico-sessuale, pare dirla lunga) è la sodomia evocata negli aspetti più crudi ma disvelata come la chiave per “il più grande segreto dell’universo”. Dove al netto dell’oscenità (pederastia compresa, “non ha fatto altro che tentare di scrivere dei ‘Priapeia sub specie orientalis”) emerge talora qualcosa del Crowley poeta non disprezzabile. Il tutto glossato da considerazioni e note dal sembiante colto, e cifrato di minuziose informazioni magiche, insieme beffa per scandalizzare e irridere la religione tradizionale e forma di rivelazione esoterica – secondo una spiazzante procedura circolare presente in tutta la sua opera.

L’Introduzione dal sapore di autofiction è come al solito una compilazione dotta infarcita di scherzi maliziosi, dove Crowley si presenta come editore del volume; segue un articolo Sulla pederastia nello stesso spirito, evocando il Sir Richard Burton esploratore e pornografo, i sessuologi dell’epoca, i luoghi comuni puritani della sua Inghilterra. Seguono i testi, lirici e prosastici, con tanto di elenco I servitori di Belzebù, speculazioni sul formalismo religioso e l’incapacità del pensiero di percepire la realtà, ricette di afrodisiaci e tecniche erotiche… Dove l’interesse principale di questo testo semidimenticato, meritoriamente riproposto da Fincati, sta nel peso-chiave di un certo tipo di fantasie – in parte ovviamente ulceranti per la nostra sensibilità, come a proposito di pederastia – in quei pensiero & prassi di Crowley oggi letti in forme spesso un po’ modaiole e soft. Un destino che lo accomuna, in questo nostro tempo di Cinquanta sfumature frufru, a un altro grande provocatore a lungo considerato immenzionabile, cioè Sade.

In chiusura, un’affascinante e originalissima Appendice lumeggia la presenza di Crowley nella stampa francese, a partire dal 1894; e questi testi, insieme ad alcuni versi della raccolta (“Tu mi appartieni; infatti ti ho battuto da farti male: / più della tua bellezza mi piacciono le tue cicatrici”…) e proprio alla memoria di Sade introducono idealmente al secondo volume.

Giornalista su testate importanti e scrittore, William Seabrook (1884-1945) è oggi conosciuto soprattutto per The Magic Island (1929), il suo reportage sul Vudu ad Haiti che ha offerto allo zombie una notorietà pop tramite l’influsso sul film White Zombie di Victor Halperin (1932, con Bela Lugosi). Ma in realtà Seabrook scrive parecchi volumi, di viaggio (in Arabia, a Timbuctù…) e non. Si sarebbe tentati di definire i suoi interessi – è scettico, ma l’occulto lo strega – come di tipo antropologico, se non fosse che si spingono a esiti ben più radicali, coinvolti e torbidi (come quando si impunta per assaggiare la carne umana). Appassionato cultore del S/M in un mondo in cui non si usa parlarne tanto, morirà suicida per overdose di droga nel settembre 1945. Nel 2017 è uscita la sua biografia in forma di graphic novel, The Abominable Mr. Seabrook di Joe Ollmann (Drawn & Quarterly Pubns), testimone di un interesse pop per un personaggio tanto estremo. In compagnia di Crowley – i cui rituali non sono privi di qualche pratica sadomaso – il morbosetto Seabrook si trova senz’altro bene.

Proprio dai dialoghi con la Bestia (ospitata per una settimana nella sua fattoria in Georgia, autunno 1919), Seabrook trae nel 1923 una serie di dodici pezzi giornalistici per “The Indianapolis Star”. A presentarli ora nella bella collana “La Biblioteca di Lovecraft” per Arcoiris è Gabriele Scalessa, già apprezzato curatore di varie opere weird: si parte con un breve saggio illustrativo sul profilo della Bestia 666, utile a contestualizzare i racconti di Seabrook; segue una Nota biografica su quest’ultimo, e poi il testo – riccamente annotato – degli Oscuri segreti di Aleister Crowley, a riprendere liberamente il lunghissimo titolo della serie: anche se in realtà, a leggere attentamente, di Secrets da svelare (anche solo farlocchi, per autofiction del vanitoso Crowley) ormai non ce ne sono molti, il personaggio è studiatissimo. Ma il racconto è gustoso, vivido, e punteggiato di impagabili, eleganti, scandalistiche tavole d’epoca, per cui merita assolutamente la lettura. In Appendice, la traduzione delle pagine dedicate a Crowley nel saggio di Seabrook Witchcraft: Its Power in the World Today (1940).

]]>
Da certe conchiglie non è il mare a sentirsi https://www.carmillaonline.com/2022/07/18/da-certe-conchiglie-non-e-il-mare-a-sentirsi/ Mon, 18 Jul 2022 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72946 di Franco Pezzini

Ivo Torello, La casa delle Conchiglie, prefaz. di Paolo Di Orazio, pp. 420, € 16,90, Hypnos, Milano 2018.

Di norma si può nutrire una certa diffidenza per la letterarizzazione dei bordelli, spregiudicate fabbriche di sfruttamento del corpo femminile. L’arte concede tuttavia dei lasciapassare: pensiamo soltanto a certe pagine del Satyricon, con il sapore onirico e straniante accentuato dalla perdita di interi stralci del testo, o alle fulminanti, meravigliose e terribili scene postribolari evocate da Füssli, colte come da un buco della serratura con quel tanto di febbre sufficiente [...]]]> di Franco Pezzini

Ivo Torello, La casa delle Conchiglie, prefaz. di Paolo Di Orazio, pp. 420, € 16,90, Hypnos, Milano 2018.

Di norma si può nutrire una certa diffidenza per la letterarizzazione dei bordelli, spregiudicate fabbriche di sfruttamento del corpo femminile. L’arte concede tuttavia dei lasciapassare: pensiamo soltanto a certe pagine del Satyricon, con il sapore onirico e straniante accentuato dalla perdita di interi stralci del testo, o alle fulminanti, meravigliose e terribili scene postribolari evocate da Füssli, colte come da un buco della serratura con quel tanto di febbre sufficiente a sprofondarle in una dimensione da incubo. Se del resto a regnare non è un clima di equivoca estetizzazione di un recinto di fantasie maschili, e tanto più quando le letture virano iconoclasticamente sull’ironico e il grottesco, il visionario e il fantastico, possiamo evitarci inutili pruderie nella considerazione che una società possa leggersi anche da quel punto di osservazione.

Come nel bellissimo, coltissimo, fantasiosissimo La casa delle Conchiglie di Ivo Torello: un romanzo di genere non scevro da vere e proprie qualità letterarie, con soluzioni anche di grande eleganza.  Un trionfo di intelligenza, cultura e fantasia nella messa in scena, tra pseudobiblia, afrodisiaci luciferini e sedute spiritiche, dietro il paravento di un bordello assai particolare, la Maison des Coquillages dal salone centrale incastonato di ammoniti fossili e tappezzata di opere di Courbet, Gérôme, Daumier, Chéret e Doré; una mitologica, fantomatica casa di piacere della Montmartre borghese degli anni Sessanta dell’Ottocento frequentata in modo più o meno costante dall’intero panorama di pittori, fotografi, scrittori, musicisti, agitatori culturali che associamo a quella Parigi. Dumas, Nadar, i Goncourt, Bizet, Camille Flammarion, Moreau, ovviamente Courbet in odore di L’origine du monde

A gestire l’intrapresa è una fantastica figura femminile, Madame Dauphine Sabatière che presto diverrà vedova de La Châtre, “una trentenne volitiva, colta e bellissima, elegante e scaltra come una gatta”. Oh, non aspettiamoci che Madame rispetti tutte le norme dei catechismi ecclesiali o laici, e neppure che faccia sempre le scelte giuste – come quando, per un certo orripilante rituale di magia nera consigliato nel Cultes Innommables del von Junzt (il lettore di fantastico dovrebbe già drizzare le orecchie), si procura imprudentemente un cadavere senza informarsi dei trascorsi del medesimo. Ma lei e la sua squadra – quasi tutte donne, comprese le sceltissime ragazze nelle quali ravvisa il petit voyant, “la piccola luce ‘che brilla nell’occhio delle signore quando si accenna loro ai misteri della natura’” e che lì hanno una libertà professionale del tutto inedita per un bordello – riescono a far fronte a un mondo non certo femminista con virtuosistica abilità.

Impensabile banalizzare in un riassunto le infinite avventure offerte da questo tripudio gotico e romantico, in un brillante e originalissimo mix di arte, magia nera, sessuologia e storia della cultura dove il fantastico esonda, compreso quello dell’erotica che ne ricorda le dimensioni teatrali, antinaturalistiche e fittizie, in sostanza fantastiche. Un libro scritto per il puro piacere della scrittura, alieno dal desiderio di compiacere chicchessia, e che dunque si lascia andare al divertimento e allo sberleffo (in chiave erotica, perché no), con una sincerità rara: sberleffo anche a un certo horror alla moda dell’oggi, che celebrando e banalizzando Ligotti e altri alfieri del Nero, celebra l’iperviolenza sterile, il maledettismo ripiegato su se stesso, un certo uso gratuito dell’angoscia e – fuori tempo massimo – dello splatter. Comprese le sacrestie dei finti outsider fitte di devoti a un Lovecraft premasticato: e in effetti qui troviamo – con benvenuta vis polemica – entità paralovecraftiane adorate dai beceri cultisti dell’Ordine del Dio Dormiente o Confraternita di Dagon, evolianamente maschilisti, compiaciuti nella messa in scena distorta e distorcente di copioni che hanno preteso di arraffare, credendo di celebrare il politicamente scorretto e corteggiando solo un modaiolo grottesco. Non è forse un caso che gli odierni cultisti di HPL sminuiscano la carica critica di questo bel romanzo. Regolarmente penalizzato anche dall’algoritmo bacchettone dei social, cieco e idiota come certe entità lovecraftiane: il seno all’aria sulla copertina (“L’orrore. L’orrore…”) sembra recare problemi più gravi agli uomini di Zuckerberg di certi repellenti post o gruppi neofascisti. Il che, diciamolo, stupisce moderatamente.

]]>
L’arte di intonare i mammiferi morti https://www.carmillaonline.com/2017/06/29/larte-intonare-mammiferi-morti/ Wed, 28 Jun 2017 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38991 di Sandro Moiso

Hans Rickeit, The Squirrel Machine, Eris, Torino 2017, pp. 190, € 16,00

L’ambientazione vittoriana della fiaba poco educativa, recentemente pubblicata in italiano da Eris Edizioni, rinvia sicuramente, per le autentiche diavolerie tecnologiche rappresentate nelle bellissime tavole di Hans Rickeit, all’immaginario steampunk. Ma, in realtà, nello sfogliare, osservare, leggere e divagare sulle sue pagine i riferimenti più prossimi sembrano essere piuttosto “L’arte dei rumori” di Luigi Russolo, i “Quaderni di un mammifero” di Erik Satie, il cinema onirico di David Lynch e il delirio erotico-libertino del “divin marchese” De Sade.

[...]]]>
di Sandro Moiso

Hans Rickeit, The Squirrel Machine, Eris, Torino 2017, pp. 190, € 16,00

L’ambientazione vittoriana della fiaba poco educativa, recentemente pubblicata in italiano da Eris Edizioni, rinvia sicuramente, per le autentiche diavolerie tecnologiche rappresentate nelle bellissime tavole di Hans Rickeit, all’immaginario steampunk. Ma, in realtà, nello sfogliare, osservare, leggere e divagare sulle sue pagine i riferimenti più prossimi sembrano essere piuttosto “L’arte dei rumori” di Luigi Russolo, i “Quaderni di un mammifero” di Erik Satie, il cinema onirico di David Lynch e il delirio erotico-libertino del “divin marchese” De Sade.

Potrebbe apparire strano che nell’elencare i possibili riferimenti per un’opera a fumetti manchino completamente i riferimenti ad autori e lavori che si muovano nel settore dei comics, ma la potenza espressiva e simbolica, oltre che onirica, delle tavole di Hans Rickeit è tale da superare qualsiasi paragone con altri disegnatori. Al massimo, per certi aspetti del rapporto tra corpo e macchina , si potrebbe ancora fare riferimento a “Tempi moderni” di Charlie Chaplin e al “Tetsuo” di Shinya Tsukamoto oppure al teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ancora film e teatro, ancora autori visionari seppur di epoche differenti.

L’unico autore di fumetti cui Rickeit sembra essere debitore è sicuramente Winsor McCay che con il suo Little Nemo, pubblicato sul supplemento domenicale del New York Herald tra il 1905 e il 1911 e successivamente su quelle del New York American tra il 1911 e il 1913, raggiunse agli inizi del XX secolo vertici simili, sia per complessità e bellezza delle tavole che per dimensione onirica. Cosa che spinse il pubblico dei tempi a costringere McCay a riprendere ancora il suo personaggio tra il 1924 e il 1927 (nuovamente sul New York Herald).

L’autore, statunitense, è nato nel 1973 a Ashburnham, Massachusetts, in quella parte di America dove sembrano essersi concentrati tutti gli incubi dei Padri fondatori e del loro puritanesimo. E proprio dagli incubi e dai suoi sogni il cartoonist americano ammette di trarre gran parte dei suoi materiali, fin dalle short stories e dai cortometraggi che hanno agli inizi caratterizzato il suo percorso artistico ed espressivo. Così, tenendo conto che Rickeit si è anche esibito talvolta con la musicista Katt Hernandez,1 si può affermare che il disegnatore americano, pur avendo scelto il cartoon come suo principale strumento d’espressione, sia nei fatti un artista multimediale.

D’altra parte le vicende di The Squirrel Machine sono difficilmente narrabili dal punto di vista di una logica consequenziale oppure “romanzesca”, mentre il flusso delle immagini che rivelano poco per volta le vicende dei due protagonisti, i fratelli Edmund e William Torpor, e di coloro che li circondano, appartengono di più al mondo del sogno o dell’improvvisazione musicale, quando questa abbandona la partitura per rivelarci mondi e sonorità, impressioni e sensazioni inaspettate. Talvolta deliziose e talvolta inquietanti.

Il titolo stesso può essere tradotto in italiano sia come La macchina scoiattolo, con un richiamo alle macchine che sfruttano i corpi morti degli animali presenti nelle vicende narrate, sia come La macchina (molto) eccentrica, più adatto il secondo a definire gli strumenti utilizzati ed inventati (forse soltanto sognati?) dai fratelli Torpor e la “macchina narrativa” costruita dall’autore.

Addentratevi in questo mondo con la mente aperta e senza nutrire aspettative. Datevi tempo per entrarci dentro, tenendo questo libro poggiato sul comodino. Leggetene una manciata di pagine prima di addormentarvi, come per un rito preparatorio. Vi è mai successo di sognare di cadere e durante la caduta rendervi conto di essere in un sogno, e ricordarvi di aver già sognato più volte quella caduta nella vostra vita, e al risveglio ricordarvi nel dormiveglia il sogno con chiarezza «sapendo» che il «ricordo» dei sogni precedenti non era che parte di un sogno che stavate facendo per la prima volta? Gli attori dell’opera di Hans sono in caduta continua, e nella caduta ogni cosa è uguale”. Così afferma E. Stephen Frederick in una sorta di introduzione al testo e non potrebbe riassumere meglio la sensazione che si prova leggendolo.

Una caduta del lettore e della sua immaginazione in un vortice di macchine sonore che sembrerebbero tratte direttamente dagli intona-rumori di Luigi Russolo, se non fossero invece realizzate con teste di maiali, carcasse di vacche e piccoli scoiattoli morti o meccanizzati. Un vortice in cui la caduta, seppur tragica nel finale, è pur sempre estremamente liberatoria. Una caduta in cui le storie di ragazzine vittoriane, destinate a perdere l’innocenza e la vita, si accompagnano alle vicende di una sorta di affascinante e maledetta Circe campagnola, a giovani amanti che si accoppiano tra improbabili ingranaggi oppure che fanno l’amore tra milioni di lumache, e a quelle della madre dei due fratelli, sospesa quest’ultima tra una perversa attività creativa, la malattia mentale e il puritanesimo di facciata più rigido allo stesso tempo.

Un mix di situazioni in cui il “delitto” artistico ci attende sempre appena dietro la porta, come nella migliore musica contemporanea e nell’improvvisazione che la caratterizza. Un viaggio in cui Rickeit, come un hobo americano degli anni Venti, salta da un treno in corsa ad un altro, da una carrozza all’altra, senza preoccuparsi che noi, gli inseguitori, si riesca davvero a stargli dietro e non si finisca invece stritolati dalle ruote dell’ingranaggio. Annullamento che, però, potrebbe rivelarsi piacevole poiché di incubi inquietanti si tratta, ma mai terrorizzanti.

L’arte è pericolosa. O dovrebbe esserlo. Il suo scopo non è quello di tranquillizzare.
E’ lo stesso Rickeit ad affermarlo in una recente intervista rilasciata in occasione del Napoli Comicon 2017,2 in cui ha rivelato anche altri aspetti del suo lavoro: “Ai miei occhi le macchine sono sia estensioni delle persone che replicanti. Per me le persone sono oggetti, oggetti con il dono della consapevolezza. Non so da dove venga la loro scintilla vitale ma sono tutti oggetti preziosi e c’è poca differenza. Il confine tra persone e cose è labile.”

In queste premesse sta probabilmente il segreto della complessità e, allo stesso tempo, dell’attrattiva esercitata da The Squirrel Machine sul lettore: una sorta di metafora della ricerca e della libertà di espressione artistica in cui, proprio come succede ai due fratelli protagonisti del fumetto, l’autore è semplicemente un tramite che non crea, ma che si limita a “fare” ciò che la realtà o i sogni di cui si alimenta gli suggeriscono. Fino alle più estreme conseguenze.
Dando così vita ad un vertiginoso viaggio nel perturbante e nel gotico americano, quell’autentico magma di desideri, paure e rimozioni che si agitano appena sotto la superficie di tanta letteratura (da Poe ad Hawthorne o all’attuale Ligotti), pittura e musica popolare statunitense.

A questo punto, per concludere il discorso, si rende però necessario tornare con la mente a Isidore Isou, fondatore del Lettrismo e precursore dell’Internazionale Situazionista, che negli anni ’50 immaginava una nuova architettura in grado di “far emergere i desideri dimenticati e la creazione di desideri totalmente nuovi” utilizzando “In luogo dei vecchi materiali poveri e limitati (legno, mattone, metallo) – altri totalmente – “nuovi: fiori, libri, legumi, comete, meteore, farfalle o elefanti, o parti di cadaveri o esseri viventi“.3 Assunto, allo stesso tempo artistico, politico e psichico, che Rickeit, con le sue immagini, sembra realizzare compiutamente, anche se forse inconsapevolmente.

Una perfetta lettura per le vacanze di chiunque abbia ancora tempo per il sogno, anche ad occhi aperti. Una sorta di livre de chevet da tenere sempre a portata di mano per far fronte alla calura e alla noia estiva. Da riprendere a leggere in qualsiasi punto e da qualsiasi pagina, procedendo in avanti oppure all’indietro come forse ogni buon libro dovrebbe permettere di fare al lettore. Magari in attesa che, in un prossimo futuro, le edizioni Eris vogliano offrirci la versione italiana di un’altra magnifica opera di Rickeit: Cochlea & Eustachia (di cui si propone un assaggio con la tavola riprodotta qui a fianco).


  1. Nata nel 1974 ad Ann Arbor nel Michigan, la violinista si è dedicata fin dagli esordi alla musica microtonale e all’improvvisazione e vive oggi a Stoccolma pur mantenendo forti legami con gli ambienti artistici di Boston e Filadelfia  

  2. http://www.panorama.it/cultura/fumetti/hans-rickheit-the-squirrel-machine-intervista/  

  3. Mirella Bandini, L’estetico e il politico, Officina Edizioni, Roma 1977, pag.47  

]]>