Ernest Hemingway – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 10 Apr 2025 22:05:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Soldati di carta sulla strada per l’inferno https://www.carmillaonline.com/2023/11/22/soldati-di-carta-sulla-strada-per-linferno/ Wed, 22 Nov 2023 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79958 di Sandro Moiso

Robert Stone, Dog Soldiers, con una prefazione di Massimo Carlotto, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 427, 19 euro

«Non sappiamo cosa stiamo facendo», rispose Converse, sicuro di sé. «Questo è il principio che dfendevamo in Vietnam. Questo è il motivo per cui siamo andati in guerra». (Robert Stone – Dog Soldiers)

Gli Stati Uniti, dal 1945 fino ad oggi, sono riusciti a condurre una guerra permanente in ogni angolo del globo. Una guerra lunga ormai quasi ottant’anni, formata da una serie di guerre sempre meno locali da cui, però, non sono mai usciti vincitori. Un record che [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Stone, Dog Soldiers, con una prefazione di Massimo Carlotto, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 427, 19 euro

«Non sappiamo cosa stiamo facendo», rispose Converse, sicuro di sé. «Questo è il principio che dfendevamo in Vietnam. Questo è il motivo per cui siamo andati in guerra». (Robert Stone – Dog Soldiers)

Gli Stati Uniti, dal 1945 fino ad oggi, sono riusciti a condurre una guerra permanente in ogni angolo del globo. Una guerra lunga ormai quasi ottant’anni, formata da una serie di guerre sempre meno locali da cui, però, non sono mai usciti vincitori. Un record che se, da un lato, ha comunque arricchito il cosiddetto complesso militar-industriale di quel paese, dall’altro, ha anche fatto sì che forse non esista al mondo altro paese che abbia prodotto altrettanta letteratura basata sull’esperienza bellica.

Una tradizione letteraria che ha avuto inizio nell’Ottocento con i romanzi sulla Guerra civile di Stephen Crane, i racconti di Ambrose Bierce e le cronache di Walt Whitman, ma che già a partire dagli anni successivi alla prima carneficina mondiale, iniziò a produrre romanzi sulla delusione dei soldati e le loro paure e sofferenze, come quelli di William March, John Dos Passos o William Faulkner e Donald Trumbo. Oppure critici della violenza espressa nel corso del secondo conflitto globale e delle progressiva disumanizzazione del soldato americano e, ancora, dell’inutile sacrificio di migliaia di giovani in divisa e del loro drammatico ritorno a caso, dove nulla sembrava essere cambiato.

Tralasciando l’opera letteraria di Ernest Hemingway, che scrisse romanzi e racconti basati sulla sua personale esperienza sia della Prima guerra mondiale che della guerra civile spagnola, fu quella l’epoca dei romanzi di Norman Mailer, Glen Sire, Richard Matheson, James Jones e John Oliver Killens. Ma è soltanto dall’esperienza della guerra di Corea e, ancor più, da quella del Vietnam che la separazione tra guerra fuori dai confini nazionali e guerra in casa oppure tra guerra con un “nemico esterno” e guerra con il “nemico interiore”, ancor prima che interno, viene definitivamente superata. Sono i romanzi e i racconti di Tim O’Brien, Kent Anderson, Gustav Hasford, Denis Johnson e Karl Marlantes a parlarci, in tempi diversi, di quella guerra e dei traumi psicologici ancor prima che fisici riportati dai giovani soldati che la combatterono.

Mentre l’esperienza delle guerre successive in Centro America, in Medio Oriente e nell’Asia Centrale ci è stata narrata, in anni più recenti, da autori come Phil Klay e da Tobias Wolff. Ma è stata proprio la guerra del Vietnam ha ridefinire, come si diceva prima, lo sconfinamento tra conflitto esterno e interno, tra devastazione dei territori “altri” e di quello “interiore” dei soldati. Basti qui ricordare almeno due romanzi: Primo sangue di David Morrell, da cui sarebbe stato tratto il primo Rambo, diretto da Ted Kotcheff, e quello appena ripubblicato da Minimum Fax, Dog Soldiers di Robert Stone1.

Quest’ultimo, comparso in edizione originale nel 1974, è quello che maggiormente ha introdotto il discorso dell’autentico disfacimento morale di un paese e di una generazione che, fino a pochi anni prima si erano illusi di aver definito una “nuova frontiera” e un mondo di cui l’estate dell’amore del 1967 avrebbe segnato invece l’inizio, più che dell’utopia comunitaria, del declino. Prima i Beat, la libertà di immaginarsi “altri” (in letteratura, nella realtà e negli esperimenti lisergici di Ken Kesey2 ), poi la cruda realtà dei macelli in Estremo Oriente e delle droghe in polvere da iniettarsi in vena, sia al fronte che una volta tornati a casa. Con la mente guasta e il corpo in astinenza da sesso facile, adrenalina, eroina o morfina.

Robert Stone (Brooklyn 1937 – Key West 2015) nel 1971 partì per il Vietnam, dove avrebbe trascorso due mesi in qualità di corrispondente di guerra per «INK», un piccolo giornale inglese, e da lì avrebbe tratto l’ispirazione per il suo secondo romanzo, poi pubblicato nel 19743. In precedenza, nel 1962, mentre si trovava alla Stanford University aveva conosciuto Ken Kesey, all’epoca già famoso, che gli aveva dato la possibilità di conoscere molti altri scrittori, tra cui Jack Kerouac che, in qualche modo, lo avrebbe influenzato nello stile narrativo.

Si dice, infatti, che l’autore americano si sia ispirato per uno dei personaggi del suo romanzo più famoso, Ray Hicks, al personaggio reale di Neal Cassady, scrittore e protagonista della Beat Generation, che incontrò grazie al suo rapporto con Ken Kesey. Cassady che era anche stato l’ispiratore della figura di Dean Moriarty, il co-protagonista di Sulla strada di Kerouac. Mentre le pagine finali di Dog Soldiers hanno tratto abbondantemente spunto dalla morte reale dello stesso Cassady, avvenuta nel 1968, lungo una strada ferrata messicana.

Non a caso, si potrebbe definire Dog Soldiers un romanzo “on the road”, non solo tra Vietnam, Stati Uniti e Messico, ma anche nell’interiorità dei personaggi che lo animano. Interiorità descritta, nella migliore tradizione americana, non attraverso l’analisi dei pensieri dei singoli, ma attraverso le loro azioni e le loro parole. A metà strada tra noir e romanzo di azione, in cui la fuga si trasforma in un viaggio verso l’abisso e la fine. Del noir il romanzo porta la traccia amara e indelebile di Raymond Chandler, delle sue amicizie tradite e dei suoi anti-eroi spietati perché nessuno, mai e per nessun motivo, ha provato pietà per loro.

Mentre, per certi altri versi, si presenta come un romanzo apocalittico, in cui la corruzione dell’America nixoniana del Watergate si riflette nelle azioni dei personaggi, nei loro tradimenti, nella loro avidità (di sesso o soldi non fa differenza), sia che si tratti di giornalisti disillusi come John Converse, uno dei protagonisti principali, oppure di un ex-soldato come Ray Hicks, di una tossica confusa e sposata infelicemente con Converse o, ancora, di un agente corrotto della DEA.

Vite che trascorrono sul bordo di un inferno tutt’altro che metafisico di cui, in qualche modo saranno i cani. Definiti con un termine, dog soldiers, che rinvia sia alle targhette metalliche appese al collo dei soldati per l’eventuale riconoscimento dei loro corpi disfatti dopo la morte in battaglia, le dog tag, che alla tradizione guerriera degli Indiani delle pianure, in particolare di quelli appartenenti alle tribù Cheyenne.

Le cosiddette “società guerriere” erano raggruppamenti che, all’interno delle bande o delle tribù, si incaricavano dell’inquadramento dei guerrieri. Svolgevano incarichi di “polizia” interna e portavano avanti le attività guerresche sempre in prima linea. La loro rilevanza era enorme e tra i Cheyenne l’importanza delle società guerriere, specialmente di quella dei Soldati Cane, fu veramente notevole.

Quella dei Soldati Cane fu una delle più famose fra le società dei guerrieri cheyenne. Molti dei suoi appartenenti fecero il giuramento di suicidarsi oppure pronunciarono “l’incantesimo dei vecchi”. Questo perché, quando sfilavano in parata intorno all’accampamento prima della battaglia, i vecchi si schieravano ai loro lati e i banditori annunciavano a gran voce: “Guardate questi uomini, fintanto che sono vivi, per l’ultima volta perché butteranno via le loro vite”.

Il guinzaglio e il piolo costituivano gli oggetti simbolo degli appartenenti a tale società guerriera. I giovani appartenenti facevano voto di conficcare il piolo in terra e di legarsi ad esso nella battaglia, quando il nemico avesse cominciato ad avvicinarsi diventando sempre più pericoloso. Questo significava che avrebbero saldamente occupato la loro posizione e non sarebbero indietreggiati, combattendo fino a quando il nemico non fosse stato respinto o loro stessi non avessero incontrato la morte.

Per i Soldati Cane, che avevano fatto tale giuramento, era un grande onore morire combattendo legati al piolo. C’era anche un altro modo di impegnarsi al suicidio in guerra. Ma in questo caso non venivano utilizzati né guinzaglio né piolo; il guerriero si limitava a lanciarsi in mezzo ai nemici e a caricarli senza sosta, esponendosi così fino a quando non veniva ucciso. Gli altri giovani guerrieri, influenzati dal gesto, ne avrebbero seguito l’esempio.

Vite buttate si diceva prima, come quelle dei soldati mandati in guerra tra le paludi e le giungle del Vietnam oppure come quelle dei protagonisti del romanzo, non tutti destinati a morire, ma tutti ugualmente legati al piolo della siringa o del denaro. Mai eroi per coraggio e dedizione a una causa autentica, ma quasi sempre per calcolo personale o irrimediabile corruzione.

E’ una Saigon che offre ad ogni angolo eroina e prostituzione che spalanca le braccia a John Converse appena arrivato in Vietnam, durante un conflitto sempre più difficile per le forze americane e per i loro alleati. Ed per questo motivo che Converse, abbandonata l’idea di scrivere, si trova a smerciare tre chili di eroina dal Vietnam alla California, negli Stati Uniti di Nixon e della guerra alla droga, dando così inizio a una fuga durante la quale la linea di demarcazione tra preda e cacciatore è fluida e impalpabile come quella tracciata tra i due Vietnam.

«Ti conviene stare attento», gli disse Hicks. «Negli Stati Uniti succedono cose strane ormai».
«Non può essere più strano di qui».
«Qui è tutto più semplice», disse Hicks. «In America è tutto più strano. Io non so bene con chi tela fai ultimamente, ma scommetto che non hanno il senso dell’umorismo».
Converse guardò dall’alto l’amico seduto, barcollando un po’. Spalancò le braccia in un gesto plateale. «Ora come ora potrebbe anche mettersi a piovere sangue e merda», disse. «Non saprei dove altro andare»4

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Dal romanzo, nel 1978, fu tratto il film Who’ll Stop the Rain (in Italia intitolato I guerrieri dell’inferno) diretto da Karel Reisz e interpretato da Nick Nolte nella parte di Ray. Stone, che nel frattempo aveva vinto il National Book Award con Dog Soldiers, partecipò alla sceneggiatura dello stesso, non fu mai particolarmente soddisfatto del risultato, anche se il film fu presentato in concorso al 31° Festival del cinema di Cannes.

Minimum Fax che già nel 2018 aveva proposto un altro ottimo romanzo noir basato sul reducismo successivo alla guerra di Corea, Country Dark di Chris Offutt, ha sicuramente il merito di continuare un’attività di pubblicazione, scoperta o riscoperta di romanzi particolarmente adatti a rilanciare l’attenzione del pubblico per la letteratura americana e per le profonde contraddizioni che attraversano la medesima società da decenni. E il romanzo di Robert Stone, oggi ancora una volta giunti alle porte dell’Inferno, vale davvero la pena di essere letto.


  1. Già comparso precedentemente in Italia con il titolo I guerrieri dell’inferno, Bompiani, Milano 1978.  

  2. Si veda Tom Wolfe, L’Acid Test al rinfresko elettrico, Feltrinelli, Milano 1970.  

  3. Il primo, A Hall of Mirrors uscito negli Stati Uniti nel 1966, gli era valso sia la Houghton Mifflin Literary Fellowship che il William Faulkner Foundation Award per il miglior romanzo d’esordio.  

  4. R. Stone, Dog Soldiers, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 92.  

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Orson Welles contro la New Hollywood https://www.carmillaonline.com/2021/11/04/orson-welles-contro-la-new-hollywood/ Thu, 04 Nov 2021 22:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68904 di Gioacchino Toni

Massimiliano Studer, a cui si deve un’appassionante indagine su Too Much Johnson, il “film perduto” di Orson Welles [su Il Pickwick] che si credeva andato a fuoco, si confronta nuovamente con il grande regista statunitense nel suo nuovo libro da oggi in libreria – Massimiliano Studer, Orson Welles e la New Hollywood. Il caso di The Other Side of the Wind (Mimesis 2021) –, investigando su di una sua opera cinematografica incompiuta che ha inaspettatamente visto la luce nel 2018 grazie all’opera di montaggio portata a termine da Bob Murawski (distribuzione Netflix).

Scrive Studer nell’introduzione [...]]]> di Gioacchino Toni

Massimiliano Studer, a cui si deve un’appassionante indagine su Too Much Johnson, il “film perduto” di Orson Welles [su Il Pickwick] che si credeva andato a fuoco, si confronta nuovamente con il grande regista statunitense nel suo nuovo libro da oggi in libreria – Massimiliano Studer, Orson Welles e la New Hollywood. Il caso di The Other Side of the Wind (Mimesis 2021) –, investigando su di una sua opera cinematografica incompiuta che ha inaspettatamente visto la luce nel 2018 grazie all’opera di montaggio portata a termine da Bob Murawski (distribuzione Netflix).

Scrive Studer nell’introduzione che tale film è da considerarsi innanzitutto «una critica caustica alla New Hollywood, al suo stile, ai suoi personaggi tipici, ai suoi contenuti e ai suoi inevitabili cliché. Una critica molto dura, spietata, talvolta anche violenta, che ci viene incontro nella forma della “citazione”, estremizzata fino al parossismo, delle movenze del nuovo cinema dell’epoca: la centralità della sessualità “liberata”, il montaggio destrutturato e ipercinetico, il confronto tra generazioni, il rampantismo dei giovani produttori e registi» (p. 17).

Dunque, Welles contro la New Hollywood. Quali motivazioni portarono il regista a prendersela con quel cinema statunitense che si voleva anticonformista e come tale del resto è stato percepito anche successivamente?

Al fine di rispondere a tale interrogativo, lo studioso ricostruisce puntualmente la storia del progetto The Other Side of the Wind a partire da diversi documenti – lettere, contratti, memoriali, sceneggiature e appunti – in parte di provenienza italiana, verificando la genesi di tale ostilità. Successivamente Studer si preoccupa di analizzare l’opera nell’edizione portata a compimento nel 2018, opera complessa sia per la sua caratteristica metafilmica che, come spesso avviene nei film di Welles, per l’adozione di un tipo di immagine che si presta a diverse interpretazioni.

Orson Welles ha iniziato a pensare al film sin dal lontano 1937, dunque ben da prima dell’avvento della New Hollywood; soltanto strada facendo l’opera ha finito per divenire un atto d’accusa nei confronti di questa cinematografia che, in fin dei conti, ha salvato Hollywood dal baratro.

Il volume si apre ricostruendo il clima e i rapporti da cui nasce in origine il progetto, a partire dai legami intrattenuti dal regista con Ernest Hemingway e con la Spagna in un preciso contesto storico-politico segnato dalla guerra civile e dall’esperienza del Fronte Popolare che coinvolge numerosi artisti e intellettuali statunitensi genericamente progressisti o di simpatie comuniste. Successivamente Studer passa a indagare i motivi dell’abbandono del progetto, dunque a ricostruire l’incubazione e la nascita del fenomeno New Hollywood.

A metà degli anni Sessanta il sistema produttivo hollywoodiano mostra di essere ormai alle corde; i dati provenienti dagli incassi nelle sale cinematografiche si fanno impietosi, il Sistema-Hollywood così come è strutturato a quelle date si rivela incapace di soddisfare le nuove generazioni. Orson Welles, nota Studer, si rende perfettamente conto del cambiamento in atto, tanto da tentare una collaborazione, rivelatasi però fallimentare, con Bert Schneider, il produttore di Easy Rider (1969) diretto da Dennis Hopper.

È a questo punto che il regista decide di riprendere una sua vecchia sceneggiatura – The Sacred Monsters – pensando di poterla adattare al nuovo contesto culturale e produttivo della New Hollywood. Nell’estate del 1970 il regista inizia le riprese di The Other Side of the Wind avvalendosi della collaborazione di giovani leve del nuovo cinema statunitense e pensando di adottare modalità tipiche del prodotto indipendente a basso budget.

Il set di The Other Side of the Wind, sin dal primo giorno di riprese […] si era trasformato in un luogo di lavoro dove le due generazioni, accomunate da un atteggiamento ribelle e antisistema, avevano colto l’occasione per confrontarsi e dialogare tra loro. Welles, infatti, aveva intuito che il suo percorso artistico avesse delle analogie con quello della generazione della cosiddetta Easy Rider era. Sin dai primi contatti con questi giovani registi, però, aveva anche capito che la loro consapevolezza sui rischi di essere inglobati dal sistema per essere poi utilizzati al fine di recuperare il terreno economico perduto negli anni Sessanta era davvero inconsistente. In altre parole, il rischio che i giovani e talentuosi registi con le loro opere, piene di novità e capaci di attrarre un vasto pubblico potessero “rafforzare la validità del sistema” era ben presente nella mente di Welles. Non è un caso, infatti, che tutte le nuove leve della New Hollywood, con alcune eccezioni come quelle di John Cassavetes e Terence Malick, sarebbero diventate, nell’arco di poco tempo, parte integrante del sistema produttivo hollywoodiano, pilastro imprescindibile dell’industria culturale. Una struttura sempre pronta a fagocitare e a sfruttare a proprio vantaggio qualsiasi elemento di novità, soprattutto se capace di incarnare un elemento di discontinuità con i parametri estetici, sociali e culturali precedenti. E probabilmente questa è la vera e corretta chiave di lettura delle motivazioni che spinsero Welles a intraprendere il progetto di The Other Side of the Wind. Mostrare come stava cambiando pelle il mondo del cinema statunitense con l’arrivo di giovani produttori e cineasti, molto determinati e arrivisti, era indubbiamente per Welles uno degli obiettivi più importanti a cui mirava con il suo nuovo progetto cinematografico (pp. 172-173).

Pare che sia stato proprio un incontro nel 1970 con Dennis Hopper, tra i cineasti più rappresentativi della New Hollywood, a compromettere i rapporti di Welles con la nuova ondata hollywoodiana tanto da indurlo a mettere alla berlina nel suo The Other Side of the Wind alcune sue figure di spicco come Robert Evans – il produttore di The Godfather (1972) diretto da Francis Ford Coppola – tratteggiandolo come un giovane produttore in realtà conservatore nei confronti delle proposte più innovative del vecchio regista protagonista del film.

Dopo aver tentato di produrre il film autonomamente, la decisione di avvalersi di attori di fama induce Welles a intraprendere rapporti con finanziatori iraniani, salvo poi andare incontro a infinite controversie legali. Di certo a rendere le cose ancora più complesse concorrono la forte personalità e lo stile di lavoro del regista votato a un’autonomia creativa assoluta che mal si concilia con i tempi di lavoro imposti dalla produzione.

Nella parte finale del volume Studer affronta la versione montata da Bob Murawski di The Other Side Of The Wind comparandola con i 42 minuti montati direttamente da Welles e con le indicazioni presenti nella documentazione rintracciata negli archivi verificando così l’aderenza del lavoro di Murawski con gli obiettivi e con la poetica del regista. Studer ragiona dunque sulla possibilità o meno di vedere in The Other Side of the Wind del 2018 un’opera di Welles, dunque di poterla considerare parte della sua filmografia ufficiale. Per sapere come stanno le cose secondo Studer, non resta che leggersi i suo libro-indagine nel suo dipanarsi con le caratteristiche di un noir capace di svelare un contesto ben più ampio rispetto ai fatti, al film, in sé.

 

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Un François Rabelais del West https://www.carmillaonline.com/2021/10/27/un-francois-rabelais-del-west/ Wed, 27 Oct 2021 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68668 di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, [...]]]> di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, di Le avventure di Huckleberry Finn, ritenuto invece da T. S. Eliot “un capolavoro” e da Ernest Hemingway il romanzo capostipite della letteratura statunitense moderna, la raccolta antologica, proposta da Mattioli 1885 e fino ad oggi inedita in Italia, conferma il ruolo di provocazione e dissacrazione svolto dallo scrittore nordamericano nei confronti della cultura piccoloborghese, bigotta e perbenista statunitense, di ieri e di oggi.

Nel caso specifico l’obiettivo è quello di smascherare il puritanesimo perbenista del mondo letterario statunitense della seconda parte dell’800 che, pur fingendosi colto e attento alla grande letteratura del passato europeo, finiva con lo scandalizzarsi davanti all’uso di qualsiasi parola o frase che non rispettasse le regole del bon ton e del perbenismo borghese (e se ciò suggerisce al lettore alcuni atteggiamenti riferibili al fraseggio politically correct attuale, sappia che questo è proprio l’effetto che la presente breve recensione intende ottenere).

L’occasione per la stesura del testo che dà il titolo alla breve antologia, ce lo spiegano bene i curatori del volume e il successivo commento di Franklin J. Meine, intitolato non a caso Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana1, fu fornita all’autore dalla lamentela espressa dal direttore di una rivista dell’epoca sul fatto che alla letteratura americana mancasse un autore del calibro di Rabelais.
Detto fatto: Mark Twain, nato Samuel L. Clemens e che amava definirsi come «nato irriverente», confezionò su misura un breve ma strabordante testo nello stile dell’autore francese del XVI secolo e lo inviò al medesimo direttore. Che, naturalmente, espresse giudizi feroci e sarcastici sul manoscritto e sul suo autore.

1601, o come recitava per intero il titolo corretto e completo Una conversazione, come la si faceva accanto al caminetto, al tempo dei Tudor, descrive una piacevole serata alla corte della regina Elisabetta I, ormai vecchia, circondata da personaggi quali Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, Ben Johnson, Francis Beaumonte, la duchessa di Bilgewater (26 anni), la contessa di Granby (30) e sua figlia Lady Helen (15), due damigelle d’onore [Lady Margery Boothy (65) e Lady Alice Dilberry (70)] e William Shakespeare (qui rinominato Shaxpur). Tutti i personaggi sono reali e soltanto colui che tiene il diario della serata resta anonimo, anche se, a detta di Twain, è chiaramente ispirato alla figura di Samuel Pepys, un politico e scrittore inglese del secolo successivo che oggi è ricordato soprattutto per il suo Journal, il diario tenuto tra il 1° gennaio 1660 e il 31 maggio 1669, in cui si dimostrò capace di mescolare con grande abilità e naturalezza le osservazioni di carattere personale con quelle riguardanti i grandi avvenimenti di cui fu testimone. Diario di cui lo scrittore americano fu un avido ed erudito lettore.

Fin qui nulla di strano se non fosse che, al contrario di quanto potrebbe attendersi il lettore, l’argomento non è costituito dagli affari interni, dalla politica internazionale, dalla scienza, dal teatro o dalla cultura classica. Niente affatto. Qui, invece, si parla disinvoltamente della qualità ed intensità di scoregge, organi genitali maschili e femminili, amplessi più o meno focosi, abitudini sessuali e matrimoniali di altri popoli e delle perversioni in uso all’epoca della decadenza dell’impero romano. Senza scandalo alcuno e nella più totale naturalezza. Espressa dalla regina quando «ha sollevato le sopracciglia e con grande ironia e con aria smancerosa ha esclamato: Oh, merda! Al che tutti sono scoppiati a ridere, tranne Lady Alice»2.

Il testo, dopo l’invio al direttore della rivista, fu stampato una prima volta in tiratura limitatissima presso la tipografia dell’accademia militare di West Point grazie al tenente C.E.S. Wood che la dirigeva e che suggerì allo stesso Twain «di pubblicarlo come se si trattasse di un libro di età elisabettiana con caratteri ortografici obsoleti creati appositamente a mano. Inoltre Wood fece anche macerare dei fogli di carta di lino nel caffè allungato e in altri intrugli, facendoli poi seccare in modo da far sembrare che la carta fosse antica di quattro secoli»3.

Al di là della beffa contenuta nello stesso processo di falsificazione, c’è da dire che l’operazione riuscì a tal punto che ancora nel 1906, ventisei anni dopo la sua prima pubblicazione, fu lo stesso Mark Twain a dover chiarire, in una lettera indirizzata a Charles Orr, bibliotecario della Case Library di Cleveland, che: «Il titolo del pezzo è 1601. Consiste in una conversazione inventata di sana pianta che sarebbe avvenuta, esattamente in quell’anno, nel salottino della regina Elisabetta […] e non è, come John Hay suppone erroneamente, un serio tentativo di riportare la nostra letteratura e la nostra filosofia a i tempi sobri e casti di Elisabetta; se in quelle pagine si trova una sola parola decente, è solo perché m’è sfuggita»4.

D’altra parte come ebbe a sottolineare, successivamente alla prima pubblicazione del testo, lo stesso C. E. S. Wood:

Se ho compreso bene il fermento e l’inquietudine intellettuale di cui 1601 è il frutto, direi che la struttura intellettuale e lo strato subconscio più profondo derivassero dagli Anglosassoni, tanto primitivi quanto l’uomo comune del periodo Tudor. Mark Twain veniva dalle rive del Mississippi – dai marinai dei battelli a fondo piatto, dai piloti, dagli scaricatori di porto, dagli agricoltori e dai villaggi popolati da gente rozza e primitiva – esattamente come Lincoln.
Finì nei campi minerari dell’Ovest tra postiglioni di diligenze, giocatori d’azzardo e gli uomini del ’495. Aveva nel sangue e nel cervello la semplice ruvidità di un popolo di frontiera.
Quelle che alle orecchie altrui risuonano come parole volgari e offensive, per lui erano un linguaggio comune. […] Un simile linguaggio è energico e vigoroso, ed efficace, come lo sono tutte le parole primitive. L’affinamento rende meno espressivi, più deboli – o diciamo meno taglienti – ma le volgari parole monosillabiche cadono giù spietate come il colpo d’ascia di un pioniere, e MT era esattamente questo. Quindi credo che 1601 sia il frutto dell’umorismo, della satira e dell’odio del puritanesimo che in MT sono così profondi e istintivi. […] Ogni parola che troviamo in 1601 era utilizzata dai nostri rozzi pionieri in quanto facevano parte del loro vocabolario – e nessuna parola è stata mai inventata dall’uomo con intenti osceni, ma solo come linguaggio per esprmere meglio quello che intendeva dire. Nessun atto della natura è osceno in sé […] Credo anche che MT si divertisse a scandalizzare – ad affibbiare schiaffi sonori a ciò che Chaucer avrebbe semplicemente definito la “nuda realtà”6.

A completamento di quanto sino ad ora detto, vale la pena di citare ancora una volta lo stesso Twain che, avendo studiato in maniera approfondita i modi di fare e la mentalità sia maschile che femminile della cosiddetta “età aurea” della regina Elisabetta I, nel quarto capitolo del suo romanzo Uno yankee alla corte di re Artù, a proposito di una conversazione presso la famosa Tavola Rotonda, può permettersi di scrivere:

molti dei termini usati con la più grande disinvoltura da quella grande assemblea di dame e di gentiluomini di prim’ordine, ebbene, avrebbero fatto arrossire anche un comanche.
Indelicatezza? No, è un termine troppo blando per rendere l’idea. Certo, anch’io avevo letto Tom Jones e Roderick Random e altri libri del genere7, e quindi sapevo che in Inghilterra, per lo meno fino a un centinaio di anni fa, le dame e i gentiluomini inglesi, anche i più raffinati, indulgevano in un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, con ciò che implicava anche nell’ambito morale e di comportamento. Anzi, a essere sinceri, tale andazzo e proseguito anche nel nostro secolo XIX – quando, in linea di massima, nella storia dell’Inghilterra, o dell’Europa intera, hanno finalmente iniziato a fare la loro comparsa i primi esemplari di vere gentildonne e veri gentiluomini8. Pensate un po’…e se Walter Scott, invece d’infilare a martellate quelle conversazioni di sua invenzione nella bocca dei suoi personaggi, avesse permesso loro di esprimersi come volevano? Il modo di parlare di Rebecca, di Ivanhoe e della dolce Lady Rowena avrebbe imbarazzato persino uno scaricatore di porto dei nostri giorni9.

Al di là dell’ironia nei confronti delle vere gentildonne e dei veri gentiluomini del neo-puritanesimo borghese, è chiaro che a cadere sotto l’ascia da pioniere di Mark Twain è proprio colui che è ritenuto il padre di quel “romanzo storico” che, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, avrebbe contribuito a ricostruire una storia nazional-popolare in chiave borghese. Percorso del quale Alessandro Manzoni fu in Italia esponente e precursore. Con tutte le conseguenze relative alla rimozione di linguaggi, mentalità e comportamenti considerati “disturbanti” all’interno delle reali classi sociali, basse o alte che fossero.

Non solo: vi è in Mark Twain la chiara e precisa volontà di reintrodurre nella letteratura un linguaggio vero, autentico e reale, a differenza, ad esempio, del Manzoni appena citato che, invece, fece di tutto per reinventarlo allo scopo di dare all’Italia una lingua “nazionale” (che spesso ancora oggi e con tanta difficoltà occorre imprimere a scuola nelle giovani menti). Rivendicazione che si affiancava al tentativo di Walt Whitman di ricorrere a livello poetico al linguaggio quotidiano e che avrebbe così tanto caratterizzato buona parte della letteratura e della poesia americana moderna (con buona pace di Henry James che per poter trattare temi relativi alla coscienza e alla moralità “borghese” fu costretto a trovar rifugio sulle sponde europee)10.

Ecco allora che per contrastare il neo-puritanesimo accluso al pacchetto del politically correct perbenista, Mark Twai può ancora rivelarsi utile e dilettevole. Come dimostra magnificamente la feroce critica rivolta alla religione cristiana e alla bigotteria contenuta in uno dei racconti più divertenti tra quelli compresi nell’antologia, La piccola Bessie, in cui una bimba di appena tre anni, con le sue imbarazzanti domande alla madre, mette in crisi gran parte delle verità della fede rivelata.


  1. Franklin J. Meine, Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana in Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 17-42  

  2. M. Twain, 1601.Conversazionii davanti al fuoco, op. cit., p.63  

  3. Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea, Introduzione a M. Twain, op.cit., p. 13  

  4. Cit. da Franklin J. Meine in M. Twain, op. cit., p. 19  

  5. Il 1849 fu l’anno della corsa all’oro in California – N.d.R.  

  6. Ivi, pp. 27-28  

  7. Si tenga presente che a narrare l’evento è il protagonista del romanzo stesso. I due romanzi citati, Tom Jones di Henry Fielding e Roderick Random di Tobias Smollett, uscirono, rispettivamente in Inghilterra nel 1749 e nel 1748 – N.d.R.  

  8. Corsivo ad opera del redattore di questo testo  

  9. Mark Twain, Uno yankee alla corte di re Artù, Mattioli 1885, 2020, pp. 44-45 cit. in F. J. Meine, op.cit., pp. 29-30  

  10. Per quanto riguarda Walt Whitman si veda invece qui su Carmilla  

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Si può vivere solo nel modo più feroce possibile https://www.carmillaonline.com/2021/03/17/si-puo-vivere-solo-nel-modo-piu-feroce-possibile/ Wed, 17 Mar 2021 21:10:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65293 di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Coover, Huck Finn nel West, traduzione di Riccardo Duranti, Enne Enne Editore, Milano 2021, pp. 368, 19 euro

In questo paese si rischia di finire sparati da qualsiasi parte e farsi sparare sul fiume è sempre meglio che farsi sparare nel deserto, poco ma sicuro (Huck Finn)

Chi ama la letteratura americana contemporanea può trovare nei romanzi pubblicati da Enne Enne editore, molto curati e ben tradotti (fatto non più così comune nel nostro paese da diversi anni a questa parte, nonostante la lezione di Cesare Pavese, Elio Vittorini e Fernanda Pivano), sicuramente un ottimo punto di riferimento. Prova ne sia questo romanzo di Robert Coover, tradotto magistralmente da Riccardo Duranti.

Robert Coover (1932), autore di romanzi e racconti, è considerato uno dei padri della letteratura postmoderna statunitense e ha insegnato per più di trent’anni alla Brown University.
Riccardo Duranti che ha avuto il compito, e la capacità, di trasporre in italiano le sue invenzioni linguistiche e letterarie, ha precedentemente tradotto l’opera omnia di Raymond Carver e autori come Cormac McCarthy, Richard Brautigan, Philipo K.Dick e Henry David Thoreau.

Per un romanzo che riprende le vicende del più noto, o dei più noti, tra i personaggi di Twain la traduzione si rivela come uno dei punti di forza, considerato che, per la prima volta, il linguaggio torna ad essere quello desiderato dallo scrittore che aveva preso il proprio nome d’arte dal gergo dei battellieri del Mississippi e che aveva tratto le proprie storie e le parole con cui raccontarle da quelle della Frontiera e della società americana a cavallo tra ‘800 e ‘900. Come afferma lo stesso Duranti:

A parte la narrazione fluida, in cui i piani temporali si sovrappongono e si fondono con continuità, i fantasmagorici effetti cooveriani di questo romanzo sono essenzialmente concentrati nel linguaggio. Coover riprende e porta alle estreme conseguenze l’intuizione di Twain di affidare a narratori improbabili e linguisticamente anomali la testimonianza degli eventi; e a mio parere raggiunge risultati ancor più efficaci dello stesso Twain, amplificando l’azione eversiva del linguaggio ruspante di Huck.
Questa centralità del linguaggio mi ha posto seri problemi di traduzione: nello sforzo di riprodurre, in un contesto linguistico diverso, scarti e deformazioni espressive irrinunciabili, le normali sfide traduttive sono amplificate ed esasperate.
[…] Come in tutti i tentativi di derivazione, non sempre le soluzioni sono all’altezza dell’originale, ma in alcuni casi, con mia grande sorpresa, l’equivalente italiano si è rivelato molto efficace, aggiungendo assonanze allusive più esplicite. Per esempio, il soprannome affibbiato al generale che perseguita Huck, Hard Ass, che diventa Culo Tosto e lo avvicina dal punto di vista fonico all’evidente modello storico del Generale Custer, con cui condivide almeno due nessi. Oppure le riunioni sulla “stragetia” da adottare con i pellirossa che Tom tiene con i suoi sodali e in cui la metatesi rivela più immediatamente in italiano che in inglese le inquietanti intenzioni che le sottendono1.

Coover si misura, in realtà, con un romanzo, Le avventure di Huckleberry Finn (1884), che T.S. Eliot aveva definito un “capolavoro”, in cui «il genio di Twain trova la sua piena realizzazione». A questo giudizio si sarebbe poi aggiunto quello di Ernest Hemingway: «Tutta la letteratura americana viene da un libro di Mark Twain che si intitola Huckleberry Finn… Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo»2.

Operazione certamente impegnativa quella di riprendere i personaggi di Mark Twain per seguirli nelle avventure successive a quelle originali, senza intaccarne le caratteristiche. Ancor di più se si coglie che Coover li immerge deliberatamente fino al collo nella storia del loro paese per circa un trentennio, sviluppandone le personalità con un realismo ed una credibilità sorprendenti.
Ma ciò ancora non basta: Coover riesce a demistificare e far implodere tutto il “mito americano”, soprattutto quello fondante della Frontiera.

Trent’anni di storia americana condensati nello sgangherato resoconto di Huck con tutte le relative tragedie e “contardizioni” (dalla guerra “sivile” alla corsa all’oro, passando per il genocidio delle tribù native ad opera dei coloni e dei “calvari-legieri”), da cui la retorica del mito patriottico esce decisamente a pezzi. Mentre sono impressionanti, e certamente non casuali, i collegamenti con l’attualità politica contemporanea.

«Gli Stati Uniti rivendicano questo territorio a se stessi per cacciare fuori a calci i pellerossa cannibali e blastemi – che non sono manco del tutto UMANI!» così ha detto. «E d’ora in poi, l’esercito americano proteggerà TUTTI i migranti legali e i minatori! OVUNQUE volete andare!». Tutti si sono messi ad acclamarlo come matti. «Vi assicuro, amici, che non ci saranno più massacri pellerossa né processi somari e manco più linciaggi! Tutto sarà LEGALE e PRO-PROGRESSO, aggiusta regola! La regola AMERICANA! Grassatori, osti-lì e leva-picchetti saranno PERSEGUITATI! Tutto dovrà essere come DOVREBBE essere! Stiamo costruendo la prima nazione perfetta al mondo quaggiù e non c’è nessun maledetto pellerossa che si metterà di traverso, e nemmanco nessun re e nessuna sciocchezza né senti né mentale né quacchera che sia, per non parlare manco dei banchieri forestieri! Costruiremo il paradiso in terra dove tutti saranno RICCHI e nessuno oserà togliervi quello che vi aspetta di diritto ed è VOSTRO! Questo è il nuovo ELDORADO!»3.

La grande promessa americana, sulle labbra dell’amico di sempre, Tom Sawyer, oppure su quelle di Trump o di Biden fa lo stesso, come Make America Great Again nasconde sempre la truffa, la menzogna e la violenza. Sarà l’evidenza dei fatti, e delle stragi di tribù e di animali (soprattutto cavalli) a spingere Huck, coerentemente al suo istintivo pessimismo anarchico, verso una crescente ammirazione per le storie del trickster Coyote, modello ideologico che Huck assorbe da Eeteh, il nuovo e definitivo (?) amico nativo americano, insieme ad un maggior apprezzamento di quello sociale, anche se decisamente imperfetto, dei Sioux Lakota con cui ha vissuto (non sempre felicemente) rispetto a quello “bianco” che si va affermando in tutta la sua crudezza.

In realtà, a trionfare è ancora una volta il desiderio di fuggire; lo stesso che già aveva animato le vicende di Huck nella sua scorribanda sul Grande Fiume (il Mississippi) nel romanzo originale e, successivamente, tutte le grandi fughe della letteratura americana. Da Jack London a Jack Kerouac compresi. Forse causate, anche inconsapevolmente, da ciò che avrebbe scritto in seguito William Burroughs, nel suo Pasto nudo (1959): «L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta».
Qualcosa che si coglie indirettamente nelle parole di un fotografo che dovrebbe documentare le gesta di un Tom Sawyer vestito e descritto come un Buffalo Bill circense

«Ho lo studio lì. Perlopiù facevo foto di morti. Sono famoso per la mia specialità: i ferrotipi di bambini morti. Se sono svelto a beccare i pupi, li sistemo in modo che sembrano ancora vivi. Nello studio ho un sacco di bambole di paglia per mettergliele nei pugnetti. I vecchi sono più facili se li becchi prima che s’irrigidiscono troppo, però non sono altrettanto carini. Ho fatto anche foto di gente viva, ma non vanno molto». Mi ha mostrato una foto che aveva fatto a Tom nel suo costume tutto bianco, con la mano infilata nella camicia, in sella a Tempesta come s’addice a un generale. Si è infilato un sigaro tra le sue ampie labbra, se lo è acceso e ha sorriso. «Lo Strabiliante Tom Sawyer è venuto lì a cercarmi e da allora l’ho seguito dappertutto. Gli faccio le foto dovunque va, mentre combatte i pellirosse, i rapinatori e l’ingiustizia, mentre cerca l’oro e appicca i crinimali, ma soprattutto quando si riposa in sella al suo cavallo col suo cappello bianco e il vestito di pelle di daino. Lui è il Sivilizzatore del West, me l’ha detto lui stesso. Sta facendo un libro famoso su se stesso»4.

Ma l’operazione di Coover è tutt’altro che forzata: l’ironia feroce nei confronti di un sistema violento e ingiusto era già nelle opere di Twain. Nei confronti di un sogno, quello americano della Frontiera, che si era trasformato da subito in un delirio imperialistico che, dopo essersi arricchito con lo sfruttamento degli schiavi neri e lo sterminio dei popoli nativi, alla fine dell’Ottocento stava già rivolgendo le sue armi verso il resto del mondo. Nella sua Autobiografia sono pagine terribili, di sanguinolente denuncia, quelle che dedica alla conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti durante la guerra con la Spagna del 18985.

E anche l’attenzione che Coover dedica all’autentica strage di cavalli, bisonti e altri animali che portò con sé la “conquista del West” deriva direttamente dalle pagine dell’autore a cui si è ispirato. Ad esempio, nell’Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, che è una girandola di invenzioni linguistiche in cui tutte le vicende sono narrate attraverso i dialoghi tra animali parlanti oppure lettere che gli uomini si scrivono tra di loro, quasi che ad avere diritto di parola nel libro siano soltanto gli animali (cavalli, cani, tori) e non gli esseri umani, che quel dono hanno sprecato. E sarà proprio per questo, forse, che due cavalli, interrogandosi sull’aldilà, giungeranno alle seguenti conclusioni: «Quando noi moriamo andiamo in paradiso e viviamo con gli umani?»
«Mio padre pensava di no. Era dell’opinione che non siamo costretti a finire lì a meno che non ce lo siamo meritato»6.

La polemica con la società americana della sua epoca, però, esplode anche in quel caso con la solita cattiveria, usando il parametro dei maltrattamenti degli animali per misurare anche la condizione umana nella Land of Freedom. Ecco come si risolve, ad esempio, un dialogo tra due personaggi del racconto sul destino dei tori durante la corrida:

«Il toro viene sempre ucciso?»
«Sì. A volte si intimidisce, trovandosi in un luogo così strano, e, tremante, rimane fermo, o cerca di ritirarsi. Allora tutti lo disprezzano per la codardia e le gente vuole che sia punito e messo in ridicolo; per cui, da dietro, gli tagliano i garretti, ed è la cosa più divertente del mondo vederlo zoppicare in giro sulle zampe recise; tutto l’anfiteatro scoppia in un uragano di risate; nel vedere una cosa del genere, io stesso risi fino a che le lacrime mi scesero lungo le guance. Dopo essersi esibito fino al massimo in cui gli riesce di farlo, non è più utile ed è ucciso».
«Beh, assolutamente grande, Antonio, perfettamente bello. Arrostire un negro mica lo batte»7.

Molto ci sarebbe ancora da dire su un libro, quello di Coover, che è tanto divertente quanto drammatico e, soprattutto, tanto ben scritto e tradotto, ma almeno un altro motivo di pregio va ancora qui segnalato: quello di aver integrato sapientemente il classico tall tale (racconto o narrazione che “le spara grosse”) della tradizione della letteratura della Frontiera con il recupero dell’oralità, da cui direttamente derivava la prima, della tradizione narrativa degli Indiani d’America. Soprattutto con le avventure del trickster Coyote8, celebrate qui magistralmente nella loro libertà espressiva, erotica e libertaria9.

In un bellissimo testo di Jaime De Angulo10 si afferma che «Le storie di Coyote formano un ciclo regolare, una saga […] Coyote ha una doppia personalità. E’ al tempo stesso il Creatore e il Buffone. L’uomo saggio e il buffone: ecco i due aspetti di Coyote, del Vecchio Uomo Coyote» (p. 89). Frutto di un immaginario altro, in cui la differenziazione tra il bene e il male non sembra avere una grande importanza, le storie di Coyote sembrano fornire l’unica spiegazione possibile per un mondo in cui la ferocia può essere combattuta e vinta soltanto dalla forza vitale e liberatrice della risata.


  1. Riccardo Duranti, Huck Finn pessimista e anarchico in Robert Coover, Huck Finn nel West, Enne Enne editore, Milano 2021, pp. 9-10  

  2. cit. in Norman Mailer, Huck Finn, vivo dopo 100 anni in M.Twain. Le avventure di Huckleberry Finn, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004, p.VI  

  3. R. Coover, op. cit., pp. 214-215  

  4. R. Coover, op. cit., pp. 249-250  

  5. Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli, Roma 2014  

  6. Mark Twain, Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, Mattioli 1885, p.88  

  7. M. Twain, op.cit., p.86  

  8. Sulla figura del trickster (briccone) nella tradizione dei popoli nativi dell’America settentrionale si veda: Carl Gustav Jung, Karl Kerény, Paul Radin, Il briccone divino, SE, Milano 2006  

  9. Ma raccolte anche, dalla voce dei nativi, nel magistrale Jaime de Angulo, Racconti indiani, Adelphi, Milano 1973, da troppi anni assente dal mercato editoriale italiano  

  10. Indiani in tuta, Adelphi 1978  

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Un autentico capolavoro del ‘900 https://www.carmillaonline.com/2020/01/15/un-autentico-capolavoro-del-900/ Wed, 15 Jan 2020 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57294 di Sandro Moiso

John Dos Passos, USA La trilogia: Il 42° parallelo; Millenovecentodiciannove; Un mucchio di quattrini, Mondadori 2019, pp. 974, 35,00 euro

Non sono molti coloro che ancora ricordano che John Dos Passos (Chicago 1896 – Baltimora 1970) fu definito da Jean-Paul Sartre come il più importante autore della sua epoca. Sicuramente assimilabile per importanza ad altri due autori della cosiddetta “generazione perduta”, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, Dos Passos li superò entrambi per la novità delle sue narrazioni “collettive” e per lo sperimentalismo stilistico che contraddistinse le sue [...]]]> di Sandro Moiso

John Dos Passos, USA La trilogia: Il 42° parallelo; Millenovecentodiciannove; Un mucchio di quattrini, Mondadori 2019, pp. 974, 35,00 euro

Non sono molti coloro che ancora ricordano che John Dos Passos (Chicago 1896 – Baltimora 1970) fu definito da Jean-Paul Sartre come il più importante autore della sua epoca. Sicuramente assimilabile per importanza ad altri due autori della cosiddetta “generazione perduta”, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, Dos Passos li superò entrambi per la novità delle sue narrazioni “collettive” e per lo sperimentalismo stilistico che contraddistinse le sue opere maggiori: Manhattan Transfer (1925) e la trilogia americana, ora riproposta integralmente da Mondadori in un unico volume, formata dai tre romanzi Il 42° parallelo (1930), Millenovecentodiciannove (1932) e Un mucchio di quattrini (1936).

Nato casualmente in un albergo di Chicago, come figlio illegittimo, dal rapporto tra John Randolph, avvocato di successo di origine portoghese, e Lucy Madison, figlia di una ricca famiglia del Maryland; segnato dalla partecipazione, come volontario, al primo conflitto mondiale, da cui trasse l’ispirazione per il suo primo romanzo Iniziazione di un uomo (1917), scritto a caldo immediatamente dopo il rientro in patria, e il successivo Tre Soldati (1921) che rimane, insieme ad Addio alle armi (1929) di Hemingway e Fuoco! (1933) di William March, una delle testimonianze più importanti della letteratura nordamericana sui traumi e le sofferenze causate dal primo macello interimperialista, Dos Passos si andò radicalizzando sempre più avvicinandosi al Partito Comunista statunitense.

Sono di questo periodo più radicale, sia dal punto di vista politico e che letterario, le sue opere maggiori e il suo appassionato libello dedicato alle vicende destinate a portare nel 1927 alla sedia elettrica i militanti anarchici di origine italiana Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti: Davanti alla sedia elettrica (Facing The Chair. Story of the Americanization of Two Foreign Workers, 1927).
Ed è proprio delle diverse forme dell’americanizzazione ovvero della formazione della società americana a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, e dei destini singoli e collettivi che ne conseguono che si occupa la trama, strutturalmente complessa, della Trilogia USA.

Storie di donne e di uomini, di illusioni e delusioni, di vittorie parziali e sconfitte totali, che vedono coinvolti personaggi tratti sia dalla fantasia che dalla realtà storica contemporanea dell’autore, da John Reed a Henry Ford. Storie che si incrociano in tempi diversi nei tre romanzi oppure che corrono su binari lontani senza mai incontrarsi, ma tutte destinate a dare un ritratto veritiero e profondo, soprattutto sul piano psicologico e dell’immaginario, di quel melting pot culturale e di classe da cui sarebbe nata l’immagine moderna degli Stati Uniti e dell’American Way of Life.

Un ritratto spietato, a tratti disperato, che non lascia spazio a molte speranze, anche se soprattutto nel terzo ed ultimo romanzo della trilogia si affaccia qualche bagliore di luce alla fine del tunnel.
Ma è la scelta stilistica a colpire, ancor prima della trama, o delle trame: un montaggio narrativo ispirato sia alle avanguardie europee dei primi anni venti, che Dos Passos aveva frequentato più o meno direttamente, attraverso la frequentazione dell’abitazione di Gertrude Stein, durante il suo soggiorno parigino di quegli anni, e al montaggio cinematografico ideato dal regista sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, che l’autore avrebbe conosciuto frequentando la libreria “Shakespeare & Company” di Sylvia Beach situata sulla Rive gauche parigina.
Proprio nella stessa libreria l’autore americano aveva acquistato l’Ulysses di James Joyce che lo avrebbe ispirato per la struttura espositiva sia di Manhattan Transfer che dei tre successivi romanzi.

Tra i fondatori della rivista culturale di estrema sinistra “The New Masses”, Dos Passos entrò presto in conflitto con la progressiva stalinizzazione della sinistra americana e proprio a partire dalla guerra civile spagnola1, durante la quale lo stalinismo fece eliminare il suo traduttore e amico spagnolo José Robles Pazos2 , inizio ad allontanarsi dalla Sinistra tout court e avvicinandosi, nel corso dei decenni successivi a posizioni sempre più conservatrici.

Cessava in questo modo la fase più importante e creativa dello scrittore statunitense che, proprio per i motivi appena addotti, iniziò a subire quasi da subito gli attacchi di Ernest Hemingway e di certa critica leftist con l’intento, poi riuscito, di cancellarlo o quasi dalla storia della letteratura americana.
Atteggiamento certamente stupido e ideologicamente sovradeterminato che riuscì per parecchi anni a rimuovere l’importanza dello scrittore dal panorama letterario. Simile a quello usato, ma per motivi formalmente più fondati, nel secondo dopoguerra nei confronti di un altro gigante della letteratura mondiale: Louis-Ferdinand Céline.

I romanzi della trilogia furono publicati per la prima volta in Italia nella collana “I grandi narratori di ogni paese” della mondadoriana Medusa nel 1936 (The Forthy Second Parallel, nella traduzione di Cesare Pavese), nel 1938 (The Big Money sempre nella traduzione di Pavese) e nel 1951 ( Nineteen-Nineteen nella traduzione di Glauco Cambon), mentre per molti anni è rimasto disponibile nelle librerie, prima di scomparire per un lungo periodo di tempo, soltanto Il 42° parallelo.

Sinceramente, dopo aver conservato per anni i tre testi nelle edizioni original, non avrei mai creduto di vederli ricomparire tutti insieme in una così bella e curata edizione, in cui l’Introduzione di Cinzia Scarpino e la Nota alla traduzione di Sara Sullam rendono giustizia sia alla grandezza della scrittura di Dos Passos che all’importanza dell’opera di Cesare Pavese in quanto traduttore e rinnovatore della soffocante cultura letteraria italiana della sua epoca. Per tutti questi motivi c’è da essere veramente grati alla collana “Oscar moderni – Baobab” di Mondadori per la riscoperta e riproposizione di un autentico classico della letteratura moderna.

Proprio Cesare Pavese ebbe a dire:

La poesia di Dos Passos sta in questo modo asciutto di percepire e rendere le cose. «Joe non riuscì a guardare il film»; e questo è il punto più introspettivo di una narrazione tutta fatti esterni, inesauribilmente e nitidamente esposti, con un distacco che è giudizio morale. Attraverso questo suo orrore di tracciar svolazzi psicologici in una vita dove basta guardare e accumulare le mille parvenze per giudicare, Dos Passos si è fatto uno stile, nella sua umile oggettività ricchissimo di sfumature: sono mezzi gesti, mezze parole, oppure colori odori suoni, pieni di significato, gioiosi nella loro energia espressiva; una novità nella poesia americana, se non si risalga fino a certe pagine d’impressioni, ai jottings (appunti) disseminati nelle prose e versi di quell’altro enfant terrible di questa cultura, che è Walt Whitman.3

Una scrittura cinematografica come poche altre, dove lo scavo psicologico non si trasforma in dozzinale psicologismo, ma in cui sono gli atti, ancor prima delle parole o dei pensieri, a rendere visibile il carattere e l’etica dei personaggi. Una scrittura cinematografica che proprio nei sintetici Cine-giornali, distribuiti lungo tutto l’arco dei romanzi e realizzati con un autentica ed efficacissima tecnica di cut up di notizie e titoli di giornali, riesce a dare al lettore l’idea e la ricostruzione di un’intera epoca.

Un capolavoro del ‘900, non solo americano, che tutti gli amanti della grande letteratura dovrebbero leggere oppure riscoprire.


  1. Dos Passos dedicò alla stessa, alla rivoluzione messicana e a quella bolscevica una serie di scritti contenuti poi in J.Dos Passos, Introduzione alla guerra civile (Journeys Between Wars), pubblicato in Italia nel 1947 nella collana “Arianna” ancora una volta dalla casa editrice Mondadori  

  2. Si veda in proposito Ignacio Martínez De Pisón, Morte di un traduttore, Ugo Guanda Editore, Parma 2006  

  3. C. Pavese, John Dos Passos e il romanzo americano, saggio pubblicato su “La Cultura”, gennaio-marzo 1933, ora in C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, quinta edizione 1962, pag. 120  

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Caporetto tra rimozione, falsificazione storiografica e rivoluzione. https://www.carmillaonline.com/2017/11/29/caporetto-rimozione-falsificazione-storiografica-rivoluzione/ Wed, 29 Nov 2017 22:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41766 di Sandro Moiso

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, che si è celebrato nei giorni scorsi, è coinciso qui in Italia con l’anniversario di un altro avvenimento alla prima strettamente collegato, anche se a prima vista indirettamente. E in tal senso sembrano infatti essere indirizzate tutte le ricostruzioni storiche, celebrate sui giornali, sui media e nell’editoria di ogni tendenza, dell’ammutinamento e diserzione di massa dei soldati italiani avvenuta sul fronte di Caporetto il 24 ottobre 1917.

A un secolo di distanza sono risultate abbondanti le ricostruzioni militari e apparentemente oggettive della vicenda, riducendola [...]]]> di Sandro Moiso

Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, che si è celebrato nei giorni scorsi, è coinciso qui in Italia con l’anniversario di un altro avvenimento alla prima strettamente collegato, anche se a prima vista indirettamente. E in tal senso sembrano infatti essere indirizzate tutte le ricostruzioni storiche, celebrate sui giornali, sui media e nell’editoria di ogni tendenza, dell’ammutinamento e diserzione di massa dei soldati italiani avvenuta sul fronte di Caporetto il 24 ottobre 1917.

A un secolo di distanza sono risultate abbondanti le ricostruzioni militari e apparentemente oggettive della vicenda, riducendola quasi sempre ad una mera disfatta militare. Operando una scelta uguale e specularmente rovesciata rispetto a quella fatta per ricordare gli eventi russi dello stesso anno.
Nel caso della Rivoluzione tutti i commentatori hanno ormai data per scontata la tragedia pagata dal popolo russo a causa dell’azione bolscevica, mentre per Caporetto si è fatto finta di ristabilire democraticamente una verità rimossa, quella delle colpe delle gerarchie e delle insufficienti contromisure prese da queste nei confronti della controffensiva austriaca di quei giorni.Talvolta ricollegandola, nella peggior tradizione delle narrazioni tossiche, ad un armistizio di Brest Litovsk non ancora avvenuto all’epoca.

In entrambe, però, la vera menzogna è stata quella di rimuovere coscientemente l‘azione delle masse diseredate dalla scena della Storia. Soprattutto quando questa azione indica un colossale rifiuto delle condizioni stabilite dalle classi dominanti e dalle loro, apparentemente, immutabili leggi e regole di comportamento. E sostituendo, sul piano della ricerca e della ricostruzione, l’attenzione per il clima sociale e politico che si respira, spesso a livello sovranazionale, in un dato momento storico con ricerche specialistiche che, riducendo il campo di indagine, permettono agli storici, apparentemente così seri ed oggettivi, di selezionare le informazioni, i documenti e le testimonianze utilizzate al fine di falsificare completamente gli avvenimenti e le loro spiegazioni. Alla faccia della sempre presunta e mai raggiunta obiettività.

Affermando, come si è fatto in alcuni testi, che non si svolse alcuno sciopero dei soldati nei giorni di Caporetto si finge di ribaltare il discorso principalmente portato avanti da Cadorna, comandante delle forze armate italiane fino a quella data, e dal suo Stato Maggiore ristabilendo la verità storica e riscattare la memoria dei soldati caduti eroicamente per difendere la patria.

Ora, pur tralasciando il fatto che già all’epoca tale ribaltamento delle giustificazioni cadorniane servì per sostituire il passato comando con quello di un nuovo macellaio, Armando Diaz (il cui nome metaforicamente adornava la scuola di Genova che nel 2001 fu testimone di un altro macello operato dalle forze del disordine), che poco si distinse dal precedente in termini di umanità e di abilità tattica e che, anzi, si distinse per la mancata promessa fatta ai soldati contadini di ripagare la loro fedeltà alla Patria con la ridistribuzione delle terre demaniali ed ex-irredente, occorre considerare che nel corso del primo macello imperialista pochissimi furono i generali di qualsiasi schieramento a tenere in considerazione parametri tattici e strategici che non fossero quelli del massimo volume di fuoco ottenibile dal proprio retroterra economico e industriale e l’utilizzo delle fanterie e, in genere di tutte le truppe impegnate al fronte, come autentica carne da cannone. In una guerra imperialista che risolse il problema della disoccupazione maschile più che con l’aumento della produzione, che ricadde in gran parte sulle spalle di coloro che già erano impegnati nelle officine e a cui si affiancarono in maniera significativa le donne, ancor più con la macellazione diretta nelle trincee e nelle terre di nessuno di milioni di giovani impegnati nel conflitto.

Quel primo e immondo conflitto imperialista causò sui vari fronti tra i dieci e i quindici milioni di morti e dispersi e rispedì verso casa almeno venti milioni di feriti e mutilati.
Basterebbero questi semplici e drammatici numeri a far comprendere che non era forse necessario alcuno sciopero organizzato dei soldati a far sì che le truppe fossero stanche di combattere e che a casa le famiglie dei soldati non volessero altro che la fine della guerra e il loro ritorno a casa. Famiglie proletarie e ancor più spesso contadine che con i giovani figli e mariti avevano spesso perso non solo degli affetti, ma anche un contributo importante all’interno dell’economia, spesso di sopravvivenza, famigliare.

Donne e famiglie che già agli albori del conflitto si erano impegnate nella lotta contro la mobilitazione generale e la guerra e classi sociali che, soprattutto in Italia, avevano seguito una via ben diversa, e maggioritaria, rispetto a quella intrapresa dai nazionalisti e dagli interventisti di ogni colore.1 Una mobilitazione così vasta che aveva costretto il Partito Socialista Italiano, unico tra quelli aderenti alla Seconda Internazionale e grazie anche alle ambiguità e contraddizioni delle classi dirigenti italiane indecise tra Triplice Intesa e Triplice Alleanza di cui pure l’Italia faceva parte, ad accontentarsi di una parola d’ordine apparentemente poco militarista, ma sicuramente rappresentativa dei timori socialisti, come Né aderire, né sabotare. Parola d’ordine che sarà duramente pagata dai proletari, dai contadini e dalle donne italiane proprio quando, come a Caporetto, raggiungeranno il culmine della disperazione e dell’odio per le classi dirigenti.

Se è vero che nel solo 1916 più di un milione e mezzo di soldati russi avevano abbandonato le trincee occidentali e l’esercito zarista, iniziando quella rivoluzione fatta con i piedi ovvero con l’allontanamento dai luoghi degli scontri per fare ritorno a casa, è anche vero che proprio in quell’anno, sul fronte italiano e a poco più di due anni dall’inizio dell’intervento a fianco dell’Intesa, il testo di una canzone come Gorizia tu sei maledetta,2 poi ripresa anche in tedesco e in slavo, segnalava dal basso una stanchezza e una voglia di rivincita inedita nei confronti delle classi dominanti e dei vertici dell’esercito. Nel giro di pochi giorni, per la conquista della città, nel mese di agosto 1916 erano caduti almeno 21.000 soldati italiani e almeno 10.000 austriaci.

La canzone era figlia di quei giorni, prodotta dal momento come lo è tutta la musica autenticamente popolare o folk. Ma come tale non sembra ancora accettata come documento dell’immaginario collettivo prodotto dal basso. Tanto è vero che costituì a lungo motivo di scandalo e non solo negli anni più vicini al conflitto mondiale, ma anche più tardi come quando fu eseguita nel 1964 dal Nuovo Canzoniere Italiano in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto all’interno dello spettacolo “Bella ciao”:

suscitando l’ira dei benpensanti. Quando Michele L. Straniero e Fausto Amodei iniziarono a cantare “Gorizia” avvennero incidenti in sala; la destra cercò di impedire le rappresentazioni; Straniero, Leydi, Crivelli e Bosio furono denunciati per vilipendio delle forze armate.3

I versi della canzone sembrerebbero in sé già piuttosto espliciti:

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letti di lana,
schernitori di noi carne umana,
questa guerra ci insegna a punir.
Voi chiamate il campo d’onore
questa terra di là dei confini;
qui si muore gridando: assassini!
Maledetti sarete un dì.

Ma basterebbe dare un’occhiata più attenta a un altro tipo di documenti, le lettere inviate dai soldati a casa e censurate dagli organismi militari preposti, per comprendere ancora di più lo stato d’animo che serpeggiva nelle trincee dal 1916.
Ne propongo qui di seguito alcune scelte a caso tra le tante.

Porco Dio, fanno bene a dare il pane ammuffito così finirà presto la guerra! Ed io ho piacere, popolo cornuto e bastonato, vuoi continuare a fare la guerra? Ma ribellatevi, uccidete tutti gli ufficiali e che sia finita!

Oppure:

Io sono un ufficiale per forza, e non ho voluto la guerra e ho quasi fatto a cazzotti prima della guerra con gli studenti che facevano le manifestazioni interventiste. La guerra è stata voluta da due o tre gruppi di mascalzoni.4

Due tra le tante si diceva. Ma se ancora non bastassero le lettere proviamo a rivolgerci ad altre fonti, anche di testimoni non di parte come soldati o anarchici e socialisti contrari alla guerra.

Il fenomeno di Caporetto è un fenomeno schiettamente sociale.
E’ una rivoluzione.
E’ la rivolta di una classe, di una mentalità, di uno stato d’animo, contro un’altra classe. Un’altra meentalità, un altro stato d’animo.
E’ una forma di lotta di classe. I sintomi che l’hanno preceduto e accompagnato sono quelli di un perturbamento sociale: sono gli stessi che hanno preceduto e accompagnato tutti i perturbamenti sociali.

La fanteria, nell’annata 1917, era grandemente «demoralizzata». Non credeva più a nulla, non aveva più fiducia in nessuno. Voleva la pace, a qualunque costo.
Le Brigate che si rifiutavano di combattere, i soldati che prolungavano, motu proprio, le licenze, gli ufficiali che si lagnavano pubblicamente, tutto ciò era monito e minaccia. […]
L’offensiva di Maggio aveva fiaccato la resistenza dei fanti, quella di Agosto. Condotta brutalmente e a forza dai carabinieri, aveva messo a nudo le piaghe di cui soffriva il popolo delle trincee.
Gli atti di insubordinazione divenivano ogni giorno più gravi. La caccia ai carabinieri diventava sempre più feroce. L’odio dei soldati si manifestava in atti di natura prettamente sociale. […]
I casi di rivolta contro gli ufficiali erano rarissimi: i fanti apprezzavano e rispettavano i superiori diretti, quelli che dividevano con loro la paglia, il pane e la buca merdosa. E’ vero che, talvolta, li uccidevano a fucilate nella schiena: ma non per malvagità o per spirito d delinquenza. Per vendetta. La vendetta presuppone un torto. In ogni ufficiale ucciso dai propri soldati vi era un colpevole. […] Il fante non uccideva i carabinieri, non sparava contro le automobili dei generali, contro le colonne di camions, contro le baracche dei campi di aviazione, contro le finestre illuminate degli Alti Comandi, il fante non commetteva questi atti di indisciplina per «insofferenza della disciplina», o per istinti criminali, bensì per ragioni profondamente umane e sociali. […] In tutti coloro che soffiavano sul fuoco, predicavano la necessità del sacrificio, declamavano concioni patriottiche, sventolavano bandiere nelle comode vie delle comodissime città dell’interno, in tutti coloro che spingevano alla guerra senza farla e senza capirla, il fante vedeva un nemico.5

Un altro testimone di Caporetto fu l’americano Ernest Hemingway che proprio nel suo romanzo Addio alle armi, pubblicato nel1929, parzialmente basato su esperienze personali dello scrittore che negli ultimi mesi della grande guerra aveva prestato servizio come conducente di ambulanza, racconta una storia che si svolge in Italia prima, durante e dopo la battaglia di Caporetto.
Nel narrare le vicende l’autore ricorderà gli ufficiali fucilati dai soldati mentre cercavano di fermare la loro ritirata dal fronte e giungerà alla conclusione che i disertori non sono altro che soldati che hanno avuto il coraggio di firmare una pace separata con il nemico.

Poiché il clima sociale e politico non si era creato soltanto nelle trincee e soltanto in Italia occorre ricordare ancora alcuni altri fatti.
Nella primavera del 1917, tra aprile e giugno, migliaia di soldati francesi avevano abbandonato le trincee. La parola d’ordine era Facciamo come in Russia!, ma nessun partito la raccolse e la fece propria e così anche l’ammutinamento francese finì con fucilazioni esemplari e condanne dei militari ribelli.6

A Torino, nell’agosto dello stesso anno gli operai e le operaie dello stesso anno erano scesi in sciopero e avevano preso le armi, occupato i quartieri proletari e le fabbriche, costruito barricate e coinvolto e disarmato alcuni reparti inviati per sconfigger e la rivolta. Mentre gli anarchici si diedero da fare per organizzare le sparse, e alla fine sconfitte forze proletarie, i pochi militanti del Partito Socialista presenti in città (una trentina), dopo aver invitato le maestranze a tornare al lavoro, decisero di appoggiare la protesta ma senza dare, se non generiche, indicazioni politiche.7 Non fecero miglior figura i futuri fondatori del PCd’I, nemmeno i più intransigenti tra di loro, che nello stesso periodo non pubblicarono un rigo sull’argomento Torino o Caporetto.8

La rivoluzione però sembrava bussare alle porte e non solo in Russia dove il 7 novembre si sarebbe risolta con l’avvio del governo dei Soviet che avrebbero sostituito il governo provvisorio in carica ormai dai primi di marzo quando, grazie soprattutto all’Ordine numero 1 dettato direttamente dai rappresentanti dei soldati al Soviet di Pietrogrado, il vecchio regime zarista si era ritrovato con un esercito su cui non poteva più fare affidamento come in passato e lo zar Nicola aveva abdicato a favore del fratello che a sua volta non accettò l’incarico di reggere un paese in rivolta. Lo strumento classico della controrivoluzione nazionale e internazionale si era infatti trasformato nello strumento della rivoluzione.

Così, nonostante l’insipienza delle forze politiche italiane, soprattutto di quelle socialiste nelle loro diverse declinazioni, ma grazie alle ripetute iniziative dal basso, nelle trincee, nelle città e nelle campagne, il Governo decise di affidare al Direttore generale di pubblica sicurezza il compito di riferire con relazioni periodiche riassuntive le Condizioni dello spirito pubblico nel Regno.
La prima fu redatta in data in data 8 febbraio 1918 e portava come titolo il seguente: MOVIMENTO SOVVERSIVO ED ANTIBELLICO NEL REGNO DURANTE I MESI DI DICEMBRE 1917 E GENNAIO 1918.
Alla prima seguirono altre venti, attente relazioni, l’ultima in data 19 novembre 1918 a guerra sostanzialmente finita.9

L’iniziativa si deve collocare all’interno di quella ripresa di efficienza del potere centrale nel periodo successivo a Caporetto, che ebbe il suo fulcro nella riorganizzazione del ministero degli Interni e dei suoi organi periferici, e nel più stretto controllo del centro sulla periferia; ma essa riflette anche l’accresciuta preoccupazione delle sfere politiche nei confronti dei pericoli di moti insurrezionali, che dopo Caporetto si temeva potessero coinvolgere il paese.10

Il timore era forte e perfettamente giustificato, poiché la guerra imperialista aveva suscitato un’ira implacabile nei confronti delle classi dirigenti, dei governi, delle monarchie, della borghesia e del capitalismo tout court. Non solo il dopoguerra europeo, soprattutto nei paesi “sconfitti” sarebbe stato segnato dall’azione armata di operai e soldati che erano sopravvissuti alle trincee e che intendevano far pagare ai veri responsabili le proprie inumane sofferenze,11 la follia che ne era derivata per un numero di combattenti che non sarebbero mai più tornati alla normalità,12 e le leggi draconiane applicate per la diserzione e l’autolesionismo tra i soldati che avevano cercato di sfuggire all’infernale tritacarne del conflitto o che anche soltanto avevano criticato la guerra o gli alti comandi.13

Su quest’ultimo punto basti citare un singolo episodio. Durante una cena tra quattro giovani aspiranti ufficiali degli alpini, subito dopo Caporetto, uno dei quattro forse più loquace o più spregiudicato, afferma che la guerra è ingiusta, aggiungendo:

«Ho piacere che abbiano sfondato le linee (gli austriaci – NdR). Magari arrivassero a Milano, così sarebbe finita per tutti». I colleghi ammutoliscono. Si alzano e appena fuori vanno a denunciare il collega ai carabinieri. Cinque giorni dopo il Tribunale militare di guerra del XX corpo d’armata condanna per tradimento l’aspirante ufficiale alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena. La sentenza viene eseguita nella stessa giornata.14

L’Italia avrà il triste primato delle condanne a morte comminate dai tribunali militari in tempo di guerra:

Nel corso della Grande Guerra, davanti ai tribunali militari comparvero 323.527 imputati di cui 262.481 in divisa, 61.927 civili e 1.119 prigionieri di guerra. Le condanne interessarono il 60 per cento dei processi. 4.028 dibattimenti si conclusero con la pena capitale (2.967 con gli imputati contumaci). Le sentenze di morte eseguite furono 750.15

Cui forse dovrebbero essere aggiunti tutti quei soldati che furono abbattuti sul posto dagli ufficiali o dai carabinieri per impedirne l’ammutinamento o anche soltanto la fuga dalla trincea.

Soltanto tra il 1917 e il 1920 furono più di venti i rivolgimenti armati o i rovesciamenti violenti del potere costituito nell’area dell’Europa orientale e della Mitteleuropa,16 ma ciò che occorre qui sottolineare è che il grande macello ebbe fine proprio grazie alle rivolte dei soldati, dei marinai e degli operai delle industrie belliche tedesche che con la loro mobilitazione nel novembre del 1918 costrinsero il Kaiser ad abdicare, imposero la fine della guerra e la nascita della Repubblica.

Sarebbe qui troppo lungo narrare la storia di quei giorni, le contraddizioni, lo scontro tra Socialdemocrazia tedesca e forze rivoluzionarie, ma certo è che l’esempio russo di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile e rivoluzionaria aveva dato i suoi frutti in gran parte del continente coinvolto nella guerra.

Non solo. Anche la guerra civile russa, animata dalle potenze imperialiste contro la novella repubblica dei soviet e a fianco dei generali “bianchi”, fu in gran parte debellata grazie proprio all’ammutinamento delle truppe straniere inviate sul territorio sovietico per sconfiggere la rivoluzione. I soldati inglesi e di altre nazionalità si ammutinarono a Murmansk e ad Arkhangelsk, mentre i marinai francesi inviati con la flotta nel Mar Nero si ammutinarono ad Odessa. Così, mentre i venti di rivolta spiravano anche tra le truppe americane dislocate nell’oriente siberiano, alla fine del 1919 tutte le truppe straniere dislocate sul suolo sovietico erano state ritirate dal fronte, condannando di fatto alla definitiva disfatta le raffazzonate armate bianche, in cui la diserzione già dilagava, di Kolchak, Denikin e Wrangel.

Ancora una volta per una sintetica ricostruzione dello sciopero, indetto a partire dall’autunno del ’19, dai portuali americani di Seattle per impedire l’invio di armi al fronte controrivoluzionario e del vero e proprio rifiuto dei soldati di continuare a combattere per la causa dei Bianchi, ci assiste un romanzo, scritto non a caso negli anni dell’intervento americano in Vietnam.

Gli scaricatori di Seattle ficcarono le mani nelle tasche dei loro giacconi bagnati e abbandonarono il lavoro. I marinai francesi di Odessa, atterriti dalla loro stessa audacia, si ammutinarono piuttosto che continuare a combattere i Rossi. Le forze inglesi e gli americani che prestavano sotto gli ufficiali britannici a Arcangelo e Murmansk, avevano già avuto la prova delle renitenza dei soldati quando avevano ricevuto l’ordine di avanzare contro le forze dell’Armata Rossa.
Nell’aria c’era un terribile senso di resistenza.
I consulenti in materia di investimenti rabbrividirono e cominciarono a consigliare ai propri clienti di scaricare o vendere subito certe azioni che neanche tre mesi prima erano in rialzo […] Generali e statisti erano allibiti, perché il loro vocabolario tradizionale, i loro appelli al patriottismo, agli ideali, all’abnegazione e alla gloria si dimostravano inefficaci contro l’infezione della renitenza. Le truppe fresche che giungevano in linea erano non meno riluttanti di quelle che al fronte c’erano da mesi. Anzi lo erano di più.[…] Indifferenza, inerzia e riluttanza piovevano su tutti i fronti. Gli eserciti si muovevano qua e là con passo pesante e affaticato aspettando il caos che li liberasse.17

Molti di quei soldati, giovani, arrabbiati, delusi e disoccupati al loro ritorno in patria, furono anche quelli che diedero vita alle prime formazioni armate di autodifesa e offensiva proletaria. Come accadde in Italia dove furono proprio le formazioni volontarie di ex-combattenti, quelle che poi diventarono gli Arditi del popolo, a fronteggiare più volte vittoriosamente i fascisti.18 Con buona pace di chi, soprattutto nel PCd’I, metteva avanti l’idea di mantenere una netta separazione tra le squadre armate del Partito e, ancora una volta, le iniziative dal basso.

La guerra imperialista trasformata in guerra civile rivoluzionaria, questo è ciò che separò allora e separerà ancora e sempre l’antimilitarismo anti-imperialista dal pacifismo generico, sempre pronto ad ammettere la necessità di una guerra nazionale difensiva. Il rovesciamento dell’esercito da strumento di repressione ad arma della Rivoluzione, è ciò che caratterizzerà sempre l’antimilitarismo rivoluzionario da quello falsamente pacifista e democratico. La ricerca della verità nei fatti e nelle testimonianze dei ceti meno abbienti e nelle loro espressioni culturali e politiche, nell’immaginario che le ha accompagnate o che ne è conseguito è ciò che differenzia una storiografia realmente antagonista da quella perbenista e giustificazionista degli studiosi che, anche indirettamente, difendono l’attuale ordine di cose presente attraverso l’obiettività, sempre presunta e mai raggiunta, dell’utilizzo delle fonti ufficiali e delle testimonianze raccolta dalle commissioni di inchiesta governative. Dando così vita ad una ricostruzione dei fatti volta soltanto a giustificare l’ingiustificabile: la guerra imperialista, i partiti borghesi ed opportunisti, gli interessi economici e “nazionali”, la vigliaccheria dei rivoluzionari da operetta.

Dove, infine, tale scelta dei soldati e dei giovani richiamati diventò importante anche senza giungere ad una vera e propria rivoluzione, come nei casi degli Stati Uniti impegnati in Vietnam e del Portogallo degli anni settanta, la scelta di disertare, ammutinarsi o uccidere i propri ufficiali sul campo si dimostrò essere sempre, oltre che inevitabile, quella migliore per il destino e la coscienza della comunità umana nel suo complesso.
Così, anche là dove l’iniziativa resta individuale o casualmente collettiva come nel caso della diserzione, occorre aver ben chiaro che di fronte all’inciviltà dei macelli imperialisti la fuga, il rifiuto di combattere e la spontanea ritirata, come avvenne a Caporetto, rappresentano ancora una scelta migliore e più civile della cieca obbedienza agli ordini superiori.


  1. Si confronti : https://www.carmillaonline.com/2014/11/20/guerra-guerra/  

  2. cfr. https://www.carmillaonline.com/2016/08/06/gorizia-lattuale/  

  3. Cfr: https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=47&lang=it  

  4. Tratte da Quinto Antonelli, Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Donzelli 2014, pag.251  

  5. Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Vallecchi 1995 (secondo il testo della prima edizione 1921), pp.119-121  

  6. Pietro Caporilli, Francia 1917. Gli ammutinamenti nelle trincee, Genova 1989 (prima edizione italiana 1934)  

  7. cfr. Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Einaudi 1958, pp.416-430  

  8. cfr: Amadeo Bordiga, Scritti 191-1926. La guerra, la rivoluzione russa e la nuova Internazionale 1914-1918, Graphos 1998  

  9. Giovanni Procacci, “Condizioni dello spirito pubblico nel Regno”: i rapporti del Direttore generale di Pubblica sicurezza nel 1918, in Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, DI FRONTE ALLA GRANDE GUERRA. Militari e civili tra coercizione e rivolta, il lavoro editoriale, Ancona 1997, pp.177-247  

  10. Procacci, op.cit. pag.177  

  11. Si consulti per il livello di sofferenza raggiunto nelle trincee europee del conflitto 1914-18: John Keegan, Il volto della battaglia, Mondadori 1978.  

  12. cfr: Antonio Gibelli, L’OFFICINA DELLA GUERRA. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringieri 1991 e, ancora, Antonio Gibelli, La guerra laboratorio: eserciti e igiene sociale verso la guerra totale in LA GUERRA VISSUTA. Fronte, fronte interno e società, MOVIMENTO OPERAIO E SOCIALISTA (nuova serie), anno 3 n° 5, 1982, pp.335-349  

  13. Cfr: Enzo Forcella e Alberto Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza 1968  

  14. Forcella – Monticone, op.cit. pag. VII  

  15. Dino Martirano, L’onore (perduto ma restituito) dei soldati italiani fucilati nella Grande Guerra, Corriere della sera, 21 maggio 2015  

  16. Cfr: Robert Gerwarth, La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923, Laterza 2017  

  17. Ric Hardman, Fifteen Flags, 1968 – traduzione italiana Quindici bandiere, Arnoldo Mondadori 1971, pp.456-458  

  18. Cfr: Valerio Gentili, Roma combattente. Dal Biennio Rosso agli arditi del popolo, la storia mai raccontata degli uomini e delle organizzazioni che inventarono la lotta armata in Italia, Castelvecchi 2010  

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Mark Twain o della modernità https://www.carmillaonline.com/2014/12/27/mark-twain-modernita/ Fri, 26 Dec 2014 23:01:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19661 di Sandro Moiso

twain 1 Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli 2014, pp. 470, € 35,00

“Tutta la letteratura americana moderna discende da un libro di Mark Twain intitolato «Huckleberry Finn» […] è il libro migliore che abbiamo avuto. Tutta la prosa americana viene da lì. Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo”.1 Non molti critici hanno dato retta, per buona parte del ‘900, al giudizio chiaro e sintetico di Hemingway su Mark Twain e sul suo libro più importante. [...]]]> di Sandro Moiso

twain 1 Mark Twain, Autobiografia (da pubblicare cent’anni dopo la morte secondo la volontà dell’autore), Donzelli 2014, pp. 470, € 35,00

“Tutta la letteratura americana moderna discende da un libro di Mark Twain intitolato «Huckleberry Finn» […] è il libro migliore che abbiamo avuto. Tutta la prosa americana viene da lì. Non c’era niente prima. E non c’è stato niente del genere dopo”.1 Non molti critici hanno dato retta, per buona parte del ‘900, al giudizio chiaro e sintetico di Hemingway su Mark Twain e sul suo libro più importante. Anzi, per un lungo periodo, l’autore americano è stato trattato con la bonomia destinata agli umoristi e agli autori di romanzi per ragazzi. Quando, addirittura, non è stato relegato al rango di semplice rappresentante del populismo americano.

Niente di più sbagliato, naturalmente. Elio Vittorini, nel 1941, ebbe già a scrivere di lui: ”Nato (Samuel Langhorne Clemens per lo stato civile) l’anno 1835, nel Middle West, sul Mississippi, morì l’anno 1910. Fu, nella vita, uno di quelli che aprirono le vie dell’Ovest: un pioniere. Pilota sul grande fiume, cercatore d’oro, agricoltore, uomo d’affari, infine giornalista e romanziere. Ebbe molta popolarità, più che ogni altro scrittore americano di prima e di dopo”.2

La sua biografia lo avvicina infatti ad un percorso simile a quello di scrittori come Jack London o Jack Kerouac, accomunati, pur in periodi diversi, da una scrittura fortemente influenzata dalle esperienze di vita e lavorative precedenti il momento della scrittura. In Twain, però, più che negli altri la ricostruzione del proprio percorso esistenziale diventa motivo centrale e quasi ossessivo di alcune delle sue opere più importanti: Life on the Mississippi 3 e Roughing It4 oltre alla presente Autobiografia.

Della quale erano già stati pubblicati spezzoni in altre opere oppure una versione in cui gli episodi narrati erano stati messi in ordine cronologico nel 1959, dal suo curatore Charles Neider5 che aveva anche provveduto a censurarne i tratti più feroci, o, ancora prima, riordinata nel 1924 da Bigelow Paine, che aveva sovrinteso alla dettatura della stessa da parte di Twain in diversi periodi compresi tra il 1906 e il 1910.

Lo stesso Twain aveva confidato, in uno scritto del 1906, che: ”Il mio sistema si fonda su una completa e deliberata confusione: non ha un punto di partenza, non segue nessuna rotta e forse non raggiungerà una meta finché vivo”, aggiungendo poi che l’opera avrebbe dovuto essere pubblicata postuma, possibilmente a cent’anni dalla sua morte. Ed è proprio questa confusione che l’edizione attuale, condotta seguendo l’ordine dei testi stabilito dall’edizione originale a cura di Harriet Elinor Smith nell’ambito del «Mark Twain Project», presso la Bancroft Library, e pubblicata in accordo con l’Università della California nel 2010, ristabilisce.

Confusione che, a più di cent’anni dalla morte dell’autore, è essenziale per comprenderne l’importanza e la modernità. Non solo all’interno dell’evoluzione della letteratura nord-americana.
Perché se è vero che noi possiamo rintracciare la lezione di Mark Twain in molti dei più importanti autori americani del ‘900 ( da Thomas Pynchon a Kurt Vonnegut e da Ernest Hemingway a Elmore Leonard passando anche per William Faulkner e Raymond Carver), questo è dovuto principalmente al cinismo e alla grande babele linguistica, con utilizzo di registri lontanissimi tra di loro, di cui l’ex-battelliere del Mississippi fu sicuramente maestro.

Cinismo, umorismo e dialoghi tratti spesso non solo dalla quotidianità della nascente nazione, ma anche dalla tradizione orale che ne accompagnava la narrazione e di cui i tall tales, i racconti esagerati, costituivano la manifestazione più tipica ed esilarante. Oralità che sta alla base del ritmo e della narrazione di Twain, ma che si è anche saldamente instaurata nella tradizione dei brillanti, vivaci e realistici dialoghi tipici della narrativa e della cinematografia americana moderna.
Se Tarantino infatti rivendica in Leonard l’ispiratore di suoi dialoghi, è anche vero che lo stesso Leonard fu molto onorato di sentirsi una volta paragonato a Mark Twain. Proprio per l’ironia e vivacità dei suoi dialoghi.

Ma nell’Autobiografia la tradizione orale, che l’autore volle apparentemente salvaguardare dettando e non scrivendo direttamente l’opera, si fa flusso di coscienza ininterrotto, in cui episodi grandi e piccoli, tracce di ricordi e di umori si ricollegano gli uni agli altri in uno stile estremamente moderno che si spinge, per paragone, fino a Marcel Proust e James Joyce oppure all’inglese B.S.Johnson, senza tralasciare la rabbia e l’ipocondri di un Céline nelle invettive. Perché, molto probabilmente, una vita non può essere ridotta a mera sequenza cronologica di avvenimenti.
E fu forse la coscienza della modernità, ancora eccessiva per molti critici attuali, della propria narrazione, in cui il tempo interiore si espandeva voluttuosamente oltre e al di sopra del tempo dei calendari e degli orologi, che spinse l’autore a chiedere che l’opera fosse pubblicata cento anni dopo la sua morte.

Non per viltà, come qualche critico o autore moderno, pavido e insicuro potrebbe pensare, ma proprio per il fatto che lo stesso autore, giunto ormai alla fine dei suoi anni attraverso un percorso dolorosissimo, durante il quale tutte e due le figlie e la moglie vennero a mancare prima di lui, si era reso conto della bigotteria e del tradizionalismo che lo circondavano e dell’incapacità della società americana di realizzare quel sogno di libertà di cui aveva rappresentato soltanto una vaga promessa.

Sogno che, troppo presto, si era tramutato in un delirio imperialistico che, dopo essersi arricchito con lo sfruttamento degli schiavi neri e lo sterminio dei popoli nativi, stava rivolgendo le sue armi verso il resto del mondo. Nell’Autobiografia sono pagine terribili, di sanguinolente denuncia, quelle che Twain dedica alla conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti durante la guerra con la Spagna della fine dell’ottocento. Pagine che trovano il loro termine di paragone soltanto nello scritto aspro e crudele che lo stesso autore aveva dedicato al dominio imperialista belga sul Congo nel “Soliloquio di Re Leopoldo6 o ad altri episodi del dominio imperialista occidentale sul resto del mondo.

Anti-imperialismo e anti-colonialismo che, al contrario di ciò che molti pensavano e tutt’ora pensano del suo populismo, lo aveva sospinto, proprio durante gli ultimi anni della sua vita, a simpatizzare per il socialismo russo. Simpatia di cui troviamo traccia proprio nelle ultime pagine dell’Autobiografia, in un messaggio che l’autore invia ad un rappresentante del socialismo russo, in esilio dopo la fallita rivoluzione del 1905, che stava percorrendo gli Stati Uniti in cerca di fondi a sostegno dei partiti rivoluzionari attivi nell’impero zarista.

Scriveva infatti a Tchaykoffsky: “Alla rivoluzione russa va la mia solidarietà, ovviamente. Non c’è bisogno di dirlo. Spero che abbia successo, e adesso che ho parlato con lei sono certo che così sarà. E’ stato tollerato più che abbastanza, secondo me, un governo che usa false promesse, menzogne, inganni e il coltello dal macellaio a beneficio di una singola famiglia di parassiti e dei suoi oziosi, maligni parenti. E si spera che il sollevamento della nazione, la cui forza cresce, presto vi metterà fine e creerà al suo posto la repubblica. Possano alcuni di noi, perfino chi ha i capelli bianchi, vivere fino a vedere il benedetto giorno in cui fra di voi ci sarà la stessa penuria di Zar e Granduchi come sono certo che ci sia in paradiso” (pp.456-457).

E affinché il militante russo non si illudesse troppo sulla democrazia americana, a fronte dell’entusiasmo dimostrato dallo stesso per una colletta di due milioni di dollari raccolta negli Stati Uniti a favore della Russia rivoluzionaria, in un dialogo riportato ancora nell’Autobiografia, Twain rispondeva: “Quei soldi non sono venuti da americani, sono venuti da ebrei; molti da ebrei ricchi, ma la gran parte da ebrei russi e polacchi dello East Side – vale a dire, dai più poveri” (pag. 455).

Del libro vanno infine sottolineate la bella traduzione e l’introduzione a cura di Salvatore Proietti, curatissime entrambe.

* * *

twain 2Mark Twain, Autobiografia del cavallo di Buffalo Bill, Mattioli 1885, 2013, pp. 106, € 9,90

Mark Twain, Visite in Paradiso e istruzioni per l’aldilà, Mattioli 1885, 2014, pp.118, € 9,90

I due libricini, pubblicati nell’ambito della ristampa dell’opera integrale di Mark Twain da parte dell’editore Mattioli 1885, contengono alcuni di quegli scritti che tanto resero famoso l’autore americano presso il grande pubblico già durante la sua vita. Entrambi, però, sono frutto, come l’Autobiografia, della fase finale della vita di Samuel Langhorne Clemens. Il primo pubblicato nel 1906 e il secondo nel 1909, a sei mesi dalla morte.

Pur essendo nati come racconti destinati alla pubblicazione si rivista, i due testi possono essere letti in parallelo con la precedente autobiografia, poiché ritroviamo in essi elementi che li accomunano alla stessa. Ma questo, occorre ribadirlo, è dovuto sicuramente al fatto che, ripresa nel suo insieme, l’opera di Twain si rivela come un gigantesco work in progress in cui l’autore torna e ritorna sempre su temi ed episodi legati alla sua vita e alle sue polemiche. Come un assassino sul luogo del delitto verrebbe quasi da dire.

In particolare nel primo dei due, guarda caso un’altra “autobiografia” anche se di un cavallo, scritto contro i maltrattamenti a cui venivano sottoposti gli animali, e in particolare i tori durante le corride, riprende indirettamente un motivo drammatico della propria recente esistenza: la morte per meningite dell’amatissima figlia Susy, avvenuta mentre l’autore era in viaggio in Europa con las moglie. Tale disgrazia costituisce un motivo ricorrente dell’Autobiografia, dove alle pagine dettate da Twain si alternano brevi note tratte dal diario o dalla biografia della figlia scomparsa, mentre qui egli cesella nel personaggio immaginario della piccola Cathy, destinata a morire tragicamente, un ritratto della figlia scomparso, soprattutto attraverso i comportamenti.

La polemica con la società americana della sua epoca, però, esplode anche qui con la solita cattiveria, usando il parametro dei maltrattamenti degli animali per misurare anche la condizione umana nella Land of Freedom. Ecco come si risolve, ad esempio, un dialogo tra due personaggi del racconto sul destino dei tori durante la corrida:

Il toro viene sempre ucciso?
Sì. A volte si intimidisce, trovandosi in un luogo così strano, e, tremante, rimane fermo, o cerca di ritirarsi. Allora tutti lo disprezzano per la codardia e le gente vuole che sia punito e messo in ridicolo; per cui, da dietro, gli tagliano i garretti, ed è la cosa più divertente del mondo vederlo zoppicare in giro sulle zampe recise; tutto l’anfiteatro scoppia in un uragano di risate; nel vedere una cosa del genere, io stesso risi fino a che le lacrime mi scesero lungo le guance. Dopo essersi esibito fino al massimo in cui gli riesce di farlo, non è più utile ed è ucciso.
Beh, assolutamente grande, Antonio, perfettamente bello. Arrostire un negro mica lo batte.” (pag.86)

Il breve romanzo è una girandola di invenzioni linguistiche in cui tutte le vicende sono narrate attraverso i dialoghi tra animali parlanti oppure lettere che gli uomini si scrivono tra di loro, quasi che ad avere diritto di parola nel libro siano soltanto gli animali (cavalli, cani, tori) e non gli esseri umani. Che quel dono hanno sprecato. E sarà proprio per questo, forse, che due cavalli, interrogandosi sull’aldilà, giungeranno alle seguenti conclusioni:
Quando noi moriamo andiamo in paradiso e viviamo con gli umani?
Mio padre pensava di no. Era dell’opinione che non siamo costretti a finire lì a meno che non ce lo siamo meritato.” (pag.88)

Meno drammatico del precedente, il secondo testo riprende invece il tema del viaggio nell’aldilà con un afflato ironico e visionario che, soprattutto nella descrizione della corsa delle anime attraverso le galassie, ricorda ed anticipa a tratti i romanzi di fantascienza di Olaf Stapledon e le prime space opera. Anche se, ancora una volta, per Twain il motivo centrale è quello di ironizzare sulle convinzioni bigotte e ingenue di coloro che credono in un aldilà di tipo religioso. twain 3

Egli costruisce così un paradiso in cui si incrociano le caratteristiche di tutte le religioni rivelate ed anche di quelle sconosciute, provenienti magari da galassie distanti milioni di anni luce dal nostro pianeta, paragonabile per dimensioni ed importanza “ ad una cacca di mosca sulla mappa degli Stati Uniti”. Dando vita ad un sincretismo religioso cacofonico e divertentissimo, dove basta sbagliare indirizzo o porta di ingresso per non essere riconosciuti e confusi dagli angeli o dai profeti di guardia.

Un paradiso dove ad essere famosi ed importanti sono, però, gli sconosciuti, le persone qualunque: ubriaconi, baristi, piccoli artigiani. Spesso più importanti di Shakespeare e Omero oppure delle figure bibliche. E in cui la cosa più noiosa, da cui prima o poi tutti fuggono, è proprio quella di stare in contemplazione, suonando l’arpa e portando un’aureola intorno al capo.
Un Paradiso molto alla Twain quindi, dove tutto viene capovolto e destrutturato.
Un aldilà di cui l’autore, a sei mesi dalla morte, si prende ancora, irriducibilmente, gioco. Con grandissimo divertimento per chi legge.

In un contesto “fantastico” in cui, però, anche la corsa con le comete affrontata dall’anima del protagonista, il comandante Stormfield, rinvia ancora una volta alla biografia dell’autore, visto che la cometa di Halley accompagnò con il suo passaggio sia la sua nascita nel 1835 che la sua morte nel 1910.


  1. Ernest Hemingway, Verdi colline d’Africa  

  2. Elio Vittorini (a cura di), Americana, Casa Editrice Valentino Bompiani 1941, V edizione 1968, pag.246  

  3. Vita sul Mississippi, Mattioli 1885, 2006  

  4. In cerca di guai, Adelphi 1993  

  5. Autobiografia, Garzanti 1998, precedentemente edito da Neri Pozza  

  6. Mark Twain, Contro l’imperialismo (a cura di Mario Maffi), Mattioli 1885 2009  

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Guerra alla guerra https://www.carmillaonline.com/2014/11/20/guerra-guerra/ Wed, 19 Nov 2014 23:01:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18852 di Sandro Moiso

ammutinatiMarco Rossi, Gli ammutinati delle trincee, Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale 1911-1918, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp.86, € 10,00

“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi. Moriremo per un’altra guerra più terribile di questa ma questa guerra sarà contro di voi e a tutti i pari vostri” (lettera a Vittorio Emanuele III, Salandra, Sonnino; maggio 1915)

La retorica nazionalista della guerra per la patria non ha mai smesso di cercare di affermarsi nei media, nei peggiori libri di storia e nel discorso politico, anche a cento anni di [...]]]> di Sandro Moiso

ammutinatiMarco Rossi, Gli ammutinati delle trincee, Dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale 1911-1918, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp.86, € 10,00

“Armateci pure o uomini sanguinari che l’ora della riscossa è suonata anche per noi. Moriremo per un’altra guerra più terribile di questa ma questa guerra sarà contro di voi e a tutti i pari vostri” (lettera a Vittorio Emanuele III, Salandra, Sonnino; maggio 1915)

La retorica nazionalista della guerra per la patria non ha mai smesso di cercare di affermarsi nei media, nei peggiori libri di storia e nel discorso politico, anche a cento anni di distanza dalla prima grande strage del XX secolo. Infatti, soltanto due settimane fa le massime autorità dello stato celebravano la giornata delle forze armate e della “vittoria” nella prima carneficina mondiale, con parole inneggianti all’uso dell’esercito anche nei confronti del pericolo interno costituito dall’antagonismo sociale.

Pochi giorni prima il solerte TG News 24 non si era lasciato sfuggire l’occasione di tornare a celebrare i fasti di Enrico Toti, che già aveva segnato d’orrore i libri di testo di storia della mia infanzia e gioventù con l’immagine del mutilato che si immolava davanti alle trincee nemiche lanciando verso di esse le proprie stampelle. Eppure da decenni la storiografia e l’opposizione di classe hanno dimostrato la falsità di quel discorso e della narrazione, sostanzialmente fascista, che ne era derivata negli anni successivi al conflitto.

Ben venga quindi la pubblicazione del testo di Marco Rossi, ad opera della solita meritoria Biblioteca Franco Serantini di Pisa, che rispolvera ed illumina la feroce e determinata opposizione che si sviluppò nei confronti della Prima guerra mondiale sia tra la popolazione civile che tra i militari impegnati al fronte, in Italia e nel resto d’Europa e del mondo. Opposizione che, occorre dirlo fin da subito, fu la causa principale della fine del conflitto quando giunse a creare le basi per un possibile rivolgimento sociale, basato sul modello russo dei consigli degli operai, dei soldati e dei marinai, nella stessa Germania imperiale.

Pochi ricordano, infatti, come due soli siano stati i conflitti internazionali terminati, nel corso del XX secolo, sia per le difficoltà militari che per i pericoli di una rivolta sociale incontenibile negli eserciti e all’interno di uno o più dei paesi belligeranti: il primo conflitto mondiale1 e la guerra del Viet Nam.

A dimostrazione però che tale opposizione non fu soltanto di carattere pacifista ma, soprattutto nel primo caso, di carattere politico e rivoluzionario con il rivolgimento delle armi verso i comandi militari e i profittatori di guerra e il capitale, il libro di Rossi ripercorre l’opposizione alla guerra e l’ antimilitarismo di stampo anarchico, socialista, comunista e popolare fin dai tempi della guerra di Libia del 1911 e degli anni successivi.

Marco Rossi è da tempo impegnato nella ricerca riguardante le vicende dei movimenti e dei conflitti di classe prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale, con particolare attenzione ai fenomeni di resistenza armata allo Stato e al primo fascismo che accompagnarono gli anni compresi tra il 1919 e il 1922. Suoi sono infatti due testi importanti sulla storia degli arditi del popolo, pubblicati sempre dalle edizioni BFS.2

Quello che nel presente testo salta subito agli occhi è la diffusione, a livello sociale, di un’opposizione durissima al militarismo e alla guerra nei primi anni del secolo. Opposizione che affondava le sue radici nel ricordo del disastro di Adua e dei lunghi periodi di leva obbligatoria contro cui erano già insorte le plebi meridionali nel decennio successivo all’unificazione del Regno d’Italia. Opposizione cui lo stato, dai governi della Destra storica a Bava Beccaris fino a Giolitti, aveva saputo rispondere soltanto con la repressione, le cannonate, le compagnie di disciplina e il carcere militare.

L’odio per il militarismo e la guerra si erano per tanto incistati nella maggioranza degli Italiani appartenenti alle classi sociali meno agiate, fomentando un odio per gli ufficiali, i borghesi, i governanti ed il Re che ancora difficilmente i libri di storia riescono, o vogliono, rendere.
Alla vigilia dell’intervento, i rapporti concordanti dei prefetti, da nord a sud, riferivano dell’estensione di questo stato d’animo; tra essi, merita d’essere citato quello del prefetto di Teramo riguardante quella parte prevalente della popolazione locale, composta di lavoratori della terra e pastori, che concepiva «la guerra non altrimenti che un malanno a somiglianza della siccità, della carestia, della peste»” (pag.40)

Fu proprio a livello popolare che tale opposizione alla guerra si manifestò fin dalla guerra italo-turca del 1911-12 e contro le misure disciplinari che erano state prese contro i soldati insubordinati che erano giunti, talvolta, a sparare sui propri ufficiali superiori. Tanto che, proprio le proteste contro le Compagnie disciplinari e i tribunali militari, furono anche alla base dello scoppio del movimento insurrezionale della Settimana rossa del 1914 che dilagò rapidamente dalle Marche alla Romagna fino ai più importanti centri urbani (Roma, Milano, Torino ed altri).

Mentre il mondo della cultura ( da Verga alla Serao e da Capuana a Pascoli) si era dimostrato favorevole all’interventismo in Libia e, allo stesso tempo, frange consistenti del sindacalismo rivoluzionario e del Socialismo italiano avevano potuto credere in un conflitto che servisse a raddrizzare i torti tra nazioni imperialiste e “proletarie”, le condizioni effettive del conflitto e la memoria storica del proletariato avevano contribuito a rigettare la guerra, facilitando la propaganda di coloro che le si erano opposti fin dall’inizio (la Federazione giovanile socialista guidata da Amadeo Bordiga e alcuni gruppi anarchici).

Fu proprio questo anti-militarismo di massa a preoccupare i governanti e gli apparati repressivi dello Stato che, spesso, fecero ricadere la responsabilità del rifiuto della guerra esclusivamente sulle spalle della propaganda dei giovani socialisti e degli anarchici, mentre il numero delle rivolte e delle sommosse sociali e militari che ebbero luogo, soprattutto durante la prima carneficina imperialista, dimostrano che fu il diffondersi della rivolta sociale e militare a favorire la propaganda sovversiva piuttosto che il contrario.

Ciò che valeva per l’Italia valse anche a livello internazionale, tanto da far pensare che le due, seppur importanti, conferenze di Kiental e di Zimmerwald in cui si erano incontrati i socialisti europei contrari alla guerra imperialista non avrebbero potuto avere successivamente lo stesso peso politico se i soldati non avessero spontaneamente abbandonato le trincee nel 1917, dal fronte orientale a Caporetto. A dimostrazione del fatto che le rivoluzioni non si “fanno” ma, tutto al più, si dirigono…se ci sono gli uomini e le donne oppure le organizzazioni politiche in grado di farlo.

Ciò che viene posto in risalto dal testo di Rossi è che in Italia non occorse giungere al fatidico 1917 per mettere in atto, da parte proletaria, quelle che furono le azioni che avrebbero poi caratterizzato la rivoluzione russa.
Il 23 maggio 1915, il giorno antecedente l’entrata nel conflitto dello Stato italiano, il governo emenava il Regio decreto n. 674/1915 dando incarico «ai prefetti di vietare le riunioni pubbliche e gli assembramenti in un luogo pubblico», presumibilmente allarmato dai gravi disordini avvenuti a Torino il 17 maggio, a seguito dello sciopero generale contro la guerra, quando migliaia di dimostranti si erano scontrati per 48 ore con le forze dell’ordine” (pag. 61)

Ma se le rivolte e le proteste, sia al fronte che nella società, aumentarono anno dopo anno fino all’esplosione del 1917, molte altre furono anche le forme di lotta e resistenza individuale alla guerra soprattutto sotto forma di autolesionismo (tra i militari di linea) e diserzione (tra coloro che venivano chiamati alle armi oppure che già si trovavano al fronte). In ogni caso la risposta da parte dello stato fu sempre durissima e i tribunali militari comminarono pene severissime che andavano dai numerosi anni di galera alla fucilazione.

Sia sotto Cadorna che sotto Diaz (entrambi capi di stato maggiore) lo Stato italiano raggiunse così il triste primato di essere stato quello ad aver comminato il maggior numero di condanne a morte durante il conflitto,3 senza contare le numerosissime esecuzioni “sul posto” di militari ed ufficiali, che si rifiutavano di eseguire ordini suicidi, messe in atto da altri ufficiali e dai carabinieri. Questi ultimi odiatissimi poiché svolgevano la funzione di polizia militare4 e di spie infiltrate nei reparti per individuare i possibili sovversivi e sobillatori.

In tutte le occasioni di rivolta, sia per rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro, sia per proteggere i disertori e i renitenti alla leva, sia in quelle contro “la guerra” tout court, le donne furono sempre molto attive e in primo piano. Cosa spesso non compresa , se non addirittura osteggiata, dagli stessi dirigenti del Partito Socialista che, come Turati, vedevano in questo un “intrigo della chiesa”. E basterebbe forse questa sola cecità a dimostrare la distanza che si era ormai creata tra il Partito Socialista e le masse che avrebbe dovuto saper rappresentare e dirigere.

Gli operai scoprivano di essere militarizzati e spesso erano sottoposti essi stessi al regime giuridico militare mentre i soldati scoprivano, a loro volta, di non essere altro che operai delle trincee sacrificabili ai ferrei ingranaggi del macello imperialista e delle leggi del capitale e della finanza.
Tutto era diventato più chiaro nella coscienza popolare, come Rossi ci dimostra in pagine dense di fatti e ricche di avvenimenti.

Ma a differenza della frazione bolscevica del Partito Socialdemocratico Operaio Russo, nessuna frazione politica riuscì ad imporsi, sia all’interno che all’esterno del PSI, con parole d’ordine decisive e semplici come la “fine della guerra ad ogni costo”. E il successivo biennio rosso avrebbe costituito soltanto un pallido tentativo di realizzare ciò che, con altro spirito ed altra determinazione, avrebbe potuto essere colto durante il conflitto, così che anche la creazione del PCd’I (come lo stesso Bordiga aveva ben chiaro) giunse ormai in ritardo.

Un ultimo pregio del testo è dato dalla riscoperta di un Giacomo Matteotti finalmente liberato dal martiriologio e restituito in tutta la sua combattività di militante socialista: “Nella componente riformista, l’unica eccezione fu quella rappresentata dal deputato polesano Giacomo Matteotti che, dopo aver avversato la guerra di Libia, dal 1914 al maggio del ’15 si espresse decisamente contro l’attendismo turatiano (“mi par giusta l’insurrezione se si volesse domani con assai poca lealtà lanciarci in guera contro l’Austria. Ma tira il vento di piccole viltà anche nel mio partito“) assumendo accenti, radicalmente antimilitaristi, che rivelano un Matteotti favorevole al ricorso alla violenza, assai diverso dall’icona che poi è stata accreditata da certa storiografia” (pag.66)

Sono, pertanto, pagine da leggere e meditare quelle del bel libro di Rossi e non soltanto per la storia passata.


  1. Si veda a questo proposito la recente pubblicazione di una conferenza tenuta ad Oxford nel 1929 dallo storico francese Elie Halévy, Perché scoppiò la prima guerra mondiale, Dellaporta Editori, Pisa-Cagliari 2014, pp.120, € 9,00 (Evidentemente la coscienza liberale dell’epoca ricordava ancora bene sia i motivi del successo della Rivoluzione bolscevica sia il pericolo che le potenze belligeranti avevano corso, tutte, sul finire del conflitto)  

  2. Marco Rossi, Arditi, non gendarmi! Dall’arditismo di guerra agli arditi del popolo, BFS 1997 e 2011 e, ancora, Livorno ribelle e sovversiva, BFS 2013  

  3. Il numero esatto dei morti per diserzione nella Grande Guerra non è conosciuto. Sulla base della documentazione disponibile, l’Italia detiene il primo posto: su 4 milioni e 200 mila soldati al fronte, ne furono “giustiziati” circa 1000. Fra questi, anche i cosiddetti “decimati”, soldati estratti a sorte da reparti ritenuti “vigliacchi” e passati per le armi “per dare l’esempio”. L’esercito francese che iniziò la guerra un anno prima, nel 1914, ebbe al fronte 6 milioni di soldati, 700 i fucilati. Nell’esercito inglese furono 350, in quello tedesco una cinquantina.
    Un po’ di chiarezza sulle dimensioni e le ragioni della diserzione viene dal saggio del 2001 I disobbedienti nell’esercito italiano durante la Grande Guerra di Bruna Bianchi, docente all’Università Cà Foscari di Venezia e grande studiosa del primo conflitto modiale (reperibile sul sito della Fondazione Basso, ndr). Il reato di diserzione, scrive Bianchi, fu la forma di disobbedienza più diffusa durante il conflitto, con un “aumento progressivo del reato ben esemplificato dal numero delle condanne: da 10.272 nel primo anno di guerra si passò a 27.817 nel secondo e a 55.034 nel terzo”. Per arginare il fenomeno, si estese progressivamente la possibilità di comminare la pena di morte, fino a prevedere anche ritorsioni nei confronti dei famigliari, come la confisca dei beni e la privazione del sussidio per effetto della sola denuncia
    “, tratto da Paolo Gallori, Grande Guerra, l’Ordinario militare: “Riabilitare i disertori come Caduti”, La Repubblica, 6 novembre 2014  

  4. Come ricorda bene anche Ernest Hemingway nel suo Addio alle armi, proprio nelle pagine dedicate al crollo di Caporetto  

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Breve storia cinematografica del maccartismo https://www.carmillaonline.com/2014/07/23/breve-storia-cinematografica-maccartismo/ Wed, 23 Jul 2014 20:15:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15860 di Alessandro Morera

MoreraMcCarthy“…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo” (Woody Allen/Howard Prince ne Il prestanome)

Il maccartismo affonda le sue radici nella reazione della destra americana a quel Work Project Administration (WPA) che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali gli Stati Uniti uscirono dal periodo della grande depressione, il new deal roosveltiano degli anni Trenta. Nello specifico il WPA nasce nel 1934 erogando finanziamenti statali a favore della produzione artistica, ed è proprio grazie a questo progetto che nascono i due grandi teatri nazionali americani, il Federal Theatre e il Group Theatre: ad una branchia [...]]]> di Alessandro Morera

MoreraMcCarthy“…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo”
(Woody Allen/Howard Prince ne Il prestanome)

Il maccartismo affonda le sue radici nella reazione della destra americana a quel Work Project Administration (WPA) che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali gli Stati Uniti uscirono dal periodo della grande depressione, il new deal roosveltiano degli anni Trenta. Nello specifico il WPA nasce nel 1934 erogando finanziamenti statali a favore della produzione artistica, ed è proprio grazie a questo progetto che nascono i due grandi teatri nazionali americani, il Federal Theatre e il Group Theatre: ad una branchia del primo (il Negro’s Theatre Project) fu affidata la direzione economica a John Houseman, il quale a sua volta nominò direttore artistico l’allora giovanissimo Orson Welles, che aveva compiuto da poco 22 anni, mentre nel secondo si affermarono una nuova generazione di registi e drammaturghi trentenni quali Clifford Odets, Irwin Shaw, Lee Strasberg, Elia Kazan e Joseph Losey.
L’offensiva dei censori politici, sia democratici che repubblicani, segnò la fine di queste esperienze artistiche dopo pochi anni, quando riuscirono a imporre il divieto governativo di allestire nuovi spettacoli fino al 1° luglio del 1937, causa imminenti tagli e ristrutturazioni, mettendo i sigilli al teatro Maxine Elliott dove sarebbe dovuto andare in scena The Cradle Will Rock, un dramma in musica scritto da Marc Blitzstein in favore del movimento operaio, con la regia dello stesso Orson Welles.
Welles sfidò comunque il decreto governativo mettendo in programma lo spettacolo per il 16 di giugno, ma le guardie federali occuparono e sigillarono la sala il giorno prima, cosicché decise di affittare un altro teatro, il Venice, scavalcando in maniera creativa i regolamenti sindacali che vietavano l’ingresso in scena del cast: Blizstein salì sul palco suonando le musiche e declamando i movimenti di scena, mentre gli attori recitavano le battute e cantavano le loro canzoni dalla platea. Il successo fu egualmente enorme, tanto che lo spettacolo venne replicato nella stessa forma improvvisata fino al cadere del divieto.
Probabilmente The Cradle Will Rock fu l’unico dramma proletario che andò in scena negli Stati Uniti, nonostante la censura tentò di impedirne la rappresentazione: Tim Robbins, con il suo fervore politico, nel 2001 ha tratto dall’episodio un debole film, con l’omonimo titolo della pièce, che però non rende giustizia della complessità degli eventi e delle tensioni in campo in quel determinato periodo.
The Cradle Will Rock venne recitato anche durante il viaggio degli attori dal Maxine Elliott al Venice Theatre, come una sorta di happening di strada, aprendo così di fatto la scena alle future esperienze del Living Theatre e di tutto il teatro americano degli anni Sessanta, dove l’elemento di protesta sociale era contiguo a quello delle rappresentazioni che invadevano gli spazi urbani della società. Come si leggeva in un manifesto del Group Theatre, pubblicato sul Federal Theatre Magazine: “Noi siamo il teatro viaggiante nei parchi, Shakespeare sulle colline, Gilbert e Sullivan in uno stagno, Toller su un camion […] recitiamo nelle scuole, nelle arene, nelle carceri, nei riformatori e negli ospedali. Siamo i Living Newspapers, il teatro negro e il teatro yiddish…”. A tal proposito anche André Bazin, nel suo libro dedicato a Welles, ricordò come “quando il governo vietò di rappresentare al Federal Theatre The Cradle Will Rock, e la compagnia trovò le porte del teatro sbarrate, Orson Welles improvvisò per strada su due piedi, per gli spettatori in abito da sera, uno spettacolo che consentì di attendere che si trovasse una soluzione… non so cosa i critici lodarono di più il giorno dopo, sui giornali, se la messa in scena di The Cradle Will Rock o quell’altra, la fantastica improvvisazione su scala cittadina, che la inglobava come un dettaglio con Orson Welles, appollaiato su di un camion, che ipnotizzava la folla come Marc’Aurelio sul cadavere di Cesare”.
Non a caso la House Committee on Un-American Activites (HUAC ovvero Commissione per le Attività Antiamericane) venne istituita proprio nel 1937 e il primo presidente fu il senatore democratico del Texas Martin Dies Jr., che si prefisse di smascherare le infiltrazioni comuniste, termine riferito poi a qualsiasi associazione a favore dei diritti civili e umani, dei lavoratori o che avessero come scopo il miglioramento della società, in poche parole la maggior parte delle associazioni popolari operanti nei diversi settori della società, dall’amministrazione pubblica all’esercito, dalle scuole ai sindacati, dalla finanza allo spettacolo, bollate come sovversive e antiamericane. La HUAC, violando palesemente la costituzione, condannò le persone anche solo sulla base di semplici sospetti e/o indizi senza che essi dovessero essere supportati da prove concrete, agendo così in maniera autoritaria e palesemente antidemocratica.
Nel frattempo l’affermarsi dei vari fascismi in Europa e l’invasione hitleriana dell’Europa centrale fecero prendere coscienza agli Stati Uniti quale fosse il vero pericolo totalitario, fino ad allora abbastanza ignorato, con il conseguente impegno nella Seconda Guerra Mondiale (avvenuto in effetti con un certo ritardo se si pensa agli avvenimenti dell’epoca). Subito dopo l’affermazione delle forze alleate, il pericolo rosso e liberal divenne nuovamente la principale preoccupazione della politica nazionale americana, tanto che la HUAC raggiunse l’apice della sua (nefasta) gloria negli anni che vanno dal 1947 al 1954, soprattutto grazie alla paranoia del suo più fervido politico, un signore di mezza età semi alcolizzato, il senatore repubblicano del Wisconsin, Joseph McCarthy.
Guidata dal senatore McCarthy, la commissione si scagliò soprattutto contro le due maggiori industrie americane: quella hollywoodiana e quella militare. Proprio agli inizi del 1947 l’associazione dei produttori Motion Picture Association of America (MPPA) decise di denunciare dieci loro associati tra sceneggiatori e registi, diventati tristemente famosi come “i dieci di Hollywood”, anche se uno di essi in seguito rinnegò la propria partecipazione ai movimenti liberali di quegli anni, dieci nomi che vale la pena ricordare: Edward Dmytryk, Dalton Trumbo, Samuel Ornitz, Herbert Biberman, Lester Cole, Alvah Bestie, Ring Lardner, Adrian Scott, Albert Maltz, John Howard Lawson. Quest’ultimo fu il primo ad appellarsi al primo emendamento della costituzione americana, la quale garantisce a ogni cittadino americano la libertà delle proprie opinioni politiche, religiose e filosofiche, evitando di rispondere.
Nonostante gli altri nove lo seguissero nel rifiutarsi di rispondere alla domanda inquisitoria della commissione “è o è mai stato un membro del partito comunista?”, l’MPPA e l’affermarsi di un clima sempre più previdente da parte dei capitani della maggiore industria cinematografica del mondo fu inevitabile: la stessa MPPA istituì una blacklist sulla quale segnare (e segnalare) i sospetti comunisti, soprattutto dopo le condanne penali riportate dai dieci, alcuni dei quali scapparono proprio per non subirne gli effetti (tranne Dmytryk che, in seguito alla latitanza londinese tra il ’49 e il ’51, decise di abiurare le proprie idee pur di tornare a Hollywood).
Dmytryk non fu di certo l’unico né tanto meno il più eclatante personaggio dello spettacolo a rinnegare le proprie idee pur di tornare a lavorare in una realtà economico-finanziaria di alto livello, ma di certo fu il primo a fare il mea culpa di fronte alla HUAC. Lo fece nel momento peggiore della democrazia degli Stati Uniti d’America, quando i coniugi Rosenberg vennero condannati a morte per attività spionistiche e antiamericane, sospettati di aver consegnato 7 anni prima dei piani riguardanti la bomba atomica all’URSS, molto prima che l’Enola Gay sganciasse la bomba atomica sul suolo giapponese, tralasciando il fatto che nel 1944 gli USA e l’URSS erano alleati.
Nello stesso anno un altro giovane senatore repubblicano della California, Richard Nixon, venne alla ribalta come fautore della HUAC. Nel frattempo alcuni registi, seppur non direttamente collegati ai processi svolti dall’HUAC, proprio per evitare di rispondere democraticamente appellandosi al primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d’America, preferirono emigrare: Charlie Chaplin in Svizzera, Joseph Losey in Inghilterra, Orson Welles gironzolando per il mondo, mentre Joris Ivens fu costretto ad allontanarsi dagli Stati Uniti ai primi del 1945, poiché aveva girato nel 1937 un documentario a favore dell’intervento delle brigate internazionali nella Guerra civile spagnola, Earth of Spain, su sceneggiatura di Ernest Hemingway e John Dos Passos, con sottofondo musicale di Marc Blitzstein.
Altri non ebbero questa fortuna e subirono processi che sfiancarono le loro famiglie, i figli, le amicizie e soprattutto le loro identità. Molte delle personalità inquisite furono costrette a lavorare sottopagate, sceneggiando film o dirigendoli sotto altri nomi; ovviamente coloro che pagarono più di tutti tale situazione furono gli attori: Zero Mostel, pur essendo un eccellente attore, probabilmente deve la sua fama soprattutto al fatto di essere stato iscritto nelle blacklist negli anni Cinquanta, prima di venir resuscitato da Mel Brooks alla metà degli anni Settanta come vecchio attore di secondo piano. Mostel non era l’affermato John Garfield o il giovane promettente Lionel Stander, eppure anche la sua vita fu rovinata così all’improvviso, come a un signore di 35 anni al quale tolgono improvvisamente la sua famiglia, il suo lavoro, le sue libertà, nonché la dignità, neanche l’avessero trovato a camminare a piedi nudi nel parco, in un periodo nel quale portare un cappello a cilindro significava essere tacciati come comunisti.
Nel 1953, un testo teatrale, The Crucible (Il Crogiuolo), di uno dei più grandi drammaturghi dell’epoca, Arthur Miller, anch’esso sfiorato dall’HUAC, definiva quegli avvenimenti come il periodo moderno della caccia alle streghe, istituendo un parallelismo tra il processo alle streghe di Salem nel 1692 e la contemporaneità. Il testo teatrale di Arthur Miller ebbe uno strepitoso successo, ma, nonostante ciò, l’industria cinematografica risultò come paralizzata nell’affrontare se stessa e quel periodo, seppur risulta oggi facile, e inevitabile, leggere in maniera metaforica tanti dei film hollywoodiani dagli anni Sessanta in poi come reazione al maccartismo, soprattutto da parte degli autori più significativi che subirono le conseguenze della caccia alle streghe. Un esempio su tutti Spartacus diretto da Stanley Kubrick e sceneggiato da Dalton Trumbo, nel quale la lotta degli schiavi contro l’esercito di Roma venne riletta a posteriori come la lotta per la libertà di espressione contro la ferocia del maccartismo.
Emblematico risulta proprio il caso di Trumbo, arrestato nel 1947: appena scarcerato fuggì in Messico dove continuò a scrivere sotto pseudonimo molti film, tra i quali il soggetto di Vacanze Romane e la sceneggiatura di La più grande corrida per i quali vinse, all’insaputa dell’Academy, due Oscar. Nonostante la piena riabilitazione nei primi anni Sessanta, fino al 1971 Trumbo non riuscì a portare sullo schermo il suo bel libro antimilitarista del 1939 E Johnny prese il fucile. E non è un caso che fino al 1976 il tema del maccartismo non fosse mai al centro di un film, non solo hollywoodiano: in quell’anno, l’allora ottuagenario ed ex blacklisted Martin Ritt, già regista dopo la fine della persecuzione nel 1956 di Quella lunga estate calda, con il ritorno di Welles a Hollywood in veste di attore, realizzò The Frontman (Il Prestanome), un film con protagonista l’allora famosissimo comico Woody Allen, un film che di comico non ha nulla, riprendendo gli stilemi di denuncia sociale, sotto forma spettacolare, dei film americani del primo dopoguerra.
La pellicola affronta la vicenda focalizzandola dal punto di vista dei tanti che furono costretti a lavorare sotto falso nome, sfruttati e sottopagati da colleghi tolleranti nei confronti del loro status di pericolosi sovversivi, autori come Dashiell Hammett, Lilian Hellman, Abraham Polonsky, Jules Dassin, Robert Rossen e Walter Bernstein che fu anche lo sceneggiatore del film di Ritt. Nel 1988 invece Irwin Winkler in Indiziato di reato affronta la vicenda dal punto di vista della perdita della propria vita quotidiana, degli affetti più cari, del degradarsi delle amicizie, concentrando la vicenda sul protagonista, interpretato da Robert De Niro: un regista accusato di essere comunista in un film che, nonostante l’assunto poderoso, si sviluppa in maniera abbastanza convenzionale e scontata. A differenza del più recente film di George Clooney Good Night and Good Luck, che invece concentra abilmente l’attenzione sul giornalista televisivo che più di ogni altro mise in luce la palese violazione dei diritti democratici e le storture inquisitorie prodotte da Joseph McCarthy, Edward R. Murrow.
Murrow fu un vero e proprio paladino della libertà democratica e combatté in prima persona con il suo programma televisivo See It Now la battaglia contro la potente HUAC, decretandone la fine e permettendo agli USA di uscire da uno dei periodi più bui della propria Storia.
Di certo l’esempio scelto da Clooney è un esempio alto e perfettamente adatto a rappresentare gli elementi in gioco, grazie a una forma cinematografica sobria e asciutta, la stessa del volto del protagonista, David Strathairn, che proprio per questo risulta adatta ed efficace a illustrare l’atmosfera dell’epoca. Nella realtà infatti, nel successivo programma condotto da Murrow alla CBS-TV Person to Person, il 25 novembre 1955 venne intervistato l’ormai esule Orson Welles, favorendo il suo reinserimento in ambito lavorativo ad Hollywood dopo un’assenza durata 9 anni. Quell’Orson Welles che a suo modo si ritenne in parte responsabile, anche se in maniera ironica, dell’elezione al Senato di Joseph McCarthy: “…penso che sarebbe stato molto più interessante usare il cinema e i media in generale a scopi diversi, non solo di intrattenimento. E una volta per un pelo non mi sono candidato per il Senato, in Winsconsin. Il mio avversario sarebbe stato Joe McCarthy – dunque ce l’ho sulla coscienza – ma questa è un’altra storia”. Ecco, per l’appunto, questa è un’altra storia che forse qualcuno un giorno avrà la forza e il coraggio di raccontare attraverso il mezzo cinematografico, anche se alcune storie sembrano essere troppo grandi persino per il cinema.

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Memento mori https://www.carmillaonline.com/2014/02/12/memento-mori/ Tue, 11 Feb 2014 23:20:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12612 di Sandro Moiso

counselor book Un libro

Se c’è un’ossessione ricorrente nella maggior parte della grande letteratura americana certo è quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna. Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra [...]]]> di Sandro Moiso

counselor book Un libro

Se c’è un’ossessione ricorrente nella maggior parte della grande letteratura americana certo è quella della morte. E del male. Che spesso la precede e sempre l’accompagna.
Sarà l’origine puritana di gran parte della cultura “bianca” statunitense, ma da Herman Melville a William Faulkner, da Edgar Allan Poe a Ernest Hemingway e da Jack London fino a John Williams la grande mietitrice aleggia su gran parte delle vicende narrate. Anzi si potrebbe forse dire che il “vitalismo” che sembra aver contraddistinto alcuni dei suoi capolavori non avrebbe senso se non fosse accompagnato dalla sua ombra costante.

Così come non avrebbe senso quel senso di ottimismo, quasi infantile, che traspare spesso in alcuni autori, e che ha spesso infastidito i critici e letterati europei più restii ad accettarla, se accanto ad esso non fosse possibile intuire, quasi sempre, la presenza del male. Di solito assoluto e privo di qualsiasi luce.
“Barbara” fu definita questa letteratura dai critici che le si opponevano, qui in Italia, negli anni in cui Cesare Pavese, Elio Vittorini e Beppe Fenoglio cercavano di rinnovare la letteratura nazionale alla luce dell’esperienza americana.

Eppure quanta profondità, quanto nichilismo, quanta disperata solitudine, quanta assenza di qualsiasi forma di salvezza contengono quelle pagine. Dai racconti western di Bret Harte a Mark Twain e da Howard P.Lovecraft a Larry McMurtry, solo per citarne alcuni e di epoche diverse.
L’umorismo della frontiera nascondeva quasi sempre la solitudine dell’uomo sulle Grandi Pianure e, per default, la sua eterna solitudine davanti all’universo e alla morte. Mentre l’orrore cosmico non costituiva altro che il suo logico corollario.

Morte mai consolatoria, come il cattolicesimo, inavvertitamente, ha invece spesso suggerito anche ai romantici più agguerriti della letteratura italiana. Male privo di salvezza che, nella migliore tradizione luterana, non poteva e non potrà mai trovare consolazione in alcunché.
Vite e vicende senza speranza, senza significato, senza via d’uscita o possibilità di redenzione. Da Jim Thompson a David Goodis, dal Charles Bukowski di “Pulp” alla grandissima, eppur cattolicissima, Flannery O’Connor di “Un brav’uomo è difficile da trovare”.

Se questi sono i due caratteri dominanti nella letteratura d’oltre oceano, anche se mischiati in maniera diversa da autore ad autore e da opera ad opera, certo Cormac McCarthy ne costituisce attualmente la summa. Non solo epocale o generazionale ma, forse, definitiva.
Con buona pace di quel critico letterario di “Libero” che salutò “La strada”, alla sua uscita in edizione italiana nel 2007, come un nuovo e rovente maccartismo anti-islamico e anti-comunista. Naturalmente non aveva capito un cazzo.

Se nella seconda di copertina di “American Tabloid”, James Ellroy ci avvertiva che “L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall’inizio”, McCarthy ha semplicemente tracciato, romanzo dopo romanzo, la storia della morte americana. Che naturalmente non è solo qualità di una nazione o di una società, ma dell’umanità suo insieme.

Sì, ho scritto “morte” e non “vita”, soprattutto degli ultimi centosessanta anni. Quelli di solito più celebrati dalla cinematografia di Hollywood e dalla letteratura mainstream.
Quelli che hanno visto liberarsi al massimo le forze produttive degli Stati Uniti e, contemporaneamente, anche la loro più violenta forza distruttiva e la più determinata volontà di dominio e rapina. La morte e il male appunto.

Che in Cormac McCarthy sono tutt’altro che metafisici. Sono ben radicati negli individui e nei loro talvolta diabolici oppure talvolta stupidi o, ancora, talvolta soltanto raffazzonati progetti.
Vendicarsi, sopravvivere, arricchirsi, levarsi al di sopra degli altri uomini oppure semplicemente cercare di essere giusti: tutto porta alla morte e con sé, inevitabilmente, il male e il dolore.

Da coloro che cercano di usare a proprio vantaggio lo spietato killer di “Non è un paese per vecchi”, fino allo sceriffo che rinuncia ad inseguirlo, perché sarebbe soltanto inutile, pericoloso e fallimentare, al killer stesso che sopravvive solo in attesa di portare ancora morte e dolore. Al padre che cerca di proteggere il figlio dai pericoli di un mondo già morto nel romanzo “La strada”; da “Meridiano di sangue“, ambientato alla metà dell’ottocento, in poi tutto traccia soltanto il declino, privo di qualsiasi ascesa precedente, del sogno americano. Che, in sostanza, finisce per rivelarsi soltanto per quello che è: un lungo incubo e nient’altro.

The Counselor1, l’ultima fatica dello scrittore ottantenne, è una sceneggiatura appositamente scritta per il cinema che porta alle estreme conseguenze la weltanschauung dell’autore.
Un giovane avvocato, avido di denaro, sesso e normalità si imbarca in un traffico di droga con il cartello dei narcos messicani. Pensa di avere le conoscenze giuste, di essere abbastanza furbo e, soprattutto, di poter controllare tutto. Forse fin troppo facilmente abituato, la storia è ambientata ai nostri giorni, alle rapide risalite in borsa di titoli spazzatura già precedentemente crollati. La fortuna degli scemi. O dei raccomandati, il che potrebbe essere lo stesso. “L’avidità non ti spinge. L’avidità è il limite” (pag. 71).

Soprattutto non capisce nemmeno lontanamente a cosa può andare incontro, in termini di dolore. E di male. “Il punto è che uno potrebbe dirsi che ci sono cose che questa gente non è in grado di fare. Non è così” (pag. 69). E anche se tutto è destinato a finire con la morte, che non ha alcun significato e che non è possibile esorcizzare con alcun trattato del “buon morire“, la strada per arrivarci può essere molto, troppo, indicibilmente dolorosa. Anche per le persone che si amano e che pur non dovrebbero essere coinvolte.

Come le ragazze che continuano a scomparire lungo il confine tra Texas e Messico. Vite senza speranza, senza significato ma, sicuramente piene di dolore negli istanti finali.
Ma il male non ha riguardi neanche per la classe sociale di appartenenza, per le lauree o per i sogni da yuppie. E della paura della crisi che anche i fortunati hanno. Mentre solo chi non ha nulla ha imparato quanta sofferenza può esserci al mondo, che soltanto chi viene dal nulla può sfidare, aumentandone il dosaggio.

I riferimenti alla crisi attuale del capitalismo finanziario, alle atrocità commesse nei pressi di Ciudad Juarez e all’inutilità di una classe “dirigente” sempre più inconsapevole ed inutile sono tanti e continui. La morte, il male e il dolore sono portati alle estreme conseguenze e solo chi ha già molto sofferto può tentare di sopravvivere. “Non li ho mai conosciuti i miei genitori. Li hanno buttati giù da un elicottero nell’Oceano Atlantico quando avevo tre anni” (pag. 51) può affermare Malkina, la dark lady di origine argentina che si staglia al centro della vicenda, mentre cerca di confessare provocatoriamente i suoi impulsi sessuali irrefrenabili ad un parroco vile e spaurito.

E tocca a lei trarre le conclusioni di quanto accade nel corso della narrazione, esaltando la grazia e la bellezza e la ferocia dei grandi felini: ”Vedere la selvaggina ammazzata con eleganza mi tocca profondamente […] Una cosa del genere è sempre sessuale. Ma la grazia . La libertà. Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessuna altra parte. Credo che a definirlo non sia tanto quello che è diventato quanto tutto quello che è riuscito a non essere. Non puoi assolutamente distinguere quello che è da quello che fa. E quello che fa è uccidere. Noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Inadatti e impreparati. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Che ci hanno portati qui. La nostra debolezza di cuore rischia di chiuderci gli occhi su tutto questo, ma facendo ciò fa il nostro destino. Forse non sarai d’accordo. Non so. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione” (pp. 114 – 115).

Un film

Il film di Ridley Scott, basato sulla sceneggiatura originale, rispetta la stessa nelle parole (le battute sono quasi sempre identiche a quelle del testo), ma non nello spirito. Troppi volti famosi: Cameron Diaz, Brad Pitt (che ormai sembra esser diventato il prezzemolo del cinema americano contemporaneo), Penélope Cruz, Michael Fassbender, Javier Bardem e anche, in due ruoli minori, Bruno Ganz e Dean Norris. Troppo patinata la fotografia, fino a farla assomigliare più a quella di un film del fratello Tony, recentemente scomparso, che a quella delle opere migliori di Ridley. Eliminando, a tratti, dal dialogo i passaggi più crudi e provocatori, il film sembra voler nascondere l’abisso che la trama nasconde.

Come se il regista e la produzione avessero voluto evitare di inquietare troppo il pubblico. Come se avessero voluto riposarne lo sguardo, invece di renderlo più acuto. Sostanzialmente, nonostante alcuni momenti pregevoli, un’occasione mancata. Peccato.
Forse John McNaughton, regista di “Henry pioggia di sangue”, sarebbe stato più adatto e avrebbe saputo far di meglio, ma il problema reale sta tutto in una società che dopo aver artificialmente rimosso il “Ricordati che devi morire” della tradizione latina, muore giorno dopo giorno nel dolore di cui, troppo spesso, è essa stessa causa e di cui non vuole sentir nemmeno parlare.


  1. Cormac McCarthy, The Counselor. Il Procuratore, Einaudi 2013, pp. 116, euro 14,50  

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