eroina – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 21 Jan 2025 21:20:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Wonder Woman: cambiare prospettiva, ribaltare lo sguardo https://www.carmillaonline.com/2022/10/30/wonder-woman-cambiare-prospettiva-ribaltare-lo-sguardo/ Sun, 30 Oct 2022 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74401 di Gioacchino Toni

Il supereroismo nella cultura di massa, con il suo portato di paradigmi ideologici e apparati normativi e comportamentali è stato indubbiamente a lungo rivolto al solo universo maschile. I supereroi della Golden Age, con tutte le loro virtù ed eccellenze, sono stati per parecchio tempo predisposti all’identificazione da parte di uomini desiderosi di riscatto, tanto che si trattasse, negli Stati Uniti dei primi anni Quaranta, di supereroi come Capitan America intenti, patriotticamente, a combattere lontano da casa, o come Superman e Batman, occupati a fronteggiare il crimine in patria. Solitamente si è trattato di esseri umani dotati di una [...]]]> di Gioacchino Toni

Il supereroismo nella cultura di massa, con il suo portato di paradigmi ideologici e apparati normativi e comportamentali è stato indubbiamente a lungo rivolto al solo universo maschile. I supereroi della Golden Age, con tutte le loro virtù ed eccellenze, sono stati per parecchio tempo predisposti all’identificazione da parte di uomini desiderosi di riscatto, tanto che si trattasse, negli Stati Uniti dei primi anni Quaranta, di supereroi come Capitan America intenti, patriotticamente, a combattere lontano da casa, o come Superman e Batman, occupati a fronteggiare il crimine in patria. Solitamente si è trattato di esseri umani dotati di una mission non di per sé già dotati di superpoteri; questi ultimi sono stati frequentemente acquisiti grazie a qualche imprevisto con cui si sono trovati, “destinati”, a fare i conti.

L’immaginario dei primi decenni del Novecento, sostiene Francesco Milo Cordeschi, Wonder Woman. Un’Amazzone tra noi (Armillaria 2021), era già disseminato da numerose figurazioni femminili, pur trattandosi spesso di donne incarnanti ruoli di sante o streghe. Pian piano le figure femminili si sono appropriate di elementi sino ad allora prettamente mascolini senza che ciò pregiudicasse la loro immagine di femminilità, almeno così come si era andata delineando nel tempo in un immaginario comunque strutturato al maschile.

Ad inizio Novecento il racconto di Max Eastman, Child of the Amazons, and Other Poems (1913), offre un richiamo esplicito all’universo amazzone narrando il difficile rapporto tra un uomo e un’Amazzone. Poco dopo il romanzo di Ines Hayes Irwin, Angel Island (1914), si è concentrato sull’incontro di cinque naufraghi con donne «superumanamente belle» abitanti dell’isola su cui sono approdati. «A metà del ‘900 il terreno è fertile: gli uomini, i piccoli Capitan America del mondo anglofono, stanno per imbracciare le armi e combattere un nemico fisico, reale; alle donne spettano nuove forme di aggregazione e rappresentanza».

Sulle pagine di “All-Star Comics” nel 1941 fa la sua comparsa Supreme – The Wonder Woman, poi semplicemente Wonder Woman, destinata fino al 1951 a essere il personaggio di maggior rilievo del mensile “Sensation Comics”. Insomma, si può dire che, finalmente, una donna ha «fatto irruzione nella Terra degli Uomini».

Nell’album di esordio la nuova eroina viene presentata attraverso il fortuito incontro che viene ad avere con un giovane e intrepido aviatore dell’esercito statunitense che, in avaria, precipita su un’isola abitata da amazzoni. Un rappresentante della Terra degli Uomini viene a contatto con l’isola delle Amazzoni chiamata Paradiso, curiosamente situata nell’inesplorato Triangolo del Diavolo, quasi a suggerire la presenza di un paradiso (al femminile) in quell’universo indicato (dagli uomini) come diabolico in quanto a loro sconosciuto.

Innamoratasi dell’aviatore, la principessa delle Amazzoni, non esiterà ad abbandonare il suo paradiso per seguire il giovane nella Terra degli Uomini e lo fa con un costume che riprende i colori e i simboli statunitensi segnalando così l’adesione ai suoi valori che si appresta a servire. «Tenacia, empatia, misericordia, prestanza fisica e senso di giustizia: l’equipaggiamento della nostra Wonder Woman riscatta senz’altro anni di incondizionata eccellenza supereroistica maschile. È comunque paradossale che ciascuna delle sue virtù, alla resa dei conti, venga messa al servizio di un bisogno maschile: la guerra». Per diversi episodi la nuova eroina finisce per dare il suo sostegno alle avventure spionistiche dell’aviatore.

«La bizzarra fusione tra modernità e canone è già insita nelle atmosfere dei primi episodi di Wonder Woman. L’isola Paradiso ne è l’indubbia riprova grafica: un’utopia femminista, vagamente debitrice dell’immaginario alla Herland, in cui alcune delle donne più celebrate della tradizione occidentale, le Amazzoni, forgiano un idillio di coesione sociale e sviluppo scientifico. Paradiso è una Terradilei eccentrica. È un’eclettica manifestazione topografica del femminismo della prima ondata. Il suo assetto sociale sembra ammiccare a molte linee programmatiche di pensatrici come Sanger: democrazia diretta, economia sostenibile, razionalizzazione delle risorse primarie e controllo delle nascite».

Wonder Woman, a differenza dei supereroi maschili, non ha alcun passato burrascoso, né ha subito traumi particolari; le sue abilità sono ontologiche. «La sua forza sono le sue scelte. Prima fra queste c’è il suo espatrio volontario: il passaggio da una dimensione deistica, iperurania e privilegiata, alla fragile umanità. Diana non fugge da un mondo in rovina. Nella sua isola prospera una rigogliosa vegetazione e diverse risorse naturali, non esiste indigenza né malattia, nessun odio, nessuna guerra». Quello che sta compiendo sembra piuttosto un viaggio, il viaggio di un’eroina.

«Diana è una principessa ribelle: regale e tenace, protagonista delle sue scelte e della sua storia. Porta Herland nella Terra degli Uomini. Li irradia del suo splendore, gli ricorda la ‘terra madre’ cui appartengono e i fantasmi da scongiurare per farvi ritorno». Si tratta, secondo Cordeschi, di uno «tra i più clamorosi sabotaggi culturali del contemporaneo. È una storia del femminismo e del femminile», tanto che la sua irruzione tra gli eroi su carta della Golden Age, destrutturò quel mondo dall’interno. «Obbligò a riflettere sul fatto che un altro eroismo era possibile: non solo perché poteva essere incarnato da una donna (fin troppo semplice come assunto), ma anche perché, per la prima volta, essere eroi, anzi, eroine poteva essere il prodotto di una scelta e non di un destino già scritto».

Eroina giunta sulla carta in apertura degli anni Quaranta del secolo scorso, quando l’Occidente si trovava a fare i conti con totalitarismi e patriottismi utili a celare contraddizioni irrisolte, il personaggio di Wonder Woman fonda le sue radici «nella rivalutazione teorica dei matriarcati, avvenuta dalla fine del XIX secolo, in cui il mito e l’immaginario delle Amazzoni tornava a essere menzionato. In questa provocatoria riproposizione, che glorificava una civiltà sorretta da donne guerriere, c’era probabilmente tutto il fervore della controstoria femminista. Le stesse Amazzoni incarnavano per i più la controstoria per eccellenza: una società strutturalmente alternativa al modello patriarcale». Inoltre, con l’arrivo della nuova eroina, sostiene Cordeschi, «la cultura di massa scopriva l’immaginario matriarcale contemporaneo che, forte ora di una visibilità su larga scala, si trovava a incassare un’inaspettata rivincita dopo lunghi anni di invisibilità».

«Come primo personaggio femminile di un format attrattivo come il supereroismo, Wonder Woman si trova a percorrere due crinali: agli uomini si presenta come una figura forte e primaria, capace di soddisfare i piaceri più reconditi e le aspettative amorose più inespresse; alle donne si propone, al contrario, come fulgente esempio di giustizia, leadership e carisma femminile. Quello tra Diana e il pubblico è un dialogo biunivoco, sottoposto a più sguardi e attenzioni. Gli eroi della Golden Age, come sappiamo, miravano a blandire trasversalmente le masse. La Donna Meraviglia di Marston e del disegnatore Peter è tra i primi esempi di quella stagione a tener conto dell’eterogeneità del pubblico; la sua influenza popolare interloquisce, cioè, con realtà ben definite e non più generiche: su tutte, come è ovvio, ci sono le donne nella società americana moderna durante il conflitto mondiale. I singoli albi non mancano inoltre di elementi figurativamente allusivi, spavaldi e non troppo curanti dell’autocensura». Altro elemento importante di alterità introdotti dall’eroina nella Golden Age è la sisterhood, il senso di sorellanza che traspare in diversi episodi.

Prima ancora che un’icona, sostiene Cordeschi, «Wonder Woman è una personalità dai forti connotati politici. Quest’aspetto, a mio avviso fondamentale, designa appieno la sua verve rivoluzionaria. Molte sue storie hanno come perno la ridiscussione dello spazio sociale. L’antinomia tra pubblico e privato aveva definito, per decenni, il binarismo di genere e l’isolamento della donna». A didderenza di quanto suggerisce l’immaginario “privato” di molte soap opera, per restare nell’ambito della cultura popolare, con «l’avvento della Guerriera Amazzone, il banco salta. Le donne esondano nel pubblico. Coese, possono adesso occupare nuovi luoghi di aggregazione e confronto. Possono essere presenti al loro tempo, protagoniste della loro storia».

Se il ruolo da pioniera del lesbismo e della cultura fetish di Wonder Woman «era già noto dalle sue prime avventure. Con l’ondata repressiva del dopoguerra, e l’imminente ritorno in patria degli uomini, la sua presenza comincia però ad essere più scomoda di quanto già non fosse», tanto da suggerire all’eroina di limitarsi maggiormente alla sfera privata.

Il volume ricostruisce dunque lo sviluppo del personaggio che ha dovuto fare i conti con gli attacchi più reazionari, soprattutto negli anni Cinquanta, al filone supereroistico e più in generale ai fumetti e, in epoca ancora più recente, con le trasformazioni dell’universo fumettistico che, nel corso degli anni Ottanta, da intrattenimento genuinamente popolare e per i lettori più piccoli è sembrato traslare verso lettori adulti e sofisticati.

Tra tentativi di riprendere il discorso interrotto, recuperando le origini dell’Amazzone, alla luce della ridefinizione del femminile nella società contemporanea, e interferenze hollywoodiane, il volume giunge a ricostruire anche la storia di Wonder Woman a cavallo del cambio di millennio cercando di recuperare quanto di eversivo ha saputo portare nell’immaginario occidentale ancora largamente mascolino.

«In fondo l’atto detonante di Wonder Woman fu proprio questo: cambiare prospettiva, ribaltare lo sguardo. Ottant’anni di storia non sono bastati a esaurire l’enorme complessità di un personaggio stratificato, dotato di più anime, pregno delle antinomie caratteristiche del ‘900 e del contemporaneo; un’eroina che, nella sua longevità anagrafica, continua a dialogare col presente, proponendo del passato il suo spirito più animoso: il conflitto (narrazioni e contronarrazioni che si battagliano, sintetizzano nuove visioni e destrutturano qualsiasi codice normato); i femminismi, d’altronde, questo sono stati, e questo sono».

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Educazione maremmana #5. “Sempre viva l’anarchia!” https://www.carmillaonline.com/2020/11/08/educazione-maremmana-5-sempre-viva-lanarchia/ Sun, 08 Nov 2020 12:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63100 di Stefano Erasmo Pacini

[Qui tutte le puntate]

La situazione iniziò a precipitare quando persino nel nostro piccolo paese medioevale ci accorgemmo di essere non solo guardati male dai vecchi del Pci e costantemente spiati dai carabinieri durante ogni sciopero, assemblea, corteo, ritrovo casuale, ma accoltellati alle spalle dalla improvvisa irruzione dell’eroina. Brio di Follonica ce lo disse subito, candidamente: “Ragazzi, non è un caso che per un po’ di tempo si trovasse pochissimo fumo in giro, lo hanno fatto sparire, poi hanno immesso la bianca, a poco, a [...]]]> di Stefano Erasmo Pacini

[Qui tutte le puntate]

La situazione iniziò a precipitare quando persino nel nostro piccolo paese medioevale ci accorgemmo di essere non solo guardati male dai vecchi del Pci e costantemente spiati dai carabinieri durante ogni sciopero, assemblea, corteo, ritrovo casuale, ma accoltellati alle spalle dalla improvvisa irruzione dell’eroina.
Brio di Follonica ce lo disse subito, candidamente: “Ragazzi, non è un caso che per un po’ di tempo si trovasse pochissimo fumo in giro, lo hanno fatto sparire, poi hanno immesso la bianca, a poco, a prezzi stracciati. L’hai mai provata? Ah, è bellissima, è pazzesca, come fai a spiegarla? Appena ti buchi senti un’onda calda da capo a piedi, un vero e proprio orgasmo con il tuo corpo, poi subentra una pace liquida enorme, beata, che speri non termini più. Ma quando riemergi non fai più vita, perché avverti quello che hai perso in maniera insostenibile. E allora, che tu lo voglia o no, prima o poi ti rifai, e come ti fai ti accorgi che ti fa un po’ meno e allora magari ti rifai prima e poi… a quel punto sei del gatto, vivi solo per la bianca, non esiste altro, non te ne frega più niente, tutto viene dopo. Mi faccio schifo ma è così, non so che farci”
Neppure noi sapevamo che fare. Cercavamo di cacciare gli spacciatori, ma spesso erano ragazzi come Brio o Alessio diventati tossicodipendenti; i trafficanti grossi erano mafiosi tollerati dal potere. L’equazione era semplice: più eroina, più debolezza, meno giovani arrabbiati, meno guai.
Brio non si compativa né voleva esserlo, spesso metteva su quello che chiamava teatro-guerriglia, con travestimenti, spettacoli surreali di poesia e di mimo. All’Umbria Jazz lo ritrovai che raccontava come avesse fatto l’autostop a un commenda che poi l’aveva ospitato due giorni a casa sua, sfamandolo e rivestendolo, gli era parso doveroso scoparselo prima di andarsene. Brio non si faceva recuperare da nessuno, scappava anche dalle comunità terapeutiche, riusciva sempre ad ironizzare sui propri mali e le sue debolezze.
Su un conto della spesa aveva scritto: “Solo perché voleva vivere lo aiutarono a morire presto.” Una volta riuscì a convincermi a comperare insieme a lui cinquantamila lire di erba. Naturalmente non avevo più visto né le une né l’altra, ma quando lo incontravo glielo ricordavo, così, giusto per farlo sentire un po’ in colpa. Finché una sera Brio mi fissò negli occhi e mi domandò se la nostra amicizia era più o meno importante di quattro soldi, e mi dette un libro di poesie di Ferlinghetti, rubato di fresco. Con l’andare del tempo la legge lo dichiarò delinquente abituale, finì confinato in un paesino di montagna, come fosse un mafioso. Lo incontrai l’ultima volta per caso lì, nel bar alimentari, ma non lo riconobbi subito, aveva i capelli completamente bianchi, sembrava un vecchio, camminava adagio. Era già malato di aids, il ricordo che avevo di lui non collimava più con la realtà. Poi mi parlò, e il suono familiare della sua voce mi fece capire con un tuffo al cuore chi fosse. Mi chiese di rendere giustizia a un suo amico, lasciato morire in overdose da un medico che aveva rifiutato il soccorso. Fino all’ultimo non si è mai disperato, scriveva poesie, alle volte sui muri con lo spray.
Del suo giro di amici, a distanza di pochi anni, non è sopravvissuto nessuno, e questo è accaduto in tutta Italia. Iniziarono a morire dapprima in maniera sporadica, con titoli giganteschi dei giornali locali. Poi sempre di più, a un certo punto a decine, tanto da meritarsi a fatica un articoletto in cronaca locale, tra una premiazione scolastica e una sagra della ranocchia fritta. Una generazione di desaparecidos dell’eroina, senza clamore o ricordo storico, morti senza possibilità di alcuna giustizia sia pur postuma. Di lui mi rimane un libro di Ferlinghetti e una poesia che aveva vergato nell’ultima pagina:

Parlare
iperparlare
la ragione sragiona
e ha ragione
se i mentecatti vinceranno
non ci saranno più i pazzi che ridono.


Mia sorella si era laureata, sposata e stabilita nel lontano Meridione. Mia madre mi disse che aveva discusso con mio padre e ora si aspettavano che anch’io scegliessi una facoltà: “Lascia perdere la politica, tagliati i capelli, datti una regolata e studia davvero e se no, se non vuoi fare l’università, come tecnico minerario sulle piattaforme petrolifere pagano bene, sai?
Ci parlavamo sempre meno, non esisteva più lo spirito del fantastico avamposto di campagna. I nonni uno a uno si erano spenti, sempre più scettici su un mondo irriconoscibile per loro. I miei erano sempre più stressati a causa di lavori che non lasciavano che rari momenti liberi, si sorrideva sempre meno, le comodità, gli elettrodomestici, i soldi, che adesso permettevano di cambiare anche l’arredamento e avere due auto, non compensavano la dignitosa povertà di un tempo. Oltretutto non riuscivano a capire la mia rabbia, il mio gesticolare e maledire, le discussioni finivano spesso male. Mio padre riusciva a mantenere la calma anche se spesso scuoteva la testa, cercava di farmi ragionare portandomi ad esempio Torquato, il nostro vicino di podere diventato senatore del Pci. Non capiva che quel tipo di politica per me non solo era finita, ma nemica. Un giorno, dopo l’ennesima scaramuccia, mia madre non si tenne più: “Accidenti a te e a chi ti ha fatto porcoddissi! Tanto lo sentii appena incinta che crostino saresti stato! E poi dopo la tu’ sorella che mi fece vedere i sorci verdi e non si capiva se sarebbe campata o no…figurati se ti volevo! Ho fatto di tutto per tirarti giù, ballare fino alle tre di notte, dare una mano a tuo padre in campagna, portare secchi pieni d’acqua, pesi… niente, sei nato di quasi cinque chili e hai cominciato a mangiare tutto, anche il buio avresti mangiato! Non arrivavi ancora con la testa al bordo del tavolino e già prendevi la roba da mangiare nel piatto di tua sorella, tanto che lei dalla rabbia ha cominciato finalmente a mangiare, in un certo senso le hai salvato la vita, ma di due figlioli qui non se ne fa uno a garbo!”
E lanciò l’asciughino dentro l’acquaio, uscendo di casa. Rimasi muto, non riuscii a ribattere niente, come facevo solitamente. Impietrito, anche se non lo detti a vedere. “Gli uomini devono essere forti, gli uomini non devono mai piangere, gli uomini non devono far capire cosa hanno dentro, ma agire.” Avevo da essere uomo, per forza.

Alla fine mi iscrissi a Filosofia a Firenze, ma a tempo pieno frequentavo solo i collettivi, spostandomi anche a Roma. Ci eravamo stufati di farci sparare addosso. Iniziammo a fare riunioni semi segrete, a staccarci dai vecchi gruppi che predicavano la rivoluzione a parole e poi partecipavano alle elezioni con risultati pessimi.
Tornai in paese per il funerale di Silvio “il leone”. Lo chiamavo così per via dei capelli forti e foltissimi. Piccolino e sorridente non dimostrava gli anni che aveva; curava la bacheca del gruppo anarchico Pietro Gori, suonava il mandolino e era un bravissimo creatore di mascheroni di carnevale con la carta pesta. Mi aveva raccontato di Pietro Gori, Bakunin, Malatesta e Durruti, delle sue peripezie per il mondo, di fatti meravigliosi e sconosciuti, come l’occupazione della chiesa a Scarlino per farne un teatro, con la storia del Bartolomei che dopo questi eventi, perseguitato dal fascismo era andato in esilio in Francia dove aveva ucciso in una sparatoria un prete italiano spia dell’Ovra fascista, per fuggire poi in Belgio, emigrando definitivamente, all’arrivo dei nazisti, a Montevideo, dove continuò a sostenere con collette e articoli la stampa libertaria. Mi aveva raccontato della vita dissoluta di Quisnello Nozzoli, ciabattino massetano, rissaiolo, agitatore, finito a Barcellona durante la guerra civile a infilzare con una spada i franchisti dichiarandosi anarchico trionfante. Riparato poi in Messico dopo esser transitato per Cuba, e ritornato in Italia alla fine della guerra. Saremmo stati tutto il giorno ad ascoltarlo. Silvio ci offrì di dividere la sua bacheca con i nostri sogni. La sua vita era stata tutta una avventura e noi ragazzi ribelli lo ascoltammo sempre con stupore e rispetto.
Piansi come un bimbo ma stavo piangendo anche quella stagione di scoperte e stupori che mi sembrava così lontana e perduta. Ci ritrovammo tutti insieme, forse per l’ultima volta, vecchi e giovani, riempiendo la via fino alla porta medioevale che guarda verso Siena. Un vecchio compagno del Cln ricordò la sua incrollabile fede in un mondo migliore, libero, solidale. La sua schiena dritta negli anni bui, le persecuzioni patite. Alla fine della cerimonia mentre Mau urlava “Sempre viva l’anarchia!” e il carro funebre con la bandiera rossa e nera partiva per il crematorio di Livorno, si avvicinò silenzioso alle mie spalle Mirto e mi disse in un soffio: “Paco stai attento, ho sentito dal responsabile del Partito che i carabinieri ti stanno curando, stai attento per favore. Questi scherzano poco, buttano via la chiave.” Poi mi dette una occhiata di sbieco scuotendo la testa, si allontanò come se non mi avesse neppure visto.

 

 

Ho cominciato a essere più circospetto, ma neppure per un attimo ho pensato a tirarmi indietro. Istinto e fortuna mi aiutavano. L’istinto animale che ti fa percepire un pericolo senza spiegarlo. Avevamo un appartamento in centro a Firenze dove alcuni di noi vivevano e altri transitavano, per organizzare manifestazioni e diffondere stampa insurrezionalista e movimentista, il cui confine con le formazioni clandestine era labile, specialmente per la polizia. Quella mattina ero appena arrivato nella via sotto casa, ma qualcosa di inspiegabile mi aveva bloccato. Una forza misteriosa mi aveva obbligato a tornare indietro. Dopo un po’ di fronte a una vetrina avevo visto un tipo che mi seguiva. Era sicuramente della squadra politica della questura. Avevo raggiunto apparentemente tranquillo una libreria in centro, sempre col tipo che mi pedinava. Entrato dentro avevo chiesto a un commesso che conoscevo, uno di quei ragazzi assunti per qualche mese che simpatizzavano per noi e spesso chiudevano gli occhi sui libri portati via o pagati in parte, se ci fosse una uscita secondaria. Aveva capito subito, senza fare una piega mi aveva guidato in magazzino e da qui in un vicoletto laterale. A fatica ero riuscito a dirgli un grazie sottovoce. Il giorno dopo da Roma potevo leggere di sei arresti tra gli studenti universitari di Firenze. Alcuni sarebbero stati rilasciati dopo pochi mesi, altri dopo diversi anni.

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Propizio è avere una cura. Lsd ed eroina, due storie stupefacenti https://www.carmillaonline.com/2019/02/22/propizio-e-avere-una-cura-lsd-ed-eroina-due-storie-stupefacenti/ Thu, 21 Feb 2019 23:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51208 di Piero Cipriano

Carrère direbbe che Propizio è avere ove recarsi. Partito, innumerevoli volte, mete, viaggi, incontri, gli hanno dato materia per i suoi libri. L’avversario, Romanzo russo, Limonov. L’anno scorso, dopo aver concluso la mia avventurosa trilogia della riluttanza-ai-manicomi (e il quarto libro su Basaglia che li riassume e chiude), ho fatto due viaggi, due viaggi alla Carrère, diciamo. Uno breve l’altro lungo. Entrambi densi, però.

Quello breve l’8 dicembre, verso Livorno, destinazione Premio Ciampi, il cantante alcolico che ora è diventato un premio. Smonto dalla notte in ospedale, e come (quasi) [...]]]> di Piero Cipriano

Carrère direbbe che Propizio è avere ove recarsi. Partito, innumerevoli volte, mete, viaggi, incontri, gli hanno dato materia per i suoi libri. L’avversario, Romanzo russo, Limonov. L’anno scorso, dopo aver concluso la mia avventurosa trilogia della riluttanza-ai-manicomi (e il quarto libro su Basaglia che li riassume e chiude), ho fatto due viaggi, due viaggi alla Carrère, diciamo. Uno breve l’altro lungo. Entrambi densi, però.

Quello breve l’8 dicembre, verso Livorno, destinazione Premio Ciampi, il cantante alcolico che ora è diventato un premio. Smonto dalla notte in ospedale, e come (quasi) tutte le notti un tossico è venuto in pronto soccorso a reclamare fiale di benzodiazepine in vena, siccome il metadone che aveva in corpo non gli bastava, e io a smadonnare, sono le quattro del mattino, e vieni a svegliarmi per le benzodiazepine? Ecco: i tossici, gli eroinomani che ora sono diventati metadonomani, per noi psichiatri che lavoriamo negli ospedali e ci occupiamo di folli e non di tossici (e sì, vige ancora questa dicotomia), sono rotture di scatole. Soprattutto se ci svegliano di notte. Al mattino mi passa a prendere mia moglie, lei guida, figlia grande accanto, io e figlia piccola dietro. Invece di dormire il sonno del povero psichiatra che non ha dormito di notte in ospedale per colpa del tossico, leggo Piccola città di Vanessa Roghi. Che mi riconcilia con i tossici. I tossici eroinomani, voglio dire. I poveri eroinomani fregati negli anni 70 e poi negli 80 (e che di nuovo ritornano a essere fregati in questi anni) dall’ingresso, nel mercato delle droghe, di una sostanza eroica, questa eroina che come nessun’altra sostanza mai, prima, e mai, dopo, leva il dolore, elimina la sofferenza, ogni tipo di sofferenza, fisica e mentale, ammesso che vogliamo indulgere su questa celebre separazione cartesiana, e induce un’assuefazione (e una conseguente drogomania) la più rapida, la più micidiale. Eppure, “senza la società”, scrive Vanessa Roghi, “il drogato non esisterebbe”, giacché sono stati necessari un’industria chimica per sintetizzare la morfina o altri oppioidi di sintesi, e medici che li hanno prescritti generosamente come antidolorifici, e farmacisti che li hanno venduti con manica altrettanto larga, e soltanto dopo che l’addiction è stata iatrogenicamente indotta, entra in gioco la complessa e piramidale organizzazione dello spaccio, fino all’ultimo anello: quel tipo di consumatore che, per potersi fare, spaccia. Insomma, come per gli psicofarmaci, anche qui l’innesco della dipendenza è iatrogeno. A genesi medica. Di sicuro negli anni 60 e poi 70, scrive Roghi, “la confusione tra le droghe era tanta”. Eroina, cocaina, anfetamine, Lsd, tutte sembravano funzionali al dropping out, ovvero rinunciare a lavorare, studiare, fare politica, secondo lo slogan del guru della rivoluzione psichedelica Timothy Leary (“Turn on, turn in, drop aut”). Nel 1971, quando l’Lsd e gli altri allucinogeni vengono inseriti nella tabella 1 degli stupefacenti (stessa sorte per le anfetamine), è la fine. Arriva sul mercato illegale prima la morfina a prezzi stracciati e poi l’eroina. Quando, nel 1975 (in Italia), viene approvata la legge 685 sulle tossicodipendenze, ciò che riuscirà a produrre saranno degli ambulatori dove come terapia alla dipendenza da eroina si eroga un altro oppioide, il metadone, il cui unico vantaggio è l’assunzione per bocca e non per buco. Inizia a diffondersi il modello delle comunità di recupero. Comunità, spesso confessionali, segnate (scrive Cecco Bellosi in Piccoli Gulag) dal “rapporto tra colpa e redenzione”, così come l’altra faccia della medaglia, per il tossico, ovvero il carcere, era/è “segnato dal rapporto tra delitto e castigo”. Comunità come luoghi di reclusione dove, senza neppure il dispositivo del TSO, poter trattenere persone, sine die.

Suggerisco, nel titolo, che propizio, nella vita degli umani, è avere come curarsi. La ricerca della droga è, tutto sommato, la ricerca del farmaco, o dello psicofarmaco perfetto.

Ancora Carrère: “Scrivere un libro, qualsiasi libro, richiede ciò che i giuristi chiamano un interesse ad agire”. Nel 1987 il padre di Vanessa viene arrestato, ecco che l’eroina entra nella sua storia, ecco che il suo è un libro in cui la sostanza eroica e la vita eroica di suo padre, e la sua, si embricano.

Ma l’eroina non è la mia storia, peraltro è una sostanza in cui non c’è niente di terapeutico (per quanto mi riguarda, per il mio specifico mestiere di psichiatra) da poter scoprire o riscoprire. Ecco perché il mio viaggio con questo libro è stato più breve dell’altro che ora vado a raccontare.

Nel 1994 mettevo piede nella Terza Clinica Psichiatrica dell’università di Roma, la Sapienza. La dirigeva Paolo Pancheri. A quel tempo, era lo psichiatra psicofarmacologo più in auge in Italia (la rivalità era con Pisa, con la scuola di Giovanni Battista Cassano). E tutti noi cosiddetti pancheriani, di riflesso, ci consideravamo dei grandi psicofarmacologi.

Dopo vent’anni dal mio ingresso nella psicofarmacologia, ho pubblicato Il manicomio chimico, dove racconto di questo immenso manicomio molecolare a cielo aperto. Gli psicofarmaci, le molecole attualmente sul mercato e prescrivibili, non sono la soluzione per l’ansia (le benzodiazepine determinano dipendenze feroci), non per la depressione (gli antidepressivi, come gli antibiotici, dopo qualche anno non funzionano più), non per le psicosi (gli antipsicotici sono come sabbia messa negli ingranaggi mentali, rallentano, paralizzano, creano neurolepsia, ovvero paralisi del sistema nervoso).

Quale potrebbe essere la soluzione allora? O meglio, se la soluzione terapeutica deve essere una sostanza, o una molecola, quale potrebbe essere?

Vengo all’altro viaggio (quello lungo, nel senso che ancora non è finito) fatto-leggendo-un-libro. Il 20 di agosto del 2018, in una spiaggia di Polignano a mare che era un carnaio stipato di corpi che nemmeno un girone dantesco, ho iniziato un viaggio acido. Premetto che, a causa della mia ipocondria minor, non sono mai stato uno psiconauta, in vita mia di drogastico (a parte il sesso) ho sperimentato solo alcol caffè mate e ginseng. Dunque mi trovavo in quella spiaggia manicomio pugliese, letteralmente sotto acido, nel senso che ero flesciato dalla lettura di LSD, il libro psichedelico di Agnese Codignola. Eppure sono del mestiere, la materia non doveva sorprendermi, e da psichiatra qual sono, seppur critico rispetto a psicofarmaci e relativista rispetto alle sostanze che chiamano droghe, non avrei dovuto lasciarmi folgorare sulla via dell’Lsd. Invece è successo.

Un libro rigoroso e documentatissimo. Nessuna concessione al self disclosure (dunque molto diverso da quello di Vanessa Roghi). Che Agnese non abbia mai assunto Lsd o psilocibina, per dire, lo svela in una intervista, mica nel libro. Come me, Agnese non si è mai fidata di prendersi sostanze fornite da pusher di origine ignota (è ciò che mi ha sempre dissuaso dallo sperimentare molecole illegali, sono un farmacologo, ho bisogno di sapere cosa e quanto, prescrivo agli altri, o introduco nel mio corpo).

Libro diviso in due parti. La prima: “come l’Lsd da farmaco diventa droga”.

Per serendipity, come sovente accadono le scoperte, nell’aprile del 1943, il chimico svizzero Albert Hofmann ci ripensa, e torna su una sostanza che ha sintetizzato nel 1938, l’Lsd-25 (ovvero la venticinquesima provetta di dietilammide di acido lisergico). L’ha sintetizzata studiando la Claviceps purpurea (o ergot), un fungo che provoca una malattia dei cereali detta segale cornuta. Insomma, sintetizza questo derivato sintetico dell’ergot e si espone ai suoi effetti allucinogeni, che sono noti da secoli, perciò lui non è del tutto impreparato, e decide di assumerne 250 microgrammi, sperimentarlo su di sé. Subito capisce di aver sintetizzato una sostanza di straordinaria potenza, proprio per questo molto difficile (infatti Lsd. Il mio bambino difficile, è il titolo del libro in cui riassume la vicenda). A questo punto inizia una staffetta di diversi personaggi che si occuperanno di Lsd e molecole simili. Humphry Osmond, in Canada, a partire dal 1953, usa l’Lsd per trattare gli alcolisti. Ribadisco che siamo all’esordio dell’era psicofarmacologica, che debutta col neurolettico cloropromazina, e con l’antidepressivo triciclico imipramina, e poco dopo con l’ansiolitica benzodiazepina clordiazepossido. L’Lsd è solo una delle decine (se non centinaia) di molecole in ballo che devono guadagnarsi il titolo di psicofarmaco. Ronald Sandison, in quegli anni, mette a punto la terapia psicolitica, che consiste in piccole somministrazioni ripetute a dosi crescenti di Lsd, invece che una sola a dose alta (che costituisce la terapia psichedelica di Osmond). Entrambi si propongono di ottenere la cosiddetta Ego dissolution (l’effetto più prodigioso di Lsd e simili, su cui Codignola insiste molto), seppure con modalità diverse.

Humphry Osmond. E’ lo psichiatra a cui Aldous Huxley si affida per sperimentare la mescalina prima e l’Lsd poi. Strano percorso, quello di Huxley. Nel 1932, nel suo romanzo distopico (e profetico) Il mondo nuovo, immagina una società in cui tutti assumono una molecola (il Soma). E ne denuncia il pericolo. Vent’anni dopo, si lascia convincere da Hofmann e somministrare da Osmond il farmaco psichedelico (termine coniato da Osmond proprio). Dopo l’auto sperimentazione, il giudizio di Huxley cambia. Lo scrive in vari libri: Le porte della percezione, Paradiso e inferno, L’isola. Al punto che, quando sta per morire, si fa accompagnare da un’iniezione di Lsd somministrata da sua moglie.

Poi guadagna la scena lo psicologo di Harvard Timothy Leary, che dopo aver assunto i funghi magici messicani intuisce la potenzialità degli psichedelici di arrivare dove le varie forme di psicoterapia, inclusa la psicanalisi, non riescono. Dal 1961 inizia a sperimentare prima il principio attivo dei funghi magici (la psilocibina) e poi l’Lsd stesso, con l’intento di mettere a punto un’instant psychoanalysis, capace di destrutturare i circoli viziosi psichici, e sostituirli con processi mentali più efficaci. Le sperimentazioni di Timothy Leary e del suo socio Richard Alpert (perfino sui detenuti sperimentano, con risultati clamorosi: fuori dalla prigione chi aveva assunto psilocibina era meno propenso a delinquere), tuttavia, si rivelarono metodologicamente deboli (gli stessi sperimentatori, nel corso delle sperimentazioni, assumevano le sostanze). Espulsi dall’università, intraprendono una deriva mistica, il discorso di Leary si impregna di metafore mistico-ufologico-cosmogoniche. Viene perfino arrestato, per banale possesso di marjuana, e definito da Nixon (non uno stinco di santo) “l’uomo più pericoloso d’America” (mettiamoci nei panni dei giovani americani mandati a morire in Vietnam, chi era, l’uomo più pericoloso d’America, se non il comandante in capo?).

Malgrado i buoni propositi, Leary getta cattiva luce su Lsd e simili.

Altri sperimentatori, in quegli anni, sono più prudenti. In Messico Salvador Roquet dalla fine dei Cinquanta studia gli effetti della mescalina (il principio attivo dei cactus Peyote e San Pedro). A differenza di tutti gli altri che si occupavano di Lsd, non solo lui è un etnobotanico, ma proviene dalla stessa cultura indigena messicana che da secoli ha consuetudine con funghi magici e cactus psichedelici. Inizia a sperimentare Lsd e ketamina, psilocibina e Salvia divinorum, Peyote e ayahuasca. Ma a differenza del metodo Leary, Roquet e la sua equipe non assumono mai gli psichedelici nel corso delle sperimentazioni. Il suo schema era: 10-12 sedute in un anno, ogni seduta dalle 8 alle 20 ore. L’esperienza di ogni seduta si poteva schematicamente suddividere in quattro fasi. Nella prima accadono le distorsioni sensoriali, nella seconda le visioni mistiche, nella terza emerge l’ansia associata a ricordi infantili, dunque angoscia per la catarsi dovuta alla dissoluzione della vecchia personalità con ricostituzione di un nuovo sé, nella quarta fase si organizza un nuovo modo di pensare e di essere.

Stanislav Grof a quel tempo assiste alle sedute di Roquet, e crede fermamente nelle potenzialità dell’Lsd (“usato responsabilmente e con la dovuta cautela”, sostiene, “potrebbe essere per la psichiatria ciò che il microscopio è stato per la medicina e il telescopio per l’astronomia”), riprende le quattro fasi descritte da Roquet, e le suddivide in: una fase estetica (visioni coloratissime, senza valenza terapeutica), una fase psicodinamica (ricordi del passato, traumi),una fase perinatale (sensazione analoga al parto, come si rinascesse, si assumono posture neonatali) e una fase transpersonale (quella della ego dissolution, dove la coscienza personale si fonde col cosmo, con esperienze potenti di telepatia, bilocazione, viaggi nel tempo, incontri con divinità, defunti). Quando l’Lsd viene reso illegale, e posto nella tabella 1 degli stupefacenti, Grof ripiega su metodi alternativi per procurare l’ego dissolution, e inizia a lavorare sul respiro (il metodo della respirazione olotropica).

A questo punto l’Lsd inizia la parabola che lo porta a non essere più un farmaco. Comincia, dal 1966, una campagna mediatica che demonizza la molecola di Hofmann. Il New York Times racconta di una bambina resa selvaggia da (forse) una zolletta di zucchero all’Lsd. Il Time titola: Epidemia di menti acide. Gli allucinogeni, dopo le sperimentazioni selvagge di Leary, vengono usati in massa nei campus. Facile immaginare che l’assunzione non sia oculata (voglio dire: né per dosaggio né per utilizzo di prodotto puro), ma selvaggia appunto, e spesso in poliassunzione con altre sostanze. Nessuna attenzione al setting di utilizzo (che è decisivo, nell’assunzione degli psichedelici, perchè il setting condiziona fortemente gli effetti). Dunque ecco l’enfasi mediatica sui bad trip e su quel tipo di permanenza di allucinazione a lungo termine, possibile ma molto rara, oggi definita HPPD, hallucinogen persisiting perception disorder (disturbo persistente della percezione da allucinogeni).

Ricapitolando. Fino al 1967 l’Lsd è ancora legale. Ma per questa escalation di demonizzazione mediatica, nel 1966 negli USA viene inserito nella lista dei narcotici, e nel 1968 ne viene vietato l’utilizzo per ricerca. Inizia una reazione a catena. L’ECOSOC (Economic and social council delle Nazioni Unite) ne chiede la limitazione ai soli ambiti di ricerca e terapia. Nel 1971 i rappresentanti dei paesi dell’ONU, riuniti a Vienna, stipulano la Convenzione sulle sostanze psicotrope, che dà una sterzata alquanto proibizionista. Vengono formulati quattro elenchi di sostanze. Nella prima tabella, vi sono i principi attivi più pericolosi (attualmente 62), dove insieme a anfetamine cannabis ed ecstasy vengono inseriti gli allucinogeni Lsd e psilocibina. Nella seconda tabella (oggi) vi sono 17 sostanze, prodotte per lo più da aziende farmaceutiche, tra queste la morfina. Nella terza tabella sono 9 i principi attivi, tra cui i barbiturici. Nella quarta abbiamo 62 sostanze, tra cui le benzodiazepine.

Ecco che gli allucinogeni vengono a essere ritenuti più pericolosi della morfina e dei barbiturici.

Non rientrano invece, nella Convenzione sulle sostanze psicotrope, sostanze sporche (ovvero composte da diversi principi attivi) quali l’ayahuasca o i funghi magici interi.

E così, nel 1971, Lsd e simili, da farmaci a dir poco promettenti, diventano droghe le più temibili.

Il libro di Codignola, nella seconda parte cambia verso. Racconta come, dagli anni 70 a oggi, in modo carsico, queste molecole tornano a essere considerate promettentissimi farmaci.

Ritorniamo in Svizzera, là dove con Hofmann tutto ha avuto inizio. A Soletta c’è uno psichiatra, si chiama Peter Gasser. Da quando l’Lsd da farmaco viene declassato a droga, Peter Gasser è stato il primo al mondo a poterlo utilizzare (e studiare) di nuovo. Nel 1985 è tra i fondatori dell’Associazione medica svizzera per la terapia psicolitica. Nel 1988 l’ufficio federale di sanità pubblica autorizza Gasser, insieme a altri quattro psichiatri, a sperimentale Lsd e MDMA (ecstasy). L’Lsd torna, per quattro anni e mezzo, a essere un farmaco. Poi il governo cambia e l’Lsd viene di nuovo vietato. Ma intanto, per quei “sessanta mesi felici”, cinque specialisti hanno potuto somministrarlo a 171 pazienti affetti da disturbi della personalità, dell’adattamento, disturbi affettivi, del comportamento alimentare, dipendenze, deviazioni sessuali. Somministrano 125 mg di MDMA oppure Lsd (posologia compresa tra 100 e 400 microgrammi, per conseguire un effetto intermedio tra quello psicolitico di Leuner e quello psichedelico di Grof). I risultati? Nel novanta per cento dei pazienti c’è un cambiamento esistenziale profondo. Snza effetti avversi (tra i pazienti). Tra i medici sperimentatori, invece, uno dei cinque prende la via mistica, intraprende il destino di Timothy Leary insomma. E’ Samuel Widmer, che fonda una comune, la Comunità dei boccioli di ciliegio, dove vive con due mogli e con un paio di centinaia di adepti. Gasser, invece, continua a lavorare privatamente. Non può più prescrivere Lsd, ovviamente, ma non si arrende al divieto. Nel 1996 chiede di poter sperimentare la psilocibina sui depressi gravi. Non viene autorizzato. Ci riprova nel 2000. Ancora niente. Nel 2007 ottiene di poter somministrare, in modalità compassionevole, Lsd a malati terminali. I risultati sono molto buoni.

Qualcosa è cambiato. Anche in altri paesi le cose si muovono. Dal 2010 anche negli USA si inizia, di nuovo, a sperimentare gli allucinogeni. Charles Grob, psichiatra dell’università di Baltimora, sperimenta la psilocibina a dosi molto basse (20-30 mg), con risultati soddisfacenti. Stephen Ross, psichiatra di New York, somministra psilocibina a malati terminali. Anche in questo caso le persone stanno meglio. E così via. Altri sperimentatori. Altri studi. Altre ricerche.

A questo punto Codignola ci presenta un personaggio incredibile, si chiama Amanda Feilding, è una contessa, erede degli Asburgo, è stata un’adolescente inquieta che dopo aver lasciato le scuole è andata in Medio Oriente a cercare se stessa. Torna, e si fissa sulla trapanazione del cranio, per espandere la coscienza. E si fa davvero trapanare, il cranio, mica no, perché l’idea è che se il sangue fluisce più liberamente, senza la costrizione cranica, la coscienza riesce a espandersi. Si candida al parlamento inglese, sia nel 79 che nell’83, con un solo scopo: ottenere una legge che renda legale e rimborsabile la trapanazione del cranio. State pensando che non ha tutte le rotelle al posto. In effetti, pure a me, sembrerebbe. Tuttavia, nel 1996, fonda la Foundation to Further Counsciousness, che diventa poi la Beckley Foundation, il cui scopo principale è sostenere la ricerca in materia di sostanze psicoattive. Inizia a collaborare con l’Imperial College di Londra e con David Nutt. Amanda Feilding è convinta che assumere Lsd aumenti la capacità di problem solving. Migliori le prestazioni cognitive. Ne è persuasa non solo per la sua personale esperienza (pare che quando giochi a bridge sotto Lsd non abbia rivali), ma alla luce della crescente diffusione del microdosing tra i geniali pensatori della Silicon Valley. E così, decide di finanziare uno studio per dimostrare che piccole dosi di Lsd (meno di 50 microgrammi, da assumere due volte a settimana, per un mese) migliorano le prestazioni cognitive.

Si chiama James Fadiman, e si professa il massimo esperto al mondo di microdosing di Lsd. I suoi primi studi non sono metodologicamente buoni. D’altra parte, è un allievo di Timothy Leary, e forse ne eredita anche i limiti. Somministra mescalina in dose di 200 milligrammi a ingegneri, architetti, matematici, dimostrando un aumento della loro creatività. Tuttavia omette, nella descrizione dello studio, che insieme alla mescalina ha somministrato un’anfetamina e una benzodiazepina, inficiandone il risultato. Invece lo studio che pubblica nel 2015, su persone che hanno assunto microdosi di Lsd una volta ogni quattro giorni, ottenendo una stabilizzazione dell’umore, pare buono. Il suo metodo si diffonde, fa presa in una scrittrice moglie di un premio Pulizer, Aylet Waldman, che pubblica nel 2017 A really good day: how the microdosing made a mega difference in my mood, my marriage, and my life. Convinta da Fadiman, inizia la cura, e la sua vita cambia. La depressione sparisce. Ecco che il microdosing, da espediente per migliorare l’intelligenza e la creatività, diventa antidepressivo e stabilizzatore dell’umore. Sembra avverata la profezia di Huxley: il microdosing di Lsd somiglia al Soma che lui descrive nel Il mondo nuovo.

Amanda Feilding si lega a David Nutt. Chi è David Nutt. Classe 1951. Neurofarmacologo. Debutta nel 1982, con un primo studio importante sulle benzodiazepine. Sappiamo ormai, anche grazie a lui, che queste molecole hanno un effetto tranquillante perché si legano al recettore del GABA, che è un neurotrasmettitore inibitorio, e dunque inibiscono, ecco perché sedano, calmano, levano l’ansia. Dal 2009 dirige la cattedra di neuropsicofarmacologia dell’Imperial College. Nel 2007 su The Lancet pubblica un articolo dove domanda quale sia il criterio per definire se una sostanza è pericolosa o no. Sul Journal of Psycopharmacology pubblica il caso di una ragazza affetta da equasy. Una sindrome mai sentita prima. Un danno cerebrale da equasy, scrive. Racconta di centinaia di persone che, ogni anno, conseguono una cerebropatia da equasy, bisognerebbe inserirlo in tabella 1, l’equasy, insieme a Lsd e psilocibina. Invece (la faccio breve) equasy sta per equine addiction syndrome, quella voglia compulsiva di andare a cavallo. Si sa che da cavallo a volte si cade, e se cadi da cavallo facile che ti rompi la testa. Solo negli USA, ogni anno, più di diecimila persone riportano traumi cerebrali da caduta da cavallo. Lo stesso si potrebbe dire per boxe, rugby, sci, free climbing, andare in moto, fare ciclismo, e così via. Per cui, prosegue Nutt, nel demonizzare certe sostanze grande è stato il ruolo dell’informazione, appena accade un incidente da ecstasy o Lsd giù i titoloni, delle centinaia di decessi da paracetamolo, o da benzodiazepine, niente. Sono troppi, non fa notizia.

Il risultato di questa provocazione (che non la fa Marco Pannella, per dire, ma il prestigioso neurofarmacologo dell’Imperial College) è una richiesta di scuse, da parte della segretaria di stato per gli affari interni, nei confronti delle famiglie delle vittime di ecstasy. Sembra di sentire Giovanardi. O Maurizio Gasparri. Politici che non sanno un accidenti di farmacodinamica, eppure sproloquiano su quale sia il male assoluto per i giovani.

Nutt non si scusa. E perde il posto di capo dell’Advisory Council of the Misuse of Drugs. Invece rilancia. Nel 2010 pubblica su The Lancet una sorprendente analisi sulla reale pericolosità delle sostanze. La più pericolosa è l’alcol, subito dopo l’eroina, poi il crack poi la metanfetamina poi la cocaina poi il tabacco quindi anfetamine e cannabis. In fondo alla classifica l’Lsd e la psilocibina dei funghi magici.

Ma queste provocazioni di Nutt sono controproducenti, nel 2016 viene approvata la nuova legge inglese sulle sostanze psicoattive, lo Psychoactive Substances Act. Dove, per non sbagliare, si proibisce “qualunque sostanza per uso umano capace di produrre effetti psicoattivi”. Tutte. Salvo le sostanze già legali quali alcol, tabacco, nicotina, caffeina, alimenti vari. Tutto vietato, a eccezione della più pericolosa delle droghe: l’alcol.

Nello stesso anno però, a neutralizzare questo provvedimento, che azzera qualunque prospettiva di ricerca sulle sostanze psicoattive nel Regno Unito, inizia una serie di rigorose pubblicazioni, da parte di un allievo di Nutt: Robin Carhart-Harris. Non è un medico, ma uno psicologo, ha letto Stanislav Grof, Realms of the human unconscious: observations from Lsd research, e si è proposto di indagare la coscienza con tecniche di neuroimaging. Inizia a fotografare il cervello sotto psilocibina, sottopone dieci persone a due RMN funzionali, prima e dopo l’iniezione di 2 mg di psilocibina. Cosa cambia nei cervelli? Si attivano straordinariamente le aree della memoria: zone limbiche, striatali e corteccia prefrontale mediale, aree visive e sensoriali si attivano proprio mentre i volontari riferiscono visioni e ricordi. Carhart-Harris passa poi a un esperimento con Lsd. Venti volontari sani, ricevono 75 mg di Lsd o di placebo, in vena. Registra i cambiamenti cerebrali con RMNf e altre tecniche di imaging cerebrale. Nel 2016, in aprile, pubblica lo studio dove rivendica di aver scoperto il bosone di Higgs delle neuroscienze.

Sì ma cosa significa tutto ciò? Carhart-Harris e Nutt provano a spiegarlo in questi termini. Il cervello è sottoposto a un’organizzazione gerarchica. Come fosse uno stato. Alcune aree rappresentano dei centri di comando rispetto ad altre. I centri di comando, le alte sfere, i vertici sarebbero il talamo, la corteccia posteriore cingolata, la corteccia prefrontale mediale. Aree di controllo e supervisione costituite, perlopiù, da neuroni serotoninergici. E l’Lsd si lega soprattutto ai recettori serotoninergici 5HT2A. Queste aree di controllo vengono definite DMN (Default Mode Network), la cui attività è, di norma, inibitoria. Un cervello, per scegliere bene, non può tener conto delle migliaia di stimoli che riceve. Lsd e psilocibina sostituiscono la serotonina nel legame ai recettori serotoninergici delle aree DMN, aboliscono l’inibizione che la serotonina determina, slatentizzano la possibilità di una iper-percezione, danno vita a un cervello anarchico, a una mente entropica, dove domina il caos. Come uno stato senza più governo, ovvero una società anarchica, dove tutte le aree cerebrali, tutti i neuroni, si connettono con aree mai incontrate prima.

E’ la cosiddetta ego dissolution.

Il risultato di questa rivoluzione, rispetto all’ordine costituito mentale però, non è il caos bensì una nuova organizzazione, non più disfunzionale, non più basata sui vecchi meccanismi.

L’Lsd e la psilocibina fanno ciò che neppure vent’anni di psicoanalisi sono capaci di fare. Davvero una sorta di psicoanalisi subitanea. E penso non solo al tempo risparmiato, ma pure al denaro.

Le neuroimmagini di Carhart-Harris dimostrano che tutto quanto di stupefacente il soggetto (che ha assunto Lsd o psilocibina) esperisce, ovvero di appartenere a un diverso universo, dipende dalle molteplici, nuove, diverse connessioni che nel cervello si sono formate dopo l’interruzione del DMN.

Scrive Codignola che “i neuroni, sganciati dalla rigidità delle vie obbligate, diventerebbero entità cosmopolite, libere e desiderose di comunicare le une con le altre, capaci di esprimere livelli di immaginazione creativa molto più complessi rispetto al normale e di modificare per sempre la percezione di sé e della vita”.

Ricapitolando. Cosa dimostra, nei suoi studi con la RMNf, Carhart-Harris? Nell’ordine: che con Lsd si attivano neuroni serotoninergici, e grazie a loro accade l’ego dissolution, e quanto maggiore è il dosaggio di Lsd tanto maggiore è l’entropia cerebrale che determina e quindi l’ego dissolution e dunque maggiore sarà il cambiamento di approccio all’esistenza che ne deriva.

Un dato che emerge, oltre alle dispercezioni, è una notevole attivazione semantica. Al cervello affluiscono più parole, perché non c’è il filtro del DMN. Chiaro che l’aumento della creatività verbale torna buona in una eventuale psicoterapia associata a Lsd o psilocibina. Con Lsd, inoltre, aumentano le sinestesie. Aumenta la suggestionabilità. Quindi possiamo immaginare che aumenti la suggestionabilità a quel che emerge nel corso di un colloquio psicoterapico. Diventa, in ogni caso, un potente acceleratore dei tempi della psicoterapia.

Nel 2016 viene pubblicato su The Lancet uno studio sul ruolo della psilocibina nella depressione. Due dosi, di 10 e 25 mg a distanza di una settimana, hanno un effetto antidepressivo nei due terzi dei pazienti. Secondo Carhart-Harris, ciò avviene per l’effetto di inibizione della psilocibina sul DMN. Ciò che non sappiamo è: perché Lsd e psilocibina, legandosi ai recettori 5HT2A risultano tanto più potenti dell’agonista naturale, ovvero della serotonina?

La risposta prova a darla il farmacologo Bryan Roth, che è riuscito a fotografare l’Lsd legato al recettore serotoninergico, e ha visto che la sua durata d’azione è davvero lunga: una dozzina di ore se non giorni se non per sempre. Ciò perché il recettore serotoninergico, appena aggancia l’Lsd, lo ricopre con un lembo, lo inguaina, tenendolo fermo per ore o giorni. Un comportamento assolutamente raro. Ciò confermerebbe che il microdosing funziona, proprio perché bastano dosi molto basse per ottenere un effetto antidepressivo.

Direi che per ora può bastare così. Negli anni 70 c’è stato questo switch. Dalla sostanza di vita, alla sostanza di morte. Si chiudono i rubinetti dell’Lsd, che viene posto in tabella 1, tra le droghe più pericolose. E si aprono (sul mercato dello spaccio) i rubinetti dell’eroina. Lei sì, la sostanza che uccide.

E’ venuto il momento di rivalutare Lsd, psilocibina, mescalina.

Propizio, delle volte, è avere libri da leggere. Leggeteli entrambi. Due libri che si legano. Che mi istigano a continuare la loro narrazione. Una narrazione su due sostanze temutissime, narrazione iniziata da una storica, proseguita da una chimica, e chi meglio di uno psichiatra, che è un mezzo chimico e un mezzo storico la può continuare?

Mentre leggevo i due libri ci pensavo. Non sono né uno storico né un chimico. Uno psichiatra, in effetti, è uno storico mancato, uno storico imperfetto, uno che non conosce mai bene la storia delle persone che incontra né conosce la sua storia, la storia di se stesso agente della psichiatria, voglio dire, in questo senso è un commesso un po’ stupido che si incarica di normalizzare per quel che può la minoranza deviante, e però lo fa coi farmaci, e dunque è per forza una specie di chimico, ma un chimico imperfetto, che non conosce bene la chimica, non conosce il meccanismo d’azione dei farmaci che prescrive, li dà ex aiuvantibus perché non conosce come funziona quel cervello che con quei farmaci bersaglia e cerca di cambiare e tutto sommato cambia, solo che non sa come. Quindi io sono meno di uno storico e meno di un chimico però mezzo più mezzo non sempre fa uno ma può far due o può far pure tre. Non lo dico io lo diceva Basaglia (e no, non lo rinnego né lo dimentico, il mio nume, solo perché adesso ho deciso di tornare a occuparmi di farmaci) citando Gramsci, che il nuovo intellettuale sarà sostenuto non più dal pessimismo della ragione (gli antipsicotici) ma dall’ottimismo della volontà (l’Lsd), e con l’ottimismo della volontà mezzo più mezzo può far due o anche tre. Voglio dire che questo specialista imperfetto incompleto indefinito monco che sono proverà a continuare la narrazione di queste due straordinarie narratrici, diverse ma efficacissime e che hanno pubblicato, lo scorso anno, due libri fondamentali. Propizio è stato avere questi due libri da leggere. Propizio è avere “un interesse ad agire”. Adesso lo sapete, dove andrà a parare il mio prossimo saggio narrativo (à la Carrère, naturalmente).

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Gli ultimi figli d’Europa https://www.carmillaonline.com/2018/03/29/gli-ultimi-figli-deuropa/ Wed, 28 Mar 2018 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44491 di Sandro Moiso

Giovanni Iozzoli, Di notte nella provincia occidentale, Edizioni ARTESTAMPA, Modena 2018, pp. 272, € 17,00

E’ un vero peccato che oggi non ci siano più registi del calibro di Mario Monicelli, Pietro Germi o Dino Risi, in grado di prendere in mano un romanzo come questo e trasformarlo in uno dei grandi classici della commedia all’italiana e che, dietro al sorriso e all’umanità della narrazione, avrebbero saputo rivelare l’amarezza delle vite dei protagonisti e i drammi dall’esito incerto di una società in via di smantellamento.

Una vicenda che procede per cerchi concentrici: dal dramma individuale a quello [...]]]> di Sandro Moiso

Giovanni Iozzoli, Di notte nella provincia occidentale, Edizioni ARTESTAMPA, Modena 2018, pp. 272, € 17,00

E’ un vero peccato che oggi non ci siano più registi del calibro di Mario Monicelli, Pietro Germi o Dino Risi, in grado di prendere in mano un romanzo come questo e trasformarlo in uno dei grandi classici della commedia all’italiana e che, dietro al sorriso e all’umanità della narrazione, avrebbero saputo rivelare l’amarezza delle vite dei protagonisti e i drammi dall’esito incerto di una società in via di smantellamento.

Una vicenda che procede per cerchi concentrici: dal dramma individuale a quello famigliare a quello sociale, locale e internazionale; da quello dei sogni racchiusi in attività lavorative in attesa di essere definitivamente soppresse a quelli legati ad attività in proprio destinate a morire ancor prima di nascere; da quello delle speranze giovanili infrante ancor prima di essere espresse a quello delle speranze degli adulti riposte un tempo nel sindacato, nel partito o semplicemente in una vita onestamente vissuta e sudata.

Si piange e si ride, proprio come negli esempi migliori della commedia all’italiana, assistendo alle vicende di Pasquale Altiero, di sua moglie Lucia, del figlio Gabriele, del kebabbaro Mustafà, di suo figlio Karim e degli innumerevoli altri personaggi che popolano le pagine del romanzo di Iozzoli. Personaggi che vanno dal tossico senza speranza destinato a morire all’alba sulle rive del fiume Secchia ai pensionati appassionati delle canzoni di Toni Santagata e dallo stesso Santagata a Abu Bakr Al Baghdadi. Tutti hanno storie da raccontare, tutti sperano in questo modo di dare un senso alle loro vite e di lasciare traccia di sé in un mondo che già non si ricorda più di loro mentre sono ancora in vita.

Tutti tranne i due giovani adolescenti, allo stesso tempo ideali e concreti, rappresentanti di quegli ultimi figli d’Europa che, da Modena a Molenbeek, dalla Siria a Bruxelles a Bologna o a qualsiasi altra città europea, non hanno nulla da ricordare e ben poco in cui sperare, così implacabilmente diretti come sono verso un futuro oscuro e incerto che rischia di trasformarsi, in qualsiasi momento, in un irresistibile vortice in grado di farli sprofondare sia nel buio dello Stato islamico e dei suoi profeti che nel buco nero rappresentato dal consumo di eroina e di crack.

Giovanni Iozzoli, giunto al suo quarto romanzo, è stato tra i fondatori dell’esperienza di Officina 99 a Napoli, da ventiquattro anni vive e lavora a Modena, della cui provincia è diventato allo stesso tempo il cantore e il cronista, e con il suo terzo romanzo, La vita e la morte di Perzechella (edito sempre da ARTESTAMPA), ha vinto nel 2016 il primo premio alla trentatreesima edizione del concorso Città di Cava de’ Tirreni.

Il suo attuale romanzo piomba dritto come una bomba su quelle province dove un tempo regnava il PCI, la terra delle coop rosse e degli imprenditori che erano usciti dalla classe operaia e dove oggi, da Brescello a tanti altri comuni grandi e piccoli, lo scettro è passato ad altri partiti, ad altre promesse che pure affondano le loro radici in quella distorsione di un immaginario collettivo e politico iniziata già dai contemporanei di Peppone e Don Camillo.

Il sogno dell’integrazione formale tra classe operaia e impresa, tra lavoro e capitale ben temperato, tra immigrati e residenti (che spesso hanno dimenticato le loro origini di immigrati), tra partito e società è fallito e non è rimasto nulla con cui sostituirlo se non rancore, desideri insulsi, mutui sempre più difficili da pagare oppure un nichilismo individualistico che non comprende neppure di essere tale.

Viaggia con leggerezza e amarezza lo scrittore tra i flutti di una mareggiata che viene da lontano e che non finirà presto e, quasi unico negli ultimi anni, sa raccontarci una storia italiana e globale, generazionale e sociale senza cadere nel dramma ad ogni costo o nella narrazione intimistica di una vicenda meramente individuale.

Non viaggia in superficie l’autore, ma si tuffa nel mondo di oggi senza farci annegare e senza soffocare i suoi personaggi in un mare di banalità o di retorica, giocando sapientemente con gli artifici della narrazione e rivelandoceli poco a poco con ironia e intelligenza. Riuscendo a far sì che, ancora una volta, sia la letteratura a fornirci la chiave interpretativa più utile per provare a comprendere il mondo che ci circonda. Feroce, comico, drammatico, complesso o in qualunque altro modo lo si voglia definire.

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Guerra dell’oppio in Afghanistan https://www.carmillaonline.com/2016/09/17/guerra-delloppio-afghanistan/ Fri, 16 Sep 2016 22:05:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33243 di Alfio Neri

afghanistanEnrico Piovesana, Afghanistan. 2001-2016. La nuova guerra dell’oppio, Arianna Editrice, 2016.

C’è un grafico, poco prima della prefazione, che riassume tutto il libro: mostra la produzione dell’oppio in Afghanistan secondo i dati delle Nazioni Unite. Il dato è sorprendente. Nel paese, dove si produce l’oppio per tradizione, la coltivazione del papavero esplode durante il conflitto antisovietico. L’alto livello di produzione si mantiene anche dopo la sconfitta dei sovietici e rimane alto durante le guerre civili fra le varie fazioni dei mujaeddin e [...]]]> di Alfio Neri

afghanistanEnrico Piovesana, Afghanistan. 2001-2016. La nuova guerra dell’oppio, Arianna Editrice, 2016.

C’è un grafico, poco prima della prefazione, che riassume tutto il libro: mostra la produzione dell’oppio in Afghanistan secondo i dati delle Nazioni Unite.
Il dato è sorprendente.
Nel paese, dove si produce l’oppio per tradizione, la coltivazione del papavero esplode durante il conflitto antisovietico.
L’alto livello di produzione si mantiene anche dopo la sconfitta dei sovietici e rimane alto durante le guerre civili fra le varie fazioni dei mujaeddin e nei primi anni del regime dei talebani. Il punto di svolta è rappresentato dall’editto del mullah Omar del 2001, che vieta, per motivi religiosi la produzione di oppio.
L’anno dopo il regime dei talebani viene rovesciato da un ‘intervento umanitario’.
Da allora la produzione di oppio è riesplosa.
Adesso l’Afghanistan produce 5.000 tonnellate d’oppio l’anno, i 9/10 della produzione mondiale, e l’aumento della produzione ne ha fatto abbassare il prezzo.
In sostanza, l’eroina che si spaccia sotto casa è tornata di moda grazie ai nuovi prezzi di vendita. Anche l’Italia, nel suo piccolo, ha contribuito ad abbassare il prezzo mondiale dell’eroina.
la-nuova-guerra-delloppioNessuna ironia, il libro è un reportage giornalistico scritto da Enrico Piovesana. Legato a ‘PeaceReporter’ (testata giornalistica dell’ONG ‘Emergency’), riporta una serie di vicende che hanno come centro Lash Kargah, una città in cui Emergency ha un ospedale.
Le vicende che racconta sono straordinarie. Inquietante è il racconto dell’intervento dei soldati americani che arrivano di notte in elicottero, sparano a tutti quelli che vedono, e sequestrano il raccolto di oppio (pp.21-23).
Azioni del genere avvengono su suggerimento della polizia e dell’esercito afgani che, per lasciare tranquilla la gente, chiedono il 10% del prodotto.
Poi segnalano agli americani quelli che non pagano.
I testimoni afgani dicono che la merce requisita dagli americani non è distrutta ma è girato a grossisti legati al governo che ne curano il trasporto all’estero.
A distruggere l’oppio non ci pensa proprio nessuno (p.28). L’oppio ha un valore economico a cui nessuno vuole rinunciare.
Mentre succedono queste cose, il prezzo dei cereali (la migliore alternativa all’oppio) è crollato verticalmente. L’arrivo di tonnellate di granaglie donate (un regalo !) dall’USAID e dal programma alimentare dell’ONU ha reso antieconomica la produzione nazionale di granaglie. Oggi agli agricoltori economicamente conviene abbandonare le vecchie colture basate sull’autoconsumo per spostarsi sul papavero, l’unica coltivazione in grado di garantire un margine di profitto (p.25). Non ha senso spaccarsi la schiena per qualcosa che non si riuscirebbe neppure a vendere.
La produzione dell’oppio ha creato una nuova configurazione sociale al cui centro ci sono i grandi raìs della droga, i grandi coltivatori e commercianti all’ingrosso di oppio.
Fra questi personaggi c’era, per esempio, Ahmed Wali Karzai.
Ai membri della sua guardia del corpo nel 2006 fu sequestrato un camion con cinquanta chili di eroina. Non gli venne fatto niente su ordine direttamente di Washington (pp. 47-48). Ahmed Wali Karzai era il fratello del Presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai.
Fra i nuovi raìs della droga c’era anche Mohamed Qasim Fahim, il comandante delle milizie tagike che, a fianco degli USA, combatterono i talebani nel 2002: un uomo che unì l’impegno nel narcotraffico all’ingrosso con gli incarichi di Ministro della Difesa e di Vicepresidente del paese (pp. 48-49).
In questi anni l’incremento della produzione di oppio ha generato effetti a cascata che vanno ben oltre a fenomeni di arricchimento personale. La coltivazione dell’oppio ha creato un nuovo blocco sociale; si tratta di una forza che ha molto da perdere dal ritorno al potere dei talebani e che è l’unica alleata delle forze di occupazione internazionali.
Il narcotraffico è l’unica forza sociale che può desiderare di impedire il ritorno dei talebani al potere.
I dati a disposizione sono chiari. Sotto l’occupazione militare degli Stati Uniti e della NATO, l’Afghanistan ha raggiunto il quasi monopolio mondiale della produzione di oppio e di eroina. Questi prodotti sono consumati in parte nel paese ma sono soprattutto esportati (contrabbandati?) in Iran e in Russia (paese nemici degli Stati Uniti). Questa stessa droga arriva poi anche da noi, ed è la stessa che troviamo spacciata sotto casa (p. 42).
Verso la fine del libro l’autore fa notare che vi sono alcune compagnie aeree di contractors vicine alla Cia che si prestano a fare qualsiasi tipo di trasporto retribuito. Nel libro compaiono diversi nomi di ditte che lascio alla curiosità lettore (pp. 65-67).
In sintesi l’occupazione dell’Afghanistan ha prodotto un gigantesco boom della produzione di oppio a livello mondiale. Inglesi e americani hanno gestito le aree in cui è esploso questo tipo di produzione.
L’Afghanistan è una narco-nazione da almeno la metà degli anni ottanta, ma la situazione si è aggravata con l’intervento internazionale. Da allora è cresciuto un narco-stato che ha fatto della corruzione a tutti i livelli, la sua unica ragion d’essere.
Cosa stiamo facendo da quelle parti ?

missione-oppioSe lo chiede anche Giorgia Pietropaoli, in Missione oppio. Afghanistan: cronache e retroscena di una guerra persa in partenza, Alpine Studio, 2013.
Perché c’è stato l’intervento in Afghanistan?
Perché fare un intervento internazionale in una nazione fuori dal mondo?
Bene, in Afghanistan c’è solo l’oppio.
Il mondo è pieno di regimi politici sgradevoli che restano al potere. Non parlare di oppio e omettere la questione del controllo politico della sua produzione significa non capire gran parte della realtà di quel paese.
Non ci possono essere molti dubbi. Le testimonianze messe in evidenza dall’autrice sono univoche: l’intero paese si regge sull’oppio (p. 24).
Quindici anni fa iniziava il lungo intervento ‘umanitario’.
Da allora la situazione è peggiorata, e ha trionfato la retorica.
Più volte le autorità hanno dichiarato che avevamo vinto e che la guerra era finita.
In tutti i casi si è sempre evitato di rispondere alla questione centrale: che senso ha un intervento in un paese in cui c’è solo l’oppio?
Subito dopo l’invasione della NATO, la produzione di oppio riprende i suoi livelli storici e poi esplode, aumentando di trenta volte. Questo processo non ha nulla a che fare con i talebani.
La guerriglia è riapparsa dopo il 2006, cioè dopo il boom della coltivazione del papavero. L’intervento della NATO ha prodotto il boom nella produzione dell’oppio, poi solo l’insipienza del nuovo governo ha permesso il ritorno dei talebani. Non sono i talebani la causa del boom del papavero.
La missione ISAF in Afghanistan era stata annunciata come missione transitoria. All’inizio l’intervento era riservato alla sola area di Kabul, la capitale. Lo scopo era quello di permettere l’insediamento di Karzai. In seguito l’operazione è stata allargata a tutto il territorio nazionale senza aumentare le risorse a disposizione.
L’occupazione militare, che comunque non ha mai avuto il pieno controllo del territorio, ha favorito il boom dell’unico prodotto vendibile con profitto. Il risultato è la formazione di un’amministrazione molto corrotta, trapiantata in una narco-area virtualmente fuori ogni tipo di controllo.
Oggi il grosso della produzione dell’oppio avviene nel sud del paese, in aree da sempre controllate esclusivamente da inglesi e americani (pp. 106-109).
Il processo di crescita e di rafforzamento di tutta la filiera criminale va avanti da anni e in molte aree del paese si è stabilizzata una peculiare formazione economico-sociale.
La produzione di oppio e di eroina è ampiamente consumata nel paese ed è massicciamente esportate in Iran e in Russia. Il meccanismo però non si mai fermato qui perché oggi la gran parte dell’eroina consumata in Europa e negli Stati Uniti viene dall’Afghanistan. Si è anche formata una connessione internazionale fra i gruppi criminali messicani e le organizzazioni afgane che si occupano del commercio di oppio (pp. 29-32).
Da tempo, questo stato di cose è a conoscenza delle truppe italiane di stanza nel paese.
L’autrice racconta anche l’incredibile vicenda di un tenente colonnello dei Carabinieri, un certo Cristiano Congiu.
Inviato in Afghanistan dall’antidroga a fare indagini, il 4 Giugno 2011 ha avuto un incidente ed è morto per un colpo di pistola alla tempia. Fra i presenti all’incidente vi era anche una signora che lavorava per una ditta civile che faceva da copertura alle attività della CIA.
L’autrice racconta anche che i dati dell’autopsia fatta in Afghanistan non combaciavano con quanto visto sul cadavere da testimoni italiani. Alla fine il corpo è stato provvidenzialmente cremato (pp. 85-99).
Da anni le fonti d’informazione russe affermano che le forze d’occupazione americane non contrastano la produzione di droga perché questa rende cinquanta miliardi di dollari l’anno.
La droga è prodotta nelle regioni del sud sotto controllo inglese e americano. Si tratta di aree geografiche marginali, anche da un punto di vita afgano. La produzione della merce è inoltre e gestita da gruppi locali apparentemente sprovvisti di quelle risorse necessarie per esportarla in tutto il resto del mondo (pp. 127-137). Malgrado tutto ciò la produzione di oppio e di eroina dell’Afghanistan ricompare in Kosovo da dove è distribuita in tutta Europa.
Le fonti russe aggiungono anche che i collegamenti fra Bagram (l’aeroporto di Kabul) e il Kosovo sono mantenuto da alcune imprese di contractors (vi è il nome) molto vicine ai servizi statunitensi (pp. 157-169).
Il quesito proposto dall’autrice: che cosa stiamo a fare in un paese in cui c’è solo l’oppio?
Tutto il resto viene di conseguenza.

 

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Lo “scivolone” di Cortázar https://www.carmillaonline.com/2016/06/01/lo-scivolone-cortazar/ Tue, 31 May 2016 22:00:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30851 Cortazardi Raul Schenardi*

Dopo una lunga assenza è tornato in libreria, nella nuova traduzione di Ilide Carmignani, L’inseguitore di Julio Cortázar, riproposto da Sur con le illustrazioni di uno dei maestri del fumetto argentino, José Muñoz. Il racconto fu pubblicato nel 1959 nella raccolta Las armas secretas, e sotto il nome del protagonista, Johnny Carter, è facile riconoscere la figura del leggendario sassofonista Charlie Parker, morto nel 1955 a soli trentacinque anni, fondamentalmente per abuso di alcol ed eroina.

E qui abbiamo un problema.

Perché nel racconto, come [...]]]> Cortazardi Raul Schenardi*

Dopo una lunga assenza è tornato in libreria, nella nuova traduzione di Ilide Carmignani, L’inseguitore di Julio Cortázar, riproposto da Sur con le illustrazioni di uno dei maestri del fumetto argentino, José Muñoz. Il racconto fu pubblicato nel 1959 nella raccolta Las armas secretas, e sotto il nome del protagonista, Johnny Carter, è facile riconoscere la figura del leggendario sassofonista Charlie Parker, morto nel 1955 a soli trentacinque anni, fondamentalmente per abuso di alcol ed eroina.

E qui abbiamo un problema.

Perché nel racconto, come viene ribadito più volte, la “droga” che assume Johnny Carter non è l’eroina, termine che non compare mai, bensì… la marihuana.

Leggiamo: «Johnny sta delirando e ha in corpo abbastanza marihuana da far impazzire dieci persone». E ancora, sempre più stupefatti: «fantasmi della marijuana, in fin dei conti, che scompaiono con una cura di disintossicazione». In un crescendo che sembra destinato a non finire mai: «Johnny suonava svogliato con l’ansia di scappare (a drogarsi di nuovo, aveva detto il tecnico del suono fuori di sé dalla rabbia), e quando l’avevo visto uscire barcollando con la faccia cinerea, mi ero chiesto se sarebbe durato ancora molto». Infatti, il macabro presagio viene ripreso poco dopo: «Johnny non resisterà ancora a lungo in questo stato. La droga e la miseria non vanno d’accordo».

(Oddio, la marihuana porta dritti alla schizofrenia? Al manicomio? Uccide? Ci si può salvare solo con una bella cura di disintossicazione? Tutti a Patrignano? E nessuno se n’era mai reso conto, ignorando i paterni avvertimenti che ci venivano da Fini, Giovanardi, Casini e altri probi viri…)

Insomma, per tutto il racconto abbiamo a che fare con sintomi e comportamenti tipici di un eroinomane, comprese le dolorose crisi di astinenza, solo che questa serie di disgrazie viene attribuita all’assai più innocente marihuana.

Forse è il caso di rimettere un po’ d’ordine, e per farlo possiamo ricorrere a William Borroughs, uno che se ne intendeva. Nel prologo del suo Il Pasto nudo (prima edizione, Parigi 1959, lo stesso anno dell’Inseguitore) scriveva:

“Quando parlo di tossicomania non mi riferisco né al keif, né alla marijuana, né ad alcun preparato a base di hashish, mescalina, Bannisteria caapi, LSD6, Funghi Sacri o qualsiaisi altro allucinogeno… Non è scientificamente dimostrato che l’uso degli allucinogeni causi dipendenza fisica. L’azione di questi stupefacenti è fisiologicamente opposta all’azione della droga. A causa dello zelo delle Squadre narcotici degli Stati Uniti e di altri paesi si è creata una deplorevole confusione fra le due classi di droghe”.

Com’è possibile che tale “deplorevole confusione” faccia capolino anche nel racconto di uno scrittore latinoamericano niente affatto moralista o provinciale come Cortázar? Il “dettaglio”, se vogliamo chiamarlo così, non poteva sfuggire, e vi accenna anche Ilide Carmignani in un articolo per “La Stampa” poi ripreso da Sotto il vulcano, il blog delle edizioni Sur.

Martín Caparrós (autore dell’ottimo saggio-reportage La fame, pubblicato l’anno scorso da Einaudi) racconta che una volta, durante un viaggio in taxi dopo un’intervista, fece una domanda a Cortázar su questo punto, che l’aveva sempre incuriosito: “Perché gli era passato per la testa di scrivere che Johnny Carter, il sassofonista del Perseguidor, diventa un tossico terminale, soffre di terribili crisi d’astinenza e alla fine muore per un’impossibile overdose di marihuana? Cortázar rise e disse che in effetti si trattava di un errore, che nel 1958, quando aveva scritto il racconto, non aveva la minima idea su nessuna droga e aveva messo marihuana come avrebbe potuto mettere candeggina, e che si era reso conto dello scivolone (patinazo) solo grazie al suo traduttore americano, che aveva ipertradotto eroina invece di marihuana – ma lui non aveva voluto cambiarlo. Poi parlammo dei grandi errori letterari, dell’orologio di Amleto, dei leoni di Kipling, e il taxi non arrivò da nessuna parte».

Commenta un po’ diffidente Caparrós: «È strano immaginare adesso un’epoca in cui uno scrittore latinoamericano a Parigi, ansioso di modernità e frequentatore di vari bassifondi, non sapesse cos’era la marihuana». Già.

Di sicuro comunque Cortázar ne seppe qualcosa più tardi, durante una delle sue vacanze a Deià, Mallorca (il “paradiso segreto” scoperto da Robert Graves già nel 1929), dove nei primi anni Sessanta era ben installata una comunità di artisti della beat generation piuttosto numerosa e agguerrita: fra gli altri, musicisti come Robert Wyatt, Mike Oldfield, Kevin Ayers, e un artista come Mati Klarwein, che ha realizzato alcune delle copertine psichedeliche più celebri degli lp degli anni Settanta, da Bitch Brew di Miles Davis ad Abraxas di Santana.

Sta di fatto che in una lettera del 1970 all’amico pittore e poeta Eduardo Jonquières, il Gran Cronopio scriveva: “Strane circostanze mi hanno fatto incontrare un gruppo di hippy e per un’intera notte ho scoperto che non sono quel cancro sociale denunciato dai benpensanti, anzi, il cancro è precisamente ciò che li circonda e li ostacola; in ogni caso, in quel gruppo c’era qualcosa di molto simile alla felicità, alla conclusione di un lungo viaggio, a una riconciliazione. Con l’aiuto della marihuana, chiaro (la fumano, l’abbiamo fumata, seduti sulla scalinata della cattedrale, cosa piuttosto buffa, e senza che la polizia venisse a ficcare il naso, malgrado l’odore abbia poco a che vedere con quello dell’incenso)”.

Possiamo tirare un sospiro di sollievo: Cortázar non può essere arruolato impunemente fra i persecutori dei ragazzi dello spinello.

Resta il dubbio sul perché, una volta messo in guardia dal suo traduttore inglese, non abbia mai voluto correggere l’errore nelle edizioni successive. Il critico Carlos María Domínguez sostiene che: “In spagnolo preferì che restasse com’era, forse perché il racconto più che di Parker parla di Cortázar, e anche della sua esperienza con la marihuana, pudicamente velata in questo racconto degli anni Cinquanta”.

(E Cortázar sembra dargli ragione quando nell’“Inseguitore” mette in bocca queste parole alla voce narrante, il suo alter ego Bruno, critico di jazz: “Il brutto è che se continuo così finirò per scrivere  più di me che di Johnny. Comincio a sembrarmi un evangelista e non lo trovo affatto divertente”.) Nella stessa nota, un’approfondita recensione della biografia di  Annie Pannonica Rotschild, “la baronessa del jazz”, detta “Nica”, Tica nel racconto, Carlos María Domínguez dà sostanzialmente ragione alle critiche mosse a Cortázar dalla biografa – una nipote della “pecora nera” dei Rotschild –, per aver dipinto il quadro di una donna abbastanza frivola e promiscua, oltretutto sospettata da Bruno di procurare la “droga” al musicista. È pur vero che Charlie Parker morì in casa della baronessa, della quale peraltro non era particolarmente amico, ma aveva appena bussato alla sua porta per chiederle qualcosa da bere e da mangiare, in condizioni pietose dopo un tentativo di suicidio, la morte della figlioletta e l’abbandono della moglie. E Nica non rifiutava ospitalità a nessuno dei suoi amici jazzisti. In particolare, accompagnò Thelonius Monk per quasi trent’anni, prendendosi cura anche della moglie e dei figli, e lo ospitò per un decennio dopo la separazione della moglie, quando era ormai caduto in uno stato catatonico.

Alla fine mi viene un dubbio, niente affatto atroce, casomai ironico: Cortázar non avrà glissato sul suo rapporto con la marihuana per paura del giudizio di Jorge Luis Borges? In questo caso sarebbe andato fuori strada, perché una volta il suo compassato Maestro, alla domanda di un intervistatore: “Certe malelingue mi hanno detto che lei ha conosciuto certe droghe…”, rispose: “Sì, però ho fallito con la cocaina e con la marihuana. Ho fatto diversi esperimenti sinceri, cinque o sei. E con la cocaina, sì, mi sentivo ciarliero, ma molto nervoso. Con la marihuana, invece, non ho sentito assolutamente niente. Però sono stato sul punto di diventare un ubriacone”.

Le solite (o altre) malelingue hanno messo addirittura in circolazione la voce secondo cui sarebbe stato stato proprio Borges, che trascorse un periodo in un paesino poco distante da Deià alla fine degli anni Venti, a far conoscere a Robert Graves certi funghi psichedelici messicani, e in rete c’è chi è pronto a giurare – basandosi addirittura su un’allusione di sua moglie, Maria Kodama, durante un convegno pubblico – che la rivelazione del celebre racconto “L’Aleph”, l’apice “mistico” dell’opera borgesiana, non sia stata indotta dallo “pseudo-cognac” offertogli dall’amico-rivale Carlos Argentino Daneri – tant’è che Borges non prova i classici sintomi dell’ingestione di un alcolico, che peraltro conosceva bene –, ma da un fungo allucinogeno (nome scientifico Psylocybe hoogshagenil) che cresce anche in Argentina nel mese di febbraio tra i 1000 e i 1800 metri. Scrive infatti il Maestro: “Sentii un confuso malessere, che volli attribuire alla rigidità, e non all’effetto di un narcotico. Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Aleph”.

*Traduttore (Arlt, Aira, Asturias, Pacheco, Sabato, Vallejo), aficionado di letteratura latinoamericana, blogger su perleecicatrici.org

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Figli di nessuno. Storie conflittuali nell’alta Lombardia degli anni ’70 https://www.carmillaonline.com/2016/04/08/figli-nessuno-storie-conflittuali-nellalta-lombardia-degli-anni-70/ Fri, 08 Apr 2016 21:30:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29133 di Gioacchino Toni

figli di nessuno coverSergio Bianchi, Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu edizioni, Milano, 2016, 336 pagine, € 15,90

«Credo che la ricchezza principale della nostra piccola esperienza militante fatta in quei paesi di provincia sia consistita nell’essere stati protagonisti di una rottura sociale unica dal dopoguerra in poi, dal punto di vista del voler rompere un assetto sociale, culture, forme esistenziali, modi di essere» S. Bianchi (p. 34)

Il libro di Sergio Bianchi, di cui è uscita nel marzo 2016 questa nuova edizione ampliata di un’ottantina di [...]]]> di Gioacchino Toni

figli di nessuno coverSergio Bianchi, Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo, Milieu edizioni, Milano, 2016, 336 pagine, € 15,90

«Credo che la ricchezza principale della nostra piccola esperienza militante fatta in quei paesi di provincia sia consistita nell’essere stati protagonisti di una rottura sociale unica dal dopoguerra in poi, dal punto di vista del voler rompere un assetto sociale, culture, forme esistenziali, modi di essere» S. Bianchi (p. 34)

Il libro di Sergio Bianchi, di cui è uscita nel marzo 2016 questa nuova edizione ampliata di un’ottantina di pagine rispetto all’edizione del 2015, racconta un periodo di storia conflittuale collettiva nell’alta Lombardia a cui ha preso parte in prima persona l’autore a partire dai primi anni ’70. In apertura di volume, Bianchi sottolinea come quelle insorgenze sociali che hanno investito anche la provincia alto-lombarda, originatesi sull’onda lunga del biennio ’68-’69, possono dirsi concluse nei primi anni ’90 con la diffusione in quei territori del progetto leghista.

Se il biennio ’68-’69 può essere visto come momento di detonazione di quell’onda lunga che poi investirà le realtà di provincia descritte nel volume, secondo Bianchi vale la pena spendere qualche pagina sul “pre-sessantotto” di quelle zone, periodo già precedentemente affrontato dall’autore sotto forma di romanzo (La gamba del Felice, 2006) [su Carmilla]. Il capitolo d’apertura di Figli di nessuno ricostruisce le trasformazioni subite dalla provincia a nord di Milano tra la metà degli anni ’50 e la fine degli anni ’60; quasi un quindicennio di lento ed inesorabile declino del mondo contadino distrutto dalla meccanizzazione della campagna a totale beneficio dei grandi proprietari terrieri e da una mentalità individualista che non ha saputo dar vita a soluzioni associative cooperativistiche. Tutto ciò ha determinato da una parte l’abbandono delle campagne da parte dei giovani e, dall’altro, la perdita d’identità e di autorevolezza sociale della componente più anziana del mondo contadino. Nello stesso periodo la tessitura diviene “la grande fabbrica” di quei territori un tempo contadini. «La conduzione padronale è paternalistica, la classe operaia laboriosa e riconoscente dell’occasione di lavoro offerto. […] Il sindacato è inesistente» (p. 13).

A partire dai primi anni ’60 i processi di modernizzazione riplasmano le fabbriche medio-grandi portando ad una dequalificazione del lavoro, all’espulsione di parecchia manodopera ed all’incentivazione dell’autoimprenditorialità diffusa. A tali trasformazioni si deve aggiungere il fenomeno migratorio che portò nel nord della Lombardia dapprima una manodopera di provenienza veneta, negli anni ’50, poi meridionale, nel decennio successivo. «Per primi arrivano gli uomini […] Si accontentano di stare anche in sei o sette nelle stalle, nelle cantine, nei locali fatiscenti delle case abitate precedentemente dai contadini […] Gli abitanti del paese […] li emarginano e li denigrano per via delle condizioni in cui accettano di vivere e di lavorare (p. 15). Poi è la volta della costruzione di abitazioni durante il tempo extra lavorativo, dunque della chiamata di mogli, figli e genitori che porta al raddoppiamento della popolazione. Parallelamente a tutto ciò si diffonde anche il contrabbando di sigarette con la vicina Svizzera che origina un fenomeno rilevante di illegalità di massa che consente anche ad alcuni settori della popolazione non appartenenti alle classi agiate di avere a che fare con il consumismo e lo spreco.

Da tali premesse prendono il via le storie narrate da Bianchi a partire dalle vicende personali che lo vedono, nativo di Tradate in provincia di Varese, prendere parte dal 1973, sedicenne, al 1978 ad alcuni collettivi autonomi tra Varese, Como e Milano, per poi finire per essere risucchiato in un’interminabile turbinio di arresti e detenzioni che lo proiettano all’interno del carcere speciale di Trani durante la rivolta dei detenuti del dicembre 1980, fino alla scarcerazione ed all’espatrio in Francia ove resta fino a metà degli anni ’80.

All’inizio degli anni ’70 il territorio dell’alta Lombardia era caratterizzato da un processo di sindacalizzazione delle piccole fabbriche e dalla nascita di diversi collettivi di giovani operai, il più delle volte non passati dall’esperienza dei gruppi extraparlamentari ormai in disfacimento. Questa generazione di giovani di provincia si era avvicinata genericamente alla politica ed alla militanza, sull’eco del nascente fenomeno dell’Autonomia operaia e facendo riferimento ai testi teorici di derivazione operaista: «il nostro ambito era costituito a stragrande maggioranza da giovani e giovanissimi operai che dimostravano un’indisponibilità ad accettare le condizioni del regime di fabbrica, l’identità operaia stessa e non avevano assolutamente intenzione di percorrere il terreno sindacale nei termini classici […] Quell’area di giovani operai rimase fortemente influenzata dalle tematiche operaiste: una parola d’ordine come “rifiuto del lavoro” aveva in sé una forte capacità di suggestione nel senso che corrispondeva a un bisogno materiale immediato di non accettare quelle condizioni di vita, solo dopo si è capito che aveva anche un suo rilevantissimo fondamento teorico» (p. 34).

In tale contesto, tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974, iniziò a svilupparsi all’interno delle fabbriche del territorio un clima conflittuale senza precedenti e ben presto i militanti compresero che la frantumazione del tessuto produttivo imponeva la necessità di tentare una ricomposizione della classe su base territoriale. Tale bisogno portò alla nascita di uno spazio sociale capace di aggregare un tessuto che si stava pericolosamente sfilacciando all’interno delle piccole unità produttive distribuite nel territorio. Sul finire del 1975 a Tradate, in maniera totalmente autonoma, si organizzò una prima occupazione di uno spazio di proprietà della Curia: «Il nostro centro sociale era immaginato come un posto che doveva servire a ricomporre le varie figure del lavoro operaio frantumate sul territorio» (pp. 35-36). Dopo lo sgombero la lotta per lo spazio sociale si risolve con l’ottenimento di uno spazio da parte delle autorità locali incalzate da una serie di iniziative politiche.

«Comunque, l’elemento conflittuale era prevalentemente generazionale […] Lì c’era una soggettività che spingeva forte sul terreno del rifiuto del lavoro operaio e che faticava a trovare mediazioni, perché l’aspirazione era prioritariamente quella di uscire dalla fabbrica, cosa che poi è avvenuta qualche anno dopo in maniera definitiva: più nessuno, infatti, è rimasto in fabbrica» (p. 36). Tale fenomeno di abbandono della fabbrica coinvolse in quei territori, sottolinea l’autore, centinaia di soggetti che fino ad allora erano stati elementi rappresentativi all’interno dei Consigli di fabbrica. L’età di questi militanti era decisamente bassa, Bianchi sostiene che, attorno alla metà degli anni ’70, nessuno aveva più di trent’anni. «Quel movimento ha costituito una rottura culturale dentro quel territorio, perché la rivolta era anche dentro al famiglia, con il figlio operaio incazzato che si scontrava con il padre operaio sindacalizzato, il quale riteneva folli le argomentazioni e le proposte del figlio» (p. 37).

Nella ricostruzione proposta da Sergio Bianchi emerge come, nonostante questo giovane movimento autonomo avesse finito per affrontare tematiche molto diversificate, legate ai bisogni sentiti da quella generazione, non venne mai messa in discussione l’idea diffusa e condivisa che la centralità doveva restare ben salda sulla questione materiale ed in particolare sulla figura operaia.

I rapporti con Milano iniziarono ad intensificarsi a metà degli anni ’70 e dalla metropoli non mancarono tentativi egemonici nei confronti dei piccoli collettivi della provincia. Anche la realtà di Tradate si trovò presto ad aver rapporti con le diverse anime del movimento milanese; alcune componenti di Potere operaio e di Lotta continua erano confluite nel gruppo di Senza Tregua, maggiormente legato agli ambienti operai, oppure, particolarmente attiva era l’area di Rosso che aveva avuto maggior influenza sui militanti di Tradate. «La teorizzazione dell’“operaio sociale” […] prevedeva un innesto di tematiche che rischiavano di snaturare la tradizionale militanza in fabbrica, la tenuta della centralità operaia […] ma per come la vedevamo noi quel tipo di intuizione era pertinente alla materialità della soggettività che ci trovavamo di fronte …] te ne rendevi conto subito analizzando la situazione, facendo inchiesta. L’operaio era sociale […] Era proprio quello il tipo di figura che ci trovavamo davanti, un nuovo strano operaio che si scontrava con l’altro, quello più tradizionale perché legato al sindacato e al partito» (pp. 44-45).

Nonostante la giovane età e l’essere etichettati come appartenenti ad un’area estremista costantemente criminalizzata, il movimento nella provincia lombarda seppe  mantenersi interno alle dinamiche sociali, evitando la rottura definitiva con gli altri ambiti della classe nonostante i dissidi e le difficoltà di relazione.
Il decentramento produttivo, dispiegatosi con forza in tali territori a partire dalla metà degli anni ’70, determinò un forte cambiamento della composizione tecnica della classe operaia. Bianchi, nel cartografare le modalità produttive presenti sul territorio, segnala tre grandi blocchi tra di loro, ovviamente, legati. Vi erano industrie medio-grandi con una manodopera anziana e sempre più risicata nei numeri a causa del processo di automazione. In tali ambienti lavorativi era presente, sostiene l’autore, «una consolidata presenza sindacale “sensibile” alle necessità delle direzioni aziendali» (p. 53). Vi era poi un indotto composto da unità produttive di piccole dimensioni, spesso artigianali, in cui trovavano occupazione poche unità “regolari” e diversi studenti-lavoratori, operai dediti al “doppio lavoro”, donne non inquadrate nel lavoro ufficiale-tutelato, ecc. Infine vi erano piccolissime unità produttive collocate nelle abitazioni, nelle cantine e nei garage. Si trattava di rapporti di lavoro totalmente deregolamentati che sfruttavano casalinghe, pensionati, invalidi, bambini e disoccupati.

In tale contesto si sviluppò l’esperienza dei Collettivi autonomi nel nord della Lombardia, collettivi composti da giovani operai di bassa scolarizzazione, politicamente “figli di nessuno”. Il centro della scena venne preso da una soggettività proletaria inedita capace di costruirsi analisi e progettualità politiche autonome. «Il bisogno di rivolta esistenziale per i “figli di nessuno” muoveva comunque dall’intuizione che la fabbrica, il suo paradigma di sfruttamento, la sua “centralità” acquisiva, diffondendosi, carattere di totalità, finiva cioè col dominare tutto il complesso delle relazioni sociali in cui era inserita […] Per questi motivi sui “figli di nessuno” più che le teorie pseudoleniniste dei partitini extraparlamentari fece presa la combinazione di concetti quali “autonomia”, “rifiuto del lavoro” e tutto il colorito e suggestivo repertorio delle “controculture”» (p. 54). Ciò che veniva chiaramente percepito da questi giovani operai era la necessità di proiettarsi in avanti mettendo al centro della progettualità e dell’agire politico non la liberazione del lavoro ma la liberazione dal lavoro.

La scoperta di una lettura storica diversa delle lotte operaie proposta dagli scritti operaisti permise a questi “figli di nessuno” di scegliersi i propri padri nelle lotte dell’“altro movimento operaio”, quello autonomo e rivoluzionario che da quindici anni, nelle grandi concentrazioni produttive, aveva prodotto un volume di lotta tale da determinare la crisi del sistema di produzione, costringendo il capitale a progettare scientificamente la scomposizione del ciclo produttivo, e con esso della classe, attraverso il ricorso alla “fabbrica diffusa”. «Giovanilismo, culto della marginalità e del ghetto furono tendenze presenti in quel movimento che nella sua espansione attirò inevitabilmente a sé figure sociali tra le più disparate, e tra queste anche alcune effettivamente cariche di gravi disagi. Ma il nucleo principale restò, almeno fino agli inizi del 1978, quello operaio, e solo ciò garantì la tenuta insieme di tutte le differenze» (p. 71).

Sul finire del 1977 iniziò un vero e proprio esodo dalle fabbriche dell’alta Lombardia che portò molti operai alla ricerca di fonti alternative di reddito. Ciò, sostiene Bianchi, finì col mettere in crisi le strutture identitarie di quei soggetti che improvvisamente si trovarono ad essere smarriti in un indefinita collocazione sociale, dunque politica. Il 1977 finì con l’accelerare diversi processi già in atto e gli ambiti politici con minor legame sociale diedero vita ad una sorta di simulazione territoriale di uno scontro che risultò in molti casi scollegato da contesti di lotta reali: Bianchi lo definisce «emulazione in piccola scala di un insurrezionalismo privo di contesto, una rappresentazione spettacolare che attraverso l’esemplificazione di gesti simbolicamente o concretamente violenti mirava a creare un punto di riferimento per soggetti singoli o piccoli gruppi che maggiormente vivevano le conseguenze del disagio indotto dalla crisi» (pp. 75-76) ed, a tali compagini, non mancarono di unirsi frotte di sbandati e disperati.

In questo clima si arrivò presto a lacerazioni interne al movimento determinate dalla scelta o dal rifiuto di accettare il terreno della militarizzazione dello scontro nei confronti dello stato. In un clima irreale di «attesa dell’inesorabile precipitazione degli eventi» (p. 77) il movimento iniziò a “perdere pezzi” ed in molti optarono per l’abbandono della politica scivolando spesso nella spirale dell’eroina. Per molti la crisi del movimento significò la perdita di identità e di visione del futuro e l’eroina si prestò facilmente a tale processo di autodistruzione. A tutto ciò una parte del movimento, l’area militante, decise di rispondere con la chiusura e l’espulsione dalle proprie fila di quanti dichiararono e rivendicarono l’uso di eroina presentando tale scelta come espressione di radicale antagonismo. «L’area militante reagì con il disperato istinto della sopravvivenza, come se si trattasse di affrontare una cancrena e non tentennò mai per un attimo nella decisione dell’“amputazione”» (p. 79). A proposito della disgregazione del movimento, Sergio Bianchi riporta, condividendola, una storica dichiarazione di Sergio Bologna (La tribù delle talpe): «l’autonomia del soggetto non può elidere il potere, la sua realtà. Se diciamo che la forza del soggetto è proprio quella di liberarsi della realtà, di avere come unico parametro il proprio desiderio antagonista, allora dobbiamo anche sapere che la sola pratica di comportamento coerente con tale ideologia è l’eroina. Oggi, in Italia, febbraio 1978» (riportata a p. 80).

Una parte del volume è composta da un’antologia di testi (interventi di collettivi locali, stralci tratti da riviste del periodo, testi di canzoni, poesie, interviste a militanti ecc.) utile a contestualizzare e comprendere meglio gli eventi descritti da Bianchi. Nella nuova edizione (2016) ampliata si trovano scritti di: Nanni Balestrini, Marco Bascetta, Franco Berardi (Bifo), Lanfranco Caminiti, Marina Campanale, Roberto Carcano, Paolo Demaestri, Rossana De Simone (Crudelia), Massimo Kunstler, Enrico Livraghi, Primo Moroni, Toni Negri, Rossana Rossanda, Ada Tosatti, Pino Tripodi, Mauro Trotta, Maria Teresa Zoni.

In chiusura vale la pena riportare i versi di una celebre poesia di Nanni Balestrini, presente nell’antologia del volume, pensando a tutti coloro che hanno tirato un sospiro di sollievo quando questi “figli di nessuno” si sono (e sono stati), in un modo o nell’altro, tolti di mezzo.


C’è chi loda il letamaio

Qual è il segno culturale del nostro tempo
il bello di cattivo gusto
cioè la merda
le belle pubblicità di merda i bei abiti

di merda il bell’erotismo di merda
le belle banche di merda i bei romanzi
di merda il bel giornalismo di
i bei talk show di merda insomma

tutti i belli super professionali
di merda prodotti della cultura spettacolo
di merda con quella incancellabile e richiesta
vena di cattivo gusto cioè di merda

diciamo la cultura dei professionisti di massa
di merda che lavorano per le masse di merda
è difficile diciamo noi
disobbedire al proprio tempo

ci sono tempi che danno licenza di buon gusto
e tempi di merda che la tolgono
e chi contravviene alla merda se va bene
sarà apprezzato dai posteri

oggi i buoni professionisti della merda
selezionati dai grandi media di merda
sanno mettere insieme colori immagini di merda
luci effetti di merda tridimensionali

belli bellissimi sanno organizzare i bei
dibattiti sado-maso di merda le belle
inchieste tutte ritmo e suspense
ma mettendoci quel tanto di cattivo gusto

cioè di merda che hanno coltivato invece di soffocare
per piacere allo spettatore massa di merda
e senza un po’ di cattivo gusto
cioè di merda oggi si campa male

a noi tocca vivere nella cultura spettacolo
di merda del bello di cattivo gusto
cioè di merda ben retribuiti e puniti
ogni giorno della fama di merda

è difficile disobbedire al proprio tempo di merda
non curarsi del suo segno culturale di merda
oggi uno che non ha successo
perché guarda in alto e comunque non nel letamaio

non viene guardato dalla merda
come un’intelligenza esigente
come il potatore di una grande ambizione
ma come un corpo estraneo alla merda

vivere in sintonia con la cultura di massa
di merda è vivere nel migliore dei mondi
di merda oggi possibile
è quasi impossibile sottrarsi

alla cultura del proprio tempo di merda
i compensi agli intelligenti perché producano
merda per i rozzi e volgari sono ottimi
e tutti più o meno ci siamo adeguati alla merda

Nanni Balestrini (1985)

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Ayotzinapa, Iguala e i Sentieri dell’Eroina Messicana https://www.carmillaonline.com/2015/12/31/ayotzinapa-iguala-e-i-sentieri-delleroina-messicana/ Thu, 31 Dec 2015 19:00:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27620 di Fabrizio Lorusso

Messico ayotzi striscio blanco y negroA oltre 15 mesi dalla mattanza di sei persone e la sparizione forzata di 43 studenti ad Iguala, le vittime di quel crimine di stato e gli altri 26.000 desaparecidos del Messico continuano a chiedere giustizia. Insieme a migliaia di persone “mancanti” la grande assente è la verità, o almeno la ricerca di versioni plausibili sulla drammatica notte della strage di Iguala in cui, conviene ricordarlo, non solo furono fatti sparire brutalmente i normalisti di Ayotzinapa, ma vi furono anche sei morti, [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Messico ayotzi striscio blanco y negroA oltre 15 mesi dalla mattanza di sei persone e la sparizione forzata di 43 studenti ad Iguala, le vittime di quel crimine di stato e gli altri 26.000 desaparecidos del Messico continuano a chiedere giustizia. Insieme a migliaia di persone “mancanti” la grande assente è la verità, o almeno la ricerca di versioni plausibili sulla drammatica notte della strage di Iguala in cui, conviene ricordarlo, non solo furono fatti sparire brutalmente i normalisti di Ayotzinapa, ma vi furono anche sei morti, tre studenti e altre tre persone uccise in esecuzioni extragiudiziali, più di 40 feriti e 80 vittime di attentati. A Iguala, località di centomila abitanti al centro dello stato meridionale del Guerrero e, ugualmente, crocevia di fiorenti e disputati traffici di stupefacenti, vi fu una vera e propria operazione militare e repressiva, sviluppatasi in nove attacchi e scenari diversi. Orchestrata dalle autorità locali, confuse e colluse con bande di narcotrafficanti, l’azione è stata realizzata tra le ore 21 e mezzanotte e mezza ed è stata “tollerata”, se non proprio supportata, pure dalla polizia federale e dall’esercito.

Ogni 26 del mese per i +43

Messico ayotzi antorchasSabato 26 dicembre 2015, quattro del pomeriggio, ora di Città del Messico. Un migliaio di persone manifesta per le strade della capitale messicana, semivuote per la pausa natalizia, accompagnando in un “pellegrinaggio politico” e simbolico i genitori dei 43 studenti della scuola normale di Ayotzinapa, sequestrati dalla polizia di Iguala e scomparsi nella notte del 26 settembre 2014. Il corteo, con alla testa 43 torce accese a illuminare le fotografie dei ragazzi, è partito dal centro storico e s’è concluso presso la Basilica della Madonna di Guadalupe, l’icona religiosa messicana per eccellenza. La domanda incessante di ritrovare in vita gli studenti, ribadita negli ultimi 15 mesi puntualmente ogni giorno 26 per le strade e le piazze di mezzo di mondo da organizzazioni, attivisti, collettivi e persone solidali con la causa dei desaparecidos messicani, è stata dunque portata anche nel centro cerimoniale cattolico più importante del Paese. Un altro Natale, il secondo, senza i ragazzi della Escuela Normal Rural “Raul Isidro Burgos” ma con la speranza pertinace di ritrovarli. E di ritrovare anche gli altri 26mila desaparecidos, da cifre ufficiali, che invece sono oltre 30mila secondo numerose Ong. Non si dimentica, quindi, che i 43 sono, in realtà, molti di più, sono +43. Il grido e la rivendicazione di ¡Justicia! si moltiplicano.

Vidulfo Rosales, avvocato del Centro dei Diritti Umani della Montagna Tlachinollan y delle famiglie dei giovani, ha sottolineato la volontà di non mollare del movimento che li sostiene, legittimato altresì dall’operato del Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti della Commissione Interamericana dei Diritti Umani (GIEI della CIDH). Il GIEI in settembre ha reso pubblici i risultati dei suoi primi sei mesi di investigazioni, che hanno smontato la “verità storica” della procura messicana con cui si pretendeva di chiudere il “caso Iguala-Ayotzinapa”, e in aprile concluderà le sue indagini. In dicembre il gruppo ha anche confermato, in base a immagini satellitari, l’inesistenza di un incendio nella discarica di Cocula la notte del 26-27 settembre, cioè quando secondo la Procura alcuni membri della delinquenza organizzata locale avrebbero incenerito i corpi degli studenti per tutta la notte e la mattina seguente.

Esercito impermeabile

Messico 43Anche se ripetutamente il governo e le forze armate hanno negato alla stampa, agli inquirenti e, in seguito, agli esperti internazionali l’accesso alle strutture castrensi e gli hanno impedito d’intervistare i militari del 27esimo battaglione di stanza a Iguala, che sono stati presenti in varie fasi della persecuzione contro gli studenti e sono stati più volte segnalati come possibili responsabili o corresponsabili di sparizioni forzate, sono sincere e forti le aspettative riguardanti il lavoro del GIEI che sta provando a dare almeno qualche certezza ai genitori e ad aprire nuove piste, volutamente escluse da governo e procura.

In questo senso le attese per i prossimi mesi sono positive, la speranza di sapere e di trovare vivi i ragazzi resiste. “Non è un atto religioso ma politico”, ha dichiarato Felipe de la Cruz, portavoce dei genitori, parlando della marcia alla Basilica e, in riferimento a questo “periodo festivo”, ha specificato che “non ci sono giorni di pace o di felicità, ma si tratta di giorni in cui non si riposa, non si dimentica che ci sono vittime di sparizione forzata”.

Ad oggi la linea d’investigazione tracciata dall’ex procuratore Jesús Murillo Karam in base a testimonianze di alcuni detenuti estratte con la tortura, la quale centrava l’attenzione sulla discarica del comune di Cocula, sulle polizie municipali e sui narcos del gruppo Guerreros Unidos, non è più quella fondamentale e si sta ampliando il novero delle persone, dei politici e delle autorità a vari livelli che sarebbero potenzialmente coinvolti. La famigerata SEIDO (Subprocuraduría Especializada en Investigación de Delincuencia Organizada) è stata estromessa dalle indagini che sono passate nelle mani di Eber Omar Betanzos, sottosegretario ai diritti umani della Procura Generale della Repubblica (PGR), organo presieduto da Arely Gómez.

Messico ayotzi esercitoIl giornalismo di ricerca messicano, nonostante i rischi, non ha smesso di scavare. Il reportage di Anabel Hernández e Steve Fisher “Inoccultabile la partecipazione dell’esercito” (Rivista Proceso n. 2027) e l’analisi di Gloria Leticia Díaz “La verità di Iguala, tappata con un mantello verde oliva” (Proceso 2040), per esempio, confermano partecipazioni, testimonianze e versioni che legano tra loro le differenti azioni dell’esercito durante “la notte di Iguala” ed evidenziano nettamente i tentativi della PGR di occultare e coprire la presenza, la vigilanza, l’omissione dei soccorsi e le attività repressive dei militari contro gli studenti di Ayotzinapa. Infatti, le testimonianze rese dai 36 ufficiali e soldati del 27esimo battaglione alla procura il 3 e 4 dicembre 2014, ben 67 e 68 giorni dopo i fatti, sono di per sé infestate da imperfezioni tecniche e contraddizioni contenutistiche e rivelano un quadro fosco, cioè indagini intenzionalmente confuse e un ruolo dell’esercito ancora tutto da chiarire. Ed è la necessità di fare chiarezza sul ruolo delle forze armate una delle principali richieste del GIEI che probabilmente non verrà mai esaudita, creando un vuoto inaccettabile nelle investigazioni e nella ricostruzione dell’accaduto.

L’insostenibile nefandezza di Milenio

Portada-Milenio-9-de-noviembre-de-2015Effettivamente grazie a una protesta che non s’è mai fermata, ma che anzi s’è estesa a macchia d’olio globalmente, e alla forza di volontà dei genitori dei 43 il movimento per la giustizia e la verità sul caso Ayotzinapa è riuscito a scardinare la falsa verità offerta dagli inquirenti e far aprire nuove linee di ricerca, portate avanti da tecnici e personale differenti, e a mantenere comunque alto il livello d’attenzione dei mass media.

Un’attenzione che, se da una parte s’è mostrata sensibile alle istanze dei genitori e dei movimenti sociali, soprattutto mediante la copertura di media alternativi e indipendenti nazionali (Desinformémonos, Revolución 3.0, Agencia Subversiones, solo per citare i più noti) e stranieri, così come di alcuni importanti portali web e riviste cartacee (SinEmbargo, Aristegui Noticias, La Jornada, Revista Variopinto, Proceso, tra i più seguiti), dall’altra ha condotto una campagna di discredito e menzogne, capeggiata dal quotidiano Milenio, contro i genitori dei 43 e i loro figli sequestrati dallo stato, contro i portavoce del movimento e della scuola rurale di Ayotzinapa, come Omar García, e infine contro tutte le forme di dissidenza sociale e protesta attive del paese, in particolare quelle dei docenti della CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educación) in lotta contra la riforma educativa implementata dall’esecutivo di Peña Nieto nell’ambito delle sue “riforme strutturali” neoliberiste (link a reportage di Radio Onda d’Urto sulla campagna diffamatoria di Milenio contro Omar García).

la razonIn un paese che è al 152esimo posto, su 180 paesi, della Classifica Mondiale della Libertà di stampa realizzata da Reporter senza frontiere (RSF) e in cui l’89% dei crimini contro i giornalisti rimane impunita (vedi buona sintesi sulla repressione della libertà di stampa e i movimenti in Messico 2015 QUI LINK), la battaglia mediatica non è mai ad armi pari, visto che i professionisti della comunicazione, i blogger e anche semplici cittadini che usano le reti sociali vivono molteplici attacchi: osteggiati o comunque non tutelati dalle autorità, imbavagliati da leggi liberticide in materia di diritto di manifestazione e d’espressione, sono preda di cacicchi locali e bande della criminalità organizzata oltreché di un clima di violenza e della malafede di gran parte dei media mainstream, duopolio televisivo (Tv Azteca e TeleVisa) in testa.

Annata violenta

La minaccia della violenza risulta ancora più concreta in una società dal tessuto istituzionale sfaldato, minata alla base nei suoi gangli di resistenza e creatività comunitaria e sociale, violentata da un modello economico escludente e da megaprogetti estrattivi irrispettosi di culture e popolazioni. Un Messico che da una parte firma l’accordo segreto TPP (Trans Pacific Partnership) per non perdere “l’aggancio” col socio statunitense, egemone decadente, e dall’altro non può fermare l’emorragia dei desaparecidos e dei morti, con le migliaia di casi irrisolti, visto il tasso d’impunità dei reati del 97%. mapa_GuerreroInfine, come confermano i dati per i primi 11 mesi del 2015, nuovamente si registra un aumento nel numero di omicidi dolosi dopo due anni di discesa (2013-2014) e i picchi (insuperabili?) dell’epoca del presidente Felipe Calderón (2006-2012, col 2011 anno più violento in assoluto: 27.199 omicidi): i dati parlano di 17.055 omicidi contro i 15.907 nello stesso periodo del 2014, per cui per ora l’incremento registrato è del 7% e probabilmente le cifre definitive supereranno i 18.000 assassinii in un anno. La narcoguerra non è affatto finita, il sangue continua a scorrere a sud mentre le correnti di narco-capitali, di armi, di migranti, di schiavi e di droghe illegali fluiscono a nord. Gli stati messicani più violenti, che spiegano il 23% del totale nazionale, sono l’Estado de México, regione che circonda la capitale, e il Guerrero.

Nell’ottobre scorso lo stesso governo statunitense ha dovuto in qualche modo riconoscere come ormai i fondi che stanzia ogni anno per la guerra alle droghe in Messico finiscano nella mani di forze armate e di polizia inaffidabili, che sistematicamente sono al centro di scandali per violazioni ai diritti umani, o in quelle della delinquenza organizzata, provocando di fatto un’inondazione di armi nel paese. Il segnale più chiaro è che per la prima volta dall’inizio del programma di “aiuti” noto come Iniziativa Merida nel 2008, infatti, il Dipartimento di Stato ha deciso di decurtare di 5 milioni di dollari sui 148 previsti per il 2016.

Messico stricione grande ayotzinapa-25-s-2015-mexico-city-203-smallE’ un goccia nell’oceano, considerando pure che dall’inizio dell’operazione il congresso USA ha stanziato qualcosa come 2300 milioni di dollari, ma è pur sempre un segnale. 1300 milioni di queste erogazioni sono andate a finanziare l’acquisto di equipaggiamento bellico da imprese nordamericane e per corsi di formazione. “C’è gente nel governo USA che sa che tutto questo è una farsa e che non può continuare a dare soldi al Messico come se niente fosse successo, sanno che col loro silenzio, col loro sostegno finanziario e militare, con la loro vendita di armi e formazione, forniscono appoggi morali e politici affinché i militari e i poliziotti continuino a violare i diritti umani senza paura d’essere giudicati, per questo hanno preso questa decisione di tagliare i fondi”, ha precisato alla rivista Proceso Arturo Viscarra, coordinatore di SOA Watch, Ong statunitense che da anni lotta per la chiusura della School of the Americas (SOA), storica fucina di dittatori e militari latinoamericani.

L’eroina di Iguala e il mercato mondiale

Messico planta amapolaNel novembre 2015 è uscito nelle librerie messicane il libro Dai la colpa all’eroina: da Iguala a Chicago, inchiesta di un vecchio lupo di mare del giornalismo messicano, José “Pepe” Reveles, già autore de Il cartello scomodo (2010), Sequestri, narcofosse e falsi positivi (2011) e Il Chapo: consegna e tradimento (2014), tra gli altri. La tesi centrale del volume è che i veri responsabili della sparizione dei 43 normalisti di Ayotzinapa sono fondamentalmente i tre presidenti della repubblica che dal 2000 ad oggi sono stati al potere: Vicente Fox, del conservatore PAN (Partido Acción Nacional), tra il 2000 e il 2006, Felipe Calderón, anche lui del PAN, tra il 2006 e il 2012, e infine Enrique Peña Nieto, del PRI (Partido Revolucionario Institucional, partito egemonico di regime per 71 anni nel Novecento).

Sono loro i primi responsabili di non avere attuato una politica antidroga “decisa e sovrana” che non sottostesse ai diktat degli Stati Uniti, il maggiore mercato di consumo mondiale di beni e servizi leciti e illeciti. Tra questi, naturalmente, ci sono anche le droghe per circa 20 milioni di consumatori statunitensi per cui il Messico è (storicamente, come da mappa del 1993…) un gran produttore: la marijuana, l’oppio e i suoi derivati, tra cui morfina ed eroina, e le metanfetamine provenienti dai numerosi laboratori sparsi sul suo territorio. Messico 1993 Amapola MarijuanaMa in terra azteca, ormai da più di due decenni, sono smistati pure i principali flussi di cocaina, bianco petrolio importato da Colombia, Bolivia e Perù e gestito dalle mafie messicane su scala globale.

Negli ultimi 3-4 anni il cartello di Sinaloa, mafia leader del mercato in Messico e negli USA, ha spinto l’offerta di eroina, stupefacente inalato e non solo iniettato, diversificando il prodotto: dalla vecchia black o brown tar, eroina di colore marrone, ottenuta più rapidamente e di minor qualità, in cui erano specializzati i messicani tradizionalmente, è stato fatto il salto nel redditizio mercato della white tar, la bianca, che era dominato dai colombiani. Inoltre dal Sud e dalla west coast, regno della black, Sinaloa s’è spostata verso la east coast, più desiderosa di white tar.

Messico amapola 2Sostiene l’autore, a ragione, che la “guerra alle droghe” ha contribuito a un gran risultato, facendo sì che il Messico diventasse il secondo produttore mondiale di eroina, secondo solo all’Afghanistan e seguito dagli antichi leader, i paesi del “triangolo asiatico” o “dorato”, ossia Myanmar (Birmania), Laos e Tailandia, e la Colombia. Come è stato possibile? Le cause sono sicuramente varie, ma Reveles ne indica una sostanziale che contrasta fortemente con la retorica ufficiale. Alla fine del sessennio presidenziale di Vicente Fox l’esecutivo decide d’interrompere le fumigazioni dal cielo con erbicidi le piantagioni di cannabis e adormidera (papavero da oppio).

Dal “triangolo dorato” al “pentagono dell’oppio” del Guerrero

Il 28 novembre 2006, due settimane prima che Calderón annunciasse la prima offensiva militare della narcoguerra nel suo natale Michoacán il presidente Fox, nel terzultimo giorno del suo mandato, firma un decreto per sospendere i programmi d’estirpazione via area della coltivazioni. Messico Guerrero mapa pentagono de la amapolaNei sei anni successivi il Messico incrementa di quattro-cinque volte il suo output di oppiacei e di due volte quello di marijuana. Intanto anche i morti ammazzati crescono: sono più di 150.000, i due terzi dei quali legati alla narcoguerra. Ancora oggi l’esercito provvede a estirpare manualmente le coltivazioni illecite, ma il ritmo di crescita delle stesse è molto maggiore. Inoltre in questi anni i governi messicani hanno presentato cifre adulterate e contrastanti con quelle di organismi internazionali sulle superfici seminate a papavero realmente “ripulite”.

Il Guerrero, oltre ad essere culla di movimenti popolari e guerriglieri, è un territorio fortemente militarizzato per lo meno dagli anni settanta, epoca della guerra sporca (guerra sucia) e delle prime desapariciones, intese come metodica politica di stato e dirette contro ogni tentativo di organizzazione dal basso o di dissidenza rispetto al regime priista (=del PRI).

Sempre agli ultimi posti negli indici di sviluppo nonostante i suoi ricchi giacimenti auriferi e la proliferazione di località turistiche, la regione si trova al centro dei traffici internazionali della sostanza su cui i cartelli messicani stanno puntando per rimpiazzare nel mercato USA la coca, ormai in stasi, e la marijuana, sempre più legalizzata (per esempio in Oregon, Alaska, Washington e Colorado anche per fini “ricreativi”) e sottratta progressivamente al controllo mafioso. Acapulco, Chilpancingo, Taxco e Iguala sono hub dell’eroina e della marijuana. Le piantagioni di papavero da oppio fioriscono sulla sierra e nella tierra caliente per confluire verso i punti strategici del cosiddetto “pentagono dell’oppio”.

Il potere del cane

black_tar_heroinIl vero potere risiede storicamente nelle forze armate che, quarant’anni dopo l’inizio della lotta ai movimenti guerriglieri e a un quarto di secolo dalla fine della Guerra Fredda, contesto “macro” e geopolitico in cui s’iscrivevano le sue funzioni di controllo sociale a livello “micro” e nazionale, sono gli arbitri dei giochi e dei flussi nel Guerrero. La linea immaginaria del pentagono dell’oppio segue il tracciato delle strade federali della regione, ma corrisponde altresì alle basi militari: in senso orario troviamo le caserme di Iguala, Chilpancingo, Acapulco, Pie de la Cuesta, Atoyac, Petatlán, Pungarabato e, la più vicina a Iguala, Telolopan. Il pentagono dà origine al 42% degli oppiacei prodotti nel paese, occupa circa il 40% del territorio del Guerrero e si estende dalla costa alla sierra, collegando le turistiche Zihuatanejo e Acapulco, e poi in direzione nord-est ha tre vertici: la capitale Chilpancingo, Iguala e Tlapehuala. La frontiera è delimitata dalle strade federali e dalle basi militari. Al suo interno, ma anche oltre i suoi confini, verso Cuernavaca, Oaxaca, il Michoacán e l’Estado de México, la semina del papavero, l’ingovernabilità e lo scannatoio tra gruppi criminali proseguono indisturbati.

white tarLa repressione sociale, compresa l’escalation degli attacchi contro i giornalisti, gli ambientalisti e gli attivisti in generale, è legata a doppio filo, da un lato, alla strategia statale di controllo del territorio, che passa dalla militarizzazione, dalla desaparición forzada, dalla fabbrica dei colpevoli, dall’omicidio politico e dalla delega di poteri sostanziali a forze armate protette e intoccabili, e, dall’altro, alla gestione di patti politici, connivenze giudiziarie e ripartizioni dei benefici di un’economia criminale che, per quanto riguarda l’eroina, genera su scala nazionale guadagni stimati intorno a 17 miliardi di dollari. In questo quadro vanno considerati e collocati anche altri importanti fattori quali lo sfruttamento delle risorse minerarie, la presenza di imprese multinazionali, di agguerriti movimenti organizzati, come quelli dei docenti e delle stesse scuole normali, e di gruppi armati di autodifesa (per esempio le CRAC, ma non solo) e guerriglieri, come l’ERPI e l’EPR.

Il “cartello” e il quinto autobus

narco attivita' messicoL’inferno di Iguala in cui sono incappati gli studenti di Ayotzinapa è dunque l’inferno del traffico di eroina e marijuana, tollerato e cogestito da apparati dello stato e della sicurezza nazionale in combutta con partiti politici e amministratori locali controllati dai narcos o parte essi stessi delle cupole criminali. Gli inferi del narco-stato non si circoscrivono al pentagono oppiaceo del Guerrero, ma riguardano almeno la metà dei comuni messicani dal Sinaloa al Tamaulipas e al Chiapas, dal Michoacán e dal Oaxaca al Durango, Sonora e Chihuahua. Il tour geografico della decomposizione potrebbe continuare. Mi limito a menzionare gli stati dove il fenomeno è tradizionalmente molto radicato, per lo meno dall’epoca dei primi gomeros, coltivatori di oppio, che durante la Seconda Guerra Mondiale hanno sperimentato uno dei primi boom della morfina, sostanza utilizzata per soddisfare i bisogni narcotici e antidolorifici della macchina bellica statunitense.

señores del narcoSecondo lo scrittore americano Don Winslow, autore di magistrali romanzi sui narcos messicani come Il cartello (2015) e Il potere del cane (2005), il potere del cane rappresenta la capacità d’oppressione dei pochi sui tanti, mentre il cartello significa molto di più che un gruppo di produttori associati o un’organizzazione criminale per il commercio della droga. Il cartello è un sistema d’oppressione sofisticato e articolato che comprende tanto i gruppi della delinquenza organizzata quanto gli apparati dello stato collusi e gli istituti finanziari, tanto la manovalanza criminale quanto funzionari e politici corrotti. Gli anelli della catena del cartello si diramano fino ad includere al suo interno frammenti di tutto il sistema economico, sociale e politico. La tesi di un altro grande libro, l’inchiesta di Anabel Hernández “I signori del narco”, coincide con quella di Winslow, ma assume forza e veridicità in quanto elaborata da una giornalista tra le più rispettate in Messico: i signori del narcotraffico, infatti, non sono solo i boss ma anche (e sprottutto) i politici che li supportano, come per esempio uno dei “protagonisti” del libro, l’ex ministro della pubblica sicurezza di Calderón, Génaro García Luna.

“Tanto i conducenti dei bus come i poliziotti della Federale, gli agenti locali e lo stesso esercito ne erano informati. In altri modi non è possibile praticare nel paese il traffico di droghe”, conferma Pepe Reveles nel suo libro parlando di uno degli autobus, il famigerato “quinto bus”, sequestrato dagli studenti di Ayotzinapa la notte del 26 settembre a Iguala. corrupcion-en-mexicoDi cosa erano informate le autorità? Cosa invece non sapevano i ragazzi? Che quel pullman, di proprietà della compagnia Costa Line o della Estrella Roja del Sur, era molto probabilmente carico di eroina. Milioni di dollari rischiavano di sfumare, ma soprattutto si sarebbero accesi i riflettori sul cartello narco-politico-militare del Guerrero.

Anche il gruppo di esperti della corte interamericana ha messo in evidenza il caso di questo bus che, invece, era stato “trascurato” dalla procura e dalla sua “versione storica” dei fatti. All’interno della massa enorme di fascicoli sulla notte di Iguala le ricerche di giornalisti e periti hanno trovato la pista di quel quinto bus, occupato da 14 normalisti la notte del 26, e dell’eroina. I consumatori statunitensi di questa droga, oggi fornita al 90% dai trafficanti messicani, si sono duplicati tra il 2007 e il 2012. La metà delle esportazioni passa da Iguala e il sistema di trasporto preferito è quello terrestre che sfrutta le compagnie di linea. Il business dell’eroina è privato ma con partecipazione statale e nessuna delle parti vuole che venga scoperto, né che aumentino gli sguardi indiscreti o i testimoni. Perciò, quando le spie dei Guerreros Unidos e della polizia a Iguala hanno lanciato l’allarme, è partito l’ordine di fermare gli studenti “in qualunque modo”.

represionDa decenni insegnanti, giornalisti e studenti, specialmente quelli delle scuole normali e di Ayotzinapa, sono una spina nel fianco per “il cartello”. Sono attivisti sociali, militanti politici o comunicatori che possono mettere in pericolo gli affari della regione, siano essi legati agli stupefacenti o allo sfruttamento delle risorse naturali. Anche per questo sono osservati, infiltrati, minacciati e vigilati. Nel 2011 la polizia uccise con nonchalance due manifestanti della scuola R. Isidro Burgos sull’autostrada del sole, la Città del Messico-Acapulco. Il 26 settembre 2014 il Centro di Controllo, Comando e Computo (C4) li teneva d’occhio dal pomeriggio e ne ha seguito le mosse fino all’epilogo della mattanza e della persecuzione notturna. Per anni le autorità e la popolazione sapevano del saldo tremendo di vittime e desaparecidos nel pentagono dell’oppio, così come di altre zone del Messico, ma l’omertà e la connivenza avevano prevalso. La problematica del narcotraffico viene a convergere con quella della povertà e delle eterne disuguaglianzie socio-economiche, cui s’oppone la parte combattiva e più organizzata della popolazione, ben nota e segnalata alle autorità e schiacciata tra due fuochi: narcos e governo.

La scarsa volontà di risolvere questi casi è palese: per esempio per la strage di Iguala ci sono oltre 100 arrestati, in attesa di giudizio e dispersi in mezza dozzina di prigioni in tutto il paese, e il processo è spezzettato in 13 cause penali e numerosi fascicoli diversi. L’attenzione mediatica, sociale e politica s’è risvegliata anche se a fasi alterne. E resta sempre il rischio di cedere agli attacchi di chi pretende di lasciare tutto com’era prima e punta allo sfiancamento della protesta. La lotta dei genitori dei 43 e del movimento degli “altri desaparecidos”, sorto nell’ultimo anno dalle ceneri delle decine di fosse clandestine piene di resti umani nella zona intorno a Iguala per unire familiari di desaparecidos e vittime del crimine e delle autorità, è trascendente e necessaria per vincere il silenzio, l’oblio e il gattopardismo che all’improvviso, ciclicamente, finiscono per avviluppare e far dimenticare vicende, stragi, crimini di stato e traffici.

Marciume mediatico

In questo intricato e indignante contesto buona parte dei media del mainstream messicani, capeggiati dal “cartello” di Milenio e del quotidiano La Razón, anziché denunciare il contubernio delinquenziale vigente, lo sforzo delle autorità per mantenere lo status quo d’impunità e garanzia per i traffici illeciti, l’insultante e vergognosa condizione di intere regioni fuori controllo e poverissime, l’esposizione alla violenza dell’intera società e le condanne della comunità internazionale per le violazioni ai diritti umani, si dedica a creare casi fasulli e a denigrare chi protesta. Allora ecco che a Omar García vengono attribuite identità fittizie che lui avrebbe inventato o azioni spregiudicate da “cattivo maestro”. Ecco che gli “Ayotzinapos”, come vengono chiamati dispettivamente gli studenti della scuola “Isidro Burgos”, diventano i giovani boss di un narco-cartello, ecco che le bande criminali dei Rojos e degli Ardillos ora si contendono la plaza di Ayotzinapa a suon di Ak-47 (kalashnikov o cuerno de chivo), ecco che i 43 non erano degli stinchi di santo e, anzi, alcuni erano criminali e non alunni modello. Funzionari di governo e media cercano di convincere i genitori del fatto che i figli navigassero in cattive acque e poi provano a corromperli con prebende. Ed ecco poi che manifestanti si trasformano in violenti sovversivi che bloccano il traffico delle città senza motivo, i genitori delle vittime, che non accettano l’elemosina dei burocrati, sono dipinti come ignoranti e manipolati da organizzazioni e personaggi esterni. Gli insegnanti che scioperano sono degli scansafatiche, come d’altronde i maestri rurali diplomati nelle scuole normali, ed ecco infine che i giornali filogovernativi rilanciano la notizia, non verificata, per cui uno dei 43 desaparecidos era militare. E così via, senza fine e senza etica da più di 15 mesi, anche se purtroppo è un film che vediamo e rivediamo in loop da sempre e che in Messico assume tinte surreali e drammatiche, estreme, per cui vale la pena stoppare la trasmissione, finché è possibile, e scriverne.

Di seguito la video intervista (doppiata in italiano) a Omar García, realizzata al Vag61 di Bologna – Grazie a Vag e a Bologna per Ayotzinapa (video link originale). E QUI archivio completo Ayotzinapa-CarmillaOnLine.

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Nuova Mappa del Narcotraffico in Messico e negli Stati Uniti https://www.carmillaonline.com/2015/09/04/nuova-mappa-del-narcotraffico-in-messico-e-negli-stati-uniti/ Thu, 03 Sep 2015 22:00:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24905 di Fabrizio Lorusso

Movimiento alterado Revolución NarcoCultura NarcocorridosPeriodicamente l’agenzia antidroga americana DEA (Drug Enforcement Administration) traccia la mappa del narcotraffico negli Stati Uniti e in Messico e, in base al lavoro d’intelligence dei suoi uffici distaccati sul territorio, pubblica una relazione sull’evoluzione dei cartelli messicani in America del Nord. Colori e macchie, città conquistate e perse, confini e nomi ormai noti della criminalità organizzata locale e globale non hanno nemmeno bisogno di una legenda per essere compresi. L’impatto visivo è immediato e così l’idea della narcoguerra che insanguina il [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Movimiento alterado Revolución NarcoCultura NarcocorridosPeriodicamente l’agenzia antidroga americana DEA (Drug Enforcement Administration) traccia la mappa del narcotraffico negli Stati Uniti e in Messico e, in base al lavoro d’intelligence dei suoi uffici distaccati sul territorio, pubblica una relazione sull’evoluzione dei cartelli messicani in America del Nord. Colori e macchie, città conquistate e perse, confini e nomi ormai noti della criminalità organizzata locale e globale non hanno nemmeno bisogno di una legenda per essere compresi. L’impatto visivo è immediato e così l’idea della narcoguerra che insanguina il continente si lega alla geopolitica. I frammenti si ricompongono sullo schermo e, restringendo lo zoom, i pixel scompaiono e la visione globale si fa nitida. La lotta militarizzata alle organizzazioni criminali, che in Messico ha mietuto oltre 130mila vittime in 8 anni e mezzo e ha provocato un aumento drammatico delle violazioni ai diritti umani, viene analizzata dalla DEA in una dimensione internazionale e geografica che, pur offrendo un quadro cognitivo generale, mette in secondo piano le vite quotidiane di milioni di persone che vivono sulla propria pelle le conseguenze della war on drugs e dell’ipocrisia di fondo che la alimenta. Sono i milioni di pixel concentrati nei vari sud del mondo: dal Latinoamerica, o “NarcoAmerica”, secondo il titolo di un interessantissimo libro di giornalismo narrativo “sulle tracce della cocaina” pubblicato da Tusquets (2015), a Gioia Tauro, dall’Afghanistan a Ciudad Juárez o i Balcani.

Mexican Cartels in Mexico DEA Map 2015 (Large)

Dal cartello alla mafia

In riferimento ad alcuni gruppi della delinquenza organizzata messicana non si parla più, o non solo ormai, di gangster, cartelli e delinquenti, di tagliagole e sicari, di gang, bande e pandillas, ma di vere e proprie mafie. Si tratta di uno stadio superiore di sviluppo dell’organizzazione criminale che acquisisce e consolida codici e strutture, regole e lealtà, discipline e logiche imprenditoriali e da clan. Una mafia sa riprodursi, organizzarsi, darsi regole. Sa anche essere anche discreta e rafforzare i suoi legami con la politica e lo stato, specialmente in Messico. E a questo modello, rinsaldato da legami tra compari e di sangue, risponde sicuramente il cartello di Sinaloa, al cui vertice restano Ismael “El Mayo” Zambada e il fuggitivo Joaquín Archibaldo Guzmán Loera, alias “El Chapo”. Ma Sinaloa, come evidenzia l’analisi della DEA, è tacchinato da altri gruppi emergenti e da vecchi rivali.

narcotraffico eroinaIl report identifica otto grandi cartelli messicani: Sinaloa, Cartello Jalisco Nueva Generación (CJNG), Beltrán-Leyva Organization (BLO), Los Zetas, Cartello del Golfo (CDG), Cartello di Juárez/La Línea (CDJ), La Familia Michoacana (LFM) e Los Caballeros Templarios (LCT). Questi ultimi due hanno perso nettamente influenza, capacità operative e coesione a livello di organizzazione, mentre il CJNG, nato da una scissione del cartello di Sinoloa nel 2010, si presenta come il gruppo in maggior crescita. Dal suo stato d’origine, il Jalisco con la sua bella capitale Guadalajara, l’organizzazione s’è espansa ai vicini Nayarit, Colima, Guerrero, Michoacán e al Veracruz. Ma non solo. Sfruttando abilmente le debolezze dei rivali e le sue alleanze ha fatto ingresso anche nel Guanajuato e nel San Luis Potosí, così come nei meridionali Oaxaca e Chiapas.

L’ascesa del Cartello Jalisco Nueva Generación e il dominio di Sinaloa

In particolare la quasi totale disintegrazione della Familia Michoacana e dei Cabelleros Templarios nel Michoacán, territorio strategico sulla costa pacifica grazie allo scalo portuario di Lázaro Cárdenas, porta d’ingresso di precursori chimici per la produzione di metanfetamine e di cocaina dalla Colombia, ha portato all’ascesa del Jalisco Nueva Generacion i cui membri sono riusciti anche a infiltrarsi nella Nuova Polizia Rurale. Questa forza di polizia è stata creata dal governo per “risolvere” il conflitto coi gruppi armati di autodifesa e incorporarli in una struttura statale. Insieme ad essi, però, anche operatori del cartello CJNG sono entrati nella polizia oltre che nei territori prima controllati dalla Familia e da LCB.

Per questo il cartello di Jalisco viene identificato come il prossimo “nemico numero uno” della DEA. Negli USA nessun gruppo criminale straniero è così ben posizionato e potente come i cartelli messicani, specialmente Sinaloa, che tramite network distributivi e tracciati consolidati, soprattutto lungo il confine sudoccidentale, gestiscono traffici policromatici: marijuana verde e bianca coca, cristalli chiari e celesti di metanfetamine e infine eroina. Proprio queste due sostanze rappresentano i business in aumento, anche grazie alla “spinta dell’offerta” in tal senso.

Mexican Cartels in USA DEA Map1 2015 (Large)

La mappe disegnate dalla DEA evidenziano la presenza delle mafie messicane in territorio statunitense nella prima metà del 2015: il predominio di Sinaloa è schiacciante ma non totale. Infatti, il cartello di Juárez, quello del mitico boss degli anni ’90 Amado Carrillo Fuentes (El señor de los cielos) mantiene la sua influenza tradizionale nel New Mexico e nel Texas sud-occidentale, mentre gli Zetas e il cartello del golfo lottano per il controllo di plazas, punti di passaggio e territori tanto in Messico, soprattutto nelle regioni del Tamaulipas e del Veracruz, come negli USA, nel Texas sudorientale e centrale. Allontanandosi dal confine messicano-statunitense solcato dal Rio Bravo, la loro capacità operativa va scemando.

Come in genere accade nell’economia legale, anche nel settore del traffico degli stupefacenti la gran fetta della torta, i guadagni più sostanziosi, finiscono nelle mani della grande, media e piccola distribuzione nel mercato USA: lo smercio città per città, quartiere per quartiere, effettuato da dealer e pusher formano il grosso delle entrate, per cui è strategico controllare i punti di transito in Messico, ma ancor di più lo sono la gestione degli snodi di frontiera e dei trasporti e la distribuzione al consumatore finale.

Sebbene abbiano perso potere e mercato, non sono assenti da numerose città americane le organizzazioni criminali messicane decadenti (come i Templarios, il cartello di Tijuana della famiglia Arellano Félix o i Beltrán Leyva, presenti a Denver e lungo la costa orientale) e quelle emergenti come il Jalisco Nueva Generación. Il cartello, sebbene non sia ancora molto presente nel mercato americano, sta guadagnando rapidamente posizioni in Messico, ottima base di partenza per la conquista degli States, per cui è visto con crescente preoccupazione dalle autorità di quel paese.

Mexican Cartels in USA DEA Map2 2015 (Large)

Narco-Storia del Cartello Jalisco Nueva Generación

Proprio riguardo a questo gruppo, alla ribalta dei media nel maggio scorso in Messico per una serie di attentati e scontri a fuoco con la polizia alla vigilia delle elezioni parlamentari, cito un estratto dal libro NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga per cercare di capirne le dinamiche e la storia:

Abigail González Valencia, alias “El Cuini”, era un boss discreto, vecchio stile. Poco presente sui media, non figurava nemmeno nella lista dei 122 obiettivi prioritari del governo, elaborata in base a fattori quali il numero di indagini aperte su un individuo, le sue reti nazionali ed estere e il suo giro d’affari. Il narcos è stato arrestato il 28 febbraio 2015 ed è stato rimpiazzato da quello che secondo la stampa, il governo messicano e il Dipartimento del Tesoro statunitense sarebbe uno dei nuovi “uomini forti” della malavita in Messico, suo cognato Nemesio Oseguera Cervantes, “El Mencho”. González Valencia operava con il “El Mencho” in qualità di capo del gruppo armato, alleato del CJNG, noto come “Los Cuinis” e attivo dagli anni Novanta all’interno del cártel del Milenio. El Cuini appartiene alla famiglia dei fratelli Valencia, vecchie glorie della narco-storia messicana che da coltivatori di avocado divennero negli anni Settanta piantatori di papaveri e marijuana.

narcotraffico messicoUno di loro fu addirittura sindaco di Aguililla, cittadina d’origine dell’intera stirpe dei Valencia. L’incipiente organizzazione divenne un potente cartello, il Milenio, sotto la guida di Armando Valencia e grazie all’alleanza coi colombiani di Medellín, all’estero, e a quelle con i fratelli Amezcua di Colima, pionieri nel commercio di droghe su disegno o sintetiche, e con Sinaloa, in patria.

Nel 2003 stabiliscono una rete per l’importazione da Hong Kong dell’efedrina, precursore chimico delle metanfetamine, in virtù dell’accordo con l’impresario sino-messicano Zhenli Ye Gong, e si legano più strettamente al Chapo Guzmán, responsabile della “divisione droghe sintetiche” del cartello del Pacifico o Federación de Sinaloa. In seguito si associano allo storico capo sinaloense Ignacio Nacho Coronel, boss indiscusso della zona del Jalisco. La mafia del Milenio si trasforma in Jalisco Nueva Generación nel 2010, dopo la morte di Coronel, e stabilisce un patto con gli scissionisti Beltrán Leyva, ormai nemici di Sinaloa. Dal 2013 ingaggia una guerra contro i Templarios del Michoacán per il controllo dello snodo portuale di Lázaro Cárdenas e conduce un’infiltrazione graduale nei gruppi armati di difesa, le autodefensas, che sorgono proprio in quell’anno e che sono confluiti nella Nueva Fuerza Rural patrocinata dal governo.

 Nel 2011 il CJNG si proietta al centro delle cronache per una serie di video in cui si presenta come una banda di “Ammazza-Zetas”, i Mata-Zetas, in lotta per ripulire Veracruz e il golfo dagli odiati Zetas. In molti hanno pensato che fosse un espediente mediatico dei narcos di Sinaloa e del loro boss, il Chapo Guzmán, per fiondarsi alla conquista dell’Oriente messicano, presentandosi come dei salvatori, ma in realtà si trattava di un gruppo autonomo, di fatto scisso da Sinaloa. Nel 2015 il Jalisco Nueva Generación ha condotto una guerra su più fronti e ha espanso la rete delle sue operazioni a sette stati del Paese. Nel sud del Michoacán ha spodestato i Templarios, mentre nella zona a nord di Guadalajara gli Zetas hanno dovuto ripiegare. Il cartello sta battagliando ancora con Sinaloa per il mercato delle metanfetamine e secondo alcuni esperti in futuro potrebbe scavalcare gli Zetas e contendere il primo posto nella classifica criminale proprio a Sinaloa e al “Mayo” Zambada.

narcotraffico mexico juarezSecondo molti osservatori l’accanimento mediatico contro il CJNG ha fatto concentrare l’attenzione su un gruppo lasciando operare più tranquillamente gli altri, specialmente il cartello di Sinaloa. Inoltre viene data poca rilevanza al gruppo dei “Los Cuinis”, presumibilmente alleati del Jalisco Nueva Generación, che la DEA non ha citato tra gli otto cartelli messicani principali, nonostante il Dipartimento del Tesoro abbia incluso affaristi e imprese ad esso legati nella sua lista nera e lo abbia etichettato come “uno dei cartelli più pericoli e violenti del paese”. Probabilmente l’Agenzia non considera Los Cuinis come un cartello indipendente: i legami di parentela dei fratelli José, attuale capo, e Abigail Gonzalez Valencia con il boss del CJNG, Nemesio Oceguera, loro cognato, e il fatto che i due gruppi abbiano sempre collaborato strettamente può avere influito sulla scelta della DEA. Prima dell’arresto Abigail era l’operatore finanziario del Jalisco Nueva Generación a Guadalajara.  Comunque nemmeno la quarantennale organizzazione cartello dei Diaz Parada o cartello di Oaxaca non è menzionata nel rapporto dell’agenzia USA.

Dopo la cattura del fratello maggiore dei Los Cuinis, secondo la Procura Generale della Repubblica messicana è il minore, José González Valencia, alias La Chepa, che ha assunto il comando e sarebbe responsabile della sicurezza di Nemesio Oceguera, El Mencho, e degli attacchi militari contro le forze della polizia del Jalisco nei mesi scorsi. I narcos avrebbero perso l’appoggio della polizia statale per cui si sarebbero rivolti contro di loro con una serie di attentati, approfittando anche della congiuntura preelettorale durante la quale ci sono sempre possibilità di nuovi accomodamenti tra criminalità organizzata e apparati statali. La Chepa González ha il sostegno di un medico di Aguililla, nel Michoacán, che è anche luogotenente del CJNG: si chiama Rogelio Guízar Camorlinga, El Doctor, e avrebbe organizzato gli scontri con le forze federali e della polizia statale del Jalisco il 9 marzo 2015, quando morirono cinque elementi della gendarmeria nazionale, due presunti delinquenti e quattro civili, e il 6 aprile, quando a San Sebastián del Oeste sono stati fatti fuori 15 poliziotti che si dirgevano a Guadalajara.

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Michoacán, Los Zetas e l’invasione dell’eroina negli USA

La Familia Michoacana, dopo la scissione dei Caballeros Templarios nel marzo 2011 ed in seguito ad altre faide, ha dato origine a gruppi criminali come “La Empresa Nueva”, “Los Moicas” (presenti in California) e il “Cartello Indipendente del Michoacán” che oggi sono rimasugli locali di quella mafia messianica e unitaria che, per alcuni anni, ha dettato legge nel Michoacán e nelle zone limitrofe. Anche gli Zetas si sono spezzettati in cellule locali che, non potendo più gestire il business della droga a livello internazionale, si sono riconvertite ad altre tipologie criminali: sequestro di persona, estorsione, tratta di bianche, traffico di organi, prostituzione, traffico di migranti, vendita di “protezione”, riciclaggio e giros negros come l’apertura di club, casinò, discoteche e bische legali e clandestine. La figura 2 mostra quali sono le mafie predominanti in ciascun stato USA e la scurezza del colore riflette la densità della popolazione e, quindi, del mercato potenziale per gli stupefacenti, non il livello d’influenza attuale del cartello criminale.

narcotraffico amapolaNegli ultimi tre o quattro anni c’è stato un cambiamento dell’offerta, con la spinta maggiore dell’eroina, data la stasi della cocaina e del traffico illecito di marijuana come conseguenza della legalizzazione del consumo ricreativo e della produzione di questa pianta e delle sostanze derivate in Alaska, Colorado e Washington. E quindi la mappa numero 3 rappresenta graficamente i dati relativi alle morti per overdose di eroina nel 2013 del National Center for Health Statistics/Centers for Disease Control (NCHS / CDC) e la stessa DEA segnala l’invasione di questo psicotropico che ha fatto 8.257 vittime nel 2013, circa il triplo di quelle del 2010. Il consumo aumento per la spinta dell’offerta, la maggiore disponibilità a basso costo propiziata dalla politica dei cartelli messicani, specialmente di Sinaloa, e poi si registra un uso più sostenuto di numerosi pazienti che possono averla su prescrizione.

L’espansione della frontiera dell’eroina viaggia ora verso i mercati della East Coast. Storicamente, riporta il testo della DEA, “il mercato dell’eroina negli Stati Uniti è stato diviso in due lungo il fiume Mississippi, con i mercati occidentali che usavano l’eroina messicana nera (black tar) o in polvere marrone, e quelli dell’Est che usavano eroina bianca in polvere (precedentemente del Sudest e del Sudovest asiatico, poi negli ultimi vent’anni quasi solo sudamericana)”. Dunque il ruolo di intermediari dei messicani, così com’era successo per la cocaina, è diventato strategico e questi hanno altresì incrementato la produzione di eroina bianca in Messico, per cui i cartelli sono entrati con successo nel redditizio mercato degli stati medio-occidentali e del Nordest: Chicago, il New Jersey, Philadelphia e Washington e molte zone di New York sono ormai terra azteca.

Nota Finale. Sebbene i rapporti e le mappe emessi dalla DEA siano attendibili e delineino le tendenze generali, in particolare per quanto riguarda il territorio statunitense, spesso non coincidono con quelli di altre fonti come, per esempio, la PGR (Procura Generale della Repubblica) messicana. Per esempio nel giugno scorso Tomás Zerón, direttore dell’Agenzia d’Investigazione Criminale della PGR, ha dichiarato con tono trionfalista che, dopo la cattura di numerosi boss storici, le organizzazioni criminali sono così frammentate e disperse che si può affermare l’esistenza oggi di soli due cartelli veri e propri: Sinaloa e il CJNG.  Per questo molti gruppi criminali sono descritti più come “franchigie” o “cellule” che come “grandi imprese” o “reti”, etichette valide invece per le organizzazioni più grandi, solide e strutturate. Nel settembre 2014 la Procura aveva parlato, invece, di 9 cartelli (quelli segnalati dalla DEA più il “cartello del Pacifico” nella zona di Acapulco) e 43 gang o fazioni derivate o legate ad essi. Sono informazioni, nomi e mappe criminali che cambiano con frequenza, tanto nella realtà come nelle narrazioni e indagini della stessa Procura per cui van prese con le pinze. Per i funzionari pubblici e la PGR è comunque gioco forza presentare progressi nella narcoguerra intrapresa dal governo e quindi la tendenza è quella di mostrare la frammentazione di alcuni cartelli come un passo avanti nella lotta al narcotraffico anche se la violenza non diminuisce ed anzi aumentano delitti gravissimi, in cui apparati dello stato sono complici, come le desapariciones (sparizioni) forzate e i sequestri di persone.

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