eresie – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:09:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache marsigliesi / 6: È la lotta che crea l’organizzazione. https://www.carmillaonline.com/2023/06/29/cronache-marsigliesi-6-e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione/ Thu, 29 Jun 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77971 di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità [...]]]> di Emilio Quadrelli

E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato vecchia talpa! (K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Riprendiamo a scrivere dopo che, in Francia, l’ultimo sciopero generale è andato incontro a un colossale flop. Negli articoli precedenti, andando ampiamente controcorrente, avevamo evidenziato i limiti oggettivi che quelle mobilitazioni si portavano appresso e come quella “composizione di classe” non potesse che arenarsi di fronte a un conflitto che si poneva, senza ambiguità di sorta, sul terreno del potere. L’anomalia di massa di queste mobilitazioni sono stati i netturbini di Parigi, non per caso a maggioranza di “pelle scura”, i quali sono stati puntualmente messi all’angolo sia dalle organizzazioni sindacali sia da gran parte di quella “aristocrazia operaia” che non ha mai fatto mistero di trovarsi a proprio agio intorno alla “linea del colore” che governa la società francese oltre a percepirsi come “ceto medio”.

La questione della “bianchità”, costantemente eluso dagli irriducibili socialdemocratici e dagli improvvisati estremisti, è riemersa in tutto il suo portato strategico anzi, se la “frattura coloniale” è stato il leitmotiv della società francese del secondo dopo guerra, oggi questa frattura si fa “forma stato” a tutto tondo poiché è proprio intorno alla “linea del colore” che si è riorganizzato il comando. Tuttavia non sempre tutto il male viene per nuocere poiché il “movimento francese” ha sicuramente insegnato qualcosa di importante, l’epopea della mediazione è al tramonto e il rapporto tra proletari e stato non può che darsi sul terreno della “guerra” e del “potere”. “Guerra” perché per il comando le masse subalterne vanno e devono essere annichilite e private di qualunque legittimità politica e sociale per poter essere tranquillamente perimetrate negli impolitici ambiti della marginalità e dell’esclusione; “potere” perché ogni lotta diventa un corpo a corpo tra le classi e il dominio. In questo modo saltano per intero le divisioni tra “lotte economiche” e “lotte politiche” e ogni “lotta economica”, come l’operaismo italiano aveva abbondantemente anticipato, diventa immediatamente “lotta politica”.

Ciò che Macron e il suo governo, attraverso una intransigenza e una determinazione non proprio irrilevanti, hanno voluto esplicitare eludendo ogni dubbio di sorta è stata proprio una affermazione di potere. Di fronte a ciò quel movimento non poteva che naufragare ma, come si è detto, non tutti i mali vengono per nuocere. La sconfitta ha semplicemente ratificato l’archiviazione di una fase storica e di un segmento di classe che la ha ampiamente incarnata, non certo il tramonto del conflitto di classe, piuttosto il contrario. Il comando può, e lo sta facendo, porre in soffitta l’aristocrazia operaia ma non per questo può illudersi di inibire il lavorio della vecchia talpa.

Il comando è sicuramente in grado di esercitare il dominio ma non di porre rimedio alle contraddizioni che il suo sistema si porta appresso anzi, a un occhio minimamente attento, diventa evidente come l’esercizio del dominio sia direttamente proporzionale alla progressione geometrica delle contraddizioni. A fronte di ciò asserire che il “testamento” di Rosa, ero, sono, sarò, potrebbe rivelarsi più che un semplice augurio frutto dell’ottimismo della volontà ma la realistica constatazione della concretezza della ragione ha una sua sensatezza. Tutto questo all’interno di un contesto di guerra che non è più una semplice tendenza bensì il qui e ora dello scenario internazionale.

Certo, a ben vedere, l’Europa non è mai stata in pace tanto che, la stessa espressione “secondo dopoguerra”, fotografa appieno quella “bianchità” propria delle nostre società. L’Europa, e con lei l’insieme dell’Occidente è stata costantemente in guerra con le popolazioni non bianche ed è sulle sue baionette che hanno marciato le politiche imperialiste un aspetto che la fine del bipolarismo e l’affermarsi dell’era globale ha ampiamente enfatizzato. Oggi, però, siamo di fronte a qualcosa di diverso a un vero e proprio salto di qualità della guerra, oggi l’Europa è coinvolta nella guerra in prima persona e la conduzione della guerra interna contro le proprie masse subalterne assume i tratti della complementarietà rispetto alla guerra nel suo insieme.

Guerra interna e guerra esterna sono le due facce attraverso le quali il comando esercita il suo dominio, questa la “porta stretta” attraverso la quale ogni conflitto sarà obbligato a passare. Un compito che realisticamente non poteva e non può essere retto dalla aristocrazia operaia ma solo da un proletariato in grado di assumere la guerra come “cuore del politico”. Se tutto ciò avverrà è impossibile dirlo ma sapersi muovere dentro questa strettoia è il compito di ogni comunista, del resto, per dirla con Blanqui, il dovere di un rivoluzionario è fare la rivoluzione.
Chiusa questa breve premessa entriamo nel merito della questione.

Se, nell’articolo precedente abbiamo provato, in maniera sicuramente tutt’altro che esaustiva, a delineare l’attuale “piano del capitale” oggi, sulla scia delle informazioni che l’inchiesta ci ha fornito cercheremo di dire qualcosa intorno alla soggettività della classe. Con non poche acume Marx, già nel Manifesto, avvertiva come il capitalismo sovvertisse in continuazione non semplicemente la produzione ma tutti gli ambiti e le sfere della vita sociale. Per molti versi il capitale è sin da subito “capitale totale” e il suo divenire non può che darsi sotto le spoglie di una “rivoluzione permanente”. Una rivoluzione che è figlia non solo di quelle che possiamo chiamare le tendenze oggettive del capitale ma, e soprattutto, del conflitto di classe che è il motore stesso dello sviluppo capitalista.

Tutto ciò, ovviamente, non può che andare a intaccare per prima cosa la “composizione di classe” il che ha delle ricadute non proprio irrilevanti. Ciò che abbiamo provato a descrivere e raccontare nelle puntate precedenti ne ha fornito più di una traccia. Queste tracce sono importanti poiché è proprio da queste che è possibile sovvertire un vecchio vizio dell’ortodossia marxista ovvero leggere il divenire storico a partire dal punto di vista del capitale il quale diventa tanto il punto di partenza quanto di arrivo del processo storico. Su ciò si basa l’oggettivismo e il coevo scientismo che ha fatto da sfondo allo storicismo marxista. In tutto ciò il punto di vista della classe diventa un fattore tanto inutile quanto superfluo tanto da renderla una realtà sempre uguale a se stessa. Ciò che per Marx (la classe), in fondo, è assunto come modello ideal–tipico, per l’ortodossia comunista diventa elemento empirico a tutto tondo. La soggettività della classe, a conti fatti, diventa del tutto inessenziale poiché solo attraverso la soggettività politica (il partito) sarebbe in grado di animarsi. Un fare che va oltre l’autismo e si mostra palesemente contro fattuale rispetto al mondo reale e la riduzione a qualcosa di non distante dalla setta talmudica degli innumerevoli partiti e organizzazioni comuniste odierne ne rappresentano il tragicomico approdo.

Vestali di una ortodossia, comicamente declinata in una quantità di chiese da far invidia al burlesco mondo religioso statunitense, passano mestamente il tempo, oltre che nella reiterazione delle liturgie, andando alla ricerca della “vera” interpretazione dei testi. Così come la Bibbia, il Corano, la Torah e il Talmud, a seconda dei gusti, hanno già detto tutto anche i “sacri testi marxisti” sono, in sé, esaustivi si tratta solo di saperli interpretare. Un fare dottrinario il quale, grottesco a parte, dimentica che tutta la storia del movimento comunista è storia di eresie e, sotto questo aspetto, il leninismo è stata l’eresia per eccellenza.

Ogni fase storica non può che rompere con il passato e porre in atto la “sua ortodossia” che risulta, e non potrebbe essere altrimenti, blasfema nei confronti di ciò che l’ha preceduta, ma non solo. Ogni composizione di classe elabora un “punto di vista” che è il frutto di molteplici fattori i quali nulla hanno più a che fare con le retoriche che hanno fatto da sfondo alle epoche passate. Come ricorda Marx è la borghesia rivoluzionaria che, per glorificare se stessa, attinge dalle epoche eroiche del passato tanto che, la Grande rivoluzione, si specchiò nella Roma repubblicana, ma ciò non vale per il proletariato. Le rivoluzioni proletarie stanno sempre sul filo del tempo e benché se con le spalle sono sempre rivolte al futuro, è sul presente che focalizzano sguardi e desideri. A ben vedere, infatti, il famoso vogliamo tutto (e lo vogliamo adesso) degli operai Fiat non era poi così innovativo poiché non era altro, sicuramente sotto altra forma, del sogno comunardo che sparando agli orologi liberava, qui e ora, il tempo e la vita dagli imperativi del capitale o dell’Ottobre che poneva fine alla guerra e consegnava, qui e ora, il potere ai Soviet.

La classe è sempre “immediatista” e non potrebbe essere altrimenti, il che la rende poco prona alle retoriche del “sol dell’avvenir”. La sua “Teologia” è sempre una teologia del presente poiché se “lo stato di eccezione” è la condizione di vita normale degli operai la lotta per la sua abolizione non può che avvenire adesso. Per la classe il “paradiso” non può attendere e per questo non può che elaborare in continuazione una “eresia” in grado di farsi programma di potere del e per il comunismo. In questo senso, allora, si può parlare a ragione di “invarianza” della “linea di condotta” operaia e proletaria ma, una volta riconosciuto ciò, quella che va colta è la dimensione concreto all’interno della quale la “invarianza proletaria” prende forma.

Se pensiamo all’Italia, il paese dove tra gli anni ’60 e ’70 il conflitto di classe ha raggiunto la massima tensione all’interno di un contesto imperialista, è abbastanza facile notare quanto solo le realtà “eretiche” siano state le sole a incarnare le necessità della nuova composizione di classe. Lotta continua e Potere operaio prima, L’Autonomia operaia (con tutte le sue anime), le Brigate rosse e Prima linea dopo sono state le organizzazioni che, alla scala della storia, possono dire di aver rappresentato l’espressione concreta della classe e della sua soggettività mentre la miriade di partiti, partitini e organizzazioni sorte ideologicamente e non materialisticamente sull’onda della lotta operaia e proletaria hanno conosciuto un’esistenza effimera della quale il mondo si è velocemente dimenticato.

Le organizzazioni sopra ricordate, invece, sono state in grado di segnare un’epoca proprio in virtù delle rotture che hanno esercitato nei confronti dell’ortodossia terzinternazionalista verso la quale, invece, tutti gli altri cercavano di farne risorgere i fasti. Un po’ come oggi le varie sette si interrogano su quale sia il modo giusto e corretto di interpretare le scritture in quel periodo gruppi e gruppetti, all’ombra della salma di Lenin ma non della sua teoria politica, si arrovellavano il cervello per rimettere in vita il cadavere della Terza internazionale e più si intestardivano in ciò, più precipitavano nel tragicomico.

Lotta continua e Potere operaio per prime e successivamente le organizzazioni sorte dalle ceneri di queste si caratterizzarono proprio per la rottura con la pur eroica storia della Terza internazionale. L’operaismo constatò, e fu una vera e propria rivoluzione copernicana, la fine della separazione tra lotta economica e lotta politica mentre, le Brigate rosse, decretarono la fine della divisione tra politico e militare. Due passaggi che rompevano radicalmente con tutta una tradizione ma che, alla prova dei fatti, risultarono essere decisivi per ciò che una determinata composizione di classe e coeva soggettività aveva imposto al treno della storia. Con non poca ironia rimane da rilevare come nei confronti di tutte queste esperienze gli ortodossi dell’epoca riversarono tutte le accuse che i leader della Seconda internazionale rovesciarono su Lenin. Le accuse di blanquismo, anarchismo, terrorismo, spontaneismo ecc., andarono a ruba ma il tempo è galantuomo e dei censori dell’epoca non è rimasto traccia mentre quelle organizzazioni fanno parlare di sé ancora oggi.

A partire da questa premessa proveremo a dire qualcosa sulla classe tenendo conto di ciò che i materiali empirici raccolti sembrano raccontarci. Se nell’articolo precedente abbiamo parlato del “punto di vista” del capitale, poiché l’omogeneità del suo progetto sembra uniformare l’intero fronte borghese con buona pace dei “tardo comunisti” alla ricerca di frazioni di borghesia da cooptare in un novello “fronte nazionale sovranista” al fine di ridare fiato al mostro dello stato–nazione, adesso siamo obbligati a parlare dei “punti di vista” della classe.

Già, “punti di vista” poiché ciò che empiricamente ci racconta la classe è una pluralità che solo i ciechi e gli ottusi, o entrambi, non sono in grado di cogliere ma non solo. Se per molti versi ciò è sempre stato vero poiché la classe non è mai stata un tutto omogeneo, oggi a venir meno è l’esistenza di un settore di classe in grado di riunificare sotto la sua direzione l’intero corpo di classe. Oggi nessuna frazione della classe può assolvere a questo compito poiché alcun luogo di lavoro può vantare quella centralità che, per esempio, è stato in grado di esercitare, nel corso degli anni ’60 e ’70 italiani, il proletariato concentrato nella grande fabbrica fordista . La frantumazione del lavoro e il suo essere flessibile e precario ha posto in essere un proletariato la cui esistenza ben poco ha a che spartire con il passato, ma non solo.

Il mondo globale ha fatto saltare, o lo sta facendo, tutte le retoriche europee del “novecento” dando forma e corpo a una tipologia proletaria affine a ciò che possiamo in qualche modo definire proletariato internazionale. Una figura che ha perso, o tende a farlo, la “particolarità europea” per allinearsi, sicuramente con gradazioni assai diverse, a quella massa operaia, proletaria e subalterna attraverso la quale il comando dell’era globale pone in atto i suoi cicli di accumulazione su scala planetaria. Ma questo, andando al sodo, cosa comporta? Partiamo da ciò che la nostra modesta inchiesta è in grado di raccontarci.

Il primo aspetto che pare sensato evidenziare riguarda le piccole rotture che si sono verificate all’interno del corpo sociale che ha dato vita al movimento contro la legge sulle pensioni. Abbiamo visto come, se pur in maniera estremamente ridotta, piccoli gruppi di aristocrazia operaia abbiano rotto gli argini, posizionandosi in maniera del tutto anomala rispetto al grosso del movimento. Blocchi selvaggi e azioni di sabotaggio hanno caratterizzato questa rottura. Non siamo certo in grado, a partire da queste scarne notizie, di ipotizzare cosa e dove porterà tutto ciò, quello che possiamo fare, però, è tentare un ragionamento su questa tendenza. Sicuramente, almeno per ora, la stragrande maggioranza del mondo dei garantiti sembra ben distante dal cogliere il vero senso della posta in palio di ciò che ha rappresentato lo scontro sulle pensioni e continua a coltivare l’illusione che, in fondo, tutto finirà con l’aggiustarsi ma questa convinzione non può che andare in frantumi a fronte di ciò che il “piano del capitale” si è posto come obiettivo strategico. A quel punto i garantiti dovranno prendere atto che o accettano di lottare sui livelli di scontro imposti dal comando o devono rassegnarsi a soccombere.

Sicuramente la parte di garantiti più avanti negli anni, non senza sensatezza, proverà a tirare a campare e a gestirsi una vecchiaia senza troppi scossoni, ma in Francia tra i garantiti vi sono moltissime persone giovani per le quali le trasformazioni in atto avranno conseguenze non proprio irrilevanti e per le quali tirare a campare non sarà possibile poiché, un passo dopo l’altro, la loro condizione sarà sempre più assimilata a quella massa sterminata di “proletariato senza volto” i cui numeri, anche in Francia, sono già maggioranza. Certo questo settore di classe, per condizione e tradizione, non ha grande dimestichezza con determinate forme di lotta ed è sicuramente più moderato del “proletariato senza volto” ma, dalla sua, ha una non secondaria attitudine all’organizzazione e alla disciplina aspetti che, palesemente, sembrano assenti al resto della classe.

Nei probabili scollamenti del prossimo futuro queste attitudini non verranno sicuramente meno e potrebbero essere riversate, sicuramente in maniera non meccanica, sull’intero corpo di classe offrendo loro una base intorno alla quale costruire processi organizzativi il che sarebbe tanta manna per un proletariato più prossimo al riot che alla strutturazione di una lotta di lunga durata. Il tutto senza dimenticare che, questa classe operaia e questo proletariato, trova la sua base di forza dentro i luoghi di lavoro i quali, una volta depurati dalle retoriche prone alla concertazione, potrebbero trasformarsi in luoghi del potere operaio a tutto tondo.

Stiamo sognando? Forse, ma in fondo non è da oggi che ci muoviamo dicendo: “Bisogna sognare!” e siamo pericolosi e realisti proprio perché sogniamo si ma “a occhi aperti”. Quanto appena esposto è sicuramente solo un’ipotesi e una possibile tendenza le cui basi, però, hanno ben poco del fare ingenuo degli eterni acchiappa nuvole, ma affondano le loro radici all’interno dei processi materiali posti in atto dal comando stesso perciò: chi vivrà, vedrà!

Detto ciò proviamo a dire qualcosa intorno al caos che fa da sfondo alla stragrande maggioranza della classe. Abbiamo visto come le vite di questo proletariato siano ben poco stabili per cui lo scavo della “vecchia talpa” non può avere un cammino lineare. Rispetto all’epoca che ci siamo lasciati alle spalle una prima cosa sembra centrale: il territorio più che il luogo di lavoro può essere il punto di forza della classe. Siamo cresciuti in epoche in cui il “potere operaio” di fabbrica si irradiava sul territorio dando forza a tutte le componenti del proletariato metropolitano oggi, con ogni probabilità è necessario praticare l’inverso. Se, per tutta una fase, era stato possibile fare della fabbrica un Vietnam oggi quella logica va riversata sul territorio il che non vuol dire abbandonare i posti di lavoro come luoghi del conflitto ma, più realisticamente, prendere atto dei rapporti di forza in atto; del resto, anche nel corso dell’epopea del potere operaio di fabbrica, in determinati contesti era l’esterno a fare da supporto all’interno, il territorio all’officina,

Accanto alla grande fabbrica fordista o alle consorelle di media dimensione erano pur sempre presenti un pullulare di piccole aziende e officine dove i rapporti di forza padroni – classe operaia non potevano certo vantare quelli messi in campo dentro le grosse concentrazioni operaie e che, per molti versi, vivevano una condizione non dissimile da quella che riscontriamo oggi tra gran parte della classe. In quei contesti, per poter vincere, la lotta operaia necessitava di un supporto, tutta la storia delle ronde e delle squadre operaie racconta esattamente questa storia. Per alcuni versi, quindi, molti aspetti del passato sembrano doverosamente convivere con alcuni tratti del presente.

L’organizzazione all’interno dei posti di lavoro rimane sicuramente essenziale, e fortunatamente abbiamo non secondarie avvisaglie di settori precari che si muovono in quella direzione, ma resta pur sempre il fatto che se lasciate a se stesse queste lotte possono essere facilmente isolate prima, annichilite dopo. Perché queste lotte non rimangano invisibili occorre che vengano fatte proprie in maniera militante da ampi spezzoni di classe e questo ci porta a affrontare uno dei temi costantemente emersi nel corso della ricerca: la militarizzazione del territorio.

Abbiamo visto come sia intorno all’industria del turismo che la forza lavoro precaria trova occupazione e come questi luoghi, per assolvere appieno alla loro funzione produttiva, debbano essere forzatamente pacificati. In questi luoghi del conflitto non si deve avere neppure il più lontano sentore. Ciò comporta che, anche una normale lotta “sindacale”, non possa essere tollerata ma non solo perché andrebbe a incrinare quel frame che è l’inizio e la fine della “città turistica”. Qua ogni lotta deve essere rimossa e rimossa deve essere tutta quella parte di popolazione mobilitatasi intorno alla lotta. Tutto ciò, per forza di cose, impone un salto politico e organizzativo, il “diritto alla lotta” può essere esercitato solo attraverso la messa in campo di determinati rapporti di forza e questi rapporti, senza girarci troppo attorno, comportano anche la strutturazione di una “forza operaia” in grado di arginare e incrinare le logiche e pratiche di militarizzazione intorno alle quali è costruita la “città turistica”.

Abbiamo fatto solo un piccolo esempio che, però, è in grado di evidenziare la complessità che l’organizzazione del nuovo proletariato si porta appresso. La questione della militarizzazione non si ferma a ciò. Abbiamo visto come è dentro il quartiere proletario che si raggiungono i massimi livelli repressivi e militari, ma abbiamo visto anche come, proprio dentro il quartiere, forme di organizzazione più o meno formali prendano corpo. Il quartiere proletario è un concentrato di tensioni e conflitti che la “forma–stato” attuale può solo contenere e reprimere non certo mediare. Lì diventa possibile costruire “forme di potere proletario” che facciano del territorio una sorta di “zona liberata” all’interno della quale lo stato ha sempre più difficoltà a intervenire. Certo, come alcune interviste hanno ben evidenziato, dentro i territori non esiste una sola narrazione piuttosto una molteplicità di “punti di vista” che non possono essere unificati per decreto ma solo attraverso la sperimentazione e la prassi, la sfida è esattamente qua.

Abbiamo visto, e non è un esempio secondario, come le donne e le loro lotte assumano un ruolo sempre più importante nei conflitti contemporanei e, per molti versi, si può anche asserire che le donne rappresentino uno dei punti più alti dello scontro in atto. La loro critica al patriarcato è immediatamente critica al mostro statuale il che non è proprio un passaggio privo di ricadute. Le donne chiudono a ogni illusione sulla “forma–stato” delle cui nefandezze, semmai ve ne fosse ancora bisogno, il “socialismo reale” ha dato ampia testimonianza. Nella pratica e nelle lotte delle donne si afferma un “potere costituente dal basso” che, per alcuni versi, fa riecheggiare quel: Tutto il potere ai Soviet! su cui si era irradiato l’Ottobre ma lo fa in maniera decisamente più radicale poiché, alle spalle, ha una storia e una pratica che ha posto in evidenza come sia impossibile fuoriuscire dai rapporti sociali capitalisti se non si intaccano a fondo le strutture, la famiglia e tutti i suoi derivati normativi in primis, che di questi rapporti ne sono i capi saldi. La lotta contro il sessismo e l’omofobia ne rappresentano un tratto per nulla secondario, infine sono le donne che, quasi all’unisono, pongono la questione della autodifesa e dell’esercizio della forza e non è proprio una cosa da poco.

Un altro aspetto emerso riguarda il retaggio della memoria coloniale e l’assunzione in termini “culturali”, l’ostentazione del “velo” ne è la migliore esemplificazione, di questa storia. Si tratta di qualcosa, almeno per noi, di spiazzante ma che non può e non deve essere liquidato come qualcosa di irrisorio. Abbiamo visto come queste retoriche, significative le interviste che hanno affrontato il tema della prigione, siano in grado di ottenere una certa presa, poiché in grado di fornire una identità forte, tra gli strati più bassi della popolazione postcoloniale e per questo non possono essere liquidate in quattro battute.

In fondo queste retoriche ci dicono quanta “fame di politica” abbiano le masse e questa “fame”, se non trova una sponda comunista, finisce facilmente con l’essere saziata dai vari “fondamentalismi”. Sulla “fame di politica” delle masse si era consumata, e mai come in questo frangente sembra il caso di ricordarlo, una drastica rottura tra Lenin e ciò che passerà alla storia come menscevismo poiché, mentre i menscevichi consideravano l’operaio incapace di andare oltre alla “lotta per il copeco”, Lenin coglieva il bisogno di politica, che per lui era il bisogno dell’insurrezione, che, anche se in maniera spesso confusa si agitava tra le masse.

Il “gemito degli oppressi” di queste masse, allora, non è altro, pur se in forma alienata , che la richiesta di una prospettiva politica che lo porti fuori dallo “stato di eccezione”. La cooperazione di alcuni di questi dentro le lotte per la casa nei quartieri è di per sé indicativo. Siamo di fronte a un proletariato frantumato che solo dentro la lotta può ipotizzare di ricomporsi e costruire organizzazione, per questo l’inchiesta militante è un momento essenziale della relazione tra soggettività della classe e soggettività politica.

Sulla scia di ciò, senza cullare eccessive aspettative, pare sensato asserire che nonostante tutto la Vecchia talpa sia viva e vegeta. L’autunno prossimo si profila particolarmente caldo poiché l’attacco del comando alle condizioni di vita del proletariato francese conoscerà un nuovo “grande balzo”, la sanità e i suoi costi sono già stati posti nel mirino di Macron. Per quelle date ci auguriamo di riprendere le nostre “cronache marsigliesi” con narrazioni maggiormente entusiaste.

]]>
Le montagne, le resistenze, le comunità e la Rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2020/06/10/le-montagne-le-resistenze-le-comunita-e-la-rivoluzione/ Wed, 10 Jun 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60216 di Sandro Moiso

NUNATAK, rivista di storie, culture, lotte della montagna, N° 56 primavera 2020, edizioni Nunatak, pp. 80, 3 euro

Una rivista che potremmo ormai definire ‘storica’ raggiunge il suo 56esimo numero cartaceo. Nunatak, parola che, nella lingua dei popoli inuit del polo artico, indica le formazioni rocciose che spuntano dalla coltre ghiacciata della Groenlandia e del circolo polare antartico, da quindici anni racconta le storie, le culture e le resistenze che si sono sviluppate nell’ambito dei territori di montagna; molto più ricchi di esperienze e Storia di quanto la vulgata [...]]]> di Sandro Moiso

NUNATAK, rivista di storie, culture, lotte della montagna, N° 56 primavera 2020, edizioni Nunatak, pp. 80, 3 euro

Una rivista che potremmo ormai definire ‘storica’ raggiunge il suo 56esimo numero cartaceo.
Nunatak, parola che, nella lingua dei popoli inuit del polo artico, indica le formazioni rocciose che spuntano dalla coltre ghiacciata della Groenlandia e del circolo polare antartico, da quindici anni racconta le storie, le culture e le resistenze che si sono sviluppate nell’ambito dei territori di montagna; molto più ricchi di esperienze e Storia di quanto la vulgata sociologica, storica, economica e politica progressista e modernista abbia mai voluto concedere.

Non è un caso, infatti, che le montagne siano state la culla di eresie religiose e politiche, di modelli comunitari e di organizzazione sociale che hanno finito con l’attirare sui territori ‘alti’ ribelli, banditi, e rifugiati nel passato e, ancora oggi, cittadini più o meno comuni, giovani e meno giovani, alla ricerca di modi di vita alternativi a quello prodotto dal sistema riassumibile nella formula lavora, produci, consuma e crepa. Un modello tutto incentrato sulle necessità produttive e riproduttive del modo di produzione capitalistico che, nel corso dei secoli, si è affermato anche grazie alla riduzione e alla rimozione delle autonomie delle comunità montane e della loro organizzazione sociale.

Dalla Resistenza, con la creazione delle più importanti e numerose unità partigiane proprio tra le valli montane, alla lotta NoTav in Valsusa, che da fatto locale si è trasformata da subito in un’esperienza in grado di rimettere in discussione l’intero asseto dei rapporti sociali, politici, economici, mafiosi e militari su cui si basa l’attuale assetto dello Stato italiano (ma non solo), è possibile individuare nelle montagne uno spazio specifico di conflitto che se da un lato può mettere in crisi il modello di società pacificata dominante, dall’altro può vedere rinascere forme di organizzazione e riproduzione della vita sociale che affondano le proprie radici in una storia mai veramente ‘finita’ di resistenze e rifiuti di cui le rocce,le valli, i pascoli, le borgate e le comunità montane portano ancora un’innata e ineliminabile memoria.

Ecco allora che Nunatak può costituire, con i suoi 56 numeri usciti fino ad ora (tutti consultabili in pdf qui), un autentico atlante psicogeografico, storico e politico delle esperienze, ritrovate o scoperte ex-novo, di cui si parlava poco sopra. Una rivista che esce ostinatamente in cartaceo proprio perché non ha dismesso la funzione di strumento di agitazione e di organizzatore collettivo che la stampa ha avuto e ancora oggi, in una età di reti e social che virtualizzano e spesso impoveriscono sia il confronto politico che i ragionamenti necessari, può avere.

Intorno alle sue pagine i ‘militanti delle rivoluzioni a venire’, gli abitanti delle zone montuose in cui la rivista è distribuita e presente, i semplici amanti della montagna e della Natura possono trovarsi, discutere, magari litigare per poi ancora ritrovarsi, ma comunque e sempre vis a vis, faccia a faccia nel modo più umano e condiviso possibile. L’altitudine e la distanza dal caos metropolitano possono infatti servire non soltanto a liberare i polmoni e le voci dall’inquinamento ambientale più deteriore e pestifero, ma anche a liberare le menti dallo smog delle ideologie e dai veleni di una società sempre più soffocata dalla banalizzazione e mercificazione dell’esistente, dei comportamenti e degli strumenti del comunicare.

Il numero qui recensito esemplifica perfettamente quanto fin qui detto, con un ricco indice che vede articoli che trattano della storia antica della tradizione dei fuochi, divisa tra ritualità e sussistenza, lungo tutto l’arco alpino; della speculazione ambientale insita nell’ideologia del capitalismo green e dell’eolico industriale oppure della difficile Resistenza al nazi-fascismo in Alto Adige, attraverso le memori e di uno degli ultimi partigiani recentemente scomparso (Quintino Corradini detto “Fagioli”). Vi è poi una lettera dal carcere di Monza di Manuel Oxoli, seguita dall’esperienza di “esplorazione alpina” del gruppo di escursionismo politico Trûc, da una denuncia degli impianti per il 5G come strumento di controllo totalitario dei territori e da un prezioso manuale pratico di resistenza all’oppressione che si rifà alle esperienze di lotta contro gli eserciti di occupazione dei territori dei popoli del Vietnam, dell’Afghanistan e della Colombia, intitolato Bambù e barbecue…Saperi senza tempo né confini.

Ma è in particolare l’editoriale, Il problema è la soluzione, a lanciare autenticamente e senza nascondere la mano il sasso nelle acque stagnanti delle fin qui povere, per la maggior parte, riflessioni sul Coronavirus e le paure suscitate e ed alimentate da un sistema mediatico-poliziesco che ha approfittato dell’allarme e delle incertezze scientifiche per imporre un’uniformità di comportamenti ed un controllo, verrebbe da dire ‘psichico’, dei comportamenti con un esperimento politico-militare forse mai tentato prima su scala planetaria o quasi.

La novità di questi giorni non sta nel fatto che si usi lo stato d’eccezione: questo è da tempo diventato la norma. Semplicemente i nostri governanti non hanno più altri argomenti. Il fatto per certi versi inedito, e ricco di potenzialità, è che questa società è costretta a mettere in campo interventi che mettono in crisi il suo stesso funzionamento. Una società globale fondata su flussi continui di persone e merci, e che non può far altro che bloccare tutto e chiudere tuti in casa, semplicemente non può durare, è destinata a crollare in fretta.
Gli scenari che si aprono possono essere appassionanti. Non abbiamo sempre detto e urlato che dobbiamo farla finita con il mondo della Merce e dell’Autorità, perché questo sistema malato, iniquo e insensato ci sta portando dritti nel baratro? Allora forse questo è il tempo di finirla con le lamentele sullo Stato di polizia, sulla spietatezza dei padroni, sulla mala sanità… Forse è giunta l’ora di organizzarsi per costruire altro. Non sarà immediato e non sarà indolore, ma quale altra possibilità abbiamo? […] Del resto quali alte prospettive abbiamo? Se possiamo comprendere i motivi strumentali o di necessità di fronte all’emergenza che hanno portato molte persone a promuovere forme di solidarietà per…consegnare ai vicini le merci dei supermercati, crediamo che una riflessione autocritica sia quanto mai necessaria. Dopo anni di slogan come “blocchiamo tutto”, “fermiamo i flussi di merci”, oggi che questo accade – e non certo grazie a noi – diventa evidente la schizofrenia di affermare una cosa e trovarsi a fare il suo contrario. Tutto questo deve dirci qualcosa. Non ci parla forse del ritardo con cui arriviamo ogni volta ai presunti appuntamenti della storia? Non ci sbatte forse in faccia la necessità di deciderci a riempire questa impreparazione, invece di sfinirci a rincorrere emergenze che ci lasciano ogni volta sempre più impreparati per la prossima? […] significa farla finita con l’attesa, colmare lo scarto che ci fa vivere sempre in attesa di qualcosa di là da venire. […] La rivoluzione è oggi: e non soltanto perché comincia ora, nella quotidianità, come processo che colma le nostre lacerazioni, ma anche perché la catastrofe c’è già stata e il diluvio è in corso. La rivoluzione non sarà la presa del Palazzo d’Inverno, la rivoluzione è il processo storico che sta sgretolando una civiltà e generando qualcos’altro. […] Sta a noi provare a far sì che prenda una direzione piuttosto che un’altra.[…] La catastrofe è ogni giorno, e ogni giorno sono le opportunità, le crepe,le occasioni.[…] Le occasioni sono tali solo se c’è qualcuno che le coglie. Se no, non sono niente. Dobbiamo trasformare le nostre ferite in feritoie, prima che sia troppo tardi. 1

La rivista è disponibile oltre che nelle edicole, le librerie, i circoli e i collettivi che già la distribuiscono, anche presso la Biblioteca Popolare Rebeldies, via Savona 10 – 12100 Cuneo
e-mail: nunatak@autistici.org


  1. Editoriale, Nunatak n°56, pp. 7-12  

]]>
Una storia di inquisitori, culti ancestrali e No Tav https://www.carmillaonline.com/2019/08/28/una-storia-di-inquisitori-culti-ancestrali-e-no-tav/ Wed, 28 Aug 2019 20:45:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53951 di Sandro Moiso

Riccardo Borgogno, La valle degli eretici, Edizioni Tabor, Valsusa luglio 2019, pp. 336, euro 12

“Il priore del convento, il balivo del Castrum, i catari, i templari, il fantasma del castello, l’uomo selvatico, il sabba delle streghe…che storia!” Basterebbero già queste poche parole, dette da uno dei personaggi secondari del romanzo, per riassumere alcuni dei temi trattati nel testo di Riccardo Borgogno appena pubblicato dalle dizioni Tabor della Valsusa. Ma per averne un’immagine più esatta e completa occorrerebbe aggiungerne altre: culto di Diana, formaggi, Savoia, Escartoun, Poveri di Lione, [...]]]> di Sandro Moiso

Riccardo Borgogno, La valle degli eretici, Edizioni Tabor, Valsusa luglio 2019, pp. 336, euro 12

“Il priore del convento, il balivo del Castrum, i catari, i templari, il fantasma del castello, l’uomo selvatico, il sabba delle streghe…che storia!”
Basterebbero già queste poche parole, dette da uno dei personaggi secondari del romanzo, per riassumere alcuni dei temi trattati nel testo di Riccardo Borgogno appena pubblicato dalle dizioni Tabor della Valsusa. Ma per averne un’immagine più esatta e completa occorrerebbe aggiungerne altre: culto di Diana, formaggi, Savoia, Escartoun, Poveri di Lione, complotti e, soprattutto, Movimento No Tav.

Le edizioni Tabor, da sempre impegnate nella pubblicazione di testi e saggi riguardanti le culture e le resistenze montane non solo valsusine, esordiscono nella letteratura con un romanzo “popolare” in cui storia e tradizioni valligiane si mescolano con il presente e i suoi dilemmi. Sociali, culturali e politici. Un incrocio di percorsi, narrazioni (soggettive e corali), memorie e cronache antiche e moderne che il titolo riassume perfettamente.

Come l’autore fa ancora dire ad un altro personaggio, una libraia di Bussoleno:

Gli abitanti di questa valle hanno una lunghissima tradizione di autogoverno, fin dall’epoca dei primi insediamenti umani. Siamo gente orgogliosa, solidale e laboriosa. Contrari al progresso, come i sostenitori dell’Alta Velocità ci accusano di essere? Se ti guardi intorno noterai che abbiamo automobili, televisori, computer e cellulari, come tutti. Non è questo il punto. Il punto è che, da sempre, la gente di questa valle fa quadrato contro chi arriva e vuole imporsi. E non è neppure questione di un atteggiamento di chiusura che sarebbe tipico delle genti di montagna, come spesso si sente affermare da chi in realtà non conosce né queste genti né la montagna. Da queste parti, infatti, siamo accoglienti con il forestiero, ma non con chi viene qui per comandare. E’ successo prima con i Romani, poi con Re e Imperatori, ora con l’Alta Velocità. Inoltre, forse perché abbiamo avuto parecchie rogne con il potere, ci stanno simpatici i diversi, i ribelli, la gente strana. Per questo le eresie di tutte le risme qui attecchirono facilmente e i loro sostenitori trovarono rifugio. Inoltre, l’Alta Valle fa parte dell’Occitania, la terra dei catari, che il papa e il re di Francia di comune accordo sterminarono […] Gli inquisitori arrivavano da fuori, giudicavano e condannavano sulla base dei dogmi decisi a Roma o, nel periodo che ti interessa, ad Avignone. Di qui il sostegno agli eretici e ai dissidenti, i minoritari e i perdenti della storia.
Non a caso durane l’occupazione nazista, dalla Valsusa uscirono molti partigiani. Nel dopoguerra, poi, qui il PCI è sempre stato forte e, dopo il Sessantotto e l’”autunno caldo”, parecchi giovani della valle hanno militato nelle nuove organizzazioni, soprattutto Lotta Continua. Poi, a metà degli anni Settanta, vi erano ben radicate l’Autonomia, Prima Linea…[…] E così anche per l’Alta Velocità. Tu vieni nel mio territorio con la forza, e io mi oppongo con la forza. Non poteva essere diversamente in una valle con la tradizione dei partigiani prima e della contestazione degli anni Settanta poi. Quelli del TAV dovevano aspettarselo. Era il loro turno.1

La breve sintesi qui riportata può funzionare meglio di tante altre analisi per far comprendere le radici storiche, culturali e sociali di una lotta che va avanti ormai da più di trent’anni e che non sembra affatto destinata a demordere o concludersi.
Ma la lotta odierna della valle si intreccia, nelle vicende narrate da Borgogno, con l’omicidio, realmente avvenuto il 2 febbraio del 1365, dell’inquisitore generale Pietro Cambiano da Ruffia, nei pressi del convento dei frati minori di Susa, all’epoca ancora Segusia. Inquisitore dichiarato martire di Santa Madre Chiesa dopo che tale delitto fu attribuito, senza alcuna prova, ad una mano eretica o valdese.

E’ proprio attorno a questo omicidio che un giovane ricercatore, l’”eterno studente” come viene definito nel libro, Olimpio Vaglio, viene chiamato ad indagare da un piccolo editore ai fini di una nuova e curiosa pubblicazione. Attraverso questa ricerca lo spiantato indagatore del passato giungerà a stabilire un collegamento reale con diversi membri della comunità valsusina e del movimento contro l’Alta Velocità, ma anche uno ideale, attraverso i secoli, con i due altri veri protagonisti della vicenda: l’inquisitore stesso e Leonella da Gorzano, signora del luogo e donna emancipatissima che con Pietro da Ruffia riuscirà a stabilire un contatto personale ed intellettuale destinato a far traballare le convinzioni di un domenicano già di per sé poco propenso a dare ascolto ai messaggi più retrivi provenienti dai vertici della Chiesa e dai suoi servi più fanatici.

Il romanzo è ricco di personaggi, appartenenti sia all’epoca dell’omicidio che a quella attuale. Tra questi risaltano quelli di alcuni miserabili complottisti odierni, il cui ruolo sembra essere quello di riassumere l’effimera e superficiale immagine del “progresso” che il progetto dell’Alta Velocità sembra destinato a portare con sé, e di uno scrivano al servizio dell’inquisitore generale, Demetrio da Mondovì, autentica anima nera delle vicende medievali.
Altri omicidi, nel presente (2012) e nel passato (1364-65), faranno da corollario alla narrazione ma non è qui il caso di spingersi troppo oltre per non rovinare al lettore il piacere e la sorpresa della lettura.

Piuttosto ciò che va sottolineato è la presenza importante delle donne all’interno delle vicende, soprattutto in quelle ambientate nel Medio Evo. Quasi a voler ricordare una funzione sociale che la soppressione dei culti pagani e l’affermazione di principi religiosi e normativi cristiani hanno contribuito a rimuovere insieme alle comunità di cui erano invece una parte importante e decisiva. Così come, a distanza di secoli, è tornato ad essere nel movimento No Tav. Non a caso così vicino alle esperienze messe in pratica dalle comunità del Rojava curdo e dalle sue donne.

Riccardo Borgogno, nato nel 1954 a Torino, ha collaborato a lungo come sceneggiatore per diverse case editrici di fumetti e ha scritto diversi romanzi, l’ultimo dei quali era stato precedentemente segnalato anche qui su Carmilla.
E’ inoltre storico redattore di Radio Blackout per la quale conduce un programma di letteratura e scrittura: La perla di Labuan.


  1. R. Borgogno, La valle degli eretici, Tabor 2019, pp. 159-160  

]]>