eroe – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Blek Macigno https://www.carmillaonline.com/2022/10/06/blek-macigno/ Thu, 06 Oct 2022 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74300 di Giorgio Bona

È trascorso più di mezzo secolo. Avevo sette o otto anni, non di più. Aprii i cassetti di un mobile nel ripostiglio di casa mia e trovai l’intera collezione dei fumetti de Il grande Blek, che mio padre conservava come una reliquia.

Come tanti coetanei e dintorni, anch’io ero alla scoperta del mondo del fumetto, un viatico per la nostra immaginazione che conduceva alla rivelazione di  un universo che forse avrebbe lasciato un segno nel tempo.

L’ambientazione era quella del Nord America della metà del XVIII secolo, dove una colonia [...]]]> di Giorgio Bona

È trascorso più di mezzo secolo. Avevo sette o otto anni, non di più. Aprii i cassetti di un mobile nel ripostiglio di casa mia e trovai l’intera collezione dei fumetti de Il grande Blek, che mio padre conservava come una reliquia.

Come tanti coetanei e dintorni, anch’io ero alla scoperta del mondo del fumetto, un viatico per la nostra immaginazione che conduceva alla rivelazione di  un universo che forse avrebbe lasciato un segno nel tempo.

L’ambientazione era quella del Nord America della metà del XVIII secolo, dove una colonia di trapper combatteva contro lo strapotere della corona inglese nella regione dei Grandi Laghi ai tempi delle lotte di indipendenza. Questo manipolo di uomini coraggiosi, abitatori della foresta, temerari come pochi, si sacrificava per una causa giusta: la conquista della libertà.

Il loro capo era un erculeo personaggio chiamato Blek Macigno, aiutato dal giovanissimo Roddy e dal Professor Occultis. Affrontava i suoi nemici a calci e pugni sfruttando la sua poderosa forza, ma era bravo anche a usare il coltello e il fucile dei trapper di marca Kentucky, dimostrando una mira infallibile. Blek era il capo riconosciuto da tutto il popolo dei boschi che si affidavano alla sua guida nella lotta contro i soprusi delle forze militari inglesi, le giubbe rosse, trasformandosi da semplici cacciatori di pelli in patrioti.

Io non so dire se tutti i grandi lettori di un fumetto come questo si possano identificare nel film Il grande Blek di Giuseppe Piccioni del 1987, con un titolo, appunto, che fa riferimento alla passione del giovane protagonista per il mondo dei fumetti e in particolare alla collana degli albi dell’eroe in questione. Allora speravo di veder realizzato sullo schermo un film dedicato all’invincibile trapper, lo immaginavo nelle distese praterie del Canada con paesaggi mozzafiato che avevano sullo sfondo montagne innevate e corsi d’acqua entro verdi vallate. Alla fine degli anni Ottanta Gianfranco Manfredi ebbe la possibilità di una co-produzione con il Canada per realizzare un telefilm su Blek Macigno, ma il progetto per problemi di produzione non andò in porto.

E allora che dire di quei fumetti a stelle e strisce che raccontano un grande periodo della storia di un’America che cerca di scrollarsi di dosso il colonialismo inglese e lo fa attraverso un manipolo di uomini coraggiosi, senza macchia e senza paura? Come i grandi fumetti del dopoguerra, nato nel 1954, Il grande Blek rispecchiò certamente la rappresentazione dell’eroe. Il contesto storico è ben determinato e se l’eroe è quello che deve stare dalla parte dei più deboli, degli oppressi, ecco che il nemico non può che essere la dominazione britannica con i soprusi, le angherie e le violenze di chi spadroneggia. Il fumetto, ideato dal gruppo EsseGesse (sigla che riunisce i nomi dei tre disegnatori Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Piero Sartoris) nasce negli anni in cui è in corso la ricostruzione del Bel Paese (1954), quando il discorso sulle libertà e i diritti sta alimentando le coscienze. All’interrompersi dei rapporti tra editore e autori (1965), la serie ha ormai un tale successo da poter continuare con altre firme.

Al di là di una certa ripetitività nei temi, storie come queste riescono a essere libere da dimensioni propagandistiche e di pressione psicologica connotanti invece per una parte importante il fumetto degli anni del regime. Tale tipo di vincolo è stato spezzato col dopoguerra, offrendo a questa forma artistica uno slancio sicuramente diverso e aprendo a potenzialità letterarie. Non tanto, ovviamente, nel caso di prodotti popolarissimi come Il grande Blek, e si può discutere sulla considerazione del fumetto come genere propriamente letterario; ma è importante ricordare che all’inizio del secolo scorso, con tutte le ragioni del caso, Paola Lombroso Carrara (1871-1954), figlia del noto Cesare, ebbe la straordinaria idea di dare impulso ai giornali illustrati come strumento di alfabetizzazione dei fanciulli dei ceti più poveri, meno avvicinabili in modo diretto alla letteratura. Nasceva così per esempio il Corriere dei piccoli (1908), coi suoi fumetti.

A distanza di tempo, leggendo qualche episodio de Il grande Blek dopo oltre mezzo secolo viene quasi spontaneo chiedermi: si tratta di un buon medium per la memoria o la conoscenza della Storia? Ma è ovvio che il fumetto rappresenta un mezzo dell’immaginario come lo sono il cinema e la letteratura che alla Storia attingono.

Il west americano con le sue praterie era il luogo deputato dei sogni d’avventura di noi ragazzi, tanto che la frase “Arrivano i nostri”, lanciata dagli spettatori dei film western nelle fumose sale di terza visione o nei cinema parrocchiali agli squilli del terzo reggimento di cavalleria in un insperato intervento di salvezza della carovana attaccata dagli indiani cattivi, era in voga, accompagnata da applausi e urla di giubilo.

Dunque ecco un eroe, Blek Macigno, adattato ad ambienti a noi lontani, sconosciuti alle nostre immaginazioni di bambini e, perché no, degli stessi adulti di quegli anni. E una delicata ironia tutta italiana trapela da questi racconti che stanno attaccati alla Storia come un pesce all’amo, e si differenzia per una sua originalità dai modelli americani. L’eroe protagonista indiscusso nella grande tradizione americana è una figura necessaria al potere politico per costruire la Storia; mentre Blek Macigno rispecchia il mito dell’eroe in versione casareccia, dove comicità e sberleffo sono sempre in agguato per rispecchiare ingredienti che il Bel Paese chiede. Ecco perché la presenza di comprimari come il Professor Occultis con le sue teorie e di Roddy sempre pronto a mettersi nei guai. Ma un eroe sta sempre dalla parte giusta e la parte giusta è quella dei più deboli, degli oppressi e non degli oppressori.

Rileggendo a distanza di tempo alcune ristampe di questo fumetto trovo una notevole analogia con il periodo storico della rivolta dei meticci francofoni in Canada nella prima metà dell’Ottocento. La figura di spicco era Louis Riel (1844-1885), il capo indiscusso dei trapper che organizzò la rivolta e finì successivamente impiccato.

Ora diventa impossibile accostare la figura della fantasia del fumetto di Blek Macigno con Louis Riel. Anzitutto per l’interpretazione offertane da Francis McDonald in Giubbe Rosse, film del 1940 di Cecil DeMille, che aveva protagonista Gary Cooper e racconta con toni romanzati e antifrancesi la ribellione del nord ovest. Poi Blek è l’eroe, il paladino che ci cattura sulla pagina, mentre Riel era un politico, membro del parlamento canadese condannato all’esilio e rientrato dagli Stati Uniti per costruire una repubblica indipendente.

“Gli eroi sono tutti giovani e belli” cantava Francesco Guccini in una sua celebre canzone. Da smentire subito se si pensa all’eroe del cinema western: e mi torna in mente quando Ronald Reagan, attore di film western e non solo, fu eletto presidente degli Stati Uniti (1981). All’ingresso dell’università di Via Balbi, a Genova, tra le tante scritte sui muri ne campeggiava una che colpiva particolarmente: “Reagan cowboy, ritorna con gli eroi”.

Non i nostri eroi.

]]>
Filosofia dei supereroi https://www.carmillaonline.com/2022/09/30/filosofia-dei-supereroi/ Thu, 29 Sep 2022 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74255 di Luca Cangianti

Marco Favaro, La maschera dell’antieroe. Mitologia e filosofia del supereroe dalla Dark Age a oggi, Mimesis, 2022, pp. 340, € 28,00.

La maschera dell’Uomo Ragno e quella di Batman hanno una funzione molto più profonda che celare le identità di uno studente sfigato (Peter Parker) e di un miliardario play boy (Bruce Wayne). La maschera è un ponte tra l’umano e il divino, connette la figura del supereroe a quella dell’eroe mitologico. Superman non è un mero uomo in calzamaglia, come Diabolik per esempio, ma un idolo, un’entità che trascende [...]]]> di Luca Cangianti

Marco Favaro, La maschera dell’antieroe. Mitologia e filosofia del supereroe dalla Dark Age a oggi, Mimesis, 2022, pp. 340, € 28,00.

La maschera dell’Uomo Ragno e quella di Batman hanno una funzione molto più profonda che celare le identità di uno studente sfigato (Peter Parker) e di un miliardario play boy (Bruce Wayne). La maschera è un ponte tra l’umano e il divino, connette la figura del supereroe a quella dell’eroe mitologico. Superman non è un mero uomo in calzamaglia, come Diabolik per esempio, ma un idolo, un’entità che trascende l’umano acquisendo poteri straordinari.
Adesso, grazie alla Maschera dell’antieroe di Marco Favaro, disponiamo di uno studio approfondito sull’universo simbolico supereroico. Si tratta di un saggio di spessore accademico dotato di una vasta bibliografia, ma ciò non va a detrimento della leggibilità.

Negli anni quaranta dello scorso secolo i primi supereroi assomigliano a divinità decadute, incarnano il puro altruismo e difendono lo status quo di società prive di contraddizioni interne. Le prime supereroine, ad eccezione di Wonder Woman, sono rappresentate come fidanzate interessate più allo shopping che alla lotta contro il crimine (pensiamo a Hawkgirl, a Marvel Girl, ma anche alla Ragazza invisibile dei Fantastici Quattro). A questa Golden age segue, con la guerra in Vietnam e gli anni settanta, una Silver age: le differenze tra supereroi e supercriminali si assottigliano. I primi possono essere anche egoisti, stupidi e maldestri, i secondi affascinanti e persino virtuosi, almeno per alcuni aspetti. Capitan America, uno dei personaggi più iconici dell’universo Marvel, rifiuta di andare in guerra, entra in crisi, abbandona il costume a stelle e strisce, e assume l’identità di Nomad, un supereroe senza patria.
Questa tendenza si accentua con la metà degli anni ottanta: gli universi supereroici sono invasi da storie di sesso e violenza: «È il momento di antieroi sanguinosi come Punisher, Wolverine, Blade, Ghost Rider, e di una nuova generazione di eroine, femmes fatales, sensuali e letali, Elektra, Dark Phoenix, Black Widow. I villains quasi scompaiono, Watchmen il caso esemplare: un mondo dove esistono solo supereroi, dal quale i cattivi sono scomparsi da tempo.» Siamo in piena Dark age, ma finalmente le supereroine iniziano a liberarsi dai stivali con il tacco che inibiscono l’azione e dai costumi sessualizzanti.

Secondo la periodizzazione di Favaro, oggi ci troviamo in uno scenario ulteriore, l’età posteroica: «i supereroi si stanno lentamente spogliando delle loro maschere, intese come doppia identità. Nuovi eroi – e antieroi – spesso non indossano travestimenti e non hanno identità segrete, i vecchi eroi invece, pur mantenendo il loro costume, rivelano la loro identità civile, oppure questa viene svelata da altri… Sta scomparendo la scissione del supereroe tra i due mondi. La maschera o si va lentamente istituzionalizzando, facendosi simile ad un’uniforme – si pensi al caso degli Ultimates – oppure si pone unico volto in contrasto totale con la società – e allora… parliamo di antieroi.»
I supereroi difendono ancora lo status quo, ma non si tratta più della società statunitense, quanto di un ideale minacciato spesso da governi e da poteri interni. Questa difesa di uno status quo utopico spinge i supereroi contemporanei a scagliarsi contro gli assetti dominanti e li sprofonda nell’illegalità. Nasce così la figura dell’antieroe dove il prefisso “anti” non indica l’assenza di prerogative eroiche. Questo nuovo personaggio è ancora un eroe, però non vuole, non può o non dovrebbe esserlo.
Le tipologie possibili spaziano dai ribelli ai rivoluzionari, dagli inetti fino ai non-eroi decostruendo radicalmente la figura del supereroe nata nel dopoguerra. Il protagonista di V for Vendetta della DC Comics vive in una società totalitaria in cui non c’è nulla da difendere e non è più possibile alcuna forma di giustizia che non sia la vendetta. Se si vuole essere eroi dunque non si può che diventare criminali. V è un ribelle che insorge perché lo ritiene giusto, non perché abbia speranza di vincere: «Distrutti i Norsefire, se allungasse la mano e prendesse il potere per sé, anche se per guidare benevolmente la creazione di un nuovo sistema, V si limiterebbe a prenderne il posto, diventerebbe lui stesso un tiranno. Invece, fedele al suo credo anarchico e consapevole di questa dinamica, V sceglie di morire e, così facendo, non impone un nuovo sistema ma rimette la scelta ai londinesi.»

Mentre il ribelle V esaspera il conflitto contro la società, Hulk, Jessica Jones e gli X-Men tentano di smussarlo. Vorrebbero essere normali e integrati. Sono quindi dei non-eroi. Ormai l’irreversibile crisi dell’Occidente ha definitivamente incrinato l’universo simbolico supereroico. Ha ragione Favaro a parafrasare l’undicesima Tesi su Feurbach di Marx: «i supereroi hanno esaurito il loro ruolo salvando il mondo, ora si tratta di cambiarlo.»

]]>
Le reliquie di Eymerich https://www.carmillaonline.com/2022/08/31/le-reliquie-di-eymerich/ Wed, 31 Aug 2022 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73025 di Sandro Moiso

Sia detto francamente, il primo a non volere coccodrilli o eccessi di commemorazioni che lo riguardassero molto probabilmente sarebbe stato proprio Valerio che, inoltre, avrebbe sorriso sornionamente di fronte a qualsiasi tentativo di utilizzare in maniera impropria o indirettamente autocelebrativa il suo nome. Da questa ferma convinzione derivano le considerazioni che seguono.

***

Aron Gurevič, considerato tra gli innovatori della scienza storica sovietica come storico dell’età medievale, in uno splendido testo dedicato ai problemi della cultura popolare nel Medioevo, ci ha spiegato come fosse difficile la [...]]]> di Sandro Moiso

Sia detto francamente, il primo a non volere coccodrilli o eccessi di commemorazioni che lo riguardassero molto probabilmente sarebbe stato proprio Valerio che, inoltre, avrebbe sorriso sornionamente di fronte a qualsiasi tentativo di utilizzare in maniera impropria o indirettamente autocelebrativa il suo nome. Da questa ferma convinzione derivano le considerazioni che seguono.

***

Aron Gurevič, considerato tra gli innovatori della scienza storica sovietica come storico dell’età medievale, in uno splendido testo dedicato ai problemi della cultura popolare nel Medioevo, ci ha spiegato come fosse difficile la vita per coloro che, nell’alto medioevo ma anche successivamente, vivessero in eremitaggio o predicando nelle campagne, soprattutto quando fossero in odor di santità presso il popolo che intendevano convertire o cui volevano proporsi come esempio di sottomissione alla divina volontà.

Non era infatti cosa rara che i buoni credenti, i fedeli contadini oppure i devoti montanari non attendessero la loro morte per assicurarsene le preziose reliquie.
Motivo per cui i poveracci, i cui atti ispirassero al popolino qualche elemento di santità, dovevano spesso preoccuparsi più degli eccessi di fede dei loro seguaci che delle tentazioni demoniache della carne e del peccato.

Il gregge dei fedeli e il santo formano un’unica comunità, entro i cui confini circolano i beni, le preghiere, i miracoli, i doni. Questa comunità è considerata indissolubile, e né gli ammiratori del santo né il santo stesso hanno il diritto di interrompere il rapporto unilateralmente.
[…] Per assicurarsi per sempre i «servigi» di un santo, si acquistavano le sue reliquie e nell’Europa medievale si svolgeva un animato commercio di questa «merce molto richiesta». Come i resti dei santi, era oggetto di culto anche ciò che con loro aveva avuto un legame o un contatto: i sudari, la polvere del sepolcro del santo ecc. Accanto al commercio delle reliquie era largamente diffuso anche il loro saccheggio; dopo che i crociati ebbero preso e saccheggiato Costantinopoli nel 1204, in Europa si riversò un fiume di reliquie. Si credeva che il furto di reliquie potesse riuscire soltanto con il consenso del santo stesso.
Sono noti casi estremi in cui i credenti non si fermavano neanche di fronte all’assassinio del santo pur di impadronirsi così dei suoi resti taumaturgici. Pietro Damiano racconta che i montanari dell’Umbria, venuti a sapere che san Romualdo intendeva abbandonarli per trasferirsi in un’altra località, «si allarmarono moltissimo e, dopo aver discusso tra loro sul modo di opporsi a questa sua intenzione», non trovarono migliore via d’uscita che mandargli segretamente un sicario: «se non potevano conservarlo vivo, allora avrebbero ricevuto il suo corpo esanime come protettore della loro terra […] I fedeli consideravano il santo una loro proprietà. Si vantavano dei suoi atti miracolosi, li paragonavano alle imprese dei santi «altrui», e il «proprio» santo sembrava più potente1.

Qualcosa del genere è transitato da quella mentalità e da quell’epoca, indagata da Gurevič, alla modernità, vera o presunta, in cui siamo immersi. Non tanto sul piano delle religione, cui bastano immagini stampate sui cosiddetti “santini” oppure le statuette in plastica fluorescente o, talvolta, troppo realistiche, come quelle orrende di Padre Pio con le mani fasciate per le stimmate auto-inflitte. Quel senso della comunità, cui nemmeno il “santo” può sfuggire, è passato tra le schiere dei fans, oggi “followers”, di personalità di ogni genere di attività: dallo spettacolo allo sport, dalla politica alla musica, dalla letteratura ai più banali e diffusi “influencers” (di ogni ordine e genere).

Spesso però, anche in questi casi moderni, non sono bastati gli autografi, l’oggettistica venduta on-line, le magliette umide e sudaticce lanciate agli ammiratori alla fine di un concerto o di una partita di calcio. O altre reliquie, più o meno rare, puzzolenti o “eleganti” da mostrare agli amici per renderli invidiosi della propria “fede” premiata. No.

Come nel caso di John Lennon che, quando era ancora quarantenne, Mark David Chapman si prese la briga di assassinare, durante la passeggiata mattutina, per non permettergli di sfuggire al mito e alla “santità” cui era destinato. Non è forse diventata Imagine una delle “preghiere” più ascoltate e diffuse a livello mediatico? Buona per ogni occasione, anche se c’è da chiedersi se si sarebbe sviluppato lo stesso culto per l’ex-Beatles e la sua canzone se non fosse morto nel dicembre del 1980 e oggi andasse ancora a spasso nel Central Park di New York, magari su una sedia rotelle come la sua vedova, oggi ultraottantenne, Yoko Ono.

Ma anche senza arrivare all’omicidio, ci sono altre forme per ottenere una specie di esclusiva o di viatico di veri credenti di un culto sorto dalla scomparsa di un letterato, di un musicista, di un altro qualunque genere di artista o di altre personalità ancora, portate alla ribalta e alla prevedibile santificazione, più che dai meriti effettivamente acquisiti, dai miracoli messi in opera dalla società dello spettacolo, dai media e dai social.

Culto delle reliquie (scritti, diari, brani musicali e altre opera inedite) che più che servire al “santo” di turno, servono, esattamente come nel caso della società e della mentalità medievale, ai suoi seguaci e cultori. Sostituendo alla forza dei “miracoli” quella del riconoscersi e, soprattutto, dell’esser riconosciuti come rappresentanti esclusivi delle sue “volontà” oppure come “esperti” o “specialisti” della sua opera. Aspetti che, soprattutto in ambito universitario oppure di mestierantismo mediatico e “politico” (nella più ampia accezione di quest’ultimo termine), hanno sempre una certa importanza nel promuovere la figura del cultore di turno da semplice seguace/ammiratore a quella di apostolo del verbo e chierico del rito.

I rapporti tra i santi e i fedeli rientravano nelle categorie, abituali per gli uomini di quel tempo, della fedeltà e dell’aiuto reciproci. In cambio delle protezione di un santo e delle guarigioni che egli donava, la popolazione era pronta a venerarlo e difenderlo.
[…] Il culto di un santo abbracciava sempre una determinata zona ed esistevano regioni in cui prevaleva l’influsso dei santi più venerati in loco. Nel corso del Medioevo aumentò la tendenza alla «specializzazione» dei santi: a ciascuno di loro si attribuiva una funzione particolare (la protezione di questo o quel mestiere, la capacità di guarire da questo o quel malanno). Sotto questo aspetto era però ammessa anche la «cumulazione». Santa Gertrude, ad esempio, pur essendo la guida dell’anima dei defunti subito dopo la morte, proteggeva anche dai topi2.

Una volta ottenuto lo status “di grazia”, attraverso il riconoscimento della vocazione a livello pubblico (ampio o ristretto dipende soltanto dalla celebrità del “santo”), il nuovo apostolo potrà sbizzarrirsi in celebrazioni, eventi, commemorazioni e convegni in cui potrà, insieme ad altri chierici del culto, aggiungere o togliere, oppure ancora soltanto esaltare, elementi della vita e delle opere del “santo” che nemmeno lo stesso avrebbe immaginato o voluto che diventassero così importanti per il ricordo del suo breve passaggio terreno e della sua opera (sempre e soltanto “in progress”, come avviene per la vita e le azioni di ognuno).

Da tutto ciò deriva un’ulteriore conseguenza: la canonizzazione del “santo” che, attraverso una prefigurazione data, finisce col racchiuderne la figura e l’opera in un ambito pre-definito dalla “chiesa” degli esperti e degli apostoli. Entrambi i gruppi ormai più interessati a definire il proprio ruolo e le proprie regole interpretative piuttosto che a lasciar libera l’interpretazione del loro oggetto di culto e del loro studio. Percorso interpretativo in cui il soggetto reale è, per l’appunto, ridotto a oggetto. Come è avvenuta per la selezione dei quattro Vangeli ufficiali, selezionati nella marea di quelli ritenuti apocrifi.

Se inizialmente, infatti, la raccolta delle opere del santo e la narrazione della sua vita daranno vita ad un sistema di agiografie, successivamente sarà necessario selezionare tra queste quelle più adatte a stabilire un canone riconosciuto (e definitivo). Nelle agiografie, infatti:

La struttura delle vite, la scelta dei fatti narrati e il loro stesso carattere, il volume delle informazioni che sono in grado di contenere, sono soggetti alle leggi della coscienza collettiva. Nonostante che l’autore di una vita sia invariabilmente un ecclesiastico, il carattere della sua opera mostra con evidenza i tratti della creazione popolare. Le opere di carattere agiografico incarnano, come conclude uno dei suoi più autorevoli studiosi, «la memoria della folla»3.

Ma, in fin dei conti, ad approfittarsi del morto, non sarà la folla, ma i chierici e gli apostoli (senza dimenticare i neofiti per convenienza e gli editori di circostanza) che, proprio per questo, dovranno scindere ciò che dovrà esser ricordato e sistematizzato da ciò che non serve alla causa della “chiesa del santo” o, almeno, a quella dei patrocinatori e destinata a costituirne il canone ufficiale (religioso, letterario o politico che sia).

Un’operazione in cui azioni e pensiero dell'”oggetto” del culto finiranno con l’essere imbalsamati e conservati in un’ipotetica eppur reale teca di vetro attraverso le cui pareti, falsamente trasparenti, gli ammiratori potranno “mirarne”, senza comprenderle, le fattezze e gli intenti realmente perseguiti in vita dallo stesso.

***

All’aprirsi di una stagione che si annuncia carica di rimembranze (come ben si addice all’autunno), celebrazioni e canonizzazioni, cerchiamo dunque di evitare per Eymerich un tale destino, salvando il soldato Valerio da una simile ed immeritata sorte. Liberandolo dai “territori” geografici, politici e letterari in cui molti vorrebbero già fin da ora confinarlo. Magari in compagnia di autori ed “estimatori” di cui Valerio non avrebbe apprezzato del tutto la vicinanza4.


  1. Aron Ja. Gurevič, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel Medioevo, Einaudi, Torino 1986, pp.64-65  

  2. A. Gurevič, op. cit., pp. 66-67  

  3. ibid, p. 77  

  4. Come è invece successo nella recensione di Vanni Santoni, pubblicata su La Lettura del 24 luglio 2022, all’antologia di saggi di Valerio Evangelisti, curata da Alberto Sebastiani, Le strade di Alphaville. Conflitti, immaginario e stili nella paraletteratura edito da Odoya  

]]>
«Superuomo, ammosciati!» ovvero l’eroe scassato e sconquassato da Philip José Farmer https://www.carmillaonline.com/2022/08/24/superuomo-ammosciati-ovvero-gli-eroi-scassati-e-sconquassati-di-philip-jose-farmer/ Wed, 24 Aug 2022 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72995 di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della [...]]]> di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della letteratura e del mito. Senza sconti e senza scampo per nessuno,
Del suo ruolo di innovatore della SF americana Valerio Evangelisti ha scritto:

Negli anni, la fantascienza era divenuta (aderendo al proprio oggetto) un’astronave proiettata fuori dal mondo letterario; e se al suo interno fiorivano le ipotesi vertiginose e i temi socialmente e politicamente scottanti, fiorivano anche le incrostazioni di tabù e divieti. Sappiamo, per esempio, da una testimonianza di Harry Harrison, che persino la menzione di un comune vaso da notte faceva storcere il naso agli editori americani, attenti a non scandalizzare un pubblico minorenne. Figuriamoci il sesso. Ma ecco che arriva Philip José Farmer ad abbattere le barriere a spallate. Non è il solo, ma certo il meno cauto. […] E non si tratta solo di sesso. La religione altro argomento precluso (ma molto meno), subisce la stessa sorte. Si pensi alla pagina di Venere sulla conchiglia in cui Gesù Cristo appare alla tv, dice «In verità vi dico…» poi viene oscurato perché il tempo è scaduto. Memorabile. […] Questo è in effetti Farmer: un rivoluzionario che magari nemmeno sa di esserlo1.

Nato a Terre Haute, nell’Indiana, il 26 gennaio 1918 e morto a Peoria il 25 febbraio 2009, Farmer è stato, fin dagli anni Quaranta, uno scrittore estremamente prolifico nell’ambito della fantascienza statunitense. A causa della rigida educazione impartitagli da una famiglia benestante e puritana, di origini inglesi, olandesi e irlandesi da parte di padre e scozzesi e tedesche da parte di madre, cercò sfogo nella lettura di romanzi fantastici e d’avventura. A nove anni scoprì i classici della letteratura greca e i libri di Oz, mentre l’anno seguente avrebbe iniziato a frequentare la letteratura di stampo fantascientifico e satirico-fantastico attraverso i romanzi di Edgar Rice Burroughs, Jules Verne e I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift.

Di queste iniziali, infantili e disordinate letture avrebbe approfittato più avanti negli anni quando, nei suoi romanzi maggiori, ma anche in quelli minori e nei racconti, avrebbe mescolato figure e vicende prese a prestito da quella letteratura, oltre che da quella weird e pulp, per dare vita a saghe che avrebbero visto tra i protagonisti personaggi del calibro di Mark Twain, Erik il Rosso, Riccardo Cuor di Leone, Gesù Cristo, Tom Mix, Richard Francis Burton e molti altri ancora, come nel ciclo di Riverworld, il mondo del Fiume (cinque romanzi pubblicati tra il 1971 e il 1983, più svariati racconti).

Oppure descrivendo universi impossibili, con mondi strutturati come ziggurat, sui cui piani convivevano e combattevano esseri ed eroi provenienti dalla mitologia greca, come i centauri, così come da quella nordica o degli amerindi. Come avviene nel ciclo dei Fabbricanti di universi (sette romanzi pubblicati tra il 1965 e il 1993).

Infatuato fin dall’infanzia dai dirigibili e dai veicoli più leggeri dell’aria, avrebbe poi “riscritto” Moby Dick, ambientandolo su un pianeta dove le balene galleggiano nell’aria e gli equivalenti del capitano Achab e degli altri personaggi descritti da Melville danno loro la caccia a bordo di strane mongolfiere (Pianeta d’ariaThe Wind Whales of Ishmael, 1971), mentre nel 1973 avrebbe reinventato un classico di Verne, letto nell’infanzia: Il giro del mondo in ottanta giorni (Il diario segreto di Phileas FoggThe Other Log of Phileas Fogg, 1973). Come ha affermato Diego Gabutti, in Fantascienza e comunismo:

Farmer è sempre stato, prima che uno scrittore, un riscrittore: tali sono anche, del resto, i padri fondatori della letteratura moderna. Vivendo come una sorta di vampiro emozionale i romanzi degli altri, impossessandosi di trame e personaggi non suoi […] Farmer è un grande lettore se non immediatamente un grande scrittore.

Così, se egli non ha mai veramente scritto romanzi propri, è solo perché nessuno l’ha mai veramente fatto: il romanzo è ripetizione infinita, nel senso in cui Bordiga definiva se stesso un «ripetitore» […] Meglio vecchi libri che cadaveri freschi. Tuttavia, la professione del bibliotecario non è soltanto il collaudato male minore: è una scelta di campo intransigente, fredda e determinata […] Se Farmer, ad esempio, ha riscritto Il giro del mondo in ottanta giorni è solo perché neppure Verne, lui in particolare, aveva evidentemente saputo o potuto dire tutto. Con la riscrittura del Voyage, in cui ci è svelata l’identità extraterrestre di Phileas Fogg, di Passepartout e della principessa Auda, viene soprattutto ad affermarsi in un corpo già consegnato alla classicità un po’ sudicia dei musei di scienze naturali della letteratura, un movimento che il divenire, compiacendone i tic, aveva radicalmente negato.

Statue di marmo non parlano più. Ma proprio perciò Farmer torna a quel che la statua era prima che divenisse un marmo, prima che s’indurisse nell’impotenza dei suoi tratti scolpiti per sempre […] D’altra parte, il filologo non si preoccupa tanto del suo oggetto quanto della propria salute: vuole sbarazzarsi dei fantasmi ululanti nelle sue ossessioni, ed è allora un fantasma ulteriore che egli prepara per gli altri. Tanto peggio per l’oggetto se ne risulterà massacrato […] Lo sforzo filologico ha un carattere insurrezionalista: quando, come ora, tutti i tempi tattici sono stati consumati e chi non è con noi è contro di noi, non c’è altro modello che non sia nuovamente quello che ha dato il là nei tempi moderni alla leggenda del filologo, la saga stessa di Nietzsche. Il filologo è senza paura, è stato terrorizzato a sangue. La sua è la parete che rimanda, inalterabile, l’eco dell’opera; chi, per averne accusato in pieno l’onda d’urto, ora si lamenta perché è stato ferito, perché non ci capisce niente, ha solo quel che si merita; la prossima volta si leverà di mezzo2.

Farmer “filologo insurrezionalista”, terrorista dell’ordine costituito dalla letteratura che finisce, non importa se inavvertitamente o volontariamente, anche per sabotare strutture sociali e religiose, oltre che appartenenti all’immaginario, date per scontate. Come la figura dell’Eroe o dell’individuo di eccezione.

Sono costruzioni reali apparse nella storia, e che hanno avuto materiali effetti di ogni natura e di massima portata, e ciò vale tanto per le varie forme e tipi di Stati di tutti i tempi, che per i grandi Capi e Maestri di tutti i popoli e di tutte le epoche.
Quel che vogliamo stabilire è che, come la teoria marxista dello Stato, dopo aver sciolto l’enigma della dinamica di questo formidabile fattore, chiude col suo invio in pensione, un processo analogo avviene per l’Io, inteso come finora l’hanno inteso i filosofi, ossia non solo come il soggetto che si troverebbe eterno ed assoluto in ogni animale-uomo, ma come l’entità immateriale e imponderabile che anima l’Uomo con la lettera maiuscola, il grande duce, il grande condottiero, l’innovatore che appare ad ogni tratto della storia ufficiale. Come lo Stato, anche questa “forma” del capo, ha una base materiale e manifesta l’azione di forze fisiche, ma noi neghiamo che abbia funzione assoluta ed eterna: stabilimmo che è un prodotto storico, che in un dato periodo manca; nacque sotto date condizioni, e sotto date altre scomparirà. Marx annunziò allo Stato moderno la sorte di essere fracassato e ridotto in frantumi. Engels e lui stesso definirono la sorte dello Stato rivoluzionario, che gli seguirà, come una lenta sparizione. All’Io di eccezione spetta la stessa sorte; deperire, svuotarsi, sgonfiarsi, dissolversi (sich auflosen), estinguersi, spegnersi (sich aufloeschen) come in Engels. Lenin ebbe un altro termine espressivo: assopirsi3.

Un’educazione come quella che l’autore americano aveva ricevuto doveva aver lasciato fantasmi e ossessioni piuttosto ingombranti per la sua psiche. E’ evidente che è proprio contro quei fantasmi che si levano prima di tutto la sua rivolta e il rigetto delle verità date, siano esse di carattere razziale, religioso, sessuale, politico o letterario.

Entrano, dunque, quei fantasmi nella sua scrittura e, in particolare, in tutta la sua azione di demistificazione degli eroi e degli dei. In particolare nel romanzo in cui più spavaldamente e provocatoriamente porta a segno la sua ristrutturazione, più che destrutturazione, filologica dell’eroe, riportandolo a ciò che è nella sua essenza.

Proveniva da una famiglia dell’alta borghesia sudista con una tradizione protestante e puritana. Per di più, la sua mammy negra, che l’aveva allevata fin da quando aveva sei anni, era una battista del Sud di stretta osservanza. Nonostante ciò, Clio riuscì ad evolversi in una giovane donna appassionata e non particolarmente pudica, con una tendenza a quel che gli umani chiamano “sperimentazione sessuale”. E riuscì anche a liberarsi da quegli aberranti riflessi condizionati che gli umani chiamano pregiudizi razziali. Per lo meno, per quanto è possibile per un bianco nordamericano4.

Sono alcuni degli aspetti della compagna di Tarzan, Clio, alla quale l’autore americano attribuisce caratteristiche educative tratte dalla propria personale esperienza. In tali considerazioni è implicito il fatto che una volta superati i tabù del sesso, anche tutti gli altri di carattere religioso, politico e razziale possono essere, almeno in parte, superati. Una sorta di manifesto dei movimenti, soprattutto americani, di quegli anni, ma che Farmer aveva già anticipato nei racconti e romanzi che lo avevano fatto conoscere al pubblico.

Nel 1951 aveva infatti proposto il racconto breve Un amore a Siddo (The Lovers) ad «Astounding Science Fiction» e a «Galaxy» che lo rifiutarono per il tema, in esso contenuto, della relazione amorosa tra un umano e un’aliena, ritenuto troppo scabroso per l’America puritana e razzista degli anni cinquanta. Il racconto fu poi pubblicato sul numero di agosto del1952 di «Startling Stories», facendogli ottenere per la prima volta, nel 1953, il Premio Hugo.

Ma per Farmer il sesso, spesso esplicito e privo di infingardaggini e romanticherie, non è, come affermato da Charles Bukowski, qualcosa da aggiungere ai racconti per vendere di più. Costituisce il filo rosso che percorre gran parte della sua opera sia in chiave liberatoria che demistificatoria.
Insieme alla violenza, alla crudeltà, al sangue versato con indifferenza, che “filologicamente” restituiscono ad eroi e miti il loro originario e più veridico volto.

In particolare questo proposito è portato avanti, con singolare crudezza, proprio nel romanzo appena citato, Festa di morte, che si presenta, sia nel sottotitolo che nell’introduzione dello stesso Farmer, come l’ultimo volume dei nove che costituirebbero l’autobiografia di Lord Grandrith, meglio conosciuto come Lord Greystoke o Tarzan delle scimmie. Affermazione che, rispetto all’opera complessiva dello scrittore nordamericano, non è affatto una boutade, visto che almeno sei o sette dei suoi libri, non tutti tradotti in italiano, sono dedicati alla figura creata da Edgar Rice Burroughs. Senza contare quelli dedicati al ciclo della città di Opar che, di fatto, proseguono il ciclo avventuroso creato già da Burroughs.

Ossessione per l’”eroe della giungla” o altro?
Sicuramente nelle diverse opere dedicate, direttamente o indirettamente da Farmer alla figura di Tarzan, o consimili5, tutte pubblicate nell’arco di un quinquenni tra il 1969 e il 1974, non c’è soltanto la volontà di sperimentare tutte le possibili variazioni sullo stesso “tema”, ma, in primo luogo, quello di riportare l’”eroe” alla sua essenza e “reale” forma di esistenza. Quella bestiale, poiché, non per nulla, l’eroe sembra appartenere a ciò che Marx definiva la “preistoria” da cui l’umanità non sarebbe ancora uscita.

Sono le parole del magnate pazzo deus ex-machina di Lord Tyger a rivelarci, attraverso la scrittura di Farmer, l’intima essenza dell’eroe, del suo operato e di chi lo crea o rilancia nell’immaginario collettivo: «Io non sono malvagio! Non sono malvagio! Ma non si può avverare un sogno senza dolore!»6.

Ma se questo è il mandato dell’eroe, realizzare i sogni attraverso il dolore, in Festa di morte Farmer mette ancora più a nudo l’eroe, la bestia in quanto tale, lasciandogli solo la violenza, il sangue, la brutalità, la paura7, l’istinto primario e irrazionale. Scopo reso ancor più evidente dal fatto che l’eroe si aggira totalmente nudo per gran parte delle pagine del romanzo. Un ritorno allo stato di natura che non costituisce, nemmeno lontanamente, un ipotetico ritorno a uno stato di grazia. L’eroe, soprattutto se “bianco” e ancora ispirato dall’immaginario coloniale, può soltanto cadere, sempre più in basso e senza nemmeno poter avere la pretesa di trasformarsi in un anti-eroe.

E non solo poiché, per rafforzare il suo discorso, l’autore pluripremiato per le sue opere inserisce nelle vicende un altro classico protagonista della letteratura seriale statunitense degli anni Trenta: Doc Savage (nel romanzo Doc Caliban). Supereroe dalla pelle color bronzo che, simile a un bronzo di Riace dell’immaginario capitalistico americano, combatte il male, oltre che con dosi estreme di violenza, anche adottando radicali terapie psichiatriche correttive della personalità in funzione del ristabilimento dell’ordine sociale borghese8.

Ma ancora non basta. Tra ironia e immaginario trash l’”eroe” rivela le conseguenze, sul piano psichico e comportamentale, della sua educazione tra il popolo delle scimmie, che era costata al giovane Tarzan esperienze non sempre piacevoli nei primi anni di vita. Stimolando così in lui una tendenza alla violenza nei rapporti sessuali, in cui talvolta appare come dominatore e altre come dominato, che dipende però, e soprattutto, da un altro suo e più grande segreto: essere figlio, come Doc Caliban, di Jack lo squartatore.

Buon sangue non mente e per tutto il romanzo sia Tarzan che Doc Savage, alias Doc Caliban, raggiungeranno spesso l’orgasmo mentre uccidono o cercano di uccidersi a vicenda. Magari penetrando le ferite già inferte all’avversario. In un’autentica orgia di sangue. La ricerca del piacere e dell’immortalità trionfano attraverso l’egoismo più sfrenato, anche se l’eroe “mortale” defeca, piscia, si corica per dormire tra i propri o altrui escrementi o uccide con modalità che solo più tardi sarebbero state riprese dal cinema di Robert Rodriguez9.

Lo scagliai lontano con la sola forza del braccio, imprimendogli una parziale rotazione. Volò per la sala urlando. Ogni goccia di adrenalina di cui il mio corpo poteva disporre doveva essere stata chiamata a raccolta. I suoi intestini, lunghi pressapoco sette metri, fuoruscirono e caddero strappati dal suo corpo. Noli atterrò sulla faccia, le braccia spalancate, Era ancora vivo, per quanto livido per il trauma. I suoi intestini erano distesi come una scia sanguinosa sul pavimento dietro di lui. Ebbe un sussulto e morì10.

Dopo aver devastato religioni e dei, le forme della sessualità consentite e no, Farmer più che portare a fondo la filologia dell’essenza dell’”eroe”, finisce col distruggerlo o, meglio, devastarlo attraverso l’uso di una filologia degna di Rabelais e del suo Pantagruele che usava i pulcini per pulirsi il culo. Oppure raccogliendo la sfida di Céline a non scrivere come se si stesse “ricamando merletti”.

In Farmer, il machismo implicito nella figura dell’eroe viene portato alle estreme conseguenze in una giostra di attributi maschili fuori misura e sempre in erezione, pronti sempre alla bisogna e al richiamo della foresta. Il tutto in una girandola di cattivo gusto, violento e sadico, sarcastico e canzonatorio allo stesso tempo, che più che mettere alla prova il lettore, testa le probabilità che può avere l’eroe di sopravvivere ad un simile trattamento. In effetti, non lasciandogliene molte.

Vediamo dunque un poco la dottrina della fine e dell’origine del Battilocchio.
[…] vogliamo con questo stabilire e meglio chiarire, con motivi strettamente deterministici, come la funzione del Battilocchio (abbiamo così definito il Superuomo, l’Io extra misura, l’individuo “fuori classe”) che ha fin qui avuta una meccanica effettiva, debba eliminarsi insieme agli altri caratteri delle società di classe con la rivoluzione comunista. […] non nascondiamo una larga simpatia per i tempi del matriarcato. […] In questa società è la donna che trasmette il nome alla gens ed alla prole, ed è la donna che può fondare sola una gens nuova. Qui non incontriamo dunque ancora in circolazione la specie battilocchius clarissimus. Qui non viene ancora tra i piedi il Superuomo. […] La serie dei Battilocchi comincia da quando una complessa rete di possessi fondiari, di schiere di schiavi, di eserciti in armi, rovinato il comunismo primitivo e il matriarcato, deve tradurre il suo meccanismo da una generazione all’altra, e per tanto fare abbisogna di un centro, di un vertice, di una passerella di comando, di sinedri in cui si faccia la consegna delle chiavi e dei segreti di dominio. Qui l’uomo di eccezione viene sulla scena e comincia a rappresentare la sua parte […] Fin che funzione preminente è la difesa e la lotta materiale contro pericoli ed aggressioni, è chiaro che basta per capo quello più alto, dai muscoli solidissimi e dal cuore a battito formidabile; e basta a questi scegliere un giovane successore cui trasmetterà l’arte della lotta, del tiro dell’arco e della scherma. Al cospetto dei battilocchiali delusi Proci, Ulisse prova sprezzante e senza favellare la sua identità flettendo come fuscello il suo colossale arco. Stessa prova darà il figlio Telemaco, e quelli volgeranno le terga senza tentare la zuffa11.

Lontano dal comparativismo di Joseph Campbell12, tutto teso alla definizione di un eterno modus operandi della figura dell’eroe, o dalle edulcorate critiche di Umberto Eco13, Farmer, considerato in ambito fantascientifico un comparativista del mito più vicino al James Frazer del Ramo d’oro, sembra porre invece la necessità e l’urgenza di rivedere in profondità, se non distruggere, l’eroe, manifestazione suprema, arbitraria e anche un po’ ridicola del meschino Io borghese in età contemporanea.

Motivo per cui, nei confronti dei tentativi di rinnovare e riciclare l’eroe, occorre, parafrasando l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach, riaffermare che, mentre si è sempre cercato di interpretarlo variamente, è ora giunto il momento di abolirlo. Definitivamente, poiché non è altro che un fantasma o il rimasuglio di una vecchia ossessione e di un immaginario destinato a estinguersi, il cui viaggio è giunto, forse da tempo, al suo capolinea.

Le rivoluzioni a venire, per essere tali, difficilmente potranno proporre le gesta dei singoli, poiché, come scrive Emilio Quadrelli, in un suo testo di prossima pubblicazione, a proposito di uno dei più famosi “eroi proletari”:

Kamo è un uomo senza fama assai prossimo alla moltitudine dei sanculotti e, al pari di questi, degno di citazione storica solo in quanto massa. Impossibile trovare in Kamo quella dimensione individuale la quale, a conti fatti può appartenere ai politici, agli intellettuali, ma mai agli operai i quali, quando occupano la scena storica lo fanno in quanto massa, mai come individui. Lo aveva colto bene Rosa Luxemburg quando coniò, a proposito del protagonismo delle masse, quell’io collettivo della classe operaia che al lessico borghese dava più di qualche problema anche sul piano grammaticale14 .

Pur ammettendone la funzione simbolica, archetipica e mitica presso i popoli e le società antiche, oggi, sia che si tratti dell’eroe dotato di superpoteri (Superman, Super Mario o Super Zelensky) oppure destinato al martirio (Gesù Cristo, Beowulf o Che Guevara), a transitare soltanto tra i vivi oppure anche nel regno dei morti, sempre egli finirà con lo sconfinare nella negazione del sogno rivoluzionario, trasformandosi nel misero soldatino sacrificabile o sacerdote sacrificante dell’esistente immodificabile o della Patria, anche se “socialista”.

Forse non a caso, in una recente intervista, Yaryna Grusha Possamai, docente di Lingua e letteratura ucraina all’Università Statale di Milano, ha potuto affermare che in Ucraina «sta nascendo una nuova letteratura eroica»15. Infatti, anche se questo si è rivelato troppo spesso difficile da comprendere per molti compagni, il superamento del capitalismo e del suo immaginario non potrà avvenire cambiando di segno i suoi apparati politici, economici e culturali, ma soltanto rovesciandoli e negandoli totalmente.

Non fu il manifesto di Carlo Marx, o di lui e Federico Engels, fu il Manifesto del partito comunista. Di lì, e senza battilocchi, muovemmo. Purtroppo ne piovvero da ogni lato, e al loro effetto, antiproducente in partenza, si devono i ripetuti rovesci; tuttavia inevitabili, perché ogni forma ha la sua inerzia storica, e quella dei battilocchi resiste più che le cimici al D.D.T., si acclimata con disperata virulenza ai più drastici disinfettanti.
[…] Torniamo ai capi di Stato, uomini politici, condottieri, e se volete ai capi rivoluzionari. Fino ad oggi hanno avuto una parte negli eventi, se pure sempre riferita in modo più che distorto ed iperbolico. Tale parte non è quella di una causa primaria, di un primo motore; e non costituisce condizione necessaria, […] Alcune volte tuttavia la storia mostra di avere un protagonista, e alcune volte ancora il suo nome diviene noto all’universo mondo, benché tale identificazione non cambi nulla, e in dati casi sia un ulteriore impaccio ed un guaio nero, come per i movimenti rivoluzionari mostrammo16.


  1. Valerio Evangelisti, Farmer: Venere sulla conchiglia, Introduzione a «Urania collezione», n° 15, aprile 2004 ora in V. Evangelisti, Distruggere Alphaville, Edizioni l’ancora del mediterraneo, 2006, pp. 90-91  

  2. Diego Gabutti, Fantascienza e comunismo, La Salamandra. Milano 1979, pp. 159-163  

  3. Amadeo Bordiga, Superuomo, ammosciati!, “Il programma comunista” n. 8 del 1953  

  4. Philip José Farmer, Festa di morte, Ennio Ciscato Editore, Milano 1972 (titolo e edizione originale: A Feast Unknown, 1969), p.135  

  5. Si tratta, oltre che dell’opera già citata di: Lord of the Trees, Ace, 1970. (inedito in italiano); The Mad Goblin, Ace, 1970. (inedito in italiano); Lord Tyger (Lord Tyger, Doubleday, 1970) in I Massimi della Fantascienza n. 29, Arnoldo Mondadori Editore, 1992; Tarzan Alive: A Definitive Biography of Lord Greystoke, Doubleday, 1972. (inedito in italiano); L’ultimo dono del tempo (Time’s Last Gift, Ballantine, 1972) traduzione di Ugo Malaguti, Slan. Il Meglio della Fantascienza n. 22, Libra Editrice, 1974; Opar, la città immortale (Hadon of Ancient Opar, DAW n. 100, 1974), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 2, Arnoldo Mondadori Editore 1989; Fuga a Opar (Flight to Opar, DAW n. 197, 1976), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 8, Arnoldo Mondadori Editore 1990  

  6. P. J. Farmer, Lord Tyger, Delta fantascienza, 1970, p. 251  

  7. Farmer, in Festa di morte, fa dire a Tarzan: «Personalmente non ho paura della morte, però le mie cellule non sono razionali quanto me», op. cit., p.25  

  8. Personaggio cui Farmer dedicherà un’altra opera, inedita in italiano: Doc Savage, His Apocalyptic Life, Doubleday, 1973  

  9. Ad esempio in Machete, nel 2010  

  10. P. J. Farmer, Festa di morte, op. cit., p. 232  

  11. A. Bordiga, Superuomo, ammosciati!, cit.  

  12. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli 1958 – Lindau 2016  

  13. Si veda: Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, Milano 1978/2015, IV edizione Tascabili, pp. 135-139, in cui l’autore propone una lettura a dir poco esilarante, superficiale e perbenista proprio di Tarzan, oltre che della letteratura di genere nel suo insieme  

  14. Emilio Quadrelli, L’altro movimento operaio, introduzione alla ristampa integrale di La classe, giornale delle lotte operaie e studentesche (maggio-agosto 1969)  

  15. Jessica Chia, Il tabù è caduto, in Ucraina l’epos vive, «Corriere della sera», supplemento «La lettura» del 17 luglio 2022, p. 40  

  16. A. Bordiga, op. cit.  

]]>
Il ciclo di Eymerich, una narrativa popolare che inquieta e non consola /1 https://www.carmillaonline.com/2022/08/22/il-ciclo-di-eymerich-una-narrativa-popolare-che-inquieta-e-non-consola-1/ Sun, 21 Aug 2022 22:10:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73387 di Fabio Ciabatti

Valerio EvangelistiCombattere la colonizzazione dell’immaginario da parte del potere attraverso un originale utilizzo di generi narrativi considerati minori: avventura, fantastico, giallo, fantascienza ecc. Come si articola questa amalgama tra romanzo popolare e letteratura esplicitamente politica nell’opera di Valerio Evangelisti? L’autore bolognese sostiene che “Tematiche come il razzismo, la guerra, la fame, il disagio urbano, l’invadenza dei mass media, l’autoritarismo, l’arroganza del potere eccetera sono per la narrativa ‘di genere’ pane quotidiano”.1 Ma afferma anche che, in questo ambito, prevale spesso [...]]]> di Fabio Ciabatti

Valerio EvangelistiCombattere la colonizzazione dell’immaginario da parte del potere attraverso un originale utilizzo di generi narrativi considerati minori: avventura, fantastico, giallo, fantascienza ecc. Come si articola questa amalgama tra romanzo popolare e letteratura esplicitamente politica nell’opera di Valerio Evangelisti? L’autore bolognese sostiene che “Tematiche come il razzismo, la guerra, la fame, il disagio urbano, l’invadenza dei mass media, l’autoritarismo, l’arroganza del potere eccetera sono per la narrativa ‘di genere’ pane quotidiano”.1 Ma afferma anche che, in questo ambito, prevale spesso la ripetizione all’infinito di temi e schemi collaudati. In breve, la paccottiglia.
Tenendo conto di questa duplicità, possiamo partire da quanto sostiene Umberto Eco a proposito del romanzo popolare: questo genere letterario sorprende il lettore con innumerevoli colpi di scena, ma alla fine lo tranquillizza con quello che già sa immergendolo in un intreccio narrativo di cui conosce i pezzi, le regole e anche l’esito. E l’esito è che il bene trionfa. Il bene definito dai canoni della moralità dominante.2

Il procedimento descritto da Eco è per certi versi l’opposto di quello utilizzato da Evangelisti nel ciclo dedicato all’inquisitore generale di Aragona Nicolas Eymerich con le sue storie ambientate nella seconda metà del 1300, ma intrecciate con altre vicende che si svolgono in periodi futuri (dalla Seconda guerra mondiale al 3000 d.c.) o più raramente  in dimensioni oniriche. Il tutto raccontato nella tipica struttura articolata su tre livelli cronologici. Nei tredici romanzi del ciclo “canonico”, pubblicati tra il 1994 e il 2018, lo scrittore bolognese immerge il lettore in un’atmosfera “paraletteraria” apparentemente poco impegnativa. Lo accoglie in un immaginario in cui si trova a suo agio, quello del romanzo d’avventura in cui il protagonista, come in un giallo, deve risolvere degli enigmi che si colorano di tinte horror, soprannaturali, fantastiche. Ma progressivamente la trama concettuale sottesa al racconto si infittisce, ci spiazza, ci porta in lande sconosciute in cui la nostra razionalità fatica ad orientarsi. È questo percorso dal noto all’ignoto che costituisce l’utilizzo politico che Evangelisti fa della letteratura popolare.
In
Rex Tremendae Majestatis, ribaltando un procedimento intellettuale che rimanda esplicitamente a Sherlock Holmes, Eymerich afferma: “il mondo che abbiamo attorno è impazzito. Non è più vero che, eliminato l’impossibile, l’improbabile rappresenti la realtà. È vero l’esatto contrario”.  L’effetto finale è tutt’altro che rassicurante, al contrario di quello descritto da Eco. Per guidare la resistenza contro la colonizzazione dell’immaginario, sostiene infatti il nostro autore, è necessaria una narrativa “che inquieti e non consoli”.3

Però alla fine, come un tipico romanzo di avventura, Eymerich vince perché ha tutte le caratteristiche di un eroe. L’inquisitore è certamente uomo di scienza, ma anche di azione: “padre Nicolas è un condottiero. Se non combattesse dalla parte giusta, lo scambiereste per un demonio”, sostiene in Cherudek padre Corona, l’unica persona che l’inquisitore potesse considerare come un sorta di amico. Un eroe, dunque, ma dalla doppia natura, come testimonia il nomignolo che gli affibbiano i suoi nemici catari, San Malvagio. Eymerich è coraggioso, intelligente, scaltro, dedito alla causa e incurante del proprio tornaconto personale. Al tempo stesso, però, è spietato, iracondo, vendicativo, orgoglioso. È nei momenti di maggior pericolo, ci ripete spesso Evangelisti, che riesce a riacquistare il massimo della sua lucidità e partire alla riscossa.
Come molti tra gli eroi più riusciti l’inquisitore ha un
fatal flow, una ferita originaria che lo tormenta esprimendosi nelle sue molteplici fobie che, in fin dei conti, sono manifestazioni della sua incapacità di empatizzare con le persone e con il mondo. Momenti di pietà nei confronti del prossimo e anche delle proprie vittime ci sono, ma vengono repressi immediatamente con rabbia. In certi situazioni le sue fobie lo bloccano, ma soprattutto, nel tentativo per lo più inconscio di fronteggiarle, contribuiscono a costituire quella che lo psicanalista rivoluzionario Wilhelm Reich (coprotagonista del romanzo Il mistero dell’inquisitore Eymerich) definirebbe la sua armatura caratteriale. Che è poi la sua armatura da eroe. “La cappa nera e la tonaca bianca erano per lui un segno di forza, meglio ancora di quanto sarebbe stata una corazza” (Mater Terribilis). Senza di essa l’inquisitore afferma  di sentirsi nudo. Eymerich può essere un eroe soltanto perché non ha ancora riconosciuto i suoi demoni interiori e li proietta all’esterno. I suoi demoni diventano Satana in persona. Solo quando aveva “Individuato il nemico l’inquisitore si sentiva molto più sicuro di sé”Mentre si sentiva “spaesato”, una sensazione che odiava, “ogni volta che gli capitava di interrogarsi sulla propria identità” (Il Castello di Eymerich).

Alla fine di ogni romanzo, come prevede la narrazione convenzionale, Eymerich sconfigge i suoi nemici e ripristina l’ordine momentaneamente infranto. Ma di che tipo di un ordine si tratta? La giustizia ha trionfato? Ciò che nel romanzo d’avventura rimane spesso implicito o soltanto sullo sfondo, nelle vicende di Eymerich viene tematizzato esplicitamente. L’opposizione mortale tra ortodossia e eresia viene drammatizzata e messa in primo piano attraverso i ripetuti scontri dialettici che l’inquisitore ha con i suoi interlocutori e avversari. L’inquisitore “Aveva consacrato la propria vita alla ricucitura di un equilibrio costantemente violato sia dalle colpe degli uomini sia dalle insidie del Maligno”. Ogni attentato a questo equilibrio “costituiva uno strappo in una tela tessuta alla perfezione”. Da dio in persona (Mater Terribilis).
In questo ordine non c’è posto per alcuna alterità. Ogni alterità è eresia. Nella battaglia tra ortodossia e eresia la religione professata dall’inquisitore è qualcosa di più del classico instrumentum regni. È vero che normalmente la missione di Eymerich è duplice: deve combattere contro i nemici della vera fede e contemporaneamente sventare le trame politiche che si oppongono al papato. Ma l’inquisitore più volte afferma che la chiesa è al disopra di tutti i regni. È l’unico impero universale. In apparenza abbiamo a che fare con una forma mentis medioevale. Ma sotto queste mentite spoglie di si nasconde l’idea che, per dirla con Sandro Moiso, l’immaginario non è un’articolazione della politica, ma è quest’ultima ad essere un territorio dell’immaginario.

Eymerich è costruito consapevolmente come un personaggio anacronistico. Sotto l’apparente visione del mondo medievale di tipo aristotelico-tomistico, emerge il razionalismo moderno con il suo inarrestabile impulso totalitario. Un impulso inesorabilmente orientato a negare e distruggere tutte le relazioni sociali e le concezioni del mondo che a esso si oppongono. La sua razionalità è tutt’altro che premoderna: è fredda ed astratta al punto di diventare disumana e, in certi momenti, di lambire la follia. Eymerich combatte contro ogni possibilità che l’ordine dominante sia incrinato da ciò che è ritenuto impossibile, dall’evento, dal novum.
Fin dal primo romanzo del ciclo,
Nicolas Eymerich, inquisitore, sappiamo che “lo stato d’animo con cui l’inquisitore si accostava a tutto ciò che non conosceva” era “la diffidenza di chi si avventura in un territorio nemico”. Come leggiamo in Picatrix, per l’inquisitore “Un vero “ignoto” non poteva esistere. Dio aveva dettato regole certe e ovunque valide”. Come ne La guerra dei mondi di H.G. Wells, di cui Evangelisti ci parla nell’articolo “In difesa della fantascienza”, c’è un tema sotteso all’intero ciclo dell’inquisitore, la minaccia “della caduta di un’intera civiltà davanti a una minaccia inaspettata”.4

C’è un altro elemento di manifesto anacronismo che Evangelisti pone al cuore della narrazione. La storia personale di Eymerich coincide, pressoché letteralmente, con la tipica biografia del “mostro” delineata dallo scrittore quando parla del serial killer Zodiac nell’articolo “American psycosis”. Si tratta, in realtà, di un percorso psicologico sufficientemente comune negli Stati Uniti contemporanei da causare una sorta di sociopatia diffusa di cui il fenomeno degli assassini seriali è solo l’esito più estremo. In Rex tremendae majestatis c’è la descrizione dell’“infanzia  difficile” dell’inquisitore e come nel caso di Zodiac abbiamo “una situazione familiare in cui la figura materna deborda e prevarica con un eccesso di affetto o con un eccesso di freddezza – quest’ultimo è il caso di Eymerich -, mentre la figura paterna è distante ed evanescente” – del tutto assente a causa della prematura morte per quanto riguarda l’inquisitore.5
Un clima familiare di generale di violenza, disamore ed estraneità, portano Zodiac/Eymerich negli anni dell’infanzia a temere il prossimo e a tentare di evitarne le aggressioni fisiche e psicologiche. Diventa così un bambino chiuso, diffidente in forma esasperata, dominato da un costante desiderio di non farsi notare. Solo nel più radicale isolamento riesce a trovare la propria libertà e un lenimento alle sue sofferenze. Coltiva al proprio interno una carica di affettività che non riesce ad esternare causando un accumulo di aggressività. Alla fine, uno spaventoso vuoto emozionale recide anche gli ultimi legami con il mondo esterno. L’aggressione diventa l’unico modo che riesce a trovare per comunicare.
Evangelisti, insomma, ci sta dicendo che in un contesto sociale permeato dai connotati schizoidi è il potere in quanto tale, impersonato nella sua forma più estrema da Eymerich, che assume connotati sociopatici. A differenza della maggior parte della letteratura, Evangelisti “ha identificato nel potere stesso l’agente del male”6 e, come nella migliore paraletteratura, ha descritto un mondo “in cui la violenza non è un dato incidentale, ma una componente ineliminabile del contesto”.7 In un ambiente strutturalmente malato, la freddezza, la chiusura in se stessi, la reciproca ostilità e diffidenza, da forme patologiche diventano valori da rivendicare fino al punto di giustificare il disprezzo per il perdente (l’inquisitore detesta ogni forma di debolezza, sia fisica che mentale) e il diritto del cacciatore (ciò che Eymerich in Cherudek considera “la naturale crudeltà dei giusti”).

In Mater Terribilis Evangelisti descrive una conversazione tra un direttore di giornale e un sottosegretario alla difesa italiani che sostengono la necessità di inventare false notizie per sostenere la guerra della NATO contro la Jugoslavia. Il politico cita con approvazione Lenin quando sostiene che è indifferente l’uso che il chirurgo fa del bisturi se l’operazione è necessaria alla storia. Evangelisti, che si riconosce in “quella sinistra eretica fatta di anarchici, di autonomi, di situazionisti, di operaisti, di consiliaristi, di massimalisti, di socialrivoluzionari, di populisti eccetera”,8 si pone senz’altro dalla parte dell’anarchico Amedeo Borghi che, di fronte a questa affermazione, chiede al leader bolscevico: “e se il vero malato fosse il chirurgo?” La conversazione si chiude con il sottosegretario che giudica la domanda chiaramente insensata e per questo non meritevole di alcuna risposta, come effettivamente avvenne. Nessun potere è disposto a mettere in dubbio sé stesso e la sua legittimità.

Siamo lontani anni luce dalla letteratura che si autoproclama “alta”. Quella che, secondo Evangelisti, si caratterizza per “il minimalismo dilagante, la debolezza scambiata per poesia, i colori pastello ritenuti tinte ideali per dipingere il mondo, la gratuità stilistica, il chiamarsi fuori dello scrittore dalla storia, la ripetitività di trame incentrate sulla solita, immarcescibile gamma di sentimenti e situazioni”.9 Siamo nel cuore massimalista della paraletteratura.
Questo massimalismo si esprime nel fatto che, nel ciclo di Eymerich, ma anche negli altri romanzi di Evangelisti, assistiamo allo scontro tra due immaginari paradigmatici e alternativi. Il pensiero dell’inquisitore cerca la precisione, la misurazione, la distinzione, la scomposizione, la separazione. In Cherudek possiamo leggere uno dei tanti brani indicativi della forma mentis di Eymerich:

più di ogni altra cosa, ciò che lo innervosiva oltre il tollerabile era la confusione tra le forze in campo. La sua indole esigeva chiarezza e contorni precisi; l’ambiguità di quel conflitto equivaleva ai suoi occhi alla conferma che una mano demoniaca reggeva i capi della vicenda. 

Nella fede dell’inquisitore non c’è posto per il sentimento e la pietà. Per tutto ciò che costruisce legami sociali, comunità. Brigida, la mistica in odore di santità che Eymeric incontra sempre in Cherudek, così lo accusa:

“Il fatto che in te non c’è amore, te l’ho già detto. La tua fede è una cosa fredda, spietata, lontana da Dio. Più che in lui tu credi nel diavolo, e il diavolo è tutto quello che non rientra nell’ordine disumano che vorresti instaurato”. 

L’immaginario alternativo che emerge dalle eresie combattute ferocemente da Eymerich  è costituito dal tessuto comune, dall’inconscio collettivo, dai sogni condivisi, dalla quinta essenza e dalla materia sottile degli alchimisti, ossia da tutto ciò che unisce e mette in comunicazioni gli esseri umani, dal legame profondo che tiene insieme l’intero mondo. È questo, ci dice Alberto Sebastiani, autore del più completo e interessante saggio critico dedicato al ciclo di Eymerich, il cuore del conflitto politico raccontato nell’intera opera narrativa di Evangelisti, la sua One big novel che comprende sia i suoi romanzi storici sia quelli fantastici. È questo il cuore massimalista della fantascienza del ciclo: la possibilità di uscire dal realismo capitalista.10 

Ma c’è un punto che vale la pena sottolineare. In questo scontro titanico Eymerich è dalla parte della razionalità. Certmente è la razionalità spietata del potere, ma in fin dei conti è anche la nostra razionalità perché i suoi nemici sfidano la logica del nostro mondo e per di più lo fanno in modo oscuro e inquietante. Mathilde, sacerdotessa del culto luciferano in Mater Terribilis, così si rivolge all’inquisitore spiegando la natura dell’Archetipus Mundi:

“Nicolas Eymerich, qui non potete pretendere risposte ispirate a ciò che chiamate ragione. In questo mondo il tempo non scorre: convive in maniera simultanea … Spiegazioni basate su causa ed effetto, su un prima e su un dopo, sono funzioni anch’esse simboliche. Puri espedienti per darsi un orientamento in una landa dai confini indefiniti”.

L’altro mondo possibile, sempre represso ma continuamente risorgente, quello che nasce delle eresie provenienti da antichi culti spesso legati a divinità femminili, è popolato da innumerevoli creature inquietanti. Un aspetto tutt’altro che rassicurante che si proietta anche sull’avvenire. Mettendo in rapporto i differenti strati temporali della narrazione, infatti, Evangelisti evoca una sottile ma significativa relazione tra alcune delle pratiche magiche esercitate ai tempi di Eymerich e le vicende che, in un lontanissimo futuro, porteranno alla creazione dei mostruosi soldati utilizzati nello nello scontro bellico senza fine tra Euroforce e RACHE, le potenze dominanti nel continente euroasiatico: si tratta dei mosaici, una sorta di morti viventi nati dall’assemblaggio di parti di corpi senza vita, e dei poliploidi, esseri umani con un corredo genetico modificato che ne moltiplica gli organi.
Forse ancora più inquietante di questi guerrieri del futuro è la figura evocata dagli eretici luciferani: lato oscuro presente presente in ogni madre amorevole (in ogni  “Mater Bona”), la “Mater terribilis” dell’omonimo romanzo è la genitrice che divora, castra e uccide la sua prole. Il suo nemico per eccellenza, ci viene spiegato con una citazione in esergo presente in uno dei capitoli del romanzo, è l’eroe, colui che viene raffigurato come il cavaliere valoroso che doma e imbriglia il lato istintuale e inconscio.
Di fronte a una natura così selvaggia ed oscura non siamo forse tentati di schierarci con dell’eroico cavaliere? Non siamo spinti a stare dalla parte di Eymerich? Se così non fosse, se una parte di ciascun lettore non si identificasse con l’inquisitore, tutto il fascino del meccanismo narrativo costruito da Evangelisti verrebbe meno. Ma è chiaro che Eymerich suscita in noi anche un sentimento di repulsione, di rifiuto. Ed è questo l’effetto finale che Evangelisti vuole ottenere. E se l’autore vuole che il suo lettore si ribelli al suo eroe non stiamo assistendo a un’originale autocritica della figura stessa dell’eroe?

(1 – continua)


  1. V.  Evangelisti, “Elogio della paraletteratura” in Id., Le strade di Alphaville, Odoya, Bologna 2022, p. 69. 

  2. Cfr. Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, 2015 e Umberto Eco, “Il mito di superman” in Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, 1999. 

  3. V.  Evangelisti, “Una narrativa adeguata ai tempi”, in Id, cit, p. 78. 

  4. V. Evangelisti, “In difesa della fantascienza”, in Id,. cit., p. 79. 

  5. V. Evangelisti, “American psycosis”, in Id, cit., p. 209. 

  6. V. Evangelisti, “Periferie pericolose”, in Id, cit., p. 33. 

  7. V. Evangelisti, “Apologia della sottoletteratura”, in Id, cit., p. 69.  

  8. V. Evangelisti, “Periferia di Alphaville.23:15, ora oceanica”, in Id, cit. p. 53. 

  9. V. Evangelisti, “Periferie pericolose”, in Id, cit., p. 31. 

  10. Cfr. A. Sebastiani, Nicolas Eymerich. Il lettore e l’immaginario in Valerio Evangelisti, Odoya, Bologna 2018. 

]]>
Il pianto e l’urlo https://www.carmillaonline.com/2021/12/11/il-pianto-e-lurlo/ Sat, 11 Dec 2021 21:37:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69619 di Franco Pezzini

[Sono ripresi a Torino, dopo la sosta forzata del lockdown, i corsi liberi, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: e tra l’altro la terza stagione di La guerra dentro. Iliade, dal poema di Omero. Per la traduzione si fa riferimento a quella storica di Rosa Calzecchi Onesti. Si propone qui uno stralcio dal libro XVIII: Patroclo è caduto sul campo, i capi achei si sono serrati attorno al suo corpo per difenderlo e hanno mandato il velocissimo Antiloco a portare la notizia ad Achille.]

Subito dopo Ettore

Mentre i [...]]]> di Franco Pezzini

[Sono ripresi a Torino, dopo la sosta forzata del lockdown, i corsi liberi, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: e tra l’altro la terza stagione di La guerra dentro. Iliade, dal poema di Omero. Per la traduzione si fa riferimento a quella storica di Rosa Calzecchi Onesti. Si propone qui uno stralcio dal libro XVIII: Patroclo è caduto sul campo, i capi achei si sono serrati attorno al suo corpo per difenderlo e hanno mandato il velocissimo Antiloco a portare la notizia ad Achille.]

Subito dopo Ettore

Mentre i compagni nella piana, attorno al corpo, lottano come fuoco che avvampi, Antiloco arriva di corsa da Achille. E lo trova davanti alle navi, «che sospettava nell’animo quanto era cosa compiuta»: ovviamente si sta domandando perché gli Achei siano di nuovo incalzati indietro, in rotta per la pianura.

 

Temo che i numi compiano sciagure tristi al mio cuore,

come un giorno la madre m’accennava e diceva

che il migliore dei Mirmídoni, me tuttora vivente,

sotto le mani dei Teucri doveva lasciare la luce del sole.

 

Normalmente si pensa alle profezie fatte ad Achille su di lui e la sua morte: e già si è visto che nell’Iliade il tema è più sfuggente di quanto il mito postomerico canonizzerà. Ma la profezia che avrebbe potuto angosciarlo maggiormente – e solo ora collega a Patroclo, perché sub XVI 50 s. gli aveva smentito di conoscere rumors profetici per lui – riguarda il migliore dei Mirmidoni. Forse l’aveva interpretata come riferibile a qualcun altro (tecnicamente il locrese Patroclo sarebbe mirmidone solo d’adozione), forse l’aveva rimossa o piuttosto si tratta dell’ennesima contraddizione del poema: si è anzi pensato per il passo presente a un’invenzione estemporanea a fini drammatici, come nel caso di altre figure del mito che si trovano a ricordare all’improvviso, al loro compiersi, profezie che li avrebbero riguardati. Comunque ora comincia a dirsi che Patroclo è morto: un’angoscia che rimanda ancora all’idea di penultimità di cui è intessuto tutto il poema, quella dei fatti già consumati ma che per noi non sono ancora certi, col rovello di un mondo già virtualmente frantumato in noi, ma per ora soltanto nel segno del timore. Glielo aveva detto, di tornare alle navi dopo aver rintuzzato i nemici, di non affrontare Ettore…

E mentre così si angoscia, arriva Antiloco. E piange. E gli dà la notizia:

 

“Ah! figlio di Peleo cuore ardente, molto amara

notizia saprai, cosa che non doveva accadere;

Patroclo è a terra e intorno al corpo combattono,

nudo: l’armi le ha Ettore elmo lucente!”

Disse così; e una nube di strazio, nera, l’avvolse:

con tutte e due le mani prendendo la cenere arsa

se la versò sulla testa, insudiciò il volto bello [probabilmente Achille è immaginato sbarbato];

la cenere nera sporcò la tunica nettarea;

e poi nella polvere, grande, per gran tratto disteso,

giacque, e sfigurava con le mani i capelli, strappandoli.

 

Possiamo sentire più o meno vicino questo tipo di manifestazione del dolore (espressione di un cordoglio spontaneo, attestato anche in altre culture mediterranee, che differisce dal lamento ritualizzato): ma comprendiamo bene il contenuto. Anzitutto c’è la dimensione della perdita, qui la morte improvvisa e terribile di un compagno caro a tutti, ma in particolare da Achille teneramente amato: un rapporto che nel testo omerico non esplicita ancora quei connotati omoerotici poi presenti almeno a partire dai perduti Mirmidoni di Eschilo. Anche se può essere utile fino a un certo punto avanzare troppi distinguo sul tipo di rapporto che li lega: certo di amicizia profondissima e dialogo continuo, ma non necessariamente esclusivo di qualche dimensione erotica e fisica. Però il problema non è solo la perdita in sé: il fatto è che Achille sta rivedendo come in moviola quanto ha vissuto lui stesso, la terribilità di un desiderio esaudito, una sorta di tradimento verso compagni che ha chiesto a Zeus di sanzionare con sconfitte e morte, e quello è il risultato. Il senso della misura che Menelao ha citato in più occasioni come sempre violato dai Troiani, Achille non l’ha rispettato nella sua ira, e quello è il risultato. Ad arrivargli addosso è insomma la terribilità di una categoria-morte che non si esaurisce nel fatto materiale ma colpisce tutto attorno, raggiunge le scelte passate, esonda sul sentire futuro: ed ecco di nuovo la penultimità. Quella cenere di cui Achille si impiastriccia non è dunque solo la cenere di un dolore, di tutti i giorni condivisi con Patroclo e idealmente quella del rogo funebre di lui, ma annuncia già la pira di Achille, già e non ancora morto nelle sue scelte precedenti di recedere dalla lotta e anche di permettere la discesa in campo di Patroclo, causandone in qualche modo la morte.

A quel punto ecco ululare e correr fuori attorno ad Achille anche le schiave – ci viene specificato – conquistate da lui e Patroclo: cioè ragazze fatte in fondo prigioniere nell’eccidio dei loro cari, traumatizzate e (parliamoci chiaro) probabilmente stuprate, anche se a paragone dei re colleghi i due capi mirmidoni hanno mostrato una non comune delicatezza verso di loro. Sono «straziate in cuore», si battono il petto e a tutte si sciolgono le gambe, e più avanti il Cieco chiarirà meglio come la morte di Patroclo finisca col richiamare per risonanza i personali dolori di ciascuna. Ma in quello strazio ci sono anche un obbligo impastato di timore verso i propri padroni, un riflesso rituale di solidarietà verso l’enormità dell’evento-morte, e forse insieme un genuino dolore. Qualcuna di loro può aver condiviso il letto di Patroclo, uomo attraente in tutti i sensi e gentile anche verso le ragazze prigioniere (per non parlare di meccanismi come la sindrome di Stoccolma, che probabilmente è sempre esistita).

E dall’altra parte piange Antiloco, tenendo le mani di Achille che singhiozza, timoroso che si sgozzi per il dolore. «Gridava terribilmente», e lo sente la madre Teti, seduta accanto al padre Nereo negli abissi del mare. Lo sente ma – scopriremo tra poco – non sa perché soffra, sente solo le sue grida di dolore: e da quelle profondità – che sembrano richiamare per omologia poetica le stesse profondità del dolore di lui, ma soprattutto quelle di una viscerale partecipazione materna – quelle grida le strappano un gemito, e le sorelle Nereidi le si fanno intorno. Il Cieco qui ne cita trentatrè – oltre a lei, Glauche, Talia, Cimodocea, Nesea, Spio, Toe, Alie, Attea, Cimotoe, Limnorea, Melite, Iera, Anfitoe, Agave, Doto, Proto, Ferusa, Dinamene, Dessamene, Anfinome, Callianira, Doride, Panopea, Galatea, Nemerte, Apseude, Callianassa, Climene, Ianira, Ianassa, Maira, Oritia, Amatia – però aggiunge «e l’altre Nereidi che son nell’abisso del mare». In effetti Esiodo ne menziona cinquantuno, autori successivi parlano di numeri tra i quarantacinque e i cinquanta, ma il Cieco lascia l’elenco aperto come a richiamare il mistero delle pluralità teologiche, persino rimarcato in questo caso dall’ignoto delle profondità marine. Si è proposto di escludere questo elenco (già assente in alcune “edizioni” antiche del poema, per esempio quella di Argo) che spezzerebbe il ritmo, ma in realtà il problema emerge nel caso di tutti i diversi cataloghi del poema, che consegnano agli ascoltatori la memoria necessaria; quanto all’ipotesi che si tratti di un’imitazione esiodea, non si può invece neppure escludere che l’uno e l’altro attingano a una fonte precedente.

«La grotta splendente fu piena di loro: e tutte insieme / si battevano il petto», in una sorta di enorme coreografia in eco del dolore di lei: e Teti inizia il lamento rivolgendosi alle sorelle, perché sia chiaro a tutte – sottolinea – quanto strazio abbia in cuore. Lei infelice, madre di un figlio eccelso tra gli eroi, l’ha «cresciuto come un germoglio, / […] allevato come pianta in conca di vigna, / e […] mandato a Ilio con le navi curve», ma non lo riavrà vivo dalla guerra nella casa di Peleo (mostrava di conoscere una sua morte prematura già in I 416 s. e 505, qui aggiunge che ciò si consumerà prima del suo ritorno da Troia, e si è evinto che il Cieco non conosca ancora la storia della separazione di Teti da Peleo poco dopo la nascita di Achille). E il paradosso è che

 

[…] mentre ancora l’ho vivo, mi vede la luce del sole,

è afflitto, e io non posso, anche andando, aiutarlo.

Ma andrò per vedere la mia creatura e sentire

che pena l’ha colto mentre è fuori dalla guerra.

 

Così lascia la grotta e le sorelle la seguono in lacrime, e intorno a loro si apre la schiuma del mare: e, raggiunta la spiaggia di Troia, vi salgono in fila presso le navi dei Mirmidoni. Achille è lì che singhiozza: la madre si avvicina e con un lamento gli prende la testa tra le mani (gesto di protezione, ma che fa pensare a quelli del compianto funebre), e commossa gli pone la stessa domanda, con le stesse parole – creatura, perché piange? quale strazio ha colto il suo cuore? – di quando era stato oltraggiato da Agamennone e si disperava. Un ricordo che probabilmente finisce con lo straziarlo persino più a fondo: tanto più che Teti chiede di spiegarle, vorrebbe capire, in fondo Zeus ha fatto proprio come lui ha chiesto, la rotta degli Achei fino alle navi, e il loro doloroso incassare l’assenza di lui…

E Achille risponde con un gemito pesante che sì, Zeus ha fatto tutto quello, «ma che dolcezza è per me, s’è morto il mio amico», quel Patroclo che per lui era più degno d’onore tra tutti, quanto la sua stessa vita: una condivisione empatica tra guerrieri che diventa quasi identificazione e che ha fatto pensare al rapporto tra Gilgameš e l’amico Enkidu, attraverso una lunghissima tradizione eroica. «L’ho perduto!»: un’espressione dove si avverte tutto il senso del perdere, dolore, apnea, fallimento, frustrazione… Ed Ettore che l’ha ucciso – aggiunge, ciliegina sulla torta – si è preso le armi che gli dei avevano dato a papà Peleo quando avevano fatta entrare lei, Teti, nel letto di un mortale: un’espressione amarissima su quelle nozze in fondo pilotate – diranno i mitologi – per rendere innocuo alla stabilità olimpia il figlio più grande del padre che Teti era destinata a partorire. Ma sarebbe stato meglio, aggiunge Achille, che lei se ne fosse restata in mare tra le sorelle immortali e Peleo si fosse scelta una donna mortale: tanto più che il dolore adesso raggiungerà anche Teti, non appena lui stesso, Achille, sarà ucciso senza rivedere la patria. Infatti non  ha più voglia di vivere e di restare tra gli uomini, se prima non avrà ammazzato Ettore a ripagare della morte di Patroclo.

«Teti allora versando lacrime disse: / “Ah! sei vicino alla morte, creatura, come mi parli. / Subito dopo Ettore t’è preparata la Moira”»: ed eccola, la profezia che definisce compiutamente il senso della penultimità per Achille. La morte di Ettore precede di poco quella di Achille: e a quest’esito fatale conduce tutto l’itinerario dell’Iliade.

In un complicato puzzle di allusioni e profezie parziali ecco l’ultimo tassello che va a posto. E Achille incassa, con un gemito grave: vorrebbe morire anche subito, lui che ha lasciato l’amico morir solo, lontano dalla patria, senza difenderlo. Lui che in patria non deve tornare, che non saputo esser luce né a Patroclo né ai compagni né a tutti gli altri massacrati da Ettore, e ora siede lì presso le navi, «inutile peso della terra», lui che almeno sul campo – non in consiglio, dove eccellono altri – resta il più forte dei Danai… (sul tema del peso su Gea/Terra ricordiamo che proprio per sgravarla da quello eccessivo dell’umanità, secondo un topos documentato anche presso altre culture, gli dei avrebbero deciso le guerre di Tebe e di Troia). Ma a questo punto in lui sta scattando qualcosa: Achille non è Agamennone, la cui risposta ai constatati errori è un vittimismo da bullo. Potesse la discordia – medita Achille – svanire per sempre dal cuore degli dei come degli uomini, e anche quella collera che vince persino chi è saggio con le sue seduzioni (è detta molto più dolce del miele) e cresce come fumo nei petti degli uomini come avvenuto a lui con Agamennone… Ed ecco la svolta: basta, è necessario superare il passato pur con tutto l’avvilimento e soffocare la rabbia. Per cui adesso andrà a scovare chi ha ucciso la sua vita (letteralmente la sua testa), appunto Ettore, e accoglierà la Chera di morte quando vorranno Zeus e gli altri dei (qui il Cieco sembra alludere al ruolo di Apollo nella futura morte di Achille). In fondo neanche il supereroe Eracle, tanto caro a Zeus, ha potuto evitarsela, domato dalla Moira e dall’ira di Era. Lo stesso varrà per lui: ma adesso – ringhia –

 

[…] voglio aver nobile gloria

e ognuna delle Troiane, delle altocinte Dardanidi

con tutte e due le mani sulle tenere guance

asciugando le lacrime voglio far singhiozzare,

capiscano che da troppo manco io dalla guerra.

E tu non trattenermi, anche se m’ami: non potrai persuadermi!

 

Teti gli risponde triste che «è vero, creatura», è bene che soccorra i compagni in pericolo. Però gli ricorda che le sue armi sono in mano troiana, ed Ettore si vanta d’indossarle: certo non potrà farlo a lungo, la morte gli si avvicina. Ma Achille non si lanci in battaglia prima di vederla tornare, alle prime luci del sole che sorge, con le armi confezionategli dal signore Efesto. Quindi, voltatasi, si rivolge alle sorelle: tornino a immergersi, vadano a raccontare tutto al vecchio del mare loro padre, mentre lei sale all’Olimpo. Per vedere se Efesto è disposto a dare a suo figlio armi congrue…

 

L’urlo

Le sorelle Nereidi tornano dunque a immergersi, e Teti sale all’Olimpo. E intanto gli Achei in rotta, con un enorme grido, ripiegano verso le navi e fino all’Ellesponto, incalzati da Ettore: compresi i quattro dell’oca selvaggia a difesa del corpo di Patroclo (Menelao e Merione che lo trasportano sollevato, i due Aiaci che li coprono), bersagliati dai dardi, di nuovo raggiunti da guerrieri e carri e da Ettore stesso dall’ardore come fuoco. Che tre volte prende il corpo per i piedi, chiamando in aiuto i compagni, e tre volte gli Aiaci lo ricacciano indietro: ma lui, conscio della propria forza, tra attacchi e ritirate non cede. Come i pastori non riescono a staccare un leone da una carogna, così gli Aiaci non riescono ad allontanare Ettore: che riuscirebbe a strattonar via il cadavere a gran gloria propria, se non succedesse qualcosa d’imprevisto.

Iri piededivento piomba infatti al volo da Achille comandandogli di armarsi, «di nascosto da Zeus e dai numi; Era l’aveva mandata»: lui che è il più tremendo degli uomini accorra a difendere Patroclo, attorno al quale s’è scatenata una lotta selvaggia davanti alle navi, con gente che dai due lati muore per strappare quel corpo. E soprattutto vuole prenderlo Ettore: «il cuore lo spinge a infiggere / la testa, tagliata dal molle collo, sui pali» che dovevano sormontare la cinta muraria. Al di là di pratiche rituali a testimonianza del compimento di una vendetta di sangue (XVII, 39), la decapitazione del cadavere del nemico rientra tra gli usi arcaici che l’Iliade vede consumati – specialmente da guerrieri di particolare ferocia – nel vivo dello scontro (Aiace Oilide, XIII, 202; Peneleo, XIV, 497; Achille, XX, 481), ma non all’esterno di esso, al di là dei propositi manifestati: il Cieco sembra censurare criticamente simili orrori, mostrando forme di sconcio di corpi nemici – quello di Ettore a opera di Achille, come vedremo – che tuttavia non arrivano fino a quel punto. I riferimenti sono però sufficienti a far pensare che, come in altre società arcaiche (e, peraltro, come poi nell’Europa medioevale), la decapitazione del cadavere del nemico sia in questo contesto una pratica non rara. Ricordiamoci comunque questa intenzione di Ettore, quando Achille strazierà il suo corpo appeso al carro, senza però arrivare a mozzargli la testa…

Comunque, esorta la dea, non se ne stia fermo, si preoccupi che l’amico possa finire alle cagne di Troia, «Biasimo a te, se fra i morti arrivasse sconciato!»: e quando Achille, che l’ha riconosciuta e identificata per Iri – che quindi non ha abbandonato il suo aspetto numinoso, del resto l’eroe è figlio di un’altra dea e forse gli è meno pericoloso vedere gli immortali – le chiede chi l’abbia mandata, spiega che è stata Era. Ma Zeus e gli altri immortali non lo sanno… D’accordo, ribatte Achille, ma come può scendere in battaglia, visto che le sue armi le hanno i Troiani e sua madre non vuole che lui si prepari prima di averla vista tornare con quelle (ha detto) forgiate da Efesto? Non saprebbe oltretutto da chi farsele imprestare, a parte lo scudo di Aiace Telamonio: dettaglio che di primo acchito farebbe pensare a una statura di Achille gigantesca quasi quanto quella del cugino. D’altra parte la sua attrezzatura è stato utilizzata, a parte la lancia, da Patroclo, per cui in teoria Achille potrebbe usare quella lasciata dall’amico… ma non ha troppo senso cercare motivazioni razionali per un episodio dov’è invece centrale il motivo dell’attesa di armi meravigliose. Tanto più che, argomenta Achille, Aiace sta usando probabilmente le proprie sul campo, a difesa del corpo di Patroclo: e a voler chiedere troppo realismo non capiremmo come i re dello schieramento miceneo non dispongano di attrezzature belliche di riserva, sia pure in funzione secondaria all’armatura preferita.

Al che Iri spiega che lo sanno bene, ma la guerra è fatta di tante cose: Achille vada sul fossato e si mostri ai Troiani, hai visto mai che il suo apparire semini il panico a sollievo degli Achei (l’osservazione che «basta breve respiro in battaglia» pare un’interpolazione). E si allontana.

Allora Achille «caro a Zeus» – l’appellativo formulare rischia qui di suonare provocatorio, ma in realtà è proprio così – balza in piedi e

 

[…] Atena intorno

alle spalle robuste gli gettò l’egida frangiata,

e intorno alla testa la dea gloriosa lo incoronò d’una nube

d’oro, fece uscire da lui una vampa splendente.

Come il fumo salendo da una città giunge al cielo,

da un’isola lontana, che i nemici circondano;

quelli per tutto il giorno in lotta tremenda si provano,

fuori dalla città; ma col calare del sole

pire fiammeggiano fitte; alto il chiarore

sale e risplende, così che i vicini lo vedano,

se mai sulle navi accorressero, a scongiurar la rovina;

in questo modo andava al cielo la vampa d’Achille.

 

Una similitudine bellissima che rimanda idealmente agli attacchi pirateschi consumati proprio alla fine dell’età del bronzo dai popoli del mare.

Quindi il supereroe va a fermarsi sul fossato fuori dal muro, senza mescolarsi con le truppe achee, per attenersi al consiglio di sua madre; e «Qui ritto gridò, e Pallade Atena al suo fianco / urlava: fra i Teucri sorse tumulto indicibile». Un urlo echeggiante come la tromba di nemici che assediano una città – altro particolare molto concreto sulle modalità di far guerra all’epoca del Cieco e forse in età micenea, anche se nell’Iliade le trombe non vengono usate – e all’udirla, a tutti Troiani il cuore segna un sobbalzo. Così i carri invertono la direzione, in previsione di guai grossi, con gli aurighi istupiditi dal panico alla vista del fuoco che aureola Achille, acceso da Atena occhioazzurro. E per tre volte Achille grida forte sopra il fossato, e altrettante Troiani e alleati restano sconvolti, al punto che «dodici eroi fortissimi morirono allora, / sotto i carri e per l’aste loro proprie»: il panico uccide.

La funzione dell’episodio a questo punto è chiara, perché neppure con tutto il loro coraggio i quattro eroi col corpo di Patroclo sarebbero riusciti a salvarlo, senza quell’intervento di Achille, col suo urlo alla Munch colmo di disperazione esistenziale. Mentre ora riescono finalmente a trasportare il cadavere nel campo, lo stendono su un letto, attorno si radunano i compagni piangenti. Tra i quali lo stesso Achille in lacrime

 

[…] a vedere l’amico fedele

disteso sul feretro, straziato dal bronzo acuto;

l’aveva mandato col suo carro e i cavalli

in guerra, ma non lo riaccolse al ritorno.

 

Versi che possono sembrare formulari, eventualmente retorici, ma non lo sono affatto: il Cieco sta raccontandoci i pensieri di Achille, quella risacca di pensieri che sempre ci assedia attorno a chi muore, le cause – anche solo parziali –, le conseguenze, le ricadute sulla nostra vita… E, sia miracolo o paradosso temporale tutto interiore (perché quando muore un nostro caro il tempo assume connotati diversi), Era forza suo malgrado il sole a scendere fra le correnti d’Oceano, e quello vi s’immerge, e a quel punto la battaglia cessa. Ci si può domandare perché Era debba forzare il sole verso il tramonto, visto che si chiude qui la giornata iniziata addirittura all’inizio del libro XI, quindi assurdamente lunga: ma torniamo ai paradossi del tempo vissuto, e in fondo alla stessa percezione particolare di un tempo penultimo teso quasi a lacerarsi tra un prima e un dopo.

 

I due campi

Gli Achei smettono dunque di combattere; e dall’altra parte i Troiani si ritirano nella piana, sciolgono i cavalli dai carri e si raccolgono in adunanza. Un’assemblea però in piedi, nessuno siede, tutti in stato di allarme e terrorizzati per l’inopinata ricomparsa di Achille.

E prende a parlare il savio Polidamante, «egli solo guardava al prima e al dopo», oltretutto reduce dalla morte del fratello Euforbo ma anche fresco di duri scontri con Ettore – di lui compagno, nato (ci vien detto ora) la stessa notte – e con il suo patriottismo protonazionalista; ma se Ettore eccelle con le armi, Polidamante è migliore in quella parola che è anche buon senso. Per cui ora, saggio pensando, esorta gli amici a considerare la situazione nel suo complesso: il consiglio è di ritirarsi in città e non attendere l’alba nella piana, troppo vicini alle navi e troppo lontani dalle mura. Quando Achille era irato con Agamennone (possiamo immaginare che i dettagli arrivino da informatori che i Troiani possono ben avere) gli Achei erano facili da combattere, e Polidamante stesso era soddisfatto di dormire a poca distanza da quelle navi che speravano di prendere. Ma adesso di Achille ha una paura tremenda, considerando che con la sua superbia non vorrà fermarsi alla piana in cui si sta combattendo, ma punterà alla città… cioè a tutto ciò che loro hanno, a partire dalle loro compagne. «Andiamo alla rocca, datemi ascolto, sarà così»: al momento la notte l’ha fermato, ma se l’indomani li trova lì accampati, quando muoverà in armi, «troppo qualcuno / dovrà capirlo» (non necessariamente una frecciata a Ettore, ma certo un avvertimento anche per lui). E in quel caso alla protezione delle mura arriverà chi sia riuscito a scappare, ma molti dei Troiani finiranno in pasto a cani e uccelli: e badino – a scanso di equivoci o di accuse – che non vorrebbe proprio sentire simili notizie, non vorrebbe affatto poter dire che ha avuto ragione. Se gli dessero retta, sia pure a malincuore, l’esercito resterebbe la notte al sicuro tra le mura, accampato nelle piazze (nella rocca, ma Troia ha anche un’immensa città bassa), dietro le grandi porte; e all’alba piantoneranno gli spalti, e saranno dolori per Achille se tenterà l’attacco. Tornerebbe alle navi con un pugno di mosche, dopo aver girato invano col carro tutto attorno alla città… e pur con tutta la sua volontà non potrà superare le mura e distruggere l’abitato, prima di riuscirci finirebbe in pasto ai cani. Troia è imprendibile, dice insomma Polidamante (che oltretutto sappiamo valoroso guerriero): e proprio questa fama di città impossibile da conquistare, di città-labirinto che sperde gli attaccanti e le cui mura sono insuperabili, la città – potremmo dire – più imprendibile del mondo, contribuisce a spiegare la paradigmaticità di questo assedio.

Ma ovviamente la risposta di Ettore non si fa attendere, e di nuovo incassando una pessima figura. Lettori abituati a ricordare il suo ritratto idealizzato sui banchi di scuola non possono che restarne un po’ turbati: possibile che il nobilissimo Ettore, additato da un certo buonismo patriottardo di insegnanti e funzionari all’Istruzione come modello dell’eroe nazionale, che difende donne e bambini della sua terra dai cattivi invasori, sia questo ottuso bullo nazionalista che dileggia il buon senso di Polidamante? Il fatto è che l’Iliade viene avvicinata con le lenti del mondo ideologico dei propri lettori, che raramente ascoltano davvero quel che Omero dice. Troppo spesso, oltretutto, non si legge Omero per intero, a partire dalla scuola che scorcia e sconcia l’Iliade in scelte antologiche discutibili: Ettore viene congelato nel modello emergente nel famoso, umanissimo episodio dell’incontro con Andromaca e Astianatte, mentre Achille – magari sulla scorta di letture in sé splendide ma non semplicemente sovrapponibili a Omero, come la Cassandra di Christa Wolf – appare semplicemente “la Bestia”, un massacratore nazistoide. Laddove l’episodio dell’incontro di Ettore con moglie e figlio bambino, pagina splendida e struggente del poema, ha piuttosto la tragicità de La caduta degli dei di Visconti: la crisi di un’elite ambigua che sta per essere travolta dalla storia, dove Andromaca non dismette i suoi panni di principessa e (mancata) futura sovrana, ed Ettore con il suo dolente senso del dovere e l’affetto per la famiglia incassa un po’ di quell’umanità che però perde lungo tutto il corso dell’Iliade in clamorose brutte figure, sparate da tronfio protonazionalista e scelte semplicemente stupide. Omero non è interessato a giudicare Ettore, eroe coraggioso, ma certo non gli lesina una serie di pesanti critiche: il suo vero protagonista è Achille, l’eroe della penultimità che nonostante i suoi errori e il suo stato semidivino sa a un certo punto fare autocritica, tornare indietro, riflettere sui propri (e nostri) limiti umani. Non è un uomo-macchina, non è un campione protonazista: è l’eroe di un mondo arcaico capace però di porsi con sconcerto domande che ancora ci inseguono – come il rapporto tra scelte personali e destino, tra scelte ed errori, tra codici sociali ed etica. A differenza cioè di Agamennone, l’arrogante (diciamo così) presidente del consiglio che accusa sempre qualcun altro dei propri errori; e a differenza appunto di Ettore, coraggioso, nobile, animato da un senso del dovere e della comunità che Omero apprezza, ma in fondo gonfio di stolida alterigia, capace di atti di ferocia persino peggiori di quelli di Achille, convinto di vincere così una guerra d’immagine e destinato a rimanerne travolto. Leggendo l’Iliade per intero, davvero ci rendiamo conto che i fiumi di retorica sull’eroe patriota spesi per tanto tempo sull’onda di modelli puramente ideologici (con quanto di sterilmente nazionalistico si sono portati dietro per decenni) non solo non colgono la complessità del profilo di Ettore, ma neppure percepiscono che proprio tale atteggiamento conduce alla rovina di Troia contro il buonsenso di Polidamante come – ancor prima – di Antenore. Per cui, da parte di Ettore, solito approccio: certo Polidamante non dice cose a lui care, consigliando di tornare a chiudersi nella rocca. Non sono sazi, i Troiani, di restarsene chiusi tra i bastioni?

 

Prima i mortali la città del re Priamo

chiamavan tutti ricca d’oro, ricca di bronzo,

ma i ricchi tesori dei nostri palazzi ora sono periti,

e molte nella Frigia e nella Meonia amabile

vanno vendute ricchezze, dacché è irato il gran Zeus.

 

Questo è il risultato di restare incantonati, un’emorragia progressiva che li impoverisce sempre più e finisce con lo svilire l’identità stessa di Troia. E ora che Zeus ha concesso a Ettore di acquistar gloria presso le navi e respingere gli Achei fino al mare – la logica insomma dei fatti concreti, che la retorica politica (di tutti i tempi) ama vantare –, ora Polidamante si guardi bene, stolto, dal diffondere le sue proposte tra il popolo, «nessuno t’obbedirà dei Troiani, io non vorrò. / Ma su, come io dico facciamo tutti d’accordo» (come a dire questo è l’ordine e voi sarete senz’altro d’accordo): prendano cena divisi per squadre, pensino ai turni di guardia. Poi, insinuando che Polidamante si preoccupi per i propri beni, Ettore se ne esce in una frecciata: «Chi dei Troiani troppo le ricchezze tormentano, / le raccolga e le doni all’esercito, per il pasto comune; / meglio che n’abbiano frutto costoro, ma non gli Achei!». L’indomani attaccheranno le navi: e se davvero Achille ha avuto l’alzata d’ingegno di tornare a combattere, guai a lui. Perché Ettore certo non sfuggirà il confronto, e si vedrà chi ne esce vittorioso. «Enialio [un dio della guerra qui in genere identificato in Ares] è imparziale, e uccide chi ha ucciso [chi sta per uccidere]».

Tale il discorso di Ettore e, qui il Cieco si concede un intervento come scuotendo il capo,

 

[…] i Troiani acclamarono:

stolti! il senno tolse loro Pallade Atena:

tutti approvarono Ettore che mal consigliava,

nessuno Polidàmante che aveva esposto un buon piano.

 

Dove il senno tolto ha anche il sapore della logica cieca, protonazionalistica dei bulli che non sanno valutare i propri limiti.

Poi prendono il rancio. Mentre gli Achei passano la notte a piangere Patroclo, con Achille che singhiozzando inizia il compianto, le mani use a uccidere posate ora con tenerezza sul petto dell’amico, i gemiti fitti: come di un leone privato dei piccoli da un cacciatore di cervi, e che angosciato e furioso segue le tracce di lui tra le gole boscose. E Achille torna – come facciamo noi nei nostri lutti, e la sympatheia del Cieco col leone e con lui rivela per l’ennesima volta quanto l’Iliade parli di ciò che siamo –, a pensare a frasi dette, a scelte fatte. Frasi dalla tragica inconsistenza, come quando Achille apprestandosi alla partenza per la guerra aveva garantito a Menezio che gli avrebbe riportato il figlio pieno di gloria e di bottino da Troia distrutta (specifica anche che gliel’avrebbe riportato a Oponto, la città della Locride orientale abbandonata da Patroclo ragazzino per aver ucciso un coetaneo, come apprenderemo più avanti: nel senso che tanta gloria avrebbe fatto revocare l’esilio?).

 

Ma non tutti i pensieri compie agli uomini Zeus;

è fato che entrambi la stessa terra arrossiamo

qui in Troia; neppure me di ritorno

accoglierà nel palazzo il vecchio cavaliere Peleo,

né la madre Teti; ma qui ha da coprirmi la terra.

E poiché, o Patroclo, dopo di te scenderò sotto terra,

non ti darò sepoltura prima d’aver portato qui d’Ettore,

del tuo uccisore magnanimo, l’armi e la testa.

E davanti al tuo rogo dodici sgozzerò

figli illustri dei Teucri, irato per la tua morte.

Intanto presso le navi curve mi resterai così,

e intorno a te le Troiane e le altocinte Dardanidi

piangeranno, di notte e di giorno, versando lacrime,

le schiave che noi guadagnammo con la forza e l’asta robusta,

atterrando opulente città di mortali.

 

Dove non solo prevede la consegna rituale della testa del nemico a prova di vendetta compiuta, ma un sacrificio di prigionieri davanti al rogo: rituali arcaicissimi la cui memoria giunge comunque al Cieco.

Poi Achille ordina di porre al fuoco un grosso tripode da bagno, in bronzo, per detergere al più presto Patroclo dal sangue rappresogli addosso: e quando l’acqua prende a bollire, i compagni lo lavano, ne ungono il corpo e sulle piaghe pongono un unguento di nove stagioni. Poi, stesolo sul letto, lo avvolgono di lino dalla testa ai piedi, lo coprono d’un lenzuolo bianco, e tutti attorno lo piangono con Achille per tutta la notte.

]]>
Globalizzazioni hollywoodiane, timori di fine impero e mito della seconda opportunità https://www.carmillaonline.com/2021/08/29/globalizzazioni-hollywoodiane-timori-di-fine-impero-e-mito-della-seconda-opportunita/ Sun, 29 Aug 2021 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67656 di Gioacchino Toni

Il recente libro di Stefano Santoli, Fabbrica dei sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA 2010-2019 (Mimesis, 2021), si focalizza sul cinema statunitense dello scorso decennio alla ricerca delle peculiarità che lo caratterizzano rispetto alla produzione precedente. Quello preso in esame è per gli Stati Uniti un decennio segnato dal passaggio dall’era Bush a quella Obama e culminato con l’avvento di Trump alla Casa Bianca, un periodo caratterizzato da una grave crisi socioeconomica che ha fatto seguito a quella finanziaria, da un incremento delle diseguaglianze sociali ma anche da una nuova presa di parola da parte [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente libro di Stefano Santoli, Fabbrica dei sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA 2010-2019 (Mimesis, 2021), si focalizza sul cinema statunitense dello scorso decennio alla ricerca delle peculiarità che lo caratterizzano rispetto alla produzione precedente. Quello preso in esame è per gli Stati Uniti un decennio segnato dal passaggio dall’era Bush a quella Obama e culminato con l’avvento di Trump alla Casa Bianca, un periodo caratterizzato da una grave crisi socioeconomica che ha fatto seguito a quella finanziaria, da un incremento delle diseguaglianze sociali ma anche da una nuova presa di parola da parte delle minoranze, specialmente quella afroamericana, e delle donne soprattutto contro le molestie sessuali portate alla ribalta da diverse attrici hollywoodiane. L’onda lunga di queste mobilitazioni ha comportato per il cinema statunitense una maggiore propensione al “politicamente corretto” che se da un lato sarebbe esagerato derubricare come esclusivamente di facciata e mossa da mera convenienza commerciale, dall’altro sappiamo però quanto l’immaginario sia un campo di battaglia in cui occorre sempre guardarsi le spalle.

Il cinema americano degli anni Dieci si è trovato a fare i conti con la concorrenza sempre più agguerrita di serie televisive che ne riprendono spesso l’estetica, con la produzione di film da parte dei colossi dello streaming realizzati appositamente per il circuito televisivo e con una sempre più marcata tendenza alla visione solitaria e domestica delle opere audiovisive, cinema compreso, con tutto ciò che ne consegue per le (multi)sale. L’attuale pandemia ha sicuramente agito da acceleratore di un fenomeno in realtà in atto ben da prima del suo arrivo e che ha le sue radici profonde in mutamenti che non riguardano soltanto l’industria degli audiovisivi.

A segnare emblematicamente la chiusura del decennio indagato, Santoli individua due eventi: l’Oscar per il “miglior film” (attenzione, non “film straniero”) assegnato nel febbraio del 2020 al sudcoreano Parasite (2019), corredato dal premio alla miglior regia al suo autore Bong Joon-ho, che rappresenta per certi versi il punto di arrivo di una tendenza hollywoodiana a guardare maggiormente allo scenario internazionale e, poco dopo, l’inizio della pandemia che ha portato alla chiusura delle sale, alla sospensione delle produzioni e al rinvio della distribuzione di opere già pronte.

La premiazione agli Oscar del 2020 conferita ad un film “non americano” non è un episodio estemporaneo secondo Santoli; si tratta piuttosto dell’esplicitazione di una Hollywood sempre più globalizzata. Lungo l’intero decennio il sistema produttivo hollywoodiano si è mostrato sempre più propenso ad affidare produzioni importanti a registi non statunitensi mentre l’Academy si è rivelata sempre più propensa ad assegnare i premi più importanti guardando oltre i confini nazionali giungendo a premiare produzioni non statunitensi anche nella categoria di “miglior film” tradizionalmente riservata a produzioni nazionali destiando a quelle straniere la categoria del “miglior film straniero”.

La sistematicità del processo di internazionalizzazione del cinema statunitense è tale da poter apparire sintomo di un sistema produttivo in crisi d’identità. Sorge però un dubbio: e se questa internazionalizzazione, lungi dall’essere un’abdicazione, fosse una forma di espansionismo? Accogliere come statunitense il cinema mondiale potrebbe non essere segno di un cedimento, quanto piuttosto un modo – il più lineare? – per tentare di globalizzare la potenza hollywoodiana in un momento di crisi produttiva autoctona, facendo leva sul mestiere dei registi stranieri e in parallelo sulla risonanza mediatica mondiale degli Oscar. Il cinema statunitense sarebbe così disposto a trasformarsi, arrivando ad accogliere in sé il cinema mondiale tout cour, riservandosi pur sempre il diritto di scegliere quale cinematografia consacrare (e quale no…) (p. 216).

Insomma, Hollywood al momento sembrerebbe sopperire alla sua crisi riservandosi il controllo sull’immaginario globalizzabile a prescindere dal paese di produzione; d’altra parte i capitali necessari alla produzione non guardano, e da un pezzo, ai confini nazionali.

L’immaginario statunitense durante lo scorso decennio ha visto le ossessioni post 11 settembre evolversi in un senso di diffusa incertezza sul futuro nordamericano; la crisi finanziaria con le sue ricadute socioeconomiche, le incognite circa il futuro ruolo degli Stati Uniti su uno scacchiere internazionale decisamente mutato rispetto al passato ecc. Se non è difficile scorgere nei film il timore diffuso, sebbene solitamente non evocato direttamente, che la fine dell’impero americano sia ormai prossima, allo stesso tempo non sembra essere venuto meno quell’ottimismo a stelle e strisce che tende a negare anche solo la possibilità che gli Stati Uniti possano perdere la loro leadership politica, economica e di immaginario.

Questo ottimismo pervade le mitologie popolari rilanciate in continuazione dal cinema, e corrobora la stessa forza del Paese alle prese con le sue sfide. […] Un antico archetipo, simbolico prima che narrativo, è molto caro al cinema statunitense: a una momentanea apparente sconfitta segue il trionfo, spesso attraverso il ritorno sulla scena di un eroe che si credeva sconfitto o addirittura morto, in realtà solamente uscito di scena e nel frattempo rafforzatosi. Nella cultura occidentale l’archetipo è evidente nella resurrezione di Cristo; il percorso simbolico di morte-resurrezione-trionfo è presente nel pensiero di Carl Gustav Jung, in cui il viaggio simbolico dell’eroe porta a compimento il processo di auto-individuazione e si compie con il raggiungimento della piena consapevolezza di sé. La resurrezione è una delle tappe di Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler (prima edizione 1992), che si basa sugli studi dello storico junghiano Joseph Campbell (L’eroe dai mille volti, 1949). Nella cultura e nel cinema popolare, i casi in cui si incarna l’archetipo sono innumerevoli (pp. 17-18).

Se tale archetipo si è presentato nel cinema nelle più svariate modalità, nello scorso decennio ha esasperato alcune caratteristiche già in manifestatesi sulla scena, come la precarietà e la debolezza dei protagonisti, tanto che giungono persino a poter morire, salvo poi trovare un utile espediente per risorgere.

Sul piano simbolico, non è difficile scorgervi in filigrana sia la debolezza in cui si sentono attanagliati gli USA, sia il ribadirsi dell’archetipo mitico (che funziona in modo anche più entusiasmante, visto lo scarto che si viene a creare tra vera e propria morte e resurrezione). In termini politici, queste trame possono essere lette come un auspicio per il futuro: gli Stati Uniti – che pretendono, da sempre, di incarnare il Bene – ne sapranno sempre “una più del diavolo”, e il tramonto del loro impero non potrà che essere scongiurato (p. 18).

Alla diffusione nello scorso decennio dei mind game movies, film-rompicapo, che conquistano spazio già negli anni Novanta del secolo scorso [su Carmilla], si accompagna la presenza sempre più massiccia di eroi deboli, in preda a incertezze, ripensamenti, a una percezione fallimentare dell’esistenza o alla sensazione di non essere all’altezza delle proprie responsabilità. Già nel passaggio dagli anni Ottanta ai Novanta del Novecento l’eroe ha dismesso i panni muscolari per farsi più problematico e persino inadeguato ad affrontare le difficoltà che si trova di fronte. Hollywood è però benevola nei confronti dei suoi eroi; a fronte di tante fragilità e mancanze spesso concede loro una seconda opportunità che a volte significa poter rivivere la medesima azione più volte aumentando così le possibilità di successo.

Se da un lato, ricorda Santoli, questa possibilità di ricominciare l’avventura cambiandola palesa una derivazione videoludica, non di meno «a far diventare comune l’abitudine a rivivere daccapo il medesimo scenario è la diffusione dei c.d. “reboot”, in cui avviene l’interruzione della continuity di una serie, e che si differenzia dai remake, a vantaggio della rifondazione di tutta la storia» (p. 21). Il reboot non è un aggiornamento ma un vero e proprio azzeramento; il riferimento non è tanto ai film o alle serie precedenti ma ad una “generica icona” impressa nell’immaginario collettivo che si presta a molteplici declinazioni.

Dopo essersi soffermato sulla produzione votata esplicitamente all’immersione sensoriale offerta alle nuove tecnologie digitali, lo studioso analizza la nuova primavera vissuta dal western «quale persistente orizzonte mitico in cui si specchia il presente», dunque verifica «come il Novecento inizi a rappresentare un nuovo orizzonte mitico: deposito di sogni e incubi, dove si celebrano i valori americani o viceversa si individuano le radici del tradimento dell’american dream» (p. 14). Infine, l’ultima parte del volume presenta alcuni percorsi autoriali (Quentin Tarantino, Paul Thomas Anderson, Clint Eastwood, Woody Allen, Martin Scorsese, Terrence Malick e David Lynch) di cui si evidenziano evoluzioni, continuità, maturità raggiunta, rinnovamenti e nuove sfide.

Fabbrica dei sogni, deposito di incubi si rivela un interessante viaggio all’interno di quell’immaginario americano cinematografico che, con tutte le sue contraddizioni, non smette di tradire, dietro le specificità statunitensi, la sua vocazione globale. Come è sempre stato del resto, ma in maniera in parte nuova ed è questa ad essere indagata da Stefano Santoli.

]]>
L’eroe, la volontà e il nulla https://www.carmillaonline.com/2021/06/23/la-volonta-e-il-nulla/ Wed, 23 Jun 2021 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66669 di Sandro Moiso

Victoria Ocampo, 338171 T. E. (Lawrence d’Arabia), Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 112, 16,00 euro

Ricordo di aver visto per la prima volta il film Lawrence d’Arabia di David Lean all’età di dieci anni nel 1963. Ho ancora ben presente il contesto della sala cinematografica, grande e strapiena, in cui veniva proiettato in prima visione. Fumo di sigaretta, spettatori seduti ovunque, sulle scale oppure in piedi lungo le pareti. Doveva certamente trattarsi di Natale oppure Capodanno, poiché quelle erano le uniche date in cui era possibile andare in prima visione [...]]]> di Sandro Moiso

Victoria Ocampo, 338171 T. E. (Lawrence d’Arabia), Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 112, 16,00 euro

Ricordo di aver visto per la prima volta il film Lawrence d’Arabia di David Lean all’età di dieci anni nel 1963. Ho ancora ben presente il contesto della sala cinematografica, grande e strapiena, in cui veniva proiettato in prima visione. Fumo di sigaretta, spettatori seduti ovunque, sulle scale oppure in piedi lungo le pareti. Doveva certamente trattarsi di Natale oppure Capodanno, poiché quelle erano le uniche date in cui era possibile andare in prima visione con i miei famigliari.

Quel film mi è rimasto dentro, insieme al suo protagonista splendidamente interpretato in chiave problematica da Peter O’Toole, ed è forse l’opera cinematografica che ho visto più volte in vita mia, insieme a Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah, altro film poi non così distante dai contenuti del primo. Per questi motivi, ancora oggi, se qualcuno mi chiedesse a bruciapelo qual è il mio film preferito non avrei dubbi a rispondere che si tratta proprio di quello.

El Aurens, detto alla moda araba, non mi è rimasto inciso nella mente e nel cuore soltanto per le sue scene epiche e i panorami grandiosi oppure per le figure gigantesche e gigionesche dei capi tribù arabi interpretati da Anthony Quinn e Omar Sharif.
No, fin da allora a segnarmi fu l’immagine dell’eroe sconfitto dalla Storia e dai giochi imperiali che usciva da quelle vicende, e da quelle geopolitiche di cui era stato artefice, con un banale, ma forse ricercato, incidente motociclistico. Negli anni le vicende dell’eroe nietzchiano, che al termine di una continua ricerca della prova suprema e dell’atto ultimo e definitivo si ritrova imbrogliato, usato ed emarginato dai grigi esecutori delle burocrazie imperiali e degli interessi economici legati al petrolio, mi hanno fatto riflettere sulla vanità degli sforzi individuali e delle volontà, fosse anche delle migliori ed eroiche, nei confronti della Storia e dei suoi tellurici movimenti di cui contano soprattutto, più di quelli in superficie e violenti ma brevi, quelli sotterranei e lenti ma inarrestabili.

Il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence (1888 – 1935) fu archeologo, ufficiale dei servizi segreti britannici e scrittore. Conosciuto con lo pseudonimo di Lawrence d’Arabia, è ancora oggi celebrato come uno dei capi della rivolta araba durante la prima guerra mondiale.
Lawrence fu infatti un paladino del nazionalismo arabo ed è ricordato come uno dei più controversi e discussi protagonisti dell’insurrezione delle tribù arabe contro la dominazione ottomana a inizio del Novecento nella zona compresa fra l’Higiaz e la Transgiordania.
Nel 1922, tormentato e disilluso, dopo aver visto la diplomazia europea trasformare in beffa il suo trionfo militare, T.E. Lawrence si arruolò nella RAF come semplice aviere sotto il falso nome di Ross, mantenendo un rigoroso segreto sulla sua vera identità. Morì, in circostanze non ancora del tutto chiarite, a causa di un incidente motociclistico all’età di 47 anni.

Tutto questo per dire che il testo di Victoria Ocampo, pubblicato originariamente in Argentina nel 1942, poi in Francia e Gran Bretagna nel 1947 e oggi in Italia per la prima volta da una casa editrice la cui linea editoriale non è certamente prossima a quella espressa dalla redazione di Carmilla, permette al lettore di affrontare, da un punto di vista che ne sottolinea la ferrea volontà, i caratteri di un uomo che, alla fine di un travagliato ed esemplare percorso, finì col fare i conti con quel precipitare verso il nulla che sembra costituire, insieme al tema tipicamente novecentesco dell’annichilimento dell’individuo in quanto artefice del proprio ed altrui destino, l’ultima vera essenza dell’esperienza individuale moderna.

Che poi tale estrema esperienza sia stata cercata e raggiunta volontariamente oppure come conseguenza della sconfitta della volontà individuale è cosa su cui varrebbe la pena di soffermarsi ancora, poiché anche la condizione di distacco dalle cose del mondo, suggerita e dichiarata dalle filosofie orientali (la Ocampo parla del dharma di Thomas Edward Lawrence), potrebbe rivelarsi null’altro che la constatazione e l’accettazione di una condizione insuperabile dal punto di vista del singolo individuo.

E’ un’instancabile lotta contro l’io “odioso” Lawrence che l’”altro da sé” T.E. conduce per gran parte della vita, secondo lo sguardo dell’autrice. Un confronto che diventa particolarmente evidente nelle pagine del testo più importante e rivelatore della personalità di Lawrence, I sette pilastri della saggezza, da cui sarebbe poi stata tratta anche la sceneggiatura del film di David Lean.

Una ricerca sistematica di allontanamento dal proprio Io che nell’assunzione di diversi alias nel corso della seconda fase della sua vita (tra cui quelli di T. E. Smith, T. E. Shaw e John Hume Ross) rivela la netta volontà di scomparire dalle pagine dell’album di famiglia dell’impero britannico.

Un personaggio estremamente contraddittorio interpretato da una scrittrice che lo è stata altrettanto: argentina di nascita che per lungo tempo adottò la cultura e la lingua francese come patria intellettuale e di espressione, mentre le sue origini aristocratiche e il fatto di essere una nota oppositrice del governo di Juan Perón fra il 1946 e il 1955 (motivo per cui fu imprigionata nel 1953), la identificarono per un orientamento culturale conservatore ed elitario, anche se le sue relazioni personali e la sua attività di editrice la mantennero in contatto con numerosi scrittori dalla differente impronta ideologica. Probabilmente il suo ruolo più importante fu quello, a partire dal 1931, di fondatrice della rivista “Sur”, che avrebbe pubblicato scrittori argentini, come Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sábato e Julio Cortázar, e contribuito alla diffusione presso il pubblico argentino degli scritti di autori stranieri, soprattutto francesi, inglesi e statunitensi.

Spesso al centro delle scene mondane e letterarie, in patria e all’estero, Victoria Ocampo (1890 – 1979) fu, come il suo eroe, di cui disse: «Sono immersa in Lawrence. Lo amo. Respiro… Il mio sangue circola bene quando lo leggo. Lo ammiro e sono felice che sia esistito», affascinata e attratta dal nulla. Il nulla di quel deserto senza confini che aveva circondato le azioni dell’inglese minuto destinato a diventare, più che un gigante, una figura prometeica della politica mediorientale del primo ventennio del XX° secolo, fin da subito indirizzato alla sconfitta nonostante i successi iniziali.

Una vita, quella di Lawrence, caratterizzata, nelle testimonianze di tutti coloro che lo conobbero e che sono largamente riportate nel testo, dal tentativo di superare i limiti fisici della corporeità per mezzo di pratiche ascetiche (attività fisica destinata a sopportare le condizioni climatiche e militari più estreme, astinenza sessuale e alimentare), in nome dell’affermazione di un’individualità che, apparentemente, intendeva liberarsi anche dai limiti anagrafici imposti dal nome (da qui il numero di matricola riportato dal titolo), ma che fallì, nonostante tutto nel suo tentativo di librarsi al di sopra della Storia e della materialità delle cose e dei fatti umani.

Quando Lawrence parla dei giovani inglesi che hanno combattuto al suo fianco e di cui si sente felice di essere compatriota, si indigna che vengano sacrificati non per vincere la guerra, ma affinché l’Inghilterra possa disporre del grano, del riso e del petrolio della Mesopotamia.
Vincere il nemico era necessario. Lo fecero dice, Lawrence. Ma la guerra vinta non significava per lui grano, riso e petrolio. Si vanta, come sua massima gloria, di aver risparmiato, in trenta battaglie, il sangue dei suoi. «Tutte le province soggette all’Impero non valevano per me un giovane inglese morto»1.

E’ il Lawrence del “Nulla è scritto”, frase che caratterizza la scena centrale del film di David Lean, quando il protagonista torna a sfidare l’”incudine di Allah” (la parte più arida del deserto del Negev) nella parte più calda del giorno per salvare un beduino disperso durante la marcia notturna.
Scena destinata a segnare anche il climax del film e il destino dell’azione di Lawrence poiché, per impedire la dissoluzione della sua armata composta da differenti tribù, il cui obiettivo è quello di cogliere di sorpresa e alle spalle la guarnigione ottomana di Aqaba, sarà poi costretto ad uccidere quello stesso uomo che aveva salvato; affinché il suo sangue non ricada sulle mani, già offese, di un clan diverso da quello a cui apparteneva e impedendo così l’inizio una faida distruttiva e senza fine.

E’ sicuramente un episodio simbolico ancor più che reale, ma serve perfettamente a cogliere l’impotenza dell’individuo, anche della personalità più forte e decisa, davanti ai casi della Storia e delle uraniche potenze che la agitano, sia che queste appartengano al cielo oppure a quelle della politica e delle forze economiche materiali.

Certamente, però, l’intera narrazione delle imprese del nostro risentiva dell'”orientalismo”, colonialista e tutto sommato razzista, di cui parlava Edward Said2 a proposito di un’immagine dei popoli arabi e/o coloniali che li vedeva destinati ad essere guidati e risvegliati dai rappresentanti di una società più “moderna e avanzata”: quella europea per l’appunto. Così mentre tra il novembre del 1915 e il marzo dell’anno seguente aveva già preso corpo il trattato Sykes-Picot, un accordo segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente (o Asia Minore come allora ancora veniva definito) in seguito alla sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale, ratificato nel maggio del 1916, Lawrence poteva ancora perseguire paternalisticamente i propri obiettivi, così come sottolinea la Ocampo poco dopo l’affermazione precedentemente ripotata: “Che si riprometteva dunque? A che mirava vestito da arabo tra gli arabi e da inglese tra gli inglesi? «Se ho restituito all’Oriente [ci dice] un po’ di rispetto di sé stesso, uno scopo, degli ideali […] io ho, fino a un certo punto, reso quelle genti adeguate al nuovo ‘commonwealth’ in cui le razze dominanti dimenticheranno le loro azioni brutali e in cui i bianchi, i rossi, i gialli, i marroni e i neri si metteranno in piedi fianco a fianco ponendosi senza pregiudizi al servizio del mondo»”3.

Ma era anche cosciente del fatto che il suo paternalismo di stampo colonialista avrebbe dovuto, per forza di cose, fare ancore i conti con la politica reale dell’imperialismo e del colonialismo:

Il suo ostinato desiderio che gli arabi, uniti e liberi, potessero far rinascere la loro civiltà, come una nota necessaria tra le altre, si accentuava a mano a mano che progrediva la campagna nel deserto. E agli arabi egli aveva promesso in nome dell’Inghilterra proprio la libertà. Gli arabi non si sarebbero battuti per passare dalle mani dei turchi a quelle degli inglesi o dei francesi, e Lawrence ne era consapevole. Sapeva anche che la solidità delle promesse del suo governo era in dubbio e contava sul prestigio delle vittorie arabe per esigerne lui stesso il mantenimento.
Un poco alla volta le cose si ingarbugliarono. Lawrence era lacerato tra la fedeltà ai suoi capi, alla sua patria e la fedeltà ai capi arabi, agli arabi che avevano creduto alla sua parola e nella sua persona e che per questo si erano fatti uccidere. Non poteva probabilmente parlare apertamente del suo conflitto interiore né agli uni né agli altri. Nel suo trentesimo anno, prigioniero di questo dilemma, e prima di entrare vittorioso a Damasco, Lawrence era già disgustato di una gloria che gli sembrava fondata sull’inganno […] «Gli arabi mi credevano; Allenby, Clayton [suoi superiori] si fidavano di me, la mia guardia del corpo [composta di arabi] moriva per me. Io cominciavo a chiedermi se ogni fama fosse fondata come la mia su un inganno»4.

La volontà, l’ideale, l’inganno e il nulla finivano a quel punto col coincidere e definire l’unico spazio di azione possibile per l’eroe, dall’Ulisse omerico e dantesco fino all’agente dei servizi britannici destinato ad agire nel Medio Oriente del primo conflitto mondiale. Come lo stesso Lawrence ebbe a scrivere nei Sette pilastri della saggezza:

Tutti gli uomini sognano, ma non nello stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma sono quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Fu ciò che io feci. Intendevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale. Uno scopo così alto fece appello alla loro insita nobiltà di sentimenti, e li indisse ad assumersi una generosa parte nella vicenda. Ma, quando vincemmo, fui accusato di aver messo in pericolo i profitti inglesi sui petroli della Mesopotamia, e d’aver rovinato la politica coloniale francese nel Levante5.

Le ricerche storiche successive hanno teso, quasi tutte, a sminuire il ruolo di guida e demiurgo che Lawrence tese ad attribuirsi o che gli fu attribuito dai primi biografi, riducendolo spesso, come afferma Nemi D’Agostino in una nota aggiunta nel 1974 alla sua opera più famosa, ad eroe mancato, il cui sogno romantico rimaneva di stampo conservatore, mentre la sua campagna, a parte il successo conseguito con la presa di Aqaba, registrò una serie di insuccessi, neutralizzati soltanto dall’avanzata inglese nel Sinai e in Palestina, la quale ultima permise infine agli arabi la vittoria politica dell’ingresso a Damasco6.

Sicuramente, però, l’attrazione ideale esercitato dall’avventuriero inglese sull’autrice argentina portò quest’ultima a considerazioni dal carattere psicologico, filosofico e letterario, ben diverse rispetto a quelle fin qui esposte.

“Forse il suo torto fu di crogiolarsi nel rifiuto. Ma possiamo chiamare torto ciò che senza dubbio fu il suo dharma? Come quella di Arjuna sul campo di battaglia, la sua anima era sgomenta. Niente poteva dissipare l’ansia che la paralizzava. Come Arjuna, Lawrence non desiderava più né vittoria, né regalità, né voluttà. Era un abitante delle grandi pianure. Ed è in questa regione, popolata di assenze, che ha avuto luogo il nostro incontro”7.

Anche se tutto ciò non toglie nulla a un libro che può essere tranquillamnete consigliato a chi ha subito almeno una volta il fascino dell’avventuriero inglese e del deserto, anche interiore, che ha sempre accompagnato la sua immagine.


  1. Victoria Ocampo, 338171 T. E., Edizioni Settecolori, Milano 2021, p. 48  

  2. Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2002  

  3. V. Ocampo, op.cit., pp. 48-49  

  4. Op. cit., pp. 49-50  

  5. T. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani, Milano 2002 (XXI edizione), p. 15  

  6. Nemi D’Amico, Nota (gennaio 1974) in T.E. Lawrence, op.cit., pp. 799-812  

  7. V. Ocampo, op.cit., pp. 18 -19  

]]>
La crisi di governo come spettacolo https://www.carmillaonline.com/2021/02/24/la-crisi-di-governo-come-spettacolo/ Tue, 23 Feb 2021 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64999 di Fabio Ciabatti

La triste commedia messa in scena dalla classe politica durante l’ultima crisi di governo è stata unanimemente e fortemente condannata dai media main stream. Siamo di fronte a una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si lamentano commentatori di ogni risma, e i partiti sono capaci soltanto di fare giochi di palazzo dimenticandosi dell’interesse generale. Vergogna! Alla gogna! Eppure la maniacalità con cui viene seguito ogni sussurro proveniente dalle stanze e dai corridoi del “palazzo” suscita molti dubbi sul significato reale dell’indignazione sbandierata da giornalisti e opinionisti. Se del [...]]]> di Fabio Ciabatti

La triste commedia messa in scena dalla classe politica durante l’ultima crisi di governo è stata unanimemente e fortemente condannata dai media main stream. Siamo di fronte a una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si lamentano commentatori di ogni risma, e i partiti sono capaci soltanto di fare giochi di palazzo dimenticandosi dell’interesse generale. Vergogna! Alla gogna! Eppure la maniacalità con cui viene seguito ogni sussurro proveniente dalle stanze e dai corridoi del “palazzo” suscita molti dubbi sul significato reale dell’indignazione sbandierata da giornalisti e opinionisti. Se del solito teatrino della politica si tratta, perché puntare ossessivamente i riflettori su questi attori di serie B? In realtà quello che è andato in scena con la complicità di giornali, televisioni e media digitali non è tanto una rappresentazione teatrale di pessima fattura quanto un vero e proprio spettacolo, nel senso che a questo termine attribuiva Debord.
“Lo spettacolo – sostiene il padre del situazionismo – riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato”.1 Per quel che qui ci interessa possiamo sostenere che lo spettacolo della crisi di governo ha riunificato, a suo modo, la sfera politica e quella economica; la prima intesa come l’istanza che si presume possa garantire l’interesse generale e la coesione complessiva di una società,  la seconda come l’ambito in cui i singoli capitali organizzano la produzione finalizzata al perseguimento del profitto. 

A questo proposito chiediamo un po’ di pazienza perché vorremmo ribadire, come si sarebbe detto un tempo, alcune banalità di base.  E ci piace farlo, a mo’ di omaggio, attraverso un testo di qualche anno fa di Ellen Meiksins Wood, importante esponente del marxismo politico, scomparsa nel gennaio di cinque anni fa.2 Ebbene, secondo l’autrice il sistema capitalistico è caratterizzato da una separazione senza precedenti della sfera economica da quella politica. Lo stato rimane essenzialmente separato dall’economia anche quando interviene in essa. In altri termini il capitalismo è caratterizzato da una divisione del lavoro in cui i due momenti dello sfruttamento capitalistico – l’appropriazione e la coercizione – sono separati: il primo viene assegnato a una classe privata appropriatrice, i capitalisti,  il secondo a una istituzione pubblica specializzata nella coercizione, lo stato.  Quest’ultimo, da una parte, ha il monopolio della forza coercitiva; dall’altra, attraverso questa forza, sostiene un potere economico “privato”, la proprietà capitalistica che è investita dell’autorità di organizzare la produzione. Un’autorità probabilmente senza precedenti storici nel suo grado di controllo sull’attività produttiva e sugli esseri umani impegnati in essa.
Ciò significa che l’appropriazione del surplus avviene nella sfera economica con mezzi economici. Data la separazione dei produttori diretti dalle condizioni di lavoro, la pressione diretta extraeconomica, l’aperta coercizione, per principio, non sono necessarie per costringere i lavoratori a cedere al capitale il loro pluslavoro, cioè il tempo di lavoro eccedente rispetto alla produzione dei beni necessari alla loro riproduzione. A tal fine è sufficiente il bisogno economico che si esplica nell’ambito dello scambio di merci, basato sulla relazione contrattuale tra “liberi” produttori. Le società precapitalistiche, invece, sono caratterizzate da mezzi extra-economici di estrazione del surplus: coercizione politica, legale, militare, vincoli e doveri consuetudinari, obbligazioni religiose, deliberazioni comunitarie regolano il trasferimento del pluslavoro ai signori privati o allo stato attraverso corvée, rendita, tasse ecc.
Il processo attraverso cui si afferma l’autorità della proprietà privata, unendo il potere dell’appropriazione con l’autorità di organizzare la produzione nella mani di un proprietario privato per il suo beneficio, può essere visto come la privatizzazione del potere politico, cioè l’assunzione da parte di un proprietario privato di funzioni che erano originariamente appannaggio di un’autorità pubblica o comunitaria. Allo stesso tempo, questo potere non porta più con sé l’obbligo di adempiere a funzioni pubbliche, sociali. In ogni caso la separazione tra economia e politica svaluta la sfera politica e di conseguenza il significato della cittadinanza che perciò può essere estesa, tendenzialmente, senza limitazioni. La cittadinanza si fa formale non potendo investire una vasta area delle nostre vite quotidiane: i luoghi di lavoro, la distribuzione del lavoro e delle risorse ecc.
Non vorremmo essere fraintesi. Meiksins Wood non vuole affermare una rigida separazione concettuale tra economico e politico, cosa che avrebbe la conseguenza di svuotare il capitalismo del suo contenuto sociale e politico. Sostiene invece che i rapporti di produzione devono essere presentati nel loro aspetto politico, come rapporti di dominazione, diritti di proprietà, potere di governare e organizzare la produzione e l’appropriazione e perciò come terreno di lotta. In questo senso le relazioni politiche e giuridiche non sono riflessi secondari o meri supporti esterni, ma  parti costituenti dei rapporti di produzione. Economico e politico vanno dunque intesi come momenti la cui unità interna si muove attraverso opposizioni esterne. Da ciò deriva una conseguenza: come sostiene Marx, “Se il farsi esteriormente indipendenti dei due momenti, che internamente non sono indipendenti perché si integrano reciprocamente, prosegue fino ad un certo punto, l’unità si fa valere con la violenza, attraverso una crisi”.3 E con ciò torniamo all’attualità. 

Quella cui stiamo assistendo in Italia, e non solo, è una crisi di sistema, già da tempo in incubazione ma accelerata dalle conseguenze della pandemia, mascherata da crisi politica. L’ossessiva attenzione nei confronti dei rumor di palazzo sono funzionali a un processo di villanizzazione della classe politica, cioè alla creazione del villain della storia, del cattivo colpevole di tutti i mali sofferti da una nazione che altrimenti sarebbe in grado di reagire all’attacco del virus e, come la Roma di Nerone/Petrolini, rinascere “più bella e più superba che pria”. Risulta allora chiaro che la separazione tra sfera economica e sfera politica, per quanto possa sembrare a prima vista una debolezza del sistema perché limita la concentrazione del potere, risulta in realtà un suo punto di forza in quanto consente di affrontare le sue crisi senza investire direttamente i suoi fondamenti, i rapporti sociali di produzione capitalistici. La politica diviene il perfetto capro espiatorio. A essa, infatti, viene attribuito il compito di risolvere i problemi socio-economici, ma al contempo ha limitate capacità di intervento in questi campi, fermi restando il potere di appropriazione del surplus e l’autorità di organizzazione della produzione nella mani dei singoli capitali.
Non è un caso, sostiene ancora  Meiksins Wood, che le moderne rivoluzioni si siano verificate laddove il modo di produzione capitalistico era meno sviluppato e coesisteva con più antiche forme di produzione, in particolare la produzione contadina. In questi casi, infatti, la coercizione extraeconomica esercitava un ruolo maggiore nell’organizzazione della produzione e nell’estrazione di pluslavoro e lo stato agiva non soltanto in appoggio alle classi proprietarie ma, similmente allo stato precapitalistico, anche come diretto appropriatore. In breve dove il conflitto economico e quello politico apparivano immediatamente come inseparabili e lo stato rappresentava un nemico di classe più visibile e centralizzato. Di contro, nei paesi a capitalismo sviluppato la lotta di classe, che nella storia ha sempre riguardato il potere sul pluslavoro, tende a convogliarsi nel luogo della produzione perché è lì che si concentra e si esercita questo potere. In altri termini la lotta di classe da politica diventa economica, trasformandosi tendenzialmente in qualcosa di locale e particolaristico. Una lotta che riguarda i termini e le condizioni di lavoro che, per quanto feroce possa essere, non mette direttamente in questione il rapporto tra capitale e lavoro, almeno finché non esce dalle mura dei luoghi di lavoro. 

A maggior ragione, come già accennato, il conflitto tra i diversi attori nella sfera politica, non potendo oltrepassare il suo limitato ambito di competenza, non è in grado di prendere di petto il tema del rapporto tra capitale e lavoro. Ma, a differenza del conflitto che si dà sul luogo della produzione, è in grado, per così dire, di sublimarlo. Proprio per questo nella sfera politica si può dare una ricomposizione spettacolare tra economico e politico. Una ricomposizione di cui abbiamo un esempio nell’esito dell’ultima crisi di governo. Non c’è nulla di più spettacolare, infatti, di un salvatore della patria cui vengono attribuiti connotati spudoratamente eroici: “Super Mario” Draghi, appunto. Un individuo straordinario che ha già mostrato le sue eccezionali capacità decisionali quando, come ci viene ripetutamente ricordato, affermò in pubblico che per salvare l’euro avrebbe fatto  “whatever it takes”. Frase che si concludeva così: “And believe me, it will be enough”. Una dichiarazione che starebbe bene in bocca anche al più coatto dei cowboy hollywoodiani.
Draghi è con ogni evidenza un esponente di spicco dell’élite economico-finanziario europea chiamato a rimediare al fallimento della politica nazionale. Non è perciò esagerato parlare di un commissariamento dell’Italia da parte del capitale finanziario continentale sotto lo sguardo attento dei poteri atlantici. Però, a ben vedere, c’è qualcosa di più da dire. La questione ripetutamente sollevata sulla natura tecnica o politica del suo governo, per quanto stucchevole, indica in modo confuso una difficoltà reale che affiora dalla profondità della crisi socio-economica in corso: è proprio l’andamento dell’economia, così come governato dal capitale, a costituire un problema. In altri termini, sebbene in modo tutt’altro che trasparente, affiora la necessità di scelte, propriamente politiche, che modifichino questo andamento interferendo con il governo capitalistico della produzione. Questo, per meglio dire, è il fantasma che va esorcizzato.

Prendiamo il caso della campagna vaccinale, uno dei compiti prioritari cui si dovrebbe dedicare il nuovo governo. E’ chiaro che le decisioni sovrane delle case farmaceutiche, basate ovviamente sulla ricerca del massimo profitto, sono un ostacolo fondamentale per una efficiente programmazione della campagna di immunizzazione di massa. Il potere e gli enormi profitti delle grandi imprese farmaceutiche sono normalmente giustificati dal loro ingente investimento nella creazione di nuovi farmaci. Ma le cose non stanno così. Con riferimento agli Stati Uniti, Marianna Mazzuccato rilevava qualche anno fa come tra il 1994 e il 2003 siano stati gli Istituti Nazionali di Sanità finanziati dal governo americano a condurre le ricerche che hanno portato a tre quarti dei nuovi farmaci (le cosiddette nuove entità molecolari), mentre le case farmaceutiche si limitavano ad investire prevalentemente sulle varianti meno rischiose (in termini di profitti attesi) dei farmaci già esistenti.4 Con la crisi pandemica l’impegno pubblico sarà con ogni probabilità ancora più significativo. Soltanto il governo statunitense, nell’ambito dell’Operazione Warp Speed, avrebbe inizialmente stanziato 9 miliardi di dollari per finanziare lo sviluppo e la produzione dei vaccini. Ma non è tutto. La scelta dei vaccini come arma principale, se non unica, per sconfiggere la pandemia non è un’opzione obbligata come dimostrano le efficienti strategie di contenimento messe in atto principalmente dai paesi asiatici (per non parlare di Cuba). Si tratta in realtà di una scelta dettata dagli interessi di Big Pharma che in tutto l’Occidente ha trasformato la medicina in senso ospedale-centrico e farmaco-centrico, trascurando prevenzione e medicina territoriale.5
E si tratta anche di una scelta che consente di alimentare una perniciosa illusione a beneficio del potere capitalistico complessivamente inteso: si può contrastare l’epidemia proseguendo nel nostro stile di vita quasi come se nulla fosse.
Business as usual. Avremmo a che fare, in altri termini, con un’opzione che, per sconfiggere la pandemia, non necessiterebbe, nel breve periodo, di adottare provvedimenti coercitivi sul governo capitalistico dell’economia evitando la limitazione del movimento di merci e persone (leggi lockdown) e, nel medio-lungo periodo, di ripensare un modello di sviluppo che stravolgendo gli ecosistemi planetari favorisce la possibilità del salto di specie dei virus.
Insomma proprio quando appare che alla politica venga richiesto uno sforzo straordinario per modificare il corso degli eventi nella realtà accade che le vengono negati gli strumenti per agire. Solo lo spettacolare intervento di un eroe ci può aiutare in un compito così disperato e al tempo stesso così importante. Vediamo dunque che tutto si raddoppia e si capovolge. La sfera economica invade quella politica, ma è la politica che deve apparire in grado come non mai di governare l’economia: la prassi sociale, direbbe Debord, si è scissa in realtà e immagine. In altri termini la politica può riprendere il comando solo negando se stessa. L’appoggio praticamente unanime al governo Draghi nega infatti uno degli elementi essenziali che si suppone debba caratterizzare la sfera politica moderna: quel politeismo dei valori che implica la possibilità di effettuare scelte diverse, o anche divergenti, nel governare il bene comune. 

E allora di fronte al fantastico mondo di Super Mario chiudiamo ribadendo di nuovo alcune banalità di base, utilizzando le parole di Meiksins Wood: “le battaglie puramente ‘politiche’ sul potere di governare e dirigere, rimangono incompiute finché non  coinvolgono oltre alle istituzioni dello stato anche il potere politico che è stato privatizzato e trasferito nella sfera economica. In questo senso, è proprio la differenziazione dell’economico e del politico nel capitalismo – la simbiotica divisione del lavoro tra stato e classe – ciò che rende propriamente essenziale l’unità delle lotte politiche ed economiche e che deve rendere sinonimi socialismo e democrazia”.6


  1. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, 2004, p. 62. 

  2. Cfr. Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism, Cambridge Universiy Press 1995. 

  3. Karl Marx,  Il capitale I, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 146.  

  4. Cfr. Marianna Mazzuccato, Lo stato innovatore, Laterza 2014. 

  5. Cfr. Alberto Burgio, “Dopo un anno di pandemia: ostaggi di Big Pharma?” in Oltre il capitale, anno III n. 5, gennaio 2015. 

  6. Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism, cit. p. 48, traduzione mia. 

]]>
Sport e dintorni – Storia sociale della bicicletta, tra modernità e antimodernità https://www.carmillaonline.com/2020/06/16/sport-e-dintorni-storia-sociale-della-bicicletta-tra-modernita-e-antimodernita/ Tue, 16 Jun 2020 20:38:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60566 di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 251, € 22,00.

Studioso dei comportamenti collettivi e dell’immaginario politico nel Novecento, Stefano Pivato è stato uno dei primi storici italiani che ha messo in luce i risvolti politici e sociali dello sport. Tra i temi di carattere sportivo affrontati da Pivato, la Storia sociale della bicicletta può essere considerata l’ultima tappa di un itinerario di ricerca iniziato con Sia lodato Bartali (1986), proseguito nel 1992 con La bicicletta e il sol dell’avvenire e poi con Il Touring Club Italiano nel 2007. Ricorrendo ad [...]]]> di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Storia sociale della bicicletta, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 251, € 22,00.

Studioso dei comportamenti collettivi e dell’immaginario politico nel Novecento, Stefano Pivato è stato uno dei primi storici italiani che ha messo in luce i risvolti politici e sociali dello sport. Tra i temi di carattere sportivo affrontati da Pivato, la Storia sociale della bicicletta può essere considerata l’ultima tappa di un itinerario di ricerca iniziato con Sia lodato Bartali (1986), proseguito nel 1992 con La bicicletta e il sol dell’avvenire e poi con Il Touring Club Italiano nel 2007.
Ricorrendo ad una molteplicità di fonti archivistiche e a stampa, a documenti prodotti dalla cultura popolare, immagini, poesie, racconti e canzoni, l’autore assume come chiave di lettura principale della storia sociale della bicicletta la dialettica tra “modernisti” e “antimodernisti” e indaga gli svariati intrecci tra il mezzo a due ruote e il contesto sociale italiano.

La ricostruzione di Pivato consente di cogliere da un’angolatura particolare alcune importanti dinamiche e trasformazioni dell’Italia contemporanea, dell’immaginario collettivo come della cultura materiale, del costume come della questione di genere, dei soggetti politici come delle figure sociali per le quali il mezzo ciclistico diventa parte integrante della vita quotidiana.
Nel racconto della lunga e affascinante storia delle due ruote, l’autore dà voce anche suoi cantori mostrando «la convivenza e la contaminazione fra cultura alta e cultura bassa» che «costituiscono una delle caratteristiche della bicicletta e della sua declinazione in varie forme»: dagli scritti dei letterati innamorati della bicicletta ai tempi dei “pionieri” agli articoli degli scrittori che seguivano il Giro d’Italia, dai fogli volanti dei cantastorie che narravano le gesta dei campioni alle canzoni di cantautori come De Gregori, Paoli e Conte che hanno rievocato le atmosfere dei tempi di Girardengo, di Coppi e di Bartali.

Tra fine Ottocento e primo Novecento, quando l’ingombrante velocipede viene sostituito dalla più economica e maneggevole bicicletta, le due ruote si diffondono progressivamente trasformandosi da stravagante passatempo per aristocratici a strumento per le passeggiate della borghesia, da esercizio per pochi a bene di consumo popolare, utilizzato da impiegati e operai per recarsi al lavoro.
La pratica ciclistica si carica di significati connessi alla modernità: rappresenta l’ebbrezza della velocità (in bicicletta si possono percorrere 20 km all’ora, contro i 4 a piedi), consente di ampliare l’esplorazione del paesaggio e la conoscenza della penisola, apre nuovi orizzonti fisici e mentali, trasmette un senso di libertà.
Ai ciclofili entusiasti si contrappongono i ciclofobi che condannano il nuovo mezzo. «E l’antimodernità – scrive Pivato – è una categoria dentro la quale stanno gran parte delle motivazioni che si oppongono alla bicicletta. Vi è la paura delle genti di campagna quando vedono per la prima volta il mostro meccanico; così come vi è il timore della chiesa per il ridicolo e la mancanza di decoro cui si espongono i preti che montano le due ruote. Dentro l’antimodernità ci sta anche la tutela della pudicizia che è alla base delle limitazioni e dei divieti posti alle donne. E così pure l’iniziale rifiuto del movimento operaio per la bicicletta considerata “un prodotto del capitalismo borghese”».
Pivato dedica pagine ricche di informazioni, aneddoti e riflessioni agli atteggiamenti contraddittori assunti dagli ambienti ecclesiastici nei confronti della bicicletta, alle istanze emancipatrici che il nascente movimento delle donne attribuisce alle due ruote come alle riserve della scienza e ai pregiudizi dell’opinione pubblica conservatrice nei confronti delle donne in bicicletta, al dibattito interno al movimento socialista tra gli intransigenti “antisportisti” e i fautori di un uso politico del mezzo ciclistico inteso come strumento per diffondere la propaganda e come veicolo di socialità.

In prossimità della prima guerra mondiale, la bicicletta irrompe nella vita militare e nel discorso patriottico. Anche in questo caso, Pivato evidenzia i contrasti che accompagnano l’utilizzo del mezzo. Da un lato, come per i sacerdoti e per le donne, permane un pregiudizio di natura estetica che vede nell’uso della bicicletta il rischio di «mettere a repentaglio la credibilità e il decoro delle forze armate»; dall’altro, si pensa di poter sfruttare a fini militari la velocità e la mobilità delle due ruote.
Ad alimentare l’immagine di rapidità e di efficienza della bicicletta contribuiscono i futuristi che allo scoppio della guerra si arruolano nel Corpo dei ciclisti volontari. Il mezzo non si rivela però adatto ad un conflitto che si configura di posizione, mentre riesce utile in un frangente drammatico come la ritirata di Caporetto perché le due ruote «consentono una libertà di movimento maggiore rispetto a chi si affida a mezzi pesanti come i carri, spesso bloccati dagli intasamenti che la precipitosa ritirata provoca».

Nel ventennio fascista, «la bicicletta diventa uno degli indici più caratteristici della nazionalizzazione del tempo libero del regime». La “Carta dello Sport”, varata nel 1928, affida il compito di dare impulso al ciclismo amatoriale alla Federazione Italiana dell’Escursionismo che organizza convegni, concorsi, gite di massa nell’ambito del Dopolavoro. Le escursioni in bicicletta rappresentano «uno degli strumenti più efficaci della mobilitazione degli iscritti per educare l’italiano “nuovo” attraverso itinerari e mete che devono familiarizzare i partecipanti alla conoscenza della nazione e delle opere del regime. Nelle parate del Dopolavoro, della Milizia e delle Giovani italiane il veicolo a due ruote è una presenza costante».
Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, la popolarizzazione del mezzo ciclistico è favorita dall’abolizione della tassa di circolazione che entra in vigore nel 1939 nel pieno della campagna autarchica quando la limitazione dei carburanti rilancia l’utilizzo delle due ruote. Ricorrere all’«”autarchico cavallo d’acciaio” diventa, per la possibilità di economizzare il carburante, una delle più significative manifestazioni di adesione agli interessi e ai sentimenti nazionali con l’entrata in guerra dell’Italia».

Come osserva Pivato, «se la bicicletta diviene uno dei simboli dell’”andata verso il popolo” del regime fascista, si trasforma però in uno dei mezzi che più attivamente contribuisce alla sua caduta».
Poiché garantisce rapidità di esecuzione e aumenta le possibilità di fuga, durante la Resistenza la bicicletta è uno strumento determinante per le operazioni militari dei Gruppi di Azione Patriottica che agiscono nelle città. Anche per le staffette partigiane, come si evince dalle storie e dalle testimonianze delle donne impegnate in varie missioni (portare ordini ai compagni, distribuire giornali clandestini, trasportare viveri, indumenti o armi), è fondamentale l’uso della bicicletta. Ricordava una di loro: «Quando optai per combattere in città […] non sapevo sparare […] ma sapevo perfettamente andare in bicicletta». E dal punto di vista simbolico il protagonismo delle staffette rappresenta «una sorta di rivincita postuma delle donne nei confronti della bicicletta il cui uso, qualche anno addietro, era loro precluso o fortemente condizionato».

Lungo il Novecento la fortuna della bicicletta dipende anche dalle grandi corse, a partire dal Giro d’Italia e dal Tour de France.
Agli albori del ciclismo, l’epopea delle due ruote è legata alla fatica e al coraggio, alla volontà di portare a compimento un impegno attingendo fino all’estremo della forze, al mito delle origini oscure e povere, allo sport come forma di riscatto e come strumento di mobilità sociale.
Nella loro evoluzione, le competizioni fanno poi emergere la figura del campione. «Nell’immaginario del Ventesimo secolo – scrive Pivato – il campione sportivo viene a sostituire una delle figure più caratteristiche della cultura classica: quella dell’eroe che non sta più nelle pagine di un romanzo ma sulle strade del Tour e del Giro».
Nel secondo dopoguerra sono anzitutto Gino Bartali e Fausto Coppi i campioni che suscitano le passioni degli italiani. La rivalità che si instaura tra i due ne accresce la popolarità e definisce i meccanismi di identificazione degli italiani in personaggi dalle caratteristiche opposte, tanto tecnicamente e caratterialmente quanto, almeno nella rappresentazione popolare alimentata dai mezzi di comunicazione, ideologicamente (il “pio” Bartali e il laico Coppi). Nel clima della guerra fredda il mondo ciclistico si divide in due fazioni contrapposte e il dualismo sportivo assume una connotazione politica: come si sta o con De Gasperi o con Togliatti, così si fa il tifo o per Bartali o per Coppi: «In un periodo in cui il partito democristiano si avvia a divenire egemonico e a emarginare le sinistre dalla vita politica e sociale del paese, le sconfitte che Coppi infligge al “De Gasperi del ciclismo” acquistano, per quanti hanno creato la leggenda di un Coppi comunista, il valore di una sconfitta dell’Italia democristiana».
Anni dopo, sarà Marco Pantani a riproporre l’immagine del ciclista antico come eroe della fatica, refrattario alle tattiche, imprevedibile, capace di illuminare improvvisamente una gara con i suoi scatti improvvisi sulle montagne del Giro o del Tour.

L’ultimo capitolo del libro – intitolato “Dalla modernità all’antimodernità” – si chiude con uno sguardo sul rovesciamento di paradigma che ha caratterizzato la bicicletta nell’epoca della motorizzazione di massa e delle crisi ambientali.
«A partire dagli anni Sessanta – nota Pivato – in coincidenza con il boom economico e l’avvio della motorizzazione di massa, la bicicletta viene progressivamente dismessa e dal decennio successivo, nel periodo della prima crisi energetica globale, quella che all’origine era nata come il simbolo della modernità per eccellenza si trasforma nell’emblema dell’antimodernità. Anzi, diventa la rappresentazione di quello che uno dei massimi antropologi contemporanei, Marc Augé, ha definito “un nuovo umanesimo” diretto alla salvaguardia ambientale di fronte al disastro ecologico globale».
Ancora una volta, il ruolo della bicicletta e i significati che le vengono attribuiti rimandano a rilevanti passaggi storici, confermando ciò che sosteneva quarant’anni fa Gianni Brera: «Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia».


Sport e dintorni

]]>