Ernst Bloch – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:19:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta https://www.carmillaonline.com/2024/06/25/viaggio-al-termine-della-citta-per-rilanciare-il-principio-speranza-di-unutopia-concreta/ Tue, 25 Jun 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82782 di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield , città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).


  1. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021. 

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Una lettera dal 1970: Mario Perniola e Mario De Paoli, di Agaragar, rispondono a Giuseppe Sertoli, di Nuova Corrente. https://www.carmillaonline.com/2023/06/22/una-lettera-dal-1970-mario-perniola-e-mario-de-paoli-di-agaragar-rispondono-a-giuseppe-sertoli-di-nuova-corrente/ Thu, 22 Jun 2023 20:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77754 a cura di Marc Tibaldi

“Il dibattito culturale, il confronto e la critica, erano molto serrati all’inizio degli anni ‘70”, ci ha raccontato Mario De Paoli – fondatore, assieme al filosofo Mario Perniola, della rivista Agaragar – nell’intervista che abbiamo pubblicato su Carmilla (qui). Come documento che registra quel vivace dibattito culturale, ci sembra interessante riprodurre la lettera che De Paoli e Perniola inviarono a Giuseppe Sertoli. “Il capitalismo monopolistico – continuava De Paoli nell’intervista – era in crisi e si profilava la transizione al un nuovo modo di produzione del capitale. Ma, mentre il capitalismo combinava in una nuova [...]]]> a cura di Marc Tibaldi

“Il dibattito culturale, il confronto e la critica, erano molto serrati all’inizio degli anni ‘70”, ci ha raccontato Mario De Paoli – fondatore, assieme al filosofo Mario Perniola, della rivista Agaragar – nell’intervista che abbiamo pubblicato su Carmilla (qui). Come documento che registra quel vivace dibattito culturale, ci sembra interessante riprodurre la lettera che De Paoli e Perniola inviarono a Giuseppe Sertoli. “Il capitalismo monopolistico – continuava De Paoli nell’intervista – era in crisi e si profilava la transizione al un nuovo modo di produzione del capitale. Ma, mentre il capitalismo combinava in una nuova sintesi produzione materiale e produzione immateriale, i vari movimenti di sinistra rimanevano divisi fra loro, oscillando fra i movimenti operaisti e la contestazione studentesca. Agaragar proponeva una ‘sintesi sociale’ alternativa a quella proposta dal capitale. La rivista fu accolta con un certo entusiasmo, ma fu anche fraintesa. Per fare un esempio: Giuseppe Sertoli, redattore di Nuova Corrente (che in quegli anni era un’importante rivista di letteratura e filosofia. n.d.r.), mentre si dichiarava in accordo con gli scritti di Perniola, criticò aspramente i miei, pubblicati sul primo numero della rivista. Perniola ed io gli rispondemmo con una lunga lettera in cui affermavamo l’importanza della critica del linguaggio e della psiche per una sintesi sociale alternativa”.
Nonostante siano trascorsi 53 anni da quando fu scritta, nonostante sia giusto storicizzarla e contestualizzarla nella propria epoca, questa lettera ci pare stimolante per una riflessione odierna sui temi affrontati. È vero, le riviste cartacee non esistono quasi più, i dibattiti ideologici neppure, per non parlare della critica – politica, filosofica, letteraria, artistica… – ormai scomparsa. Andate pure a verificare sulle più note riviste culturali online o multimediali se esiste qualche dibattito politico e ideologico degno di questo nome. Nulla. Di fronte a questo nulla riappare questo messaggio dalla bottiglia del tempo. Buona lettura. (marc tibaldi)

AGARAGAR – Redazione
Casella Postale 723
00100 ROMA

Roma, 2 novembre 1970

Caro Sertoli,
gli articoli del primo numero a cui ti riferisci nella tua lettera meritano in effetti, come tu dici, di essere criticati, il che presuppone però che essi siano presi in considerazione per quello che effettivamente affermano o anche soltanto suggeriscono. Esigono una critica, ma esigono anche una lettura attenta come premessa di questa critica. Le ragioni che ci fanno pensare che tale lettura sia stata invece frettolosa ed abbia lasciato ai margini la sostanza stessa del discorso, si possono riassumere brevemente:

1. Il discorso svolto nei tre articoli è molto succinto e si sofferma poco sugli argomenti trattati; afferma più che dimostrare, suggerisce più che spiegare: è in sostanza il porre alcune idee che presuppongono un ulteriore sviluppo, in contrapposizione con le idee dominanti sull’argomento. Tu dici invece che si ripetono le stesse cose, che possono essere riunite in un discorso unico: cioè accusi di prolissità. Il fare ciò che tu dici avrebbe reso ancora più difficile la comprensione già, sembra, così difficoltosa.

2. La critica a Marx vuole esortare a tenere presente due fattori importanti nell’ambito del neocapitalismo che Marx non ha preso in debita considerazione perché i suoi tempi non erano ancora maturi: il linguaggio e la psiche. Gli articoli esagerano volutamente rendendoli fattori predominanti: questo allo scopo di costringere il lettore a prenderli in esame attentamente. In effetti la tua critica sembra dar ragione a questa preoccupazione: non solo non è capita la novità del discorso, ma si pretende che tutto sia stato detto da un Marx che non conosceva né linguistica né psicologia o dagli sviluppi di un marxismo (molto indicativo è il fatto che tu chiami in causa Stalin) che lungi dal superare Marx, ne ostacola addirittura la comprensione basilare. I luoghi comuni sono effettivamente presenti in buona parte del marxismo ideologico e un voler riportare il discorso a questi luoghi comuni denuncia non soltanto una mancata comprensione, ma addirittura un tentativo di mistificazione.

3. Non condividiamo il tuo nominalismo metodologico che ci sembra un’eredità del neopositivismo. I soggetti che tu consideri entità immaginarie, come Super-Io, Classe dominante e Proletariato, sono usati nella rivista con chiari riferimenti a Freud e a Marx; si presuppone che questi riferimenti siano tenuti continuamente presenti da chi legge, per evitare facili fraintendimenti sul significato e i limiti dei termini usati e per far presente il contesto stesso da cui sono sorti.

4. Fra tante critiche che si rilevano poi veri e propri fraintendimenti, mancano quelli che invece sono le critiche reali, le sole che avrebbero potuto ampliare veramente il discorso portando un contributo costruttivo. Sono queste in realtà le critiche che ci aspettiamo e che saremo ben contenti di ricevere: e alcune di queste possono venire proprio da noi stessi in quanto, come affermiamo nella rivista, siamo ben lungi dal credere nelle affermazioni definitive, anzi siamo consapevoli che ogni nostro scritto ha un carattere di provvisorietà per cui facilmente può esigere un superamento. Per fare solo un esempio: i tre articoli possono dare, anzi danno luogo a una critica di fondo abbastanza seria. L’introduzione di fattori psichici nell’analisi marxiana della società borghese è un fatto nuovo, anche se non completamente. Nel Capitolo sesto inedito del primo libro del Capitale, Marx affronta il rapporto tra operaio salariata e capitalista, affermando che questo è del tutto nuovo rispetto ai precedenti rapporti di dominio, non solo nell’ambito economico ma anche in quello psichico. Nella prima parte degli Scritti inediti di economia politica vi è poi un discorso sul credito in cui l’autore dice che la migliore falsificazione di moneta è quella che l’individuo fa su sé stesso, intendendo con ciò che il comportamento umano rientra mediante il credito, nell’ambito dell’economia borghese; vi è dunque qui un altro accenno al comportamento individuale e a fattori psichici. Ma se in Marx e poi più tardi, e in modo più completo, in Adorno, vi è un accenno al rapporto tra aspetti economici e psichici della società borghese, tuttavia non viene sviluppato sufficientemente. Conviene allora riferirsi a Freud, poiché costui ha affrontato l’argomento in modo sistematico. Ma, ed ecco la critica di fondo, è necessario essere molto cauti nel fare ciò. Le categorie psichiche fondamentali che Freud introduce nelle sue opere appaiono proprie di tutte le società umane di tutti i tempi (o perlomeno di quelle patriarcali), mentre da un’analisi approfondita risulta che esse hanno una dimensione storica molto più ristretta. Dunque la parte essenziale nei tre articoli è proprio quella che tu non consideri (cioè avere intuito l’importanza dei fattori psichici nell’analisi della società borghese), mentre la parte più discutibile è l’aver usato come strumento per la critica a Marx e Freud stesso senza averne criticato prima i presupposti basilari; cioè senza aver storicizzato, in quanto prodotto essenzialmente borghese, un fatto umano che Freud considera in modo storico. Se una critica deve essere fatta dunque, è proprio per non aver portato a fondo, in modo radicalmente critico un discorso che poteva essere fecondo di sviluppi ben più interessanti e di essersi accontentati di esprimere alcune intenzioni insieme ad alcune conseguenze immediate; sta nel fatto che, essendosi accorti che il problema effettivamente sussiste, non si è riusciti a portarlo fino in fondo.

Il riferimento a Ernst Bloch ci sembra completamente fuori luogo. Questi si muove in una direzione completamente diversa dalla nostra, verso un umanesimo socialista che si pone come erede della storia universale. In particolare le sue Differenziazioni nel concetto di progresso concordano col marxismo ideologico nell’attribuire un carattere automaticamente progressivo alle forze produttive e nell’assegnare all’arte e perfino alla cultura un significato immediatamente positivo. Noi al contrario vediamo nell’arte più l’impotenza del significato a realizzarsi, che l’esperienza di un successo umano; quanto alla cultura, pensiamo con Hegel che essa sia “l’inversione di tutti i concetti e di tutte le realtà”, “il generale inganno di sé medesimo e degli altri” (Fenomenologia dello spirito, VI, B, I). Non ci sembra inoltre che le considerazioni di Bloch nel saggio suddetto sul rapporto tra struttura e sovrastruttura vadano al di là di una ripetizione delle osservazioni fatte da Marx nell’Introduzione a “Per una critica dell’economia politica”: e francamente queste ci paiono tra le più infelici pagine che Marx abbia scritto. Sostenere che determinati periodi di fioritura dell’arte non stanno in rapporto con lo sviluppo genarle della società, significa sostanzialmente far riferimento ad una categoria universale capace di suscitare interessi universali, cioè accettare la premessa fondamentale dell’estetica, che è essenzialmente astorica.

La citazione di Stalin sarebbe una provocazione se non fosse una battuta: secondo il suo Il marxismo e la linguistica (libro a noi da lungo tempo tristemente noto) la lingua non è né una struttura né una base; che cosa essa sia però di preciso Stalin non lo dice mai. Egli si limita a sostenere la tesi della neutralità della lingua, assimilandola alla scienza, alla tecnica e agli strumenti di produzione. Noi all’opposto sottolineiamo il carattere essenzialmente borghese della scienza, della tecnica e dell’economia e, per quanto riguarda il linguaggio, pensiamo che nel momento storico che vede l’affermarsi del capitale commerciale, la sua dimensione sociale diventa parte integrante dell’economia. Infine Stalin, rivendicando la validità della linguistica come disciplina autonoma, si muove nell’ambito della sistemazione borghese parcellare della conoscenza, senza peraltro nemmeno preoccuparsi di prendere in seria considerazione almeno il suo primo teorico scientifico, il de Saussure.

A molte altre delle tue obiezioni riteniamo di aver dato o di dare presto una risposta in altri luoghi:
1. Sui rapporti tra teoria e pratica, nell’Editoriale del secondo numero di AGARAGAR (di cui ti avviamo, qui accluse, le bozze di stampa).
2. Sul trotskismo artistico, nel saggio Il Surrealismo e la realizzazione del Meraviglioso (di due pagine del quale ti inviamo fotocopia).
3. Sul tempo libero e sul gioco vi sono accenni in Per la critica del lavoro e della merce (altro articolo del secondo numero).
4. Sulla vita quotidiana nell’articolo Per una chiarificazione del concetto di vita quotidiana (altro articolo del secondo numero): però più che di una critica moralistica del costume, per noi si tratta di individuare nella vita presente gli elementi che risolutamente si oppongono al way of life borghese.
5. Per quanto riguarda la creatività proletaria, ci sembra che il miglior modo di affrontare la questione sia l’esame storico dei movimenti di contestazione di questi ultimi anni. In questa direzione si muoverà un articolo che abbiamo intenzione di preparare sul Maggio francese.
6. Certamente infine sarebbe stato meglio lasciare le frasi del Maggio nel loro contesto murale, riproducendo le fotografie di queste.
Del tutto oscure ci riescono le tue osservazioni sull’unità e la totalità, specialmente per quanto concerne una eventuale nuova “strutturazione gerarchica” (!) connessa con la totalità. Per quanto poi riguarda i riferimenti agli “intricati problemi dell’analogia” e ad Althusser, potremo prenderli in considerazione quando, uscendo da una generica erudizione, si concreteranno in vere obiezioni.
Le domande con cui si concludono i tuoi due saggi Sull’epistemologia di Gaston Bachelard (“Nuova Corrente”, n.51) e Formalismo perché (id., n.52) – Che cos’è la scienza? Che cos’è la poesia – sono le stesse che noi ci siamo posti e alle quali abbiamo già dato alcune risposte. Queste risposte tuttavia per noi vengono da una considerazione globale della società borghese, che attribuisce all’economia una posizione chiave: quest’importanza attribuita all’economia come componente imprescindibile della società borghese ci distingue nettamente da coloro che pretendono di rispondere a queste domande rimanendo nell’ambito della letteratura.

Mario De Paoli – Mario Perniola

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Il marxismo secondo Bloch, una mappa del mondo che contiene il paese Utopia https://www.carmillaonline.com/2022/12/31/il-marxismo-secondo-bloch-una-mappa-del-mondo-che-contiene-il-paese-utopia/ Sat, 31 Dec 2022 04:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75132 di Fabio Ciabatti

Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81

“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per [...]]]> di Fabio Ciabatti

Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81

“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per il filosofo tedesco, infatti, il futuro autentico, l’avvenire propriamente utopico, è ciò che non è accaduto mai e in alcun luogo. Allo stesso tempo, “non tutto ciò che è scomparso è ciarpame, perché c’è del futuro nel passato, qualcosa che non è stato liquidato, che ci è dato in eredità”.1
Bisogna fare attenzione, però, perché in questa duplicità si apre anche lo sciagurato spazio per un futuro inautentico, quello rappresentato, per esempio, dalla traboccante retorica del “Führer che ci conduce a nuove imprese”; quello che si spaccia per un nuovo inizio ma risale fino alla notte dei tempi per riscoprire una patria concepita come “sangue e suolo”.  In realtà, la vera patria è un luogo dove nessuno è mai stato, ma che dobbiamo cercare di raggiungere, ammesso che si intenda la categoria di Heimat nella sua vecchia accezione filosofica e mistica: “essere a casa”, trovarsi finalmente in un posto in cui cessa l’alienazione e gli oggetti non sono più estranei, ma prossimi al soggetto. Riappropriarsi del “futuro nel passato” non significa, come per i nazisti, resuscitare una tradizione ancestrale per riutilizzarla bella e pronta, come fosse un antico cimelio recuperato dal mondo dei morti. Significa, piuttosto, cercare dare compimento al canto della guerra dei contadini tedeschi del 500, citato da Bloch: “Battuti torniamo a casa, i nostri nipoti combatteranno meglio”. Questo è il passato che ancora  ci interpella perché ci assegna il compito di portare a compimento ciò che si è manifestato come possibilità nei tempi che furono senza poter giungere a realizzazione. Nulla c’è nella storia di cui possiamo riappropriarci realmente, se la ripresa non è contemporaneamente un’anticipazione sul nostro futuro.

Sono questi alcuni fili che si dipanano dalla lettura di Speranza e utopia, testo che raccoglie le conversazioni intrattenute da Ernst Bloch tra il 1964 e il 1975, gli ultimi dieci anni della sua vita, con vecchi amici, come Lukács e Adorno, e altri intellettuali. Da questo libro, nota il traduttore Eliano Zigiotto nel breve saggio che chiude il volume, “emergono, esposti in modo colloquiale e diretto, a tratti perfino didascalico, i temi principali del pensiero blochiano, che disegnano anche per l’oggi una topografia del pensiero non arreso”.2 Un pensiero ancora utile per tutti coloro che non vogliono unirsi all’ampia schiera dei corifei dello status quo, felici di celebrare ad abundantiam “i funerali dell’utopia”. Ciò non significa, secondo Bloch, abbandonarsi a vuote fantasticherie perché la speranza è il contrario dell’ottimismo ingenuo. “La speranza può essere delusa perché non è fiducia, ma è circondata dal pericolo e da ciò che può anche essere diverso”.3 Non a caso, “Il coraggio di sperare e di disperare” è il titolo del sintetico testo di Laura Boella che precede quello di Zigiotto. In queste poche parole l’autrice esprime un punto fondamentale del pensiero di Bloch il quale afferma:

Io ho cercato – per esempio nel Principio speranza – di esaminare la cenerentola della logica, la possibilità, e di comprenderla come un’eccedenza molto, molto più grande dell’esistente, perché lo abbraccia tanto per il peggio quanto per il meglio, tanto nel segno della sventura, del nulla, dell’invano, della rovina, quanto nel segno del tutto, del buon esito e della luce.4

Per Bloch, in ogni caso, si tratta di fondare la speranza, l’utopia concreta, attraverso il concetto di “possibile oggettivo-reale”. Entra dunque in gioco la “categoria del non-ancora, che si dà in due forme, soggettiva e oggettiva: come non-ancora conscio e non-ancora divenuto. La prima è interiore, la seconda esteriore”.5
Entrambe sono forme del nuovo, del futuro autentico. Partendo dal punto soggettivo, il non-ancora-conscio è una categoria assai diversa dal non-più-conscio, cioè dal rimosso e dall’inconscio di Freud e, a maggior ragione, da quello di Jung con i suoi archetipi dell’era diluviana. Si tratta del “crepuscolo che guarda avanti, ciò che cova nella giovinezza. È l’aria che circola nei tempi di svolta – Rinascimento, Sturm und Drang, 1848, 1917 – quando sta per nascere qualcosa di nuovo”.6 Il non-ancora-conscio non si manifesta prioritariamente nei sogni notturni, regno del rimosso, ma si esprime più facilmente nei sogni ad occhi aperti, sebbene questi abbiano spesso carattere privato, individuale. Dal punto di vista oggettivo occorre analizzare il reale nella sua dinamica, andando oltre il mero dato di fatto che, positivisticamente, trova appagamento in ciò che è, nell’esser-fattuale, innalzato a giudice di ogni pensiero e a criterio del vero. “Tendenza, latenza, processo … sono concetti arci-materialisti che hanno la loro origine in Aristotele, il primo pensatore del processo di sviluppo”.7

E proprio attraverso il filosofo greco, Bloch tenta una delle sue operazioni concettuali più ardite: “tracciare un arco tra il concetto di utopia … e la sostanza dell’accadere, ossia la materia”.8 In particolare, secondo la terza definizione di Aristotele della materia, essa costituisce

il grembo di ogni possibilità in generale, il dynámei ón, l’essere-in-possibilità. La materia stessa è incompiuta ed è pertanto protesa in avanti, aperta, ha dinnanzi a sé un imprevedibile percorso che coinvolge gli esseri umani: è la sostanza del mondo. Il mondo è un esperimento, che la materia, attraverso di noi, mette in atto con sé stessa.9

Con questo tentativo di fondazione materialistica della speranza Bloch sembra quasi rispondere indirettamente alle osservazioni di Horkheimer che criticava Benjamin, in una lettera a lui indirizzata, tacciando di idealismo la sua concezione della storia come “non-compiuta”. Una concezione che ha significativi punti di contatto con quella di Bloch. “Se si prende del tutto sul serio l’incompiutezza – scriveva l’esponente della Scuola di Francoforte nel 1936 – bisogna credere al giudizio universale”.10 Altre analogie tra Bloch e Benjamin si potrebbero rilevare, ma qui ci limitiamo a indicare ciò che probabilmente li separa: l’importanza attribuita all’idea di futuro. L’odio di classe e la volontà di sacrificio, sostiene Benjamin, “si alimentano all’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati”.11 L’angelo della storia ha lo sguardo  rivolto all’indietro perché cerca di allontanarsi dal cumulo di rovine prodotte da ciò che viene chiamato progresso. Per Bloch, invece, occorre porre maggiormente l’accento sul “verso-dove” sul “a-che-scopo”, ciò che gli utopisti hanno provato a fare. Non si tratta di sacrificare i fini prossimi per i fini lontani, ma di riscoprire la presenza dei fini lontani.

Ciò non significa presentare un’immagine di futuro “dipinta alla perfezione” perché ogni volta che lo facciamo “l’utopia si allenta”. Anche un semplice “acconto dell’utopia”, come può essere la sua rappresentazione in un libro, significa darla in qualche modo per raggiunta e ciò non può che portare all’inganno, alla reificazione di ciò che deve essere concepito soltanto come una tendenza. L’utopia, nella sua funzione critica, deve continuamente rimandare a un “non-dover-essere”, a un’insufficienza del reale,  piuttosto che a un essere perfettamente realizzato.
Rimane il fatto che, secondo Bloch, il progresso del socialismo dall’utopia alla scienza di engelsiana memoria è stato forse troppo grande con la conseguenza che il socialismo stesso ha perduto il suo sfondo morale e la sua capacità di catturare la fantasia delle persone.  

La rivoluzione è di per sé morale, a partire dalla spinta che le sta alla base, e non è economica, ma morale: non tollerare più che ci siano due specie di uomini, il servo e il padrone. L’esistenza del servo e del padrone può essere definita esattamente in termini economici, ma con questo non ho ancora cavato un ragno dal buco. Che ciò non debba e non possa essere, che non se ne possa più – ecco il fuoco che accende la rivoluzione.12

Parlare di morale, di fantasia non significa, per il filosofo tedesco, sottovalutare “la grande missione illuministica” del marxismo, quella di far “cadere la benda dagli occhi”. Parlando del ruolo scientifico del marxismo, Bloch ne descrive così gli effetti:

Al posto delle parolone generiche, invece del fumoso idealismo, subentrava la spiegazione materiale a cui si aggiungeva la strana sensazione di scoprire un crimine; quasi che un detective scoprisse il funzionamento, l’ingranaggio entro cui la società si muove con la lotta di classe, con l’oppressione di una classe sull’altra fin dal tempo dell’economia agricola, quindi da molti, forse centinaia di migliaia di anni.13

Ben venga dunque il disincanto legato alla demistificazione della sovrastruttura e, per certi versi, anche il suo essere ridotta a un “niet’altro che”, vale a dire a un’espressione di interessi di classe. Ma con questo il compito del marxismo non è concluso perché il suo vero obiettivo è il salto dal regno della necessità al regno della libertà.

Il sobrio sguardo sul mondo non consente alcun inganno ed è interamente al servizio dell’interesse degli sfruttati e degli oppressi, degli umiliati e offesi, contro quello dell’esiguo ceto padronale. La corrente fredda marxista è questo. Sulla sua scia, però, spesso, troppo spesso è stata ingiustificatamente trascurata la corrente calda del marxismo che si volge alla luce che deve sorgere al cadere dell’inganno.14

La polemica marxiana contro l’utopismo astratto, secondo Bloch, fu probabilmente una medicina necessaria per curare l’intellettualismo dei vari Owen, Fourier, Saint-Simon e per sconfiggere la loro illusione che si dovesse fare appello solo alla coscienza dei ricchi perché cominciassero a segare il ramo sul quale erano seduti. L’astrattezza non esaurisce però l’utopia sociale perché essa contiene un’eccedenza che ancora ci interpella: l’idea della “costruzione di uno Stato in cui non ci siano sfruttati e oppressi”.15 Così come ci riguarda ancora l’altra componente utopica, da sempre colpevolmente trascurata dal marxismo, quella derivante dal diritto naturale che ci parla della “costruzione di uno Stato in cui non ci siano umiliati e offesi”.16 Senza dimenticare neanche la religione che è sempre stata “la più forte esplosione di speranza” perché in  in essa “hanno trovato posto sogni, tempi e spazi del desiderio”.17 Bisogna però precisare che quella di Bloch è una religione “de-teologizzata”, “senza dio”. Solo attraverso un’opera di demistificazione che non si risolva in un cinico disincanto, possiamo distinguere i miti reazionari al servizio dei signori da quelli che sovversivi che stanno dalla parte degli sfruttati e degli umiliati recuperando “tutto ciò che nel mito alza il pugno chiuso del servo”.18

In conclusione,

I fatti possono essere criticati solo a partire dai contenuti della speranza fondata, cioè dalla speranza guidata dal sapere della tendenza, che permette di rettificarla. È impossibile criticare qualcosa dal di fuori, perché da fuori c’è solo imprecazione o quel che si sapeva già prima, a priori.19

Allo stesso tempo,

ogni critica dell’imperfezione, di ciò che è incompiuto, inaccettabile, intollerabile, presuppone la rappresentazione e l’anelito di una perfezione possibile. L’imperfezione non sussisterebbe se nel processo non ci fosse qualcosa che non deve essere, se non s’intravedesse in qualche modo la perfezione, e precisamente come momento critico.20

In estrema sintesi, per agire abbiamo bisogno di una mappa che ci dica con la maggiore precisione possibile dove siamo e dove stiamo andando. Ma, come sostiene Bloch citando Oscar Wilde, “Una carta del mondo non merita neppure uno sguardo, se non riporta il paese di Utopia”.

 


  1. E. Bloch, “Il marxismo come morale”, in Id., Speranza e Utopia, Mimesis, Milano 2022, p. 97. 

  2. E. Zigiotto, “Echi del pensiero blochiano”, in E. Bloch, Speranza e Utopia, cit., p. 136. 

  3. E. Bloch, “Speranza in lutto, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 15. 

  4. E. Bloch, “Utopie dell’uomo comune e altri sogni a occhi aperti”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 36. 

  5. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 11. 

  6. Ibidem. 

  7. E. Bloch, “Ereditare la decadenza”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 27. 

  8. E. Bloch, “La funzione utopica nel materialismo”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 122. 

  9. Ivi, p. 124. 

  10. Cit. in M. Löwy, Segnalatore di incendio, Ombre Corte, Verona 2022, pp. 49-50. 

  11. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 43. 

  12. E. Bloch, “Il marxismo come morale”, cit., p. 102. 

  13. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 13. 

  14. E. Bloch, “La funzione utopica nel materialismo”, cit., p. 126. 

  15. E. Bloch, “Qualcosa manca … sulle contraddizioni dell’anelito utopico”, in Id., Speranza e Utopia, cit., p. 50 

  16. Ibidem. 

  17. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 16. 

  18. E. Bloch, “Il significato della Bibbia”, in Id., Speranza e Utopia, cit., pp. 83-84. 

  19. E. Bloch, “Speranza in lutto”, cit., p. 15. 

  20. E. Bloch, “Qualcosa manca… sulle contraddizioni dell’anelito utopico”, cit., p. 56. 

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Marx l’incompiuto https://www.carmillaonline.com/2018/12/27/marx-lincompiuto/ Wed, 26 Dec 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50311 di Fabio Ciabatti

Carlo Galli, Marx eretico, il Mulino 2018, pp. 168, € 13.

La socialdemocrazia occidentale e l’economia di comando sovietica sono state sconfitte dal neoliberismo. Quest’ultimo, benché in crisi strutturale, ha ancora oggi, rispetto al pensiero che a vario titolo si ispira a Marx, una superiore capacità di agire sui bisogni e sui desideri dei singoli enfatizzando non tanto la loro identità di produttori membri di un insieme collettivo (di una classe) quanto quella di consumatori e fruitori di godimento individuale. Il suo potere si nutre della capacità di produrre un [...]]]> di Fabio Ciabatti

Carlo Galli, Marx eretico, il Mulino 2018, pp. 168, € 13.

La socialdemocrazia occidentale e l’economia di comando sovietica sono state sconfitte dal neoliberismo. Quest’ultimo, benché in crisi strutturale, ha ancora oggi, rispetto al pensiero che a vario titolo si ispira a Marx, una superiore capacità di agire sui bisogni e sui desideri dei singoli enfatizzando non tanto la loro identità di produttori membri di un insieme collettivo (di una classe) quanto quella di consumatori e fruitori di godimento individuale. Il suo potere si nutre della capacità di produrre un immaginario più espansivo, una narrazione più pervasiva, una speranza più immediatamente comunicabile, nonostante la rapidità con cui gli sviluppi storici hanno smentito le sue promesse. Se questo è il panorama che ci presenta Carlo Galli nel suo ultimo libro Marx eretico, cosa mai ci potrà rimanere del pensiero del filosofo di Terviri e delle differenti tradizioni teorico-politiche che a lui si sono è ispirate? L’autore non aggiunge la sua firma a quella dei tanti sedicenti curatori fallimentari del lascito marxiano, ma sceglie una via più articolata: Marx è “un autore sul quale non tramonta il sole, e sul quale è tuttavia passata la storia”.1 E questa storia ci ha mostrato la “strutturale incompiutezza” del suo pensiero che “va di pari passo con la sua volontà di Verità e di Totalità”.2 Tutto sta a capire se questa incompiutezza sia il sintomo di un fatale errore che mina inevitabilmente l’edificio teorico marxiano o se, al contrario, possa rappresentare un segno della sua ricchezza, della sua possibile fecondità.

Seguiamo per prima cosa l’argomentazione di Galli. Marx, è il portatore di un pensiero forte, “l’ultima voce della filosofia tedesca che cerca di tenere insieme il movimento moderno della storia e della produzione globale – le loro contraddizioni, scissioni, parzialità – con la liberazione umana universale”.3 Per il filosofo tedesco la verità è possibile “almeno come processo intersoggettivo che ha un luogo topico (la società del capitale), un’origine strategica (il rapporto di produzione e la sua intrinseca conflittualità), un soggetto che la incarna (il proletariato), e un orizzonte logico e storico che le pertiene (il comunismo)”.4 La contraddizione è il modo in cui la critica dell’economia politica tiene insieme scienza e politica. Il conflitto, la scissione, l’antagonismo nascono infatti dall’interno del processo di valorizzazione capitalistica. “La politica sta nell’economia, nella produzione e non nella istituzione”.5
Da un punto di vista metodologico Marx, prosegue Galli, non si è concentrato sulle esagerazioni o sulle eccezioni ma sulla normalità, sull’ordinario metabolismo della società capitalistica che si presenta come un’immane raccolta di merci. A partire da questa normalità Marx porta avanti “una lotta che muove dall’interno di un sistema, che introduce squilibrio dove era stato messo ordine, che svela il peccato e il dominio là dove il potere e il sapere si ammantano di virtù”.6 Una lotta che vuole promuovere un nuovo universale, finalmente autentico. Il nostro filosofo, dunque, non si limita a seguire il reale in ogni sua piega, ma vuole aprirlo al futuro. Pertanto, “la filosofia non può annegare nel gran mare della dialettica, vedendo ovunque contraddizioni con cui conciliarsi: deve invece cogliere la negazione determinata, che è anche strategica e strutturale”.7 E deve comprendere che fra le contraddizioni c’è una gerarchia.
In breve “il suo impianto dialettico sposta la Verità nella dimensione pratica, affidandola allo svolgersi della storia reale e delle lotte concrete, dei conflitti”.8 Per Marx il sapere si produce attraverso le contraddizioni reali e le lotte sociali perché queste non sono cieche violenze. “La contraddizione produce il sapere e il soggetto che la sanno e che la tolgono”.9 La questione che evidenzia Galli sta tutta qui perché la prassi politica è necessariamente affetta dalla “apertura alla contingenza”: la teoria che vuole compiersi nella prassi trova il suo compimento minato dalla contingenza. La critica di Marx, “per quanto pregna del mondo, gravida della prassi, non può automaticamente partorire la rivoluzione, e anzi necessita di un taglio, di una decisione che si dà solo nel travaglio, in una lotta il cui andamento non è guidabile dalla ragione, mentre ne è prefissato il fine”.10 Tutto ciò assume ancora maggior rilievo se consideriamo che, secondo Galli, Marx conferisce alla politica rivoluzionaria “ruolo eroico”. La rivoluzione del proletariato, infatti, non ha solo l’obiettivo di conservare i rapporti economici esistenti inserendoli in un contesto politico più adeguato (come lo Stato borghese che ha preso il posto dello Stato tradizionale), ma di conquistare il potere politico per mutare radicalmente i rapporti di produzione. E c’è di più. Il proletariato deve alla fine di questo processo abolirsi come classe e affermarsi come umanità liberata.

Torniamo al quesito iniziale: come possiamo valutare l’incompiutezza del pensiero marxiano? Non credo si possa prescindere dal fatto che il marxismo, quando ha preteso di compiersi come sistema, è diventato fatalmente strumento di potere nelle mani dello Stato o del Partito. La pretesa di dedurre scientificamente la prassi ha corrisposto alla volontà di un soggetto politico di dominare i soggetti sociali che si trovava di fronte, scomunicando come eretiche tutte le insorgenze dal basso che non si conformavano alle direttive dettate dall’altro. Scomunica che poi, a ben vedere, finiva per riguardare tutte le insorgenze che superavano una certa soglia di conflittualità, mettendo a rischio l’essenza conciliatrice di una dialettica ridotta ideologia istituzionalizzata. Ben venga dunque l’incompletezza perché essa, come nota Galli, impedisce al pensiero di Marx di essere normativo e dunque, aggiungo, di sostituire l’autoemancipazione della classe operaia di cui parlava Marx con il primato della politica, sia esso incarnato da uno Stato o da un Partito. D’altra parte è vero, come sottolinea ancora Galli, che assumere l’incompletezza può portare a un “vuoto di pensiero e di direzione”, capace soltanto di assecondare uno sterile ribellismo. Bisogna perciò capire bene cosa si intende quando si afferma che l’incompletezza porta con se l’indeterminatezza nella prassi politica.
E’ bene notare, insieme a Galli, che siamo lontani dalla “grande decisione” priva di un qualsivoglia telos e di una qualsiasi giustificazione che non sia un puro atto di volontà. Siamo cioè distanti dal pensiero negativo di un Nietzsche o di uno Schmitt, dal regno del sospetto distruttivo che si esprime come negativo indeterminato, opposizione insuperabile, abisso dell’origine. Ci approssimiamo piuttosto alla terra della “speranza” che non a caso dà il titolo ad uno dei capitoli del libro. Una speranza che, storicamente, ha dato luogo, sostiene Galli, a una “profezia messianica di rango globale”, attraverso una lettura semplificata della dialettica, della storia e della rivoluzione, capace di dare espressione, per ampie masse, al bisogno di credere, alla pretesa di dignità, all’ansia di riscatto contro l’ingiustizia, all’empito verso il futuro. Che il marxismo sia stato anche questo è senz’altro vero, così come è vero che una simile connotazione porta con sé i rischi di una torsione autoritaria. Ciò nonostante, questa religione popolare sui generis andrebbe valutata in modo articolato a meno che non si voglia abbracciare un approccio piattamente positivistico e smaccatamente elitario.

Quello che sorprende è che in un capitolo dedicato a Marx intitolato “speranza” non si faccia alcun riferimento (come del resto in tutto il libro) a Ernest Bloch che sul tema ha scritto qualche pagina di un certo interesse. È stato proprio Bloch ad insistere sul fatto che il marxismo si caratterizza strutturalmente per la sua apertura sul futuro, inteso come ciò che è realmente possibile: la realtà è per lui un processo sempre aperto, dischiuso verso una molteplicità di esiti possibili. Questa potenziale molteplicità, però, non è illimitata, indefinita. L’analisi marxiana del modo di produzione capitalistico, infatti, mostra il futuro nella sua qualità di orizzonte del limitatamente possibile e delle potenzialità di liberazione innervate nel presente. La conoscenza di questo orizzonte non è però un affare che abbia a che fare con la mera razionalità. Solo attraverso la speranza il presente diventa intelligibile in quanto emotivamente sostenibile pur nella sua persistente negatività: è possibile sostenere il travaglio del negativo soltanto nel momento in cui intravediamo la speranza del suo superamento. Perciò solo presidiando il territorio dell’immaginario il marxismo può diventare forza effettiva e non pura contemplazione scientifica dei processi storici. Ciò non toglie che per Bloch occorre prendere di petto la “contraddizione contemporanea oggettiva”.
E questo ci riporta alla negazione determinata, alla gerarchia delle contraddizioni e alla capacità della contraddizione principale di generare una soggettività in grado di toglierla. Galli su questo è decisamente scettico. Per lui il marxismo difficilmente potrà ritornare egemone, potrà al massimo riacquisire diritto di parola. Dal canto mio rimango convinto che il rapporto di produzione con la sua intrinseca conflittualità continua a rappresentare il luogo strategico del nostro presente e perciò su questo piano occorre essere in grado di intervenire, ammesso che si voglia aprire a un futuro realmente differente. E mi sembra davvero difficile che ciò possa accadere senza che i soggetti inseriti in questo luogo strategico abbiano un qualche ruolo. Se come forza principale o soltanto come parte, comunque significativa, di una coalizione sociale più ampia, allo stato attuale è tutto da vedere. Quanto parte dell’autopercezione di un futuro soggetto collettivo potrà essere ascrivibile all’attività lavorativa e quanta, invece, si potrà attribuire ad altri tipi di appartenenze è un’altra questione che rimane aperta. Ma la politica, per quanto soggetta ad un significativo grado di indeterminatezza, non è il regno del mero arbitrio, se è vero che esiste una totalità capitalistica che ha le sue leggi di funzionamento. Come, a suo tempo, ci ha spiegato Marx.


  1. Carlo Galli, Marx eretico, il Mulino 2018, pag. 3. 

  2. Ivi, pag. 12. 

  3. Ivi, p. 160. 

  4. Ivi, p.22. 

  5. Ivi, p. 89. 

  6. Ivi p. 9. 

  7. Ivi, p. 34. 

  8. Ivi, p. 5. 

  9. Ivi, p. 44. 

  10. Ivi, p. 41. 

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Memorie dall’Osteria Melotti. A dieci anni dalla scomparsa di Marco https://www.carmillaonline.com/2018/09/29/memorie-dallosteria-melotti-a-dieci-anni-dalla-scomparsa-di-marco/ Fri, 28 Sep 2018 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48886 di Fabio Ciabatti

Mi perdoneranno le masse operaie e contadine se in questo articolo si parlerà anche di me. Ma questo è un omaggio personale ad un compagno, e soprattutto a un amico, scomparso dieci anni fa all’improvviso in un giorno di settembre, subito dopo essersi fatto una delle sue proverbiali e fragorose risate. Un omaggio così personale che ci finisco dentro pure io. Marco Melotti si affacciò alla politica nel ’68, quando era poco più che ventenne, partecipando all’occupazione della facoltà di Lettere della Sapienza di Roma e poi ai gruppi di [...]]]> di Fabio Ciabatti

Mi perdoneranno le masse operaie e contadine se in questo articolo si parlerà anche di me. Ma questo è un omaggio personale ad un compagno, e soprattutto a un amico, scomparso dieci anni fa all’improvviso in un giorno di settembre, subito dopo essersi fatto una delle sue proverbiali e fragorose risate. Un omaggio così personale che ci finisco dentro pure io. Marco Melotti si affacciò alla politica nel ’68, quando era poco più che ventenne, partecipando all’occupazione della facoltà di Lettere della Sapienza di Roma e poi ai gruppi di studenti e operai che tentarono di avviare nella capitale interventi nelle fabbriche in alternativa alle organizzazioni sindacali riconosciute. Attraversò poi l’esperienza dei “gruppi”, su posizioni eterodosse se non apertamente critiche. Nel ’77 divenne, suo malgrado, una figura di riferimento del movimento romano. Le prime assemblee all’università le aveva infatti passate facendo casino insieme agli indiani metropolitani. Poi aveva visto alla presidenza di quelle assemblee chi, pochi anni prima, l’aveva espulso da Avanguardia operaia per deviazioni piccolo borghesi. Marco raccontava che scattò in lui una molla, quella che gli consentì di prendersi la sua rivincita (ebbene sì, aveva una memoria da elefante), ma soprattutto di immergersi completamente nelle mobilitazioni, fino alla fase finale in cui cercò di mantenere dritta la barra del movimento mentre rimaneva schiacciato tra la feroce repressione dello Stato e l’avventurismo della lotta armata. Senza mai aderire a nessuna struttura organizzata, fu dunque tra i più attivi nelle assemblee della facoltà di Lettere occupata e poi tra gli animatori della “commissione fabbriche e quartieri”, costituita all’università dopo la fine dell’occupazione. Dalla commissione nacque poi il giornale Filo rosso di cui Marco fu il principale responsabile. Probabilmente fu tra i primi a prendere atto con lucidità che un’intera fase storica si era conclusa, come testimonia uno degli articoli di cui andava più fiero, “Tecnica di una sconfitta”, dedicato, quasi in diretta, all’amara vicenda dell’occupazione della Fiat di Mirafiori nel 1980. Venne poi l’attraversamento del deserto degli anni ‘80 con i vari tentativi di preservare sedimenti di soggettività politica e di memoria di quel soggetto collettivo che proprio ai cancelli della Fiat nell’’80 aveva visto sancita la sua definitiva sconfitta, grazie anche all’attiva complicità di Pci e sindacato (proprio al nefasto ruolo svolto dalle organizzazioni storiche del movimento operaio si riferiva il titolo del citato articolo). In questa logica ha continuato a confrontarsi attivamente con le principali esperienze di mobilitazione e intervento sociale e politico, come la nascita del sindacalismo di base e il movimento della Pantera nel 1990. Parallelamente ha proseguito nell’attività di intervento culturale militante, iniziata a metà degli anni ’70, che lo ha portato a organizzare e prendere parte a convegni e seminari (tra i risultati, il volume, da lui curato, Macchine e utopie, edito da Dedalo nel 1986) e a collaborare con diverse riviste della sinistra rivoluzionaria, Primo maggio, Collegamenti wobbly, Quaderni del NO e Incompatibili.

Marco non volle mai essere un politico di professione e neanche un membro in servizio permanente di quello che definiva “ceto politico di movimento”. L’intensità del suo impegno seguiva l’andamento carsico dei movimenti. Ma al momento giusto c’era sempre. Per il resto amava troppo la vita per consumarla appresso ad accanite battaglie politiche quando la posta in gioco era un piatto di lenticchie. Preferiva cazzeggiare con gli amici, soddisfare il suo insaziabile appetito (non a caso dagli amici era variamente appellato Ciccio, Palla, Pallina e via arrotondando), correre in macchina (al volante era un vero criminale). E soprattutto la sua attività preferita era quella di seduttore seriale, con la quale si riscattava gioiosamente dalle sue gambette poliomielitiche. Tra i suoi amici, quelli veri, il suo handicap era un oggetto di frequenti frizzi e lazzi su cui lui si faceva grasse risate. Amava ripetere che potevano pure chiamarlo diversamente abile, ma lui sempre zoppo rimaneva. Non lo diceva, però, con il risentimento di chi sentiva di aver perso qualcosa di irrecuperabile, ma con la consapevolezza che fare i conti con la sua fisicità lo aveva reso quello che era, caratterialmente più forte della maggior parte di quelli che si divertiva a chiamare “normodotati” (termine cui spesso seguiva la qualifica “del cazzo”). La necessità di guardarsi dentro lo aveva reso capace di una comprensione umana profonda, decisamente fuori dal comune, e di una straordinaria attitudine all’accoglienza, emotivamente calda. E per questo finiva per raccogliere intorno a sé una varia umanità che spesso zoppicava più di lui, psicologicamente parlando, e che lui aiutava a camminare. Persino Bombo, il suo bulldog, era un tipo un po’ problematico, tanto che veniva amorevolmente imboccato da Marco.

Settembre 2018, l’ultima riunione plenaria dell’Osteria Melotti nella sua sede storica prima del trasloco.

Anche così, animali a parte, si era popolata l’Osteria Melotti: una banda variegata e bizzarra che attraversava a tutte le ore, anche in sua assenza, la sua casa di Roma, per molti anni un porto di mare a metà tra la sede politica e il circolo amicale. Con il tempo la prima funzione venne sempre più relegata in secondo piano. La cerchia più stretta dell’Osteria era tenuta al pagamento di un contributo mensile per il “materiale di consumo”, una quota poco più che simbolica, almeno per i più, perché si trattava di una imposta progressiva in base al reddito dell’accolito (i pagamenti furono sospesi quando Marco ereditò dalla vecchia e poco amata mamma). Il brand dell’Osteria era ufficializzato da un ex libris con cui Marco marchiava i volumi della sua fornitissima biblioteca. Volumi che accumulava compulsivamente (insieme a dischi e cd) e che prestava solo dopo la registrazione, su un apposito quadernetto, del nome del mutuatario e della data di uscita del libro (non sai quanti non ne sono tornati indietro, diceva ogni volta, quasi a scusarsi). Marco, però, non era sempre un cioccolatino. Era una persona capace di grandi durezze. Le rotture con amici e compagni non sono state poche. E normalmente erano definitive, con tanto di ukase di espulsione dall’Osteria. Poteva poi essere un gran caccacazzi. Proprio per quella sua incredibile capacità di scandaglio psicologico non te ne faceva passare liscia una. E poteva essere davvero martellante. Ne so qualcosa.

Ho conosciuto Marco nel 1995 quando mi stavo per laureare. Avevo partecipato al movimento della Pantera, continuato a fare politica all’università e partecipato alla stagione politica dei centri sociali. Nel frattempo avevo studiato con impegno Marx interpretato anche alla luce dell’operaismo di Panzieri. La mia produzione teorico-politica era iniziata polemizzando con gli epigoni del post-operaismo di Toni Negri & C., cosa che mi avvicinò da subito a Marco che, con quell’area politico-intellettuale, aveva un conto aperto da molto più tempo di me. Attraverso Marco ho avuto accesso ad un ricchissimo repertorio di stimoli politico-teorici e di memorie di movimento. Le due cose indissolubilmente intrecciate. A Marco piaceva molto raccontare e raccontarsi, magari durante lunghe serate in cui non ti mollava anche se tu cadevi dal sonno o attraverso interminabili telefonate quando tu eri al lavoro e non potevi tirare la conversazione troppo per le lunghe.
Insomma, ho conosciuto Marco quando dovevo ancora decidere cosa fare da grande. Senza di lui oggi sarei probabilmente una persona diversa. Almeno un po’. Ciò nonostante il nostro primo incontro, quantomeno a suo dire, rischiò di essere anche l’ultimo. Per molto tempo, infatti, rimproverò a Lodi, la sua compagna di una vita, di aver preparato una cena troppo frugale per me e il compagno con cui ero andato a trovarlo. Ma come, arrivano i giovani e gli facciamo fare la fame. Questi non tornano più! Ovviamente la cosa io la venni a sapere un po’ di tempo dopo, mentre, all’epoca del fattaccio, della presunta scarsità del cibo non mi ero minimamente accorto. Un po’ di tempo fa sono stato a cena da Lodi. Mi ha raccontato di aver sognato Marco che ancora la rimproverava per quella cena troppo scarsa. Lodi, l’ho rassicurata, se lo sogni di nuovo digli che questa volta la cena era buonissima e, soprattutto, abbondante.
Superato il rischio di una prematura interruzione del nostro rapporto, ho iniziato a collaborare con Marco in quella che è stata la sua ultima grande impresa editoriale: Vis-à-vis. Quaderni per l’autonomia di classe. La rivista era nata a Bologna, grazie all’iniziativa dei compagni di via Avesella che a un certo punto lo avevano coinvolto in un convegno sul ’77. Di lì a qualche tempo Marco divenne l’animatore principale e l’informale caporedattore della rivista di cui uscirono in tutto 8 tomi (sempre più voluminosi e con caratteri sempre più piccoli da quando era intervenuto Marco), l’ultimo nel 2000. Seguì nel 2001 una breve pubblicazione monotematica che, nelle intenzioni, doveva essere la prima di una serie, denominata “i Karletti”, maggiormente adatta, rispetto ai volumi formato mattone della rivista, all’intervento nel movimento nato a Seattle. Il primo numero fu anche l’ultimo. Il titolo del fascicolo, Dalla morte della politica alla politica della morte, non deve aver portato molta fortuna. In quel lasso di tempo ho scritto molte cose a quattro mani con Marco. E quando dico a quattro mani intendo proprio che scrivevamo insieme, uno accanto all’altro nel corso di interminabili serate. Per Marco era una prassi abituale, ma non per me. Lui aveva uno stile spiraliforme che tornava e ritornava sulle stesse questioni, in un processo di avvicinamento graduale alle conclusioni, punteggiando l’argomentazione con un’infinità di spunti polemici. Molto anni ’70. Io avevo invece una modalità argomentativa che tendeva ad andare dritto al punto. Nascevano così lunghi duelli sulla scelta di una frase o addirittura di una parola. In genere vinceva lui, per sfinimento. Il mio ovviamente. Finito il nostro lavoro, arrivava talvolta la revisione di Lodi che si concretizzava, tra l’altro, nel tentativo di decimazione della ridondante falange di aggettivi cui Marco, però, risultava ogni volta particolarmente affezionato. Iniziava un’altra battaglia, in cui io spalleggiavo Lodi, che si concludeva con perdite inferiori a quelle inizialmente previste dalla nostra amichevole ma severa editor. Ricordo un unico caso in cui le cose filarono lisce e il testo risultò breve, essenziale, a tratti immaginifico. Probabilmente non è un caso che lo abbiamo scritto passata la mezzanotte, dopo che ero tornato da una cena di compleanno, sensibilmente obnubilato dall’alcol. Si trattava di un comunicato firmato Vis-à-vis (il primo di una lunga serie che seguì all’interruzione della pubblicazione della rivista) dal titolo “Seattle 1999: il baco o la talpa?”. Iniziò così la sua ultima grande battaglia politica con la partecipazione, appassionata ma critica verso le posizioni egemoni, al cosiddetto “movimento dei movimenti”, nato appunto a Seattle per contestare la globalizzazione capitalistica e proseguito con le mobilitazioni contro la guerra. I suoi crescenti problemi di mobilità limitarono la sua attività alla tessitura di una fitta rete di contatti, ordita attraverso numerosissime telefonate ed e-mail. “Karletto” era l’inconfondibile nome utente che compariva nel suo indirizzo di posta elettronica.

Quella definizione, “movimento dei movimenti”, non gli era mai piaciuta. Per Marco il movimento era uno, oppure non era tale. Perché per lui il termine movimento, se utilizzato in senso concettualmente forte, era praticamente sinonimo di soggetto collettivo rivoluzionario. Con questa espressione intendeva un insieme multiforme di attori sociali in grado di raggiungere l’unità, senza annullare la sua molteplicità, facendo perno sulla soggettività di un segmento di una determinata composizione di classe, capace, per la sua posizione all’interno del processo produttivo, di sostenere una conflittualità permanente e di esercitare un potere di veto nei confronti della valorizzazione capitalistica. Il paradigma, storicamente determinato, era costituito dall’operaio massa, analizzato sulla base delle suggestioni provenienti dall’operaismo di Panzieri (particolare rilievo dava all’inchiesta a caldo, cioè quella effettuata in prossimità di un evento conflittuale) e dal concetto di “gruppo in fusione”, proveniente dal Sartre della Critica della ragione dialettica. I soggetti sociali, soprattutto quando agivano come movimento nel senso sopra richiamato, erano secondo lui capaci di espressione autonoma e non avevano perciò bisogno di una coscienza o di una avanguardia esterne, del partito, per dare corpo a un progetto unitario di superamento dello stato di cose presenti. I comunisti, per Marco, dovevano sciogliersi nel soggetto collettivo rivoluzionario, quando esso si manifestava. I movimenti hanno però un andamento carsico e quando il soggetto collettivo si inabissa i comunisti non possono sostituirsi ad esso, ma possono soltanto “abbreviare le doglie del parto” di un nuovo soggetto, tessendo il filo rosso della memoria e sostenendo fattivamente la residua conflittualità di classe. In questo senso per Marco era fondamentale la “critica della politica” del giovane Marx (Althusser, con la sua rottura epistemologica tra il vecchio e il giovane Marx, non l’aveva mai digerito) attraverso la quale era possibile cogliere i meccanismi intrinsecamente alienanti della rappresentanza politica che portano all’espropriazione della libera capacità decisionale dei soggetti sociali. Il “cielo della politica” era per Marco il regno dell’astrazione, della separazione dai concreti rapporti sociali di produzione in cui la carica antagonistica della classe poteva trovare al massimo una mediazione al ribasso con gli interessi del suo irriducibile antagonista storico, il capitale. Era questa una lezione che aveva imparato sul campo, attraverso la critica pratica del ‘68 e del ‘77. Ma era anche una convinzione consolidata attraverso la frequentazione teorica dei numerosi rivoli della tradizione eretica del comunismo, tra cui spiccava senz’altro Maximilien Rubel con il suo Marx critico del marxismo. Un Marx libertario, anarchico, antigiacobino e per questo antileninista ante litteram. Lo spirito libertario non era però l’unica caratteristica che faceva di Marco un marxista atipico rispetto ai cliché di una certa ortodossia comunista. Infatti, sebbene ritenesse necessario partire dalle ristrutturazioni tecnologico-produttive per indagare le mutazioni della soggettività di classe, ciò per lui non significava che dalla composizione tecnica di classe si potesse dedurre automaticamente la sua composizione politica. Per questo diveniva necessario studiare la sfera dell’immaginario collettivo, una tematica che lo aveva portato ai confini del pensiero negativo per scandagliare l’importanza politica del lato pulsionale, irrazionale, emotivo dell’umano. Il tutto veniva interpretato attraverso la chiave di lettura offerta dall’“utopia concreta” di Bloch; attraverso, cioè, quella tensione umana a trascendere lo stato di cose presenti che affonda le sue radici non nelle fantasticherie individuali, ma nell’esperienza collettiva delle contraddizioni del presente e nella percezione comune delle effettive possibilità di liberazione che da queste contraddizioni scaturiscono.

Utilizzando le categorie blochiane, nei contributi politici e teorici di Marco la “corrente calda” e la “corrente fredda” del marxismo non rimanevano separate, ma tendevano ad amalgamarsi in una miscela talvolta instabile, non di rado esplosiva, quasi sempre originale. Eppure lui non si riteneva un intellettuale. Di sé stesso diceva che, da un punto di vista intellettuale, era un “abborracciato”. Raccontava di aver sempre cercato il suo Marx, per potersi limitare, come Engels, al ruolo di “secondo violino”. Purtroppo la sua ricerca non aveva dato l’esito sperato ed era stato costretto a impegnarsi più di quanto avrebbe voluto nell’elaborazione teorica (sospetto che in tutto questo discorso ci fosse anche una identificazione umana con il godereccio Engels maggiore di quella che gli riuscisse con il maniacale e a tratti monacale Marx). Anche grazie a questa sua infruttuosa ricerca mi è capitato di incontrarlo. Nei miei confronti credo abbia nutrito qualche aspettativa di troppo. Great Expectations a parte, penso che quell’insieme di percorsi politico-teorici che ho brevemente sintetizzato facciano irrevocabilmente parte del mio bagaglio intellettuale. Lungo alcune delle strade tracciate da Marco, per quanto a modo mio, credo di aver fatto qualche passo in avanti. E sono convinto di non essere stato l’unico. Perché sono veramente tante le persone che Marco ha incontrato, rincoglionito di chiacchere, raccolto con il cucchiaino, illuminato, sedotto, accolto, affrontato a brutto muso, stimolato, aiutato a formarsi umanamente, politicamente e intellettualmente. Ben scavato vecchio Karletto!

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Romanticismo e comunità umana https://www.carmillaonline.com/2017/10/18/romanticismo-comunita-umana/ Wed, 18 Oct 2017 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41067 di Sandro Moiso

Michael Löwy – Robert Sayre, RIVOLTA E MALINCONIA. Il Romanticismo contro la modernità, Neri Pozza Editore, Vicenza 2017, pp. 350, € 25,00

“E’ compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale” (Amadeo Bordiga)

Tra i tanti autori citati ed utilizzati da Löwy e Sayre nel testo, recentemente [...]]]> di Sandro Moiso

Michael Löwy – Robert Sayre, RIVOLTA E MALINCONIA. Il Romanticismo contro la modernità, Neri Pozza Editore, Vicenza 2017, pp. 350, € 25,00

“E’ compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale” (Amadeo Bordiga)

Tra i tanti autori citati ed utilizzati da Löwy e Sayre nel testo, recentemente pubblicato da Neri Pozza, volto a ricostruire, in chiave dinamica ancor più che storiografica, le vicende e le contraddizioni del pensiero e della cultura romantica dal suo apparire fino all’alba del XXI secolo, Amadeo Bordiga non appare. Eppure la frase appena citata, tratta da uno scritto del 1965, potrebbe ben riassumere quella che si può a ragione ritenere la tesi centrale espressa nel loro lavoro.

Sintetizzandola all’estremo si potrebbe infatti così riassumere: i rivoluzionari moderni, compresi quelli di tendenza marxista, a partire dalla metà dell’Ottocento e fino a tutto il XX secolo si sono ispirati al Romanticismo più radicale nella critica della modernità capitalistica e nel fare ciò hanno riscoperto la comunità umana che caratterizzava la specie nell’antichità. Un’affermazione forte che coinvolge personaggi del calibro di Karl Marx. Friedrich Engels, Rosa Luxemburg, Ernst Bloch, Raoul Vaneigem. Solo per citarne alcuni.

Michael Löwy , sociologo e filosofo francese di ispirazione marxista , e Robert Sayre (1933 – 2014), sociologo e professore emerito di Inglese presso l’Università dello Iowa, affrontano nel testo, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1992, le contraddizioni e la vitalità del Romanticismo dando soprattutto risalto a quelle componenti filosofiche, artistiche e politiche che ne sottolinearono fortemente la componete di rivolta contro la modernità.

Rivolta contro la modernità che se da un lato fini col caratterizzarne anche gli aspetti più retrogradi e di maggior rimpianto nei confronti di società feudali ferreamente divise in caste e caratterizzate da un peso insopportabile della religione cristiana e delle sue gerarchie ecclesiastiche, dall’altro servì a contenere e ridimensionare una concezione illuministica del progresso tesa ad esaltare il razionalismo borghese, soprattutto nei suoi aspetti economici, e l’individualismo egoistico che ne derivava.

Non è certo un caso dunque che, all’interno del libro, il capitolo dedicato all’excursus su Marxismo e Romanticismo sia centrale e che, allo stesso tempo, nel capitolo intitolato “Il fuoco arde ancora: il Romanticismo dopo il 1900” uno spazio non secondario sia dedicato al Maggio ’68.
D’altra parte nel suo lungo percorso di studioso Michael Löwy, discendente di ebrei viennesi e nato in Brasile, si stabilì definitivamente a Parigi dopo un periodo trascorso a Tel Aviv dove le sue idee politiche gli causarono non poche difficoltà con il mondo accademico.

Tra le sue opere vanno infatti segnalati diversi testi dedicati all’indagine sul giovane Marx e su altri rivoluzionari e movimenti di opposizione al modo di produzione capitalistico, 1 mentre Robert Sayre si è distinto durante la sua vita sia per l’azione a favore dell’inclusione nella letteratura americana degli scritti dei Nativi Americani e della relazione esistente tra gli scrittori del canone letterario nord-americano e la cultura dei Nativi, sia per la sua azione pubblica contro la guerra in Vietnam nel corso degli anni Sessanta e Settanta e successivamente per quella ecologista e in difesa dell’ambiente.

Con percorsi intellettuali di questo tipo, era dunque impossibile che i due autori non cogliessero nel discorso romantico sulla Natura e nel rimpianto della comunità perduta2 un fattore straordinario di rottura con il modo di pensare e di interpretare il mondo del moderno capitalismo, della sua cultura e dei suoi rappresentanti intellettuali.
Discorso che vale la pena di riscoprire ancor di più oggi, nel momento in cui ogni forma di resistenza alla distruttività dell’ordine economico e sociale basato sulla produzione di merci e sull’estrazione di plusvalore viene definito antiquato, superato, ignorante e passatista.3

“Apparentemente Marx non aveva nulla in comune con il romanticismo […] Nel Manifesto del Partito comunista (1848) rifiuta come «reazionario» qualunque sogno di tornare all’artigianato o ad altri modi di produzione precapitalistici e celebra il ruolo storicamente progressista del capitalismo industriale […] Elogia il capitalismo anche perché ha lacerato i veli che nascondevano lo sfruttamento nelle società precapitalistiche, ma è un elogio che comporta una punta di ironia […] Marx non ignora il rovescio di questa medaglia «civilizzatrice»; con un procedimento tipicamente dialettico considera il capitalismo un sistema che «trasforma ogni progresso economico in una pubblica calamità». E’ appunto nell’analisi delle calamità sociali causate dalla civiltà capitalistica – nonché nell’interesse per le comunità precapitalistiche – che Marx si ricollega, almeno in una certa misura, alla tradizione romantica”.4

A parte l’apprezzamento per autori come Balzac, Dickens, Charlotte Brontë ed Elizabeth Gaskell, di cui Marx giungerà a dire nel 1854:

“La splendida confraternita degli attuali romanzieri inglesi, le cui pagine vivide ed eloquenti hanno consegnato al mondo più verità politiche e sociali di quante non ne abbiano pronunciate i politici i professione, i pubblicisti e i moralisti messi insieme”.5

I due autori furono particolarmente attratti dai primi studi etnologici, sulle comunità antiche o primitive, fatti da autori come Morgan e Maurer.

In particolare Engels trasse dagli studi di Maurer sulla comunità rurale germanica (Mark) spunti per il suo scritto sulla Marca che avrebbe dovuto funzionare come proposta per il programma socialista per le campagne. Andando oltre Maurer che gli sembrava ancora troppo influenzato dall’evoluzionismo di stampo illuministico.

“In una lettera a Marx del 1882 lamenta che in Maurer persista il «pregiudizio illuministico che dopo l’oscuro Medioevo debba ver avuto luogo un costante progresso al meglio.Ciò gli impedisce di vedere il carattere antagonistico del progresso reale, ma anche le singole ripercussioni». Questo passo ci sembra una sintesi alquanto precisa della posizione fondamentale di Engels e Marx su tale problematica: 1. rifiuto del «progressismo» lineare e ingenuo, quando non apologetico, che considera la società borghese universalmente superiore alle forme sociali precedenti; 2. insistenza sul carattere contraddittorio del progresso che il capitalismo ha indiscutibilmente comportato; 3. giudizio critico sulla civiltà industriale-capitalistica in quanto rappresenta per certi versi un passo indietro, dal punto di vista umano, rispetto alle comunità del passato […] Engels insiste sul regresso che la «civiltà» rappresenta, in una certa misura, rispetto alla comunità primitiva”.6

Marx in particolare non avrebbe smesso, fino alla fine dei suoi giorni, di occuparsi sia delle società indigene pre-coloniali (soprattutto in India) sia della comunità contadina in Russia (obščina), mettendole sempre a confronto con i disastri causati dal colonialismo e dall’avanzare del modo di produzione capitalistico in quelle aree e augurandosi, addirittura, nel caso dell’obščina che questa potesse sopravvivere a seguito di una rivoluzione in Occidente.

Sarà soltanto

“nella lotta contro il populismo russo che nascerà, verso la fine del XIX secolo, in particolare con gli scritti di Georgij Valentinovič Plechanov, un marxismo radicalmente antiromantico, modernizzatore, evoluzionista e pieno di incondizionata ammirazione per il progresso capitalistico-industriale”.7

Che vedrà poi il suo pieno sviluppo nelle socialdemocrazie della Seconda Internazionale e dello stalinismo.

Anche in Rosa Luxemburg è possibile trova la stessa passione per le comunità primitive, che non esita a definire società comuniste primitive, e per la loro contrapposizione alla società mercantile capitalistica.

“Da una parte appare chiaro che Rosa Luxemburg vede nell’esistenza di queste antiche società comuniste un modo per mettere in crisi e addirittura distruggere «la vecchia concezione del carattere eterno della proprietà privata e della sua esistenza dall’inizio del mondo». E’ per incapacità di concepire la proprietà comune e per incapacità di comprendere tutto ciò che non assomiglia alla civiltà capitalistica che gli economisti borghesi hanno rifiutato con ostinazione di riconoscere il fatto storico della comunità. D’altra parte il comunismo primitivo è ai suoi occhi un punto di riferimento storico prezioso per criticare il capitalismo, svelare il suo carattere irrazionale, reificato, anarchico ed evidenziare la contrapposizione radicale fra valore d’uso e valore di scambio. Si tratta quindi di trovare e «salvare», del passato primitivo, tutto ciò che può, almeno fino ad un certo punto, prefigurare il socialismo moderno: un atteggiamento tipico della visione romantica (rivoluzionaria).”8

Nella sua interpretazione, ispirata dagli scritti di Lewis Morgan che già avevano affascinato Marx ed Engels,

“la civiltà attuale «con la sua proprietà privata,la sua dominazione di classe, la sua dominazione maschile, il suo Stato e il suo matrimonio obbligatorio» appare come una semplice parentesi, una transizione fra la società comunista primitiva e la società comunista del futuro […] In questa prospettiva la colonizzazione europea dei popoli del terzo Mondo le sembra per essenza un’impresa socialmente distruttiva e disumana […] «Per tutti i popoli primitivi dei paesi coloniali il passaggio dallo stato comunista primitivo al capitalismo moderno è intervenuto come una catastrofe improvvisa, come una sventura indicibile piena delle più spaventose sofferenze». A suo avviso, la lotta indigena nelle colonie contro la madrepatria imperiale è una resistenza tenace e degna di ammirazione, di vecchie tradizioni comuniste contro la ricerca del profitto e l’«europeizzazione» capitalistica”.9

Riflessione che sarà poi sintetizzata da Amadeo Bordiga quando affermerà che per tutto quanto riguarda la questione coloniale i rivoluzionari devono sempre schierarsi dalla parte della «zagaglia barbara».

L’ultimo autore, tra i tanti trattati nel testo di Löwy e Sayre, a svolgere una funzione importante per comprendere le sopravvivenze del Romanticismo all’interno delle teorie rivoluzionarie moderne è Ernst Bloch.

“L’opera di Bloch illustra in modo significativo un paradosso che sta al cuore di tutto il romanticismo rivoluzionario: come può un pensiero che si vuole totalmente orientato verso il futuro utopico attingere dal passato il nocciolo della sua ispirazione? […] Bloch non guarda in via prioritaria ai modi di vita e alle condizioni sociali premoderni; i punti di riferimento del suo progetto utopistico sono soprattutto i sogni ad occhi aperti, le aspirazioni anticipatrici e le promesse non realizzate trasmesse dalle culture del passato”.10

E nel fare ciò si spinge molto avanti nella critica dell’immaginario moderno e dell’uso che ne è stato fatto dalla sinistra degenerata e dalla destra fascista e nazista. La critica di Bloch al «marxismo volgare» del KPD (Kommunistische Partei Deutschlands) e, implicitamente ai sovietici, parte dal presupposto che :

“«Il progresso del socialismo dall’utopia alla scienza è andato troppo lontano» abbandonando al nemico il mondo dell’immaginazione. Troppo astratti, di un razionalismo troppo angusto e volgarmente libero pensatore, fautori di un materialismo non abbastanza distante dal miserabile «materialismo» degli imprenditori capitalisti, la sinistra tedesca e il KPD in particolare non sono stati in grado di sconfiggere il fascismo nella lotta per la conquista politica e culturale dei ceti «non contemporanei». Il loro economicismo ha permesso al romanticismo retrogrado di far accettare da queste classi l’«assurdità di non vedere nel liberalismo e nel marxismo se non «le due facce della stessa medaglia» […] Così il millenarismo, dimensione autentica di numerose utopie rivoluzionarie – poiché «il desiderio di felicità non si è mai ritratto,in un futuro vuoto e totalmente nuovo», ma implica spesso il sogno di un paradiso perduto (costruito con i ricordi della comunità primitiva) ritrovato nel futuro millenario – non può essere confuso con la miserabile caricatura del «Terzo Reich» hitleriano”.11

Una visione, quella di Bloch, che si oppone non solo all’idea di ordine dell’estrema destra, ma anche

“al produttivismo burocratico dissennato, al culto dell’industria pesante e al materialismo volgare che caratterizzano tanto la pratica quanto l’ideologia del regime sovietico”.12

Visione produttivistica e modernista che sarà ripresa invece, come ben dimostra l’ultima parte del libro, da molti intellettuali di sinistra che scoprono

“molto dopo gli ideologi americani della Guerra Fredda, che il paradiso esiste già, hic et nunc, e cominciano a cantare le lodi della modernità in tutti i suoi aspetti, il liberalismo, comprese le sue forme più «avanzate» (il tatcherismo-reaganismo), la logica del diritto e della politica dei paesi occidentali, l’industrialismo, il postindustrialismo (il regno dell’alta tecnologia), la società dei consumi ecc.”13

Motivo per cui questo testo, per quanto concepito e scritto ormai da un quarto di secolo, si rivela ancora estremamente utile per la comprensione e la critica radicale delle contraddizioni del presente.


  1. Solo per citarne alcuni, con relative traduzioni in lingua italiana cfr:
    La Pensée de «Che» Guevara, 1970 (Feltrinelli 1969)
    La théorie de la révolution chez le jeune Marx, 1970 (Massari 2001)
    Dialectique et révolution: essais de sociologie et d’histoire du marxisme, 1974
    Pour une sociologie des intellectuels révolutionnaires: l’évolution politique de György Lukacs, 1909-1929, 1976 (Salamandra 1978)
    Marxisme et romantisme révolutionnaire, 1979
    Rédemption et utopie: le judaïsme libertaire en Europe centrale: une étude d’affinité élective, 1986 ( Bollati Boringhieri 1992)
    L’insurrection des “Misérables”: révolution et romantisme en juin 1832, (con Robert Sayre), 1992
    Patries ou Planète? Nationalismes et internationalismes de Marx à nos jours, Lausanne, 1997
    L’Étoile du matin: surréalisme et marxisme, 2000 ( Massari 2001)
    Walter Benjamin: avertissement d’incendie. Une lecture des thèses sur le concept d’histoire, 2001 ( Bollati Boringhieri 2004)
    Franz Kafka, rêveur insoumis, 2004 (Eleuthera 2007)  

  2. Si pensi, anche se non viene esplicitamente citato nel testo, il discorso leopardiano, contenuto nell’ultima poesia dell’autore di Recanati La ginestra o il fiore del deserto, sulla necessità per gli uomini del secolo superbo e sciocco (l’Ottocento) di tornare ad unirsi in social catena come erano stati costretti a fare i loro antenati preistorici  

  3. Basti pensare ai termini in cui, ancora troppo spesso, viene trattata dai media la resistenza No Tav oppure di chi difende la coltura “tradizionale” degli ulivi in Puglia  

  4. pp.141-143  

  5. pp. 144-145  

  6. pp. 147-148  

  7. pag. 148  

  8. pag. 157  

  9. pp. 159-161  

  10. pp.293-294  

  11. pp. 305-306  

  12. pag. 317  

  13. pag. 325  

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Riprendiamoci il lato oscuro della forza https://www.carmillaonline.com/2016/01/22/bloch/ Fri, 22 Jan 2016 22:00:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28140 di Fabio Ciabatti

Bloch_Ciabatti_EreditàErnst Bloch, Eredità di questo tempo, traduzione e cura di Laura Boella, Mimesis, 2015, pp. 482, € 32,00.

In un’epoca dominata rassegnazione e passioni tristi può essere di grande utilità recuperare il pensiero di Ernest Bloch, un autore che rivendica al marxismo la forza dell’utopia concreta, della speranza e della fantasia, anche nelle loro dimensioni apparentemente anacronistiche, oscure e irrazionali. Tra il serio e il faceto potremmo dire che Bloch, preso atto della potenza del lato oscuro della forza, ci esorta a sottrarre il suo potere al nemico, convinto [...]]]> di Fabio Ciabatti

Bloch_Ciabatti_EreditàErnst Bloch, Eredità di questo tempo, traduzione e cura di Laura Boella, Mimesis, 2015, pp. 482, € 32,00.

In un’epoca dominata rassegnazione e passioni tristi può essere di grande utilità recuperare il pensiero di Ernest Bloch, un autore che rivendica al marxismo la forza dell’utopia concreta, della speranza e della fantasia, anche nelle loro dimensioni apparentemente anacronistiche, oscure e irrazionali. Tra il serio e il faceto potremmo dire che Bloch, preso atto della potenza del lato oscuro della forza, ci esorta a sottrarre il suo potere al nemico, convinto che si possano diradare le tenebre solo percorrendo fino in fondo il sentiero oscuro senza rimanerne dominati e consumati, checché ne pensino il maestro Joda e tutti gli altri cavalieri Jedi.
Non può che fare piacere, dunque, la ripubblicazione di Eredità di questo tempo, libro dato alle stampe a Zurigo nel 1935, ora disponibile per il pubblico italiano con una nuova introduzione e una nuova traduzione a cura di Laura Boella, traduttrice e curatrice anche della prima edizione italiana del 1992 (uscita con il titolo Eredità del nostro tempo).

In questa recensione ci concentreremo soprattutto sul concetto di non contemporaneità che Bloch utilizza per analizzare il nazismo, ma che può essere utilmente impiegato per comprendere alcuni fenomeni contemporanei come il fondamentalismo e i movimenti sociali sudamericani. Non sorprenda il riferimento a due fenomeni dalle valenze politiche opposte: secondo Bloch, infatti, la capacità o meno di occupare il territorio della non contemporaneità può dare luogo a esiti politici completamente differenti.
Prima di venire all’oggi, torniamo al testo di Bloch per il quale non è sufficiente rilevare che “Il solo contenuto contemporaneo dell’hitlerismo è il dominio del grande capitale” se non si risponde a una domanda fondamentale: com’è possibile che abbia avuto tanta efficacia “una demagogia ‘anticapitalista’ di una falsità e irrealtà totali”?1
È per rispondere a questa domanda che entra in gioco il concetto di non contemporaneità. “La storia – ci dice Bloch – non è un’entità che avanza rettilinea in cui il capitalismo sarebbe l’ultimo stadio, quello che avrebbe superato tutti gli stadi anteriori. Essa è piuttosto un’entità pluriritmica e plurispaziale”.2 In altre parole l’espansione del dominio capitalistico non significa la completa scomparsa di forme di produzione, di vita e di pensiero precapitalistiche: la sussunzione formale di forme produttive precapitalistiche da parte del capitale non è destinata sempre e comunque a essere superata dalla sussunzione reale, potendo le due in certe circostanze convivere.
A partire da questa constatazione si può affermare che “L’esperienza dell’attualità non è la stessa per tutti. Alcuni vivono il presente solo esteriormente … [portando] con sé qualcosa di anteriore che viene a mescolarsi con il presente” e sognando di tornare ai vecchi tempi, i quali, così, “entrano in contraddizione con il presente in forma molto curiosa, trasversale”.3
La gioventù che ha nostalgia della disciplina e del capo, i contadini che si radicano più fortemente nella terra natale, il ceto medio urbano immiserito che, per risparmiarsi la lotta di classe, finisce per venerare una nazione germanica arcaica ed illusoria: ecco i gruppi in cui si trovano gli esemplari di quell’uomo “pieno di amarezza [che] resta indietro, sanguinante e oscuro”4 in cui sono all’opera “impulsi e riserve provenienti da epoche e sovrastrutture precapitalistiche, non contemporaneità autentiche che una classe in declino riattualizza nella propria coscienza o lascia che vengano riattualizzate”.5 I nazisti hanno sfruttato con grande maestria questi impulsi utilizzando “l’oscurità senza aurora, l’arcaico senza utopia, il grido confuso o fraudolento senza contenuto umano”.6
C’è un elemento del sostrato non contemporaneo che si presta oggettivamente a un utilizzo regressivo. Ma c’è anche molto di più: Bloch ci parla infatti della letteratura popolare con la sua immaginazione desiderante, della fiaba quale cronaca infantile della guerra condotta dall’astuzia del povero contro le potenze mitiche, del millenarismo cristiano con la sua volontà di portare il paradiso in terra, dello spirito dionisiaco quale segno tra i più potenti che l’uomo è ancora fuori di sé. C’è dunque una responsabilità soggettiva dei marxisti volgari che hanno sottoalimentato la fantasia delle masse, hanno trascurato il mondo dell’immaginazione, non hanno montato “la guardia nelle regioni del primitivo e dell’utopia, proprio laddove i nazisti attingono il loro potere di seduzione”.7
Per questo motivo c’è una differenza tra la propaganda nazista e quella comunista a tutto vantaggio della prima. “I nazisti parlano una lingua ingannatrice, ma a degli uomini, i comunisti parlano una lingua totalmente vera, ma che riguarda soltanto le cose”,8 utilizzando una propaganda “fredda, pedante, esclusivamente imperniata sul momento economico”9 incapace di “contrapporre al mito… [una] contropartita che sappia trasformare gli inizi mitici in inizi reali, i sogni dionisiaci in sogni rivoluzionari”.10
Bloch vuole quindi un ampliamento della prospettiva da parte del marxismo. Altrove parlerà di una “corrente calda” che caratterizza il marxismo tanto quanto la sua “corrente fredda”. Occorre allargare l’orizzonte per comprendere il non contemporaneo, le peculiari contraddizioni che esso pone, il suo rapporto con la contraddizione contemporanea. Ecco come Bloch sintetizza il tutto: “La contraddizione soggettivamente non contemporanea è la collera repressa, la contraddizione oggettivamente non contemporanea è il passato non ancora esaurito; la contraddizione soggettivamente contemporanea è l’atto rivoluzionario libero del proletariato, la contraddizione oggettivamente contemporanea è il futuro impedito contenuto nel presente, i benefici della tecnica bloccati, la società nuova bloccata di cui quella vecchia è gravida nelle sue forze produttive”.11
Da ciò deriva il compito di “separare gli elementi della contraddizione non contemporanea suscettibili di avversione e metamorfosi, ossia quelli che sono ostili al capitalismo e in esso non trovano accoglienza, e… rimontarli dando loro un’altra funzione in un contesto diverso”.12 Non si tratta per Bloch di negare il primato della contraddizione contemporanea, ma di acquisire una “forza rivoluzionaria supplementare”.13
In passato i contenuti di classe dell’utopia si sono quasi sempre celati sotto una forma teologica presentandosi così come utopia astratta, avvolta nella nebbia. Anche se queste forme oggi ci appaiono estranee e infantili, il socialismo, pur demolendo la loro apparenza, deve adempiere alle loro promesse, mettendo in evidenza “la sete di libertà e di felicità, le immagini di libertà che uomini privati dei loro diritti hanno consegnato a questi sogni”.14
Perché si possa adempiere a questo compito occorre una nuova forma di pensiero che abbandoni il “razionalismo astratto” e si rivolga alla totalità storico-sociale in modo critico e non contemplativo con un’attitudine “più esistenziale e più concreta”. “Per padroneggiare la non contemporaneità, sorge quindi il problema di una dialettica rivoluzionaria a molteplici livelli” che sappia farsi carico “degli elementi utopici e sovversivi, della materia rimossa di un passato che non è ancora tale”.15
Tutto ciò ha un senso se non consideriamo il materialismo comunista “una nuova forma di totalizzazione dell’economia”, come potrebbe indurci a pensare un marxismo che si limita alla sua corrente fredda, “bensì la leva che deve portare alla periferia l’economia una volta che la si sia padroneggiata, e che deve porre per la prima volta l’uomo al centro”,16 come ci aiuta a capire la corrente calda contenuta nel marxismo stesso.

Fin qui quanto ci dice Bloch rispetto ai suoi tempi. E per quanto riguarda i nostri? La cosiddetta globalizzazione sembra proprio riportare in auge il concetto di non contemporaneità. L’estendersi del dominio del grande capitale ha posto termine in molti paesi non capitalisticamente sviluppati a quel processo di modernizzazione che si basava sulla sostituzione delle esportazioni e sullo sviluppo autonomo di una moderna base produttiva. Con ciò ha subito uno stop il processo di secolarizzazione di tipo occidentale che si basava sulla sottrazione di ampie masse alle forme tradizionali di vita e di riproduzione materiale e al loro inserimento nell’ambito della produzione capitalistica e del circuito della merce. Forme precapitalistiche sono state rifunzionalizzate all’interno delle catene del valore internazionalizzate attraverso una sussunzione formale che ha significato la riproposizione di un’accumulazione primitiva sotto inedite e selvagge tipologie. Nuove modalità di esclusione e marginalizzazione sono state riservate a coloro i quali, sottratti alle loro tradizionali forme di sostentamento (soprattutto rurale), vengono inseriti nel circuito del lavoro informale, termine edulcorato per definire l’attività lavorativa di un sottoproletariato sempre più numeroso e ammassato negli slum delle megalopoli del terzo mondo o nelle città occidentali, meta di masse di immigrati. Un vuoto nichilistico, dove il vecchio agonizza senza che germogli il nuovo, ha spesso portato a una “collera repressa” che ha trovato rifugio nella pienezza immaginaria di un passato illusorio. In questa schematica descrizione è facile vedere il “grido confuso o fraudolento senza contenuto umano” dei vari fondamentalismi, compresi quelli di matrice nord-occidentale.
Ma l’“oscurità senza aurora” non è stato l’unico esito della non contemporaneità dei nostri giorni. Nel continente sudamericano abbiamo assistito ad alcuni esempi virtuosi d’intreccio tra l’arcaico e il moderno. Le antiche forme di comunità, che ancora assicurano la riproduzione di masse considerevoli di persone, sono state capaci di costituire la base per i nuovi movimenti sociali, con le loro pratiche solidali di democrazia diretta e consensuale; forme arcaiche di pensiero hanno contribuito alla rinascita di un immaginario diffuso in grado di concepire rapporti sociali e forme di ricambio organico tra uomo e natura diversi da quelli dominati dallo sfruttamento capitalistico.
Anche partendo da questi esempi positivi bisogna però stare attenti a distinguere un’utopia astratta, che vuole soltanto riproporre l’antico o affiancarlo semplicemente al moderno, da un’utopia concreta, che può nascere dalla capacità dell’antico di vivificare il nuovo, affrontando la “contraddizione contemporanea oggettiva”.
Alvaro Garcìa Linera, prima di diventare vicepresidente della Bolivia, ha sostenuto che le comunità indigene sono portatrici di una razionalità contraddittoria in quanto differente da quella del mercato capitalistico, ma da secoli formalmente subordinata ad esso. Le stimmate della subalternità sono internalizzate nelle loro stesse strutture riproduttive e nel loro immaginario. I movimenti indigeni non possono perciò nascere dalla semplice riproposizione del passato, ma dalla riattivazione delle forme di ribellione del passato stesso. Solo un sostanziale rinnovamento delle comunità realmente esistenti (in termini blochiani, un nuovo montaggio degli elementi in esse contenuti), consente di esprimere un conflitto in grado di entrare in un rapporto di coalizione negoziata con le masse urbane.17 Successivamente lo stesso Garcìa Linera ha sostenuto che l’identità di classe delle masse urbane è stata sussunta sotto quella entnico-culturale del nazionalismo indigeno diventando l’identità mobilitante principale.18
È probabilmente la presupposizione di questo primato, opinabile o meno che sia, a nutrire la convinzione di Garcìa Linera che in Bolivia non sia possibile andar oltre il consolidamento di un capitalismo andino-amazzonico, caratterizzato dalla compresenza di una produzione capitalista moderna e da forme produttive comunitarie, con lo stato incaricato di rafforzare queste ultime.19 Una cosa risulta comunque certa: la convivenza tra queste due forme è tutt’altro che pacifica. Lo testimonia con evidenza l’Ecuador che, insieme alla Bolivia, ha inserito nella costituzione il buen vivir, visone del mondo che nasce proprio da antiche forme di vita e di pensiero indigene. Suona quasi beffardo il fatto che proprio in questo paese si sia è presentata nella forma forse più acuta la contraddizione tra le esigenze della moderna industria estrattiva e la gestione tradizionale delle risorse naturali da parte delle popolazioni autoctone.
Quelli accennati sono solo alcuni esempi dei problemi che affliggono il continente ribelle. Soprattutto ora che, dopo le sconfitte elettorali delle sinistre in Argentina e Venezuela, il ciclo dei governi progressisti del Sud America appare terminato o, comunque, in gravissimo affanno. A tale difficoltà ha contribuito in maniera decisiva il fatto che i governi di sinistra non sono riusciti a modificare significativamente il modello finanziario-estrattivista delle loro economie. Passato il ciclo degli alti prezzi delle materie prime, che ha consentito una significativa redistribuzione di ricchezze senza modificare sostanzialmente il sistema produttivo, i nodi sono venuti al pettine. E qui torna in gioco la corrente fredda del marxismo che risulta indispensabile per individuare e affrontare lucidamente le contraddizioni oggettive da sciogliere per non essere costretti ad assistere al ritorno dell’oscurità, laddove si era annunciata l’aurora.


  1. Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, Mimesis, 2015, p. 204. 

  2. Ivi, p. 205. 

  3. Ivi, p. 145. 

  4. Ivi, p. 79. 

  5. Ivi, p. 155. 

  6. Ivi, p. 319. 

  7. Ivi, p. 319 

  8. Ivi, p. 198. 

  9. Ivi, p. 171. 

  10. Ivi, p. 102. 

  11. Ivi, p. 165. 

  12. Ibidem. 

  13. Ivi, p. 168. 

  14. Ivi, p. 179. 

  15. Ivi, p. 166. 

  16. Ivi, p. 199. 

  17. Cfr. Alvaro Garcìa Linera, Plebeian Power. Collective Action and Indigenous, Working-Class and Popular Identities in Bolivia, Haymarket Books, 2014, pp. 155-157. 

  18. Cfr. ivi, p. 279. 

  19. Cfr. Pablo Stefanoni, “Alvaro Garcìa Linera: Reflections on Two Centuries of Bolivia”, in Alvaro Garcìa Linera, Plebeian Power, cit., p.11.  

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