epidemia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Felicità e panico nella società distopica contemporanea https://www.carmillaonline.com/2024/03/07/felicita-e-panico-nella-societa-distopica-contemporanea/ Thu, 07 Mar 2024 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80668 di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve [...]]]> di Gioacchino Toni

Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica. Appendice di Edoardo Ferrini, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 280, € 24,00

La paura per il contagio pandemico, per il nucleare e l’angoscia per il destino del Pianeta non sono che le avvisaglie più eclatanti che esprimono lo smarrimento che pervade il mondo occidentale che, sostiene Giulio de Martino, sembra sostituire al piacere per il consumo e per lo spettacolo l’angoscia, una sorta di fusione distopica tra l’anticipazione mediatica delle tragedie e la loro emergenza reale. Una situazione in cui lo spettatore turbato riceve dai media gratificanti inviti al godimento insieme a scariche sensoriali che gli rendono le catastrofi familiari.

Riprendendo i concetti di postmodernità e ipermodernità, Giulio de Martino segnala come se posti in opposizione, questi tendono ad avere connotazioni rispettivamente utopistiche e antiutopistiche, mentre se collocati in sequenza indicano due epoche differenti: la postmodernità corrisponde all’espansione occidentale novecentesca mentre la ipermodernità al periodo più prossimo alla contemporaneità interpretata «come epoca di esplosione distopica delle contraddizioni e dei conflitti interni ed esterni all’Occidente» (p. 55).

A proposito della postmodernità Lyotard aveva evidenziato come comportasse la crisi dell’“universalità” conoscitiva, mentre Virilio si era preoccupato di sottolineare come con essa si entrasse nell’epoca della “condivisione dell’incertezza” e dell’empatia instabile. La postmodernità ha dunque finito per trasformarsi in una “condizione ipermoderna” eclissante l’universalismo antropologico (il cosmopolitismo) alla luce di una sorta di «coesistenza incomunicante (la globalizzazione). Una situazione in cui la pluralità definita delle persone e delle culture ha lasciato il posto al pluralismo indefinito degli “account” e dei “profili personali” sui social.

Dal punto di vista tecnologico, la Web culture è una postcultura includente e generalista, in cui si registra la presenza simultanea di tutte le culture e di tutte le lingue. Vi trovano spazio tutti i livelli di conoscenza, disposti senza gerarchia in un menù sempre attivo di generi e specializzazioni. La distinzione “verticale” fra la cultura High, Middle e Low (o “popular culture”) – come pure la distinzione “orizzontale” fra aree e gruppi locali culturalmente differenziati – ne risulta ridefinita e modificata.
Dal punto di vista cognitivo, la Web culture può provocare una scarsa interiorizzazione dei contenuti e una incerta differenziazione dovuta alla marcata astrazione digitale rispetto alla varietà degli ambienti e dei gruppi. Osservandola in atto nei numerosi dispositivi che la attivano, si può definire come una cultura “extramentale” e “transindividuale” di massa. La società cosiddetta omologata resta pluralista e discorde, ma non ha vie di uscita: consente soltanto percorsi di spostamento e di redislocazione al suo interno. La spettacolarizzazione e l’autofruizione indotte dalle tecnologie degli old e dei new media si svolgono nelle forme più estreme della semiosi e della metacomunicazione (dire qualcosa per dire altro). La trasformazione delle ideologie in mode e dei comportamenti divergenti, individuali e collettivi, in esibizioni e in messaggi prodotti all’interno dei mass media mostra come le azioni si riproducano come news. La guerra, la divergenza, la rivolta, il saccheggio, il crimine, il suicidio ecc. diventano Breaking News […]
La condizione di sradicamento dalla prossimità e di fruizione indifferente di tutto ciò che accade al mondo – ciò che Virilio chiama la “cecità” – non segnala un bivio davanti a cui l’umanità si trova, ma un evento già avvenuto. La postmodernità non pone un dilemma per l’Occidente. Piuttosto induce a livello planetario una situazione distopica che si chiama “ipermodernità” e che ha come conseguenza la crisi della certezza di vivere in un mondo di valori.
Il postmodernismo ha spinto la società occidentale ad esagerare le sue potenzialità e ad interpretare la società del “passato” e quella del “futuro” come se fossero la sua ombra e la sua anima. Il possibile e il probabile sono apparsi più reali di ciò che era avvenuto nel passato e di ciò che accadeva nel presente. Mentre nel mondo tradizionale, l’“oggi” veniva spiegato sulla base di ciò che era già avvenuto […] adesso il presente viene giudicato sulla base del futuro che ci si prospetta e la futurità si preannuncia nella forma della felicità, ma anche del panico e del terrore (pp. 58-59).

Nel volume Lo spettatore turbato, alla ricostruzione filosofica delle tappe principali che hanno condotto l’Occidente dalla postmodernità alla ipermodernità operata da De Martino, fa seguito un’appendice di Edoardo Ferrini, La sublime epidemia, incentrata sulle Esplosioni pandemiche nel cinema americano, ruotante attorno al concetto di rifugiato tecnologico derivato da Giorgio Agamben (A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet 2021).

A partire da una riflessione sul racconto La maschera della morte rossa (1842) di Edgar Allan Poe – da cui Roger Corman ha tratto l’omonimo film –, Ferrini evidenzia come in esso lo scrittore abbia messo in guardia «rispetto a due pericoli o dinamiche antropologiche concrete. In primo luogo, il Nemico virale è interno, non è racchiudibile all’esterno confinando i “sani”. […] Inoltre, il capro espiatorio da bandire – l’homo sacer di Giorgio Agamben – può tramutarsi in una forza autodistruttiva perché eccessivamente immunitaria». La peste mascherata narrata da Poe e, successivamente, da Corman,

agisce come gli odierni falsi positivi, è osmotica rispetto alla reale pandemia, anche se camuffata con le persone, che nella trovata finzionale del racconto ballano mascherate. Il falso positivo ha lo stesso linguaggio dell’uomo comune, gli effetti del virus non si vedono, sono come mascherati. Oltretutto […] mai come prima dell’insorgere del Covid-19, il linguaggio mediatico e sociale ha avuto una coincidenza così forte con i sintomi virali. La chiusura da lock-down, una delle conseguenze dei social media e della connessione “privata”, insieme alla proliferazione mediatica, globalizzata e virale delle notizie. Il tutto oggi rafforzato dalla tornata paura nucleare. In questa ricerca la distopia atomica e quella virale scorrono davvero in parallelo, a cominciare dal fatto che contengono alcune somiglianze fondamentali: l’esplosione nucleare causa malattie “virali” – la velocità di propagazione – la difficile localizzazione che crea il senso angosciante della Minaccia globalizzata. […]
La distopia non è esattamente una contro-utopia che magari esisteva prima di una reale od eventuale Nuova Atlantide, oppure che arriva Dopo in maniera del tutto antitetica rispetto all’utopia. No, a dire il vero le distopie sono utopie rovesciate, degenerate. […] L’effetto distopico è contaminato da paura-terrore, è dilagante, pandemico, ed è anche un effetto di rimpianto e di perdita, verso una protezione utopica non del tutto “ancora” realizzata. L’ordine militare, di certo una delle se non l’Utopia contemporanea, è ancora un “farmaco” protettivo, almeno dopo il crollo del muro di Berlino?
Il linguaggio mediatico a sua volta è quello che più di tutti ha affondato le radici nelle distopie. La premediazione è come una sottile interfaccia tra la realizzazione disastrosa e lo schermo protettivo. L’effetto è un duplice cortocircuito tra la minaccia imminente e il bisogno difensivo e catartico che l’esposizione mediatica dovrebbe procurare, aiutando lo spettatore turbato ad ambientarsi in un am­biente minacciato (pp. 231-232).

Dunque Ferrini prosegue il suo itinerario prendendo in esame Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick, Brazil (1985) di Terry Gilliam, la serie televisiva Better Call Saul (2015-2022) di Vince Gilligan e Peter Gould, World War Z (2013) di Marc Forster e The Batman (2022) di Matt Reeves, rapportando tali opere alla recente pandemia ed ai conflitti militari che stanno ridefinendo la vita degli individuali e delle collettività.

Se nell’opera di Kubrick l’aspetto distopico può essere identificato nella bomba, nel film di Gilliam, sottolinea Ferrini, esso è rappresentato dall’esercito che, al di là del presentarsi come garante della Sicurezza, agisce secondo finalità oscure mettendo in pericolo i cittadini che dovrebbe garantire.

Il patto hobbesiano per cui il Leviatano ha il potere assoluto, senza mai però attentare alla sicurezza degli “ominidi”, in questo caso crolla. E, seguendo Giorgio Agamben (2021), nel paradigma pandemico, il cittadino tende a tramutarsi nel rifugiato. L’esercito è ingovernabile, agito da un linguaggio assurdo che rende le operazioni militari pericolose quanto le “minacce” che dovrebbero sventare. Ecco, di nuovo l’utopia della sicurezza che cozza contro la distopia del Contagio, bellico nel film, fatto di fuoco, sparatorie, esplosioni (p. 234).

Difficilmente nei film pandemici viene messa in discussione l’esistenza del virus. Solitamente questo, al pari delle forze complottiste e negazioniste che alimenta, si presenta come una forza antisistemica fonte di divisione e disgregazione che si propaga orizzontalmente, nelle modalità proprie della biopolitica o del biopotere di cui si è occupato Michel Foucault rifiutando

la derivazione verticale dei o dai “poteri forti”. È quindi più giusto parlare di ritorno alla distopia del totalitarismo nel suo paradigma immunitario, oggi. O quantomeno esiste il pericolo. Anche se tale distopia si avverasse, sarebbe di certo diversa dal classico totalitarismo staliniano diretto dall’Alto.
E, soprattutto se tale potere dall’alto esistesse veramente, la storia mostra che non è infallibile, come testimonia esemplarmente l’esplosione del reattore di Chernobyl. Rimane la distopia della contro-informazione, del proliferare altrettanto virale delle fake news. Nei totalitarismi basati sull’apologia e l’assolutizzazione del Sistema rispetto agli Individui, non fare trapelare le responsabilità del potere è più importante di sventare la minaccia effettiva (p. 243).

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Epidemia, media e controllo sociale https://www.carmillaonline.com/2021/03/14/epidemia-media-e-controllo-sociale/ Sun, 14 Mar 2021 22:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65347 di Paolo Lago

Andrea Miconi, Epidemie e controllo sociale, manifestolibri, Roma, 2020, pp. 127, € 10,00.

Adesso che – come viene annunciato a gran voce dai media – sta per iniziare un nuovo periodo di lockdown, chiusure e restrizioni, con una estensione della cosiddetta “zona rossa” a tutta l’Italia, è sicuramente interessante riprendere in mano un pamphlet di Andrea Miconi uscito lo scorso novembre per “manifestolibri”, dal titolo Epidemie e controllo sociale. L’analisi offerta dal sociologo dei media, docente all’Università IULM di Milano, si focalizza soprattutto sul periodo di marzo-aprile 2020, il famigerato “primo [...]]]> di Paolo Lago

Andrea Miconi, Epidemie e controllo sociale, manifestolibri, Roma, 2020, pp. 127, € 10,00.

Adesso che – come viene annunciato a gran voce dai media – sta per iniziare un nuovo periodo di lockdown, chiusure e restrizioni, con una estensione della cosiddetta “zona rossa” a tutta l’Italia, è sicuramente interessante riprendere in mano un pamphlet di Andrea Miconi uscito lo scorso novembre per “manifestolibri”, dal titolo Epidemie e controllo sociale. L’analisi offerta dal sociologo dei media, docente all’Università IULM di Milano, si focalizza soprattutto sul periodo di marzo-aprile 2020, il famigerato “primo lockdown” e prende in esame la rappresentazione dell’emergenza epidemica creata dai più svariati media, dalle televisioni ai giornali e a Internet, incentrata su uno specifico dispositivo di controllo sociale, la colpevolizzazione del cittadino. Tale dispositivo serve alla classe dirigente per nascondere le proprie, gravi responsabilità nella gestione dell’emergenza: impreparazione, incapacità organizzativa, mancanza delle infrastrutture sanitarie adeguate e via di seguito. Una tale deresponsabilizzazione della classe dirigente e una tale strategia di colpevolizzazione dell’altro – nota Miconi – non potrebbero funzionare se non nascessero, come una metastasi foucaultiana, all’interno del corpo sociale.

L’analisi dello studioso prende le mosse dal mantra, continuamente ripetuto e dotato di hashtag, “io resto a casa”. Dai media è stata fatta passare l’assurda idea che ci potesse essere qualcosa di bello nel restare reclusi in casa: secondo Miconi, “restare chiusi in casa per mesi non è né bello né brutto: è orribile”. Certo, non tutti possiedono appartamenti ampi e assolati, attici luminosi o enormi ville con giardino come i personaggi famosi che, per mezzo di ogni media, ci invitavano a restare a casa, “per il nostro bene”. E non tutto il tessuto sociale del paese è composto da famiglie felici stile “mulino bianco”: ci sono anche i single, i quali compongono ben un terzo dei nuclei domestici italiani (e alla cui categoria appartiene anche chi scrive questa recensione). Anche a loro “è stato chiesto di restare due mesi senza alcun contatto umano, cosa volete che sia”. Con il divieto di vedere gli amici, che spesso e volentieri sono considerati molto più importanti dei cosiddetti “parenti stretti”, ma con il permesso di vedere dei “congiunti” di cui non si hanno più notizie da anni e di cui magari si ignora anche l’esistenza. Qui si tratta “dell’arroganza totalitaria di uno Stato che (in modo palesemente incostituzionale, qui non c’è dubbio) vuole dirci chi possiamo vedere, anziché darci le regole da rispettare – come in tutta Europa – per incontrare chiunque vogliamo incontrare, e saranno anche affari nostri”. Come nota lo studioso, può darsi che l’isolamento fosse necessario, ma non c’era nessun motivo, da parte dei media, di farlo passare come una cosa bella. Mentre risuonava il mantra “io resto a casa”, numerose categorie di lavoratori erano costretti comunque a recarsi al lavoro, in luoghi dove probabilmente non c’era neanche la garanzia di far rispettare le distanze di sicurezza. Lo Stato si è dimostrato incapace di trattare i cittadini da adulti: tramite i mezzi di comunicazione, i suoi servitori, la classe dirigente ha trattato i cittadini come un mucchio di bambini viziati, chiusi a chiave in una stanza per non permettergli di mangiare la merendina. La necessità di rimanere a casa ha assunto anche risvolti più inquietanti: è stata presentata, cioè, come un dogma calato dall’alto, “senza chiederci il perché, accettando il mistero senza pretendere di capirlo”. Del resto, cosa c’è da stupirsi? Viviamo in un paese in cui Salvini ha pregato in diretta per la fine della pandemia e in cui l’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è un dichiarato devoto di Padre Pio. Viviamo veramente nella repubblica di “Assurdistan”, secondo una efficace espressione coniata dal collettivo di scrittori Wu Ming.

Un altro punto toccato da Miconi riguarda le dinamiche del populismo mediatico che vige in Italia. “Come si spiega – si chiede – che proprio il Paese dell’odio conclamato verso la Casta abbia finito per reggere il gioco alla classe dirigente, liberandola di ogni responsabilità, e scatenando la caccia selvaggia all’indisciplinato del piano di sopra?”. Molto probabilmente, da un punto di vista formale, emergono “sostanziali affinità tra la retorica del populismo e la volontà di colpevolizzazione dell’altro”. Una prima affinità risiede sicuramente nella “comune propensione a seguire l’emotività, ben più delle procedure razionali di argomentazione” mentre una seconda affinità può essere intravista nella “comune disposizione a mettere i propri pensieri al servizio dell’uomo al comando”. A ciò si aggiungono due tratti tipici del populismo: la divisione manichea del mondo in ragione e torto, in buoni e cattivi nonché la difficoltà di accettare opinioni divergenti dalla propria. Per uscire dalla crisi – suggerisce Miconi – bisogna smettere di prestar fede al regime spirituale di un sottile e strisciante populismo che vige nel paese. Bisogna, altresì, smettere di pensare all’Italia come a una “comunità”; bisogna invece pensarla come una società, fatta di donne e di uomini liberi.

Certo, la classe dirigente italiana non pensa davvero ai cittadini come una società fatta di donne e di uomini liberi. Con l’emergenza pandemica è infatti emersa la sovrastruttura di un gigantesco Stato di Polizia, il quale si è sostituito allo Stato di Diritto. A interpretare, ogni volta, le farraginose norme dei divieti, di cosa si poteva e non si poteva fare, sono state le singole forze dell’ordine. Di fronte a leggi e norme nebulose e contraddittorie a decidere sono stati, appunto, gli agenti di polizia chiamati a interpretare i motivi segnalati dai cittadini sulle autocertificazioni (e già il fatto che un cittadino sia chiamato a rispondere del perché è uscito di casa è di per sé inconcepibile, degno delle peggiori e più distopiche dittature). Oltre allo Stato di Polizia abbiamo vissuto uno stato di eccezione: la dichiarazione dell’emergenza viene utilizzata come uno strumento per la messa in disciplina del corpo sociale. Ancora una volta, i cittadini, che pretenderebbero solo chiarezza e rispetto, sono stati trattati paternalisticamente come bambini viziati invece che come persone adulte: negli stati europei, ad eccezione di Francia e Spagna (dove è stata usata per un periodo molto più breve), non è stata attivata una procedura simile alla nostra autocertificazione (pratica offensiva e umiliante nei confronti del cittadino). Come ricorda Miconi, il primo ministro portoghese António Costa “ha spiegato tutto questo in poche parole: vi chiediamo di stare il più possibile a casa ma non lo imponiamo per legge, perché sarebbe irrispettoso verso i cittadini. Ecco: la classe dirigente, per quanto mi riguarda, parla così”. Anche la chiusura prolungata delle scuole dimostra che “viviamo in uno Stato rappresentato dalla polizia più che dalla scuola: e sarà pure un caso, ma altri paesi europei ci stanno almeno provando, dimostrando di mettere l’istruzione pubblica davanti al resto”.

L’analisi dello studioso si concentra poi su una figura centrale del discorso mediatico: il virologo, divenuto una vera e propria star, anzi, addirittura una vera e propria nuova divinità. I virologi che sentenziano tutto e il contrario di tutto dai più svariati spalti, dal loro posto di lavoro al salotto televisivo, non hanno niente da invidiare ai “re taumaturghi” analizzati da Marc Bloch che, a partire dal Medioevo, ‘guarivano’ le persone con la sola imposizione delle mani. Anch’essi sono entrati pienamente a far parte della macchina della “società dello spettacolo” – per dirla con Debord – che vige dappertutto. La parola medica si è appropriata di campi di sapere non suoi, spaziando nelle più svariate discipline, nello stesso identico modo in cui agiva lo “sguardo clinico” analizzato da Michel Foucault.

Insieme al virologo, nel periodo dell’emergenza è emersa un’altra divinità, la App Immuni, a sua volta emanazione di un ‘dio’, se possibile, ancora più grande, la Rete. Infatti, è ormai acclarato che viviamo in un’epoca di internet-centrismo, tanto che il presidente del consiglio di amministrazione di Google ha dichiarato che presto Internet scomparirà perché sarà inseparabile dal nostro essere. L’emergenza, in questo senso, ha rappresentato un significativo processo di accelerazione del processo di digitalizzazione dell’esistenza, mediante la didattica a distanza affidata a piattaforme di un gigante dell’economia come Google, appunto, oppure mediante le più diverse pratiche di smart working o di piattaforme digitali, incluse quelle per il divertimento (dai videogiochi fino a Netflix). L’idea che accompagna la “App che salverà il mondo”, come nota Miconi, è quella di applicare anche da noi il modello sud-coreano: cosa del resto irrealizzabile perché “la soluzione coreana non si è basata solo su una App di geo-localizzazione, ma sul suo ruolo all’interno di una strategia complessiva che include la prevenzione del contagio, i tamponi mirati e non sparsi a caso tra la popolazione, l’isolamento immediato dei positivi, e il via libera a tutti gli altri – quanto di più diverso dalle indicazioni dei vari DPCM”. E poi,  prepariamoci adesso all’arrivo di una nuova divinità conclamata (scaturita, come Atena dalla testa di Zeus, non dalle lobby del digitale ma da quelle della chimica farmaceutica), il vaccino che, come tutte le divinità, contemporaneamente ama e odia, protegge e distrugge i suoi fedeli adepti.

Insomma – conclude amaramente Miconi – è ormai evidente che “sulle macerie di questa emergenza, nel tempo a venire, potrebbero crescere modelli di controllo a cui non siamo preparati, e per prevenirlo è necessario promuovere la consapevolezza anziché la paura e la superstizione”. Il controllo viene presentato mascherato da paternalismo e da benevolenza e “non c’è immagine distopica più cupa, davvero, di quella di uno Stato che parla a nome della salute dei cittadini”. Tra l’altro, alla macchina statale è sfuggito un dettaglio: che le persone non vivono soltanto per lavorare. Davvero, “rinvio dopo rinvio, DPCM dopo DPCM, si è invece dato per scontato che il problema fosse solo il rientro al lavoro, e non la libertà della persona e il diritto di prendere il sole, salutare gli amici, guardare il tramonto, e mandare i ragazzi a scuola”.

Come accennato all’inizio, leggere adesso il pamphlet di Miconi è doppiamente interessante: innanzitutto, per riflettere su ciò che abbiamo vissuto ma, anche, per guardare in modo lucido a ciò che stiamo ancora vivendo. Se il volumetto è uscito a novembre 2020, adesso ci troviamo a marzo 2021 e la situazione sembra ancora la stessa di un anno fa. E non è colpa dei cittadini irresponsabili, né del virus in sé, ci mancherebbe, ma dell’inettitudine di un’intera classe dirigente. Possibile che non si siano trovati altri mezzi, dopo un anno, per contrastare l’avanzata del virus? Possibile che i mantra siano sempre gli stessi? È colpa dei cittadini, dobbiamo chiuderci in casa (ripetendo all’infinito l’odiosissima parola “lockdown”), dobbiamo chiudere le scuole consegnando un’intera generazione di adolescenti a irrimediabili ansie e depressioni. Ecco, se già ci ponessimo queste domande, avremmo raggiunto un grado di lucidità e di consapevolezza per iniziare ad essere una vera società fatta di donne e di uomini liberi.

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Pandemia, economia e crimini della guerra sociale. Stagione 2, episodio 2: il falò delle vanità https://www.carmillaonline.com/2021/01/31/pandemia-economia-e-crimini-della-guerra-sociale-stagione-2-episodio-2-il-falo-delle-vanita/ Sun, 31 Jan 2021 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64697 di Sandro Moiso

“Possiamo essere pessimisti, darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere le opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta.” [Ottimismo (malgrado tutto) – Noam Chomsky]

Il falò della vanità della scienza medica (al servizio del capitale)

Ormai più di un mese fa, domenica 27 dicembre, avrebbe dovuto avere inizio la terapia miracolosa, sospesa tra interessi economici, miracoli degni del cinema di Vittorio De Sica, creduloneria mediatica e (pseudo) [...]]]> di Sandro Moiso

“Possiamo essere pessimisti, darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere le opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta.” [Ottimismo (malgrado tutto) – Noam Chomsky]

Il falò della vanità della scienza medica (al servizio del capitale)

Ormai più di un mese fa, domenica 27 dicembre, avrebbe dovuto avere inizio la terapia miracolosa, sospesa tra interessi economici, miracoli degni del cinema di Vittorio De Sica, creduloneria mediatica e (pseudo) scienza. Successivamente i ritardi nelle consegne, gli ingarbugliati (a dir poco) contratti firmati dall’Unione Europea con le ditte produttrici, il malfunzionamento degli apparati sanitari preposti e l’incompetenza delle amministrazioni locali, basata su anni di tagli della spesa per la salute dei cittadini e di prevaricazioni politiche in nome dell’interesse privato sbandierati come “eccellenza sanitaria”, hanno finito col fare più danni di qualsiasi protesta No Vax1.

Come se ciò non bastasse anche il nazionalismo economico si è ritagliato il suo spazio vitale nella corsa ai vaccini così che, nonostante la contrarietà manifestata da numerosi virologi ed esperti (o almeno presunti tali)2, anche il governo italiano, insieme al suo commissario straordinario Arcuri, ha deciso di investire in patria per sostenere quello della Reithera, di cui non si conosce assolutamente il grado di efficacia e la cui prima consegna è stimata per l’autunno di quest’anno. Ma si sa…piatto ricco mi ci ficco!

Forse può essere sufficiente un titolo, pubblicato su Repubblica il 23 dicembre 2020, per svelare il tentativo di confondere le idee del pubblico sulle questioni legate alla pandemia, alla salute pubblica e al vaccino: Peste, colera e vaiolo. Tutte le volte che i vaccini hanno cambiato la storia. L’articolo, a firma di Corrado Augias, riportava correttamente che quello per il vaiolo, scoperto nella seconda metà del XVIII secolo ad opera del medico inglese Edward Jenner, fu il primo vaccino utilizzato per sconfiggere una malattia che a lungo ha afflitto l’umanità e che soltanto all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso è stata dichiarata sconfitta. Ma il titolo sembra suggerire che anche altre gravi malattie epidemiche, come la peste e il colera, siano state sconfitte dall’invenzione di vaccini ad hoc.

In realtà, come già si è riportato in una precedente recensione pubblicata qui su Carmilla, per fare i conti con le grandi epidemie manifestatesi nella storia della nostra specie occorre ricordare che

Comprese in un arco cronologico esteso dall’antichità greca e romana ai primi decenni del XVIII secolo, le epidemie di peste coinvolsero in ogni epoca tutti i possibili aspetti della vita economica, politica, sociale, pubblica e privata, dando ampia materia di discussione a svariate discipline. La storia della medicina e quella sanitaria, la psicologia, la letteratura, la demografia, la storia economica e quella politica, hanno affrontato nel corso dei secoli questo tema affascinante e terribile, mettendo in evidenza impressionanti analogie.
E’ incredibile soprattutto constatare come, nonostante i progressi straordinari delle discipline mediche, gli strumenti a disposizione ai nostri giorni per la prevenzione delle epidemie siano ancora quelli elaborati nel ‘300 a partire dal Nord della Penisola (Milano, Firenze, Venezia, Genova, Lucca), recepiti tardi dal resto dell’Europa (tardissimo dall’Inghilterra), e adottai con successo fino al 17203.

Due scienziate e ricercatrici del King’s College di Londra e dell’università di Bristol, Caitjan Gainty ed Agnes Arnold-Forster, raccontano, poi, ancora un’altra storia. Ad esempio, anche sull’eradicazione del vaiolo – una spietata malattia virale provocata da due varianti del virus Variola, Variola maior e Variola minor, con un tasso di letalità del 30-35% – per la quale non è corretto affermare che solo i vaccini contro il vaiolo abbiano condotto alla sconfitta del patogeno, di cui l’ultimo caso venne diagnosticato nel 1977 in Somalia.
La malattia del vaiolo ha ucciso 300 milioni di persone solo nel corso del Novecento, prima di essere ufficialmente dichiarata eradicata l’8 maggio 1980, ma non ci si è arrivati da un giorno all’altro e non solamente attraverso la vaccinazione. Che è condizione necessaria ma non sufficiente di fronte a certe pandemie.
In un certo senso, dicono le due esperte, per quanto l’eradicazione della malattia sia appunto ricordata come la prova del definitivo successo dei vaccini, “non dovremmo dimenticare che il vaiolo ha imperversato per secoli prima di essere sconfitto”. I 150 anni seguenti alla prima inoculazione del vaccino da parte di Edward Jenner sono stati contraddistinti dalle preoccupazioni sull’efficacia del vaccino, dalla sicurezza e dagli effetti collaterali e ancora nel 1963 i medici britannici erano allarmati dalla scarsa adesione alla vaccinazione rutinaria contro il vaiolo, avvertendo che questa indifferenza avrebbe richiesto un vasto programma rieducativo4.

Basterebbe poi scorrere le pagine di un qualsiasi manuale di Storia delle scuole superiori per venire a sapere che, ad esempio, la peste è stata sconfitta soltanto da un miglioramento delle condizioni di vita (igieniche ed alimentari) anche se oggi non è stata debellata del tutto. Mentre il colera si annida proprio laddove ancora regnano miseria, scarsa igiene e cattiva alimentazione. Tutti e tre elementi più legati alla povertà che a fattori “naturali”.

A ricordacelo, per esempio, è stato anche Richard Horton, direttore della celebre rivista scientifica “The Lancet”, tra le cinque più autorevoli al mondo, secondo il quale:

Abbiamo ridotto questa crisi a una mera malattia infettiva. Tutti i nostri interventi si sono concentrati sul taglio delle linee di trasmissione virale. La “scienza” che ha guidato i governi è composta soprattutto da epidemiologi e specialisti di malattie infettive, che comprensibilmente inquadrano l’attuale emergenza sanitaria in termini di peste secolare. Ma ciò che abbiamo imparato finora ci dice che la storia non è così semplice. Covid-19 non è una pandemia. È una sindemia.

Aggiungendo poi ancora:

Il particolare svantaggio dei ceti meno abbienti e istruiti è stato certificato dalle analisi sui morti condotte negli Stati Uniti e in America Latina, dove decessi e contagi risultano prevalenti tra comunità afroamericane e minoranze. E anche dai dati dell’Istituto nazionale di statistica italiano: a partire dai mesi primaverili del 2020 è stato registrato un aumento dell’incidenza della mortalità tra le persone meno istruite rispetto a quelle più istruite. Nelle donne, il divario porta alla situazione per cui ogni 4 decedute meno istruite ne muoiono 3 con un grado di istruzione superiore, riporta l’Istat.
Le misure restrittive decise dai governi inoltre possono creare un vero e proprio circolo vizioso che riduce i redditi già bassi, diminuendo contemporaneamente condizioni di lavoro e aspettative di vita dei più deboli5.

«Parlare solo di comorbilità è superficiale», ammonisce lo scienziato.
Soprattutto, se i programmi per contrastare l’attuale epidemia, o quelle successive, non terranno conto di fenomeni come la crescita dell’inquinamento, degli effetti della povertà sulla salute psico-fisica e della mancanza di investimenti in sanità pubblica e della diffusione di malattie come obesità, diabete, malattie cardio-vascolari, respiratorie e cancro, questi programmi saranno destinati al fallimento, perché non potranno mai garantire la salute di tutti..

Certamente, il direttore di una delle più autorevoli riviste scientifiche, che al problema sindemia, ovvero quella sovrapposizione di elementi patogeni, degrado ambientale e socio-economico in grado di scatenare nuovi eventi epidemici a partire dal rafforzamento e dall’aggravamento di ognuno dei tre fattori, dedica da diverso tempo una notevole attenzione (qui), non potrà essere accusato di essere un No Vax, termine che sembra oggi definire il campo del “nemico” ogni qualvolta una voce si levi per collegare l’attuale pandemia e i suoi rimedi miracolosi, sia in campo economico (Recovery Fund, Mes, bonus, etc.) oppure scientifico (gli infiniti vaccini promessi e promossi dai governi, dall’industria farmaceutica e dai cittadini di “buona volontà” di ogni colore e risma), alle strutture sociali e ai risvolti climatici, ambientali e medici che queste portano con sé, ma occorre anche dire che non abbiamo mai sentito, in questi lunghi mesi, a livello politico e mediatico ufficiale qualcuno che affrontasse la questione in tali termini.

Anzi, sia il Cnr che l’Arpa Lombardia si sono sforzati di dimostrare, ancora nei primi giorni di gennaio che l’inquinamento non avrebbe nulla a che fare con la diffusione del/dei virus6. Si parla qui di virus al plurale poiché l’esplosione delle varianti scoperte dalla Gran Bretagna al bresciano passando per il Sud Africa e il Brasile, pur ammessa la profonda similitudine all’interno delle stesse, permette ragionevolmente di credere che l’evoluzione del virus sia piuttosto rapida e, nonostante tutte le rassicurazioni, destinata a sviluppare, come già sta accadendo, forme, forse meno letali, ma più aggressive in termini di infettività e in grado di limitare l’efficacia dei vaccini così rapidamente proposti dall’offerta commerciale delle grandi industrie farmaceutiche.

I “fattori naturali” entrano in gioco principalmente là dove la natura e l’ambiente sono stati stravolti e intossicati dall’incontrollabile sviluppo di quelle che un tempo anche la Sinistra chiamava “forze produttive”. Forze produttive il cui sviluppo ha sempre più rivelato l’autentico volto, fatto non soltanto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma anche di devastazione, sfruttamento e distruzione di quell’ambiente e di quelle risorse di cui la specie ha un estremo bisogno per sopravvivere.

Come ha affermato David Quammen, autore del noto ed inizialmente citatissimo Spillover (Adelphi, Milano 2012), ma oggi (chissà perché) sempre meno citato:

Certi gruppi di virus si adattano e cambiano molto più velocemente degli altri. I più rapidi fanno parte di un gruppo di famiglie di virus noto come virus Rna a singolo filamento. Significa che i loro genomi sono composti di un singolo filamento della molecola Rna, invece che il Dna, che è a doppio filamento. Un genoma Rna a singolo filamento commette molti più errori quando si copia mentre i virus si stanno replicando: e quegli errori, che si chiamano mutazioni, sono le materie prime dell’evoluzione per selezione naturale. Il vecchio meccanismo di Darwin. Quindi questi virus Ss-Rna, in costante mutamento e adattamento, sono più capaci di trasferirsi a nuovi ospiti, come gli esseri umani, e proliferare. E tra i più noti virus Rna a filamento singolo ci sono i coronavirus […] siamo parte della natura, di una natura che esiste su questo pianeta e solo su questo. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali e ci offriamo come un ospite alternativo […] consumiamo risorse in modo troppo affamato, a volte troppo avido, il che ci rende una specie di buco nero al centro della galassia: tutto è attirato verso di noi. Compresi i virus.
Una soluzione? Dobbiamo ridurre velocemente il grado delle nostre alterazioni dell’ambiente, e ridimensionare gradualmente la dimensione della nostra popolazione e la nostra domanda di risorse”7.

Gli esperti dell’Intergovernmental Science Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes – organismo itituito dalle Nazioni Unite per monitorare la biodiversità) ipotizzano che esistano attualmente da ottocentomila a un milione e settecentomila virus sconosciuti pronti a fare il salto di specie (zoonosi)8 con conseguenze sanitarie sempre più allarmanti, se la nostra società non deciderà di fermare la deforestazione, la cementificazione e l’urbanizzazione sempre più devastanti dei territori in ogni angolo del mondo cui si ricollegano sia il cambiamento climatico in atto che lo sviluppo di un’agricoltura sempre più intensiva.

Se la Scienza “ufficializzata” non vorrà farsi carico di tutto ciò, con un indirizzo chiaro, per continuare invece a servire la ricerca disperata di profitti ed investimenti del capitale in ogni campo, e non solo nel settore farmaceutico, è chiaro che qualsiasi serio discorso sulla diffusione del Covid-19 o di qualsiasi altro virus, sui suoi possibili rimedi e la difesa della salute pubblica rischia di essere castrato e ridotto, fin dalla partenza, ad una spettacolarizzazione di opinioni asservite e inutili, se non dannatamente pericolose per l’intera specie.

Quanto scritto fin qui va letto come ipotesi provocatoria poiché è chiaro a tutti, o quasi, che la struttura classista di una società fondata sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, delle risorse naturali e della conoscenza in nome dell’accumulazione di profitti e capitali non è certo favorevole ad un salto epocale come quello che sarebbe attualmente necessario.
Ma poiché chi scrive è ben lontano dalle posizioni No Vax e ancor meno è complottista, si rende necessario soffermarsi per un attimo su alcuni concetti.

Il capitale approfitta di qualsiasi occasione, ma non per istinto malevolo, piuttosto per sua intrinseca natura. Questo non vuol dire che il capitale e i suoi funzionari, governanti o imprenditori non importa in che ordine di importanza, siano in grado di affrontare o risolvere sempre qualsiasi situazione a proprio vantaggio, né che i suoi piani strategici siano di così lunga durata. Anzi occorre dire che la “continuità strategica” di certe azioni del medesimo, ad esempio le guerre imperialiste o di controllo dei mercati e delle materie prime, è dovuta più ad una errata percezione di azioni molto più vicine nel tempo di quanto si pensi, più che a reali strategie di lungo periodo. E di questo si deve rendere conto chi lo vuole osteggiare e inviare all’Inferno. Modificando una percezione del tempo che si presenta sempre più velocizzata e che nell’immaginario condiviso globalmente allontana gli avvenimenti grandi e piccoli come fossero sempre enormemente distanti, anche quando non lo sono. Un tempo percepito sulla base del qui, dell’adesso, dell’istante e del momento che impedisce di cogliere come siano i secoli e i millenni a scandire il tempo reale della storia della specie e del pianeta che abita. Che non corrisponde affatto a quello scandito dai media, dai social e dall’alta velocità come fine ultimo del cammino umano.

Le ipotesi espresse poco sopra sono poi confermate anche dagli ultimi dati forniti dall’Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief il nome esteso in inglese).

L’ultimo rapporto, intitolato non a caso “The inequality virus”, rivela con abbondanza di dati come la pandemia abbia “portato alla luce, nutrito e aumentato le disuguaglianze esistenti dal punto di vista della ricchezza, del genere e della razza”. Sono oltre due milioni le persone che nel mondo sono morte finora a causa del virus, e “in centinaia di milioni sono precipitati in povertà, mentre dall’altra parte della barricata i più ricchi del mondo – individui e società – stanno prosperando”, si legge nel report.
A partire dalla militarizzazione dei territori, delle decisioni politico-sanitarie e delle imposizioni cui i cittadini dovrebbero sottostare in tutti gli stati coinvolti. Accettarne compostamente e in silenzio le conseguenze, anche lavorative segnerebbe sicuramente un bel punto per il controllo capitalistico della specie e dell’ambiente negli anni a venire.
[…]L’87% degli economisti interpellati da Oxfam ritiene che il coronavirus porterà a un aumento delle disuguaglianze nel loro Paese, il 56% pensa che la pandemia peggiorerà le disparità di genere e oltre due terzi che porterà a maggiori disparità razziali. “Come una radiografia, il covid-19 ha rivelato le fratture nel fragile scheletro delle società che abbiamo costruito”, ha commentato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. “La pandemia sta portando alla luce ovunque errori e false convinzioni: come l’idea sbagliata che il mercato libero possa garantire a tutti le cure sanitarie, o ancora l’illusione di vivere in un mondo post-razzista o il mito in base al quale siamo tutti sulla stessa barca. In realtà stiamo navigando tutti nello stesso mare, ma è chiaro che qualcuno si trova su un super yacht, mentre molti altri non possono far altro che aggrapparsi ai relitti galleggianti”9.

Un altro esempio? Eccolo: mentre il rigoroso controllo degli spostamenti individuali prosegue, accompagnato da tutta una serie di limitazioni destinate ad impedire non l’affollamento nelle vie dei centri urbani o nei grandi centri commerciali per la celebrazione dei riti del consumo, ma l’eventuale adunata “sediziosa” di coloro che volessero organizzare resistenze e proteste, il governo ha tirato fuori dal cappello magico i 67 siti individuati per lo stoccaggio del materiale radioattivo formato dalle scorie nucleari provenienti dalle centrali di quel genere, forse non solo italiane (qui).

Si son levate le voci di sindaci e governatori regionali, preoccupati forse più per la salvaguardia del proprio serbatoio elettorale che per la salute dei cittadini e dell’ambiente, ma sembra difficile che chi abita quei territori possa nel giro di poco tempo mobilitarsi significativamente per opporsi alla proposta. Eppure, eppure…

Più che farsi sorprendere da ogni singola iniziativa gestionale o politico-economica del capitale e dei suoi servitori, come se queste costituissero costantemente una novità o un’emergenza assoluta (travisamento prospettico che regala al nostro avversario proprio il vantaggio su cui da sempre conta), si rende sempre più necessario anticiparne e prefigurarne le mosse e il destino, individuandone per tempo i punti deboli e le linee di frattura in cui poter inserire la leva adatta ad ampliarne le contraddizioni. Prima che questo riesca recuperare il tempo o il vantaggio, sempre e solo, momentaneamente perduto.

(2continua)


  1. Secondo i dati “reali” forniti dall’Iss e Istat, la campagna vaccinale in Italia, continuando di questo passo e anche senza tener conto del blocco del vaccino di AstraZeneca per gli over 65, potrebbe aver termine nel novembre 2025: Giampiero Maggio, Vaccini anti Covid, altro che marzo 2021: la campagna in Italia finirà a novembre 2025, “La Stampa”, 28 gennaio 2021  

  2. Gli scettici del vaccino italiano. “Due che funzionano già ci sono, che senso ha?”, “Huffpost”, 30 gennaio 2021  

  3. Maria Paola Zanoboni, La vita al tempo della peste, Editoriale Jouvence, Milano 2020, p. 13  

  4. Si veda: Simone Cosimi, Perché non bastano i vaccini per sconfiggere un virus, e varrà anche per il Covid-19, “Esquire”, gennaio 2021  

  5. Si veda ancora: Edmondo Peralta, “Covid-19 is not a pandemic”: non una pandemia, ma una “sindemia” (qui e qui)  

  6. Si veda, ancora: L’inquinamento non favorisce la diffusione del Covid: lo studio di Cnr e Arpa Lombardia (msn.com)  

  7. Si veda https://www.wired.it/play/cultura/2020/03/09/coronavirus-david-quammen-spillover-intervista/?refresh_ce  

  8. Si veda: Davide Michielin, Le nuove epidemie: dopo Covid quali sono i rischi per l’umanità, la Repubblica, 20/11/2020  

  9. Chiara Merico, Covid e disuguaglianze: i Paperoni hanno recuperato in 9 mesi, i poveri ci metteranno 10 anni. Italia, 10 milioni “senza rete”, “Business Insider Italia, 25 gennaio 2021  

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Il libro bolañiano dei morti di Piero Cipriano https://www.carmillaonline.com/2020/11/13/il-libro-bolaniano-dei-morti-di-piero-cipriano/ Fri, 13 Nov 2020 22:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63321 di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Il libro bolañiano dei morti, Milieu, Milano, 2020, pp. 176, € 16,50

Eccoci. Quel provocatore di Piero Cipriano – uno che, con il mestiere che fa, ha imparato a individuare la follia sopratutto al di fuori dei luoghi in cui questa società ha preteso di confinarla – ha dato alle stampe un libro costruito sulle Chiamate telefoniche pubblicate su “Carmilla”. «Il libro bolañiano dei morti si pone come spartiacque tra la precedente trilogia basagliana della riluttanza e la prossima trilogia psichedelica della resistenza. Questo passaggio tematico, dalla liberazione [...]]]> di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Il libro bolañiano dei morti, Milieu, Milano, 2020, pp. 176, € 16,50

Eccoci. Quel provocatore di Piero Cipriano – uno che, con il mestiere che fa, ha imparato a individuare la follia sopratutto al di fuori dei luoghi in cui questa società ha preteso di confinarla – ha dato alle stampe un libro costruito sulle Chiamate telefoniche pubblicate su “Carmilla”. «Il libro bolañiano dei morti si pone come spartiacque tra la precedente trilogia basagliana della riluttanza e la prossima trilogia psichedelica della resistenza. Questo passaggio tematico, dalla liberazione dai manicomi alla liberazione della coscienza dalla gabbia della realtà ordinaria accade, per congiuntura o sincronicità, nell’anno del grande panico. L’anno in cui il mondo scopre di essere in uno stato di Bardo, che rende inevitabile l’esercizio di sconfinamento dai limiti del proprio io. “Questo nuovo sforzo letterario di Piero Cipriano, psichiatra basagliano e psico-farmacologo critico, è un lungo e fitto pensiero oscuro. È un presente che incombe sul futuro… Forse impazziremo tutti quanti.”»

Così si esprime Pierpaolo Capovilla, autore della prefazione al libro di Cipriano pubblicato da Milieu edizioni che, come detto, ingloba, rielaborandole, anche quelle Chiamate telefoniche pubblicate su “Carmilla” che tracciavano una storia iniziata «quando il virus ancora non era epidemico, ancora si poteva uscire di casa, fare la spesa, correre nei parchi, ancora non era iniziato il trattamento sanitario obbligatorio con obbligo di dimora a casa per chi una casa ce l’ha, e possibilità di uscire solo se i motivi sono con-provati».

Le Chiamate terminavano quando ormai il virus sembrava avesse concluso il suo mandato… avendo nel frattempo contagiato, eccome, seppure «in altro modo», tutti e tutto… Il libro bolañiano dei morti è andato oltre, continuando a fare i conti con il passato, con il presente e con il futuro ricordando che

«Le epidemie (scrive Paul B. Preciado) “sono grandi laboratori d’innovazione sociale”. Se l’epidemia della lebbra era stata gestita necropoliticamente escludendo i lebbrosi dalla città, l’epidemia di peste fu affrontata invece con forme di “inclusione esclusiva, cioè segmentando la città e confinando i corpi in casa” (scrive Foucault). Oggi il Covid ha riproposto questo doppio schema, da una parte il modello biopolitico di Italia Francia Spagna con un lockdown inflessibile che ricorda l’inclusione esclusiva da peste, dall’altra il modello psicopolitico di Corea del Sud Taiwan Hong Kong Giappone e Cina con il monitoraggio di smart phone e carte di credito. È la nemesi del delirio sovranista. Che pare già preistoria. L’Europa chiude le frontiere, l’America chiude le frontiere, muri chilometrici, centri di detenzione per migranti infetti, virali. Arriva il nuovo migrante invisibile (il virus) e sposta la frontiera sul ballatoio di casa tua. Calais o Lampedusa diventa il tuo condominio. Il confinamento del migrante non lo fai più nel centro di detenzione ma nel tuo appartamento, perché il migrante infetto potresti essere tu, l’ospite indesiderato è dentro di te. Il modello biopolitico, europeo-americano, perde. Il modello, psicopolitico, asiatico, vince. Controllare corpi, controllare menti, senza pelle senza mani senza scambio di contante usando sempre carte di credito senza parlare vis a vis lasciando audio vocali senza volto (che è coperto da maschera) senza nome basta l’indirizzo mail o il profilo Facebook il corpo è sostituito da un codice, e la casa è il luogo dove tutta la vita si svolge lavoro scuola consumo sesso. Lì sappiamo dove trovarti. Non puoi essere altrove. Come ti salvi dalla macchina algoritmica che estrae continuamente dati che vanno a costituire il tuo avatar? Come renderti irriconoscibile al deep learning digitale che si adopera, click dopo click, connessione dopo connessione, post dopo post, per classificarti, inquadrarti, diagnosticarti in una diagnosi che non è più psichiatrica ma è algoritmica? Come fai a renderti (stirnerianamente, anarchicamente) unico incatalogabile inclassificabile imprevedibile irraggiungibile?»

Il libro bolañiano dei morti di Cipriano esce ora, con i lockdown di nuovo in essere, ricordando che la storia «si ripete sempre due volte la prima è tragedia la seconda è commedia anzi no è un film dell’orrore anzi no è un film di zombie gli zombie sono metà dell’umanità che si è acconciata con una mascherina sul grugno e non vuole più toglierla, e non dà più la mano e non esce di casa salvo quando deve fare cose per sopravvivere, la vita è sopravvivenza, ora niente più divisione del mondo in due blocchi: destra/sinistra, occidente/blocco comunista, ricchi/poveri, nord/sud, la divisione adesso è tra zombie-con-maschera, d’ora in poi definiti i responsabili e zombiesenza-maschera di volta in volta definiti i complottisti, oppure i negazionisti, oppure sentite questa (sembra fatta apposta per me) i cretini libertari.»

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Le brigate: distopia pandemica e stato d’eccezione https://www.carmillaonline.com/2020/07/22/61557/ Tue, 21 Jul 2020 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61557 di Raul Schenardi

Ariel Luppino, Le brigate, Traduzione di Francesco verde, Ed. Arcoiris, Salerno, pp. 168, € 13.

Fiaccato dalle massicce dosi di paranoia iniettate quotidianamente per mesi dalle tv e dai giornaloni di regime, e piuttosto depresso dalla visione del gregge che si ostina a girare per strada con la mascherina (leggi: museruola) incurante del fatto che noi abbiamo bisogno di respirare ossigeno, e non anidride carbonica, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva nella vecchia Europa. Insieme a qualche notizia confortante di manifestazioni in vari paesi [...]]]> di Raul Schenardi

Ariel Luppino, Le brigate, Traduzione di Francesco verde, Ed. Arcoiris, Salerno, pp. 168, € 13.

Fiaccato dalle massicce dosi di paranoia iniettate quotidianamente per mesi dalle tv e dai giornaloni di regime, e piuttosto depresso dalla visione del gregge che si ostina a girare per strada con la mascherina (leggi: museruola) incurante del fatto che noi abbiamo bisogno di respirare ossigeno, e non anidride carbonica, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva nella vecchia Europa. Insieme a qualche notizia confortante di manifestazioni in vari paesi contro il lockdown (leggi: arresti domiciliari), ho scoperto che in Francia, dove Macron si frega le mani soddisfatto per essersi tolto dai piedi i gilet gialli, è partita un’iniziativa inquietante: è nata una task force di “investigatori sanitari” che impegnerà almeno 30.000 membri per scovare i “positivi” al Covid19, tracciare e avvertire i loro contatti e organizzare misure di segregazione. Altro che app più o meno volontarie: 700.000 test a settimana, e quando qualcuno sarà trovato “positivo”, a tutti i suoi contatti verrà chiesto di “isolarsi da soli”, in casa o “negli hotel requisiti a questo scopo”. Ma è stato il nome scelto per questa task force a far scattare nella mia testa un campanello d’allarme e una rapida associazione mentale: “brigate”. 

Le brigate, infatti, è il titolo di un romanzo dello scrittore argentino Ariel Luppino (classe 1985), pubblicato dalla casa editrice Arcoiris nella collana Gli eccentrici (traduzione di Francesco Verde e postfazione di Federica Arnoldi), che avevo letto di recente nell’originale e che ha suscitato il mio entusiasmo.

Fin dalla prima pagina siamo immersi in un universo distopico e in una atmosfera a dir poco infernale: una misteriosa epidemia che si presume trasmessa dai topi e i cui sintomi sono strane macchie sulla pelle e disturbi del linguaggio – do you remember William Borroughs? “Il virus è il linguaggio” –, ha trasformato la città di Buenos Aires in una sorta di lazzaretto. Il sipario di questo vero e proprio teatro della crudeltà si apre in un Centro di Detenzione dove i reclusi sono costretti a “pelare topi” e vengono vessati da una figura archetipica, il Milite, uno psicopatico che si diverte a torturare senza motivo e a stuprare chiunque gli arrivi a tiro. Il suo motto: “Il lavoro rende liberi”. I prigionieri, costretti a girare in pigiama, hanno i capelli rasati a zero: “Tutti uguali, tutti la stessa merda: detenuti”, e ogni tanto qualcuno viene usato come cavia per qualche esperimento “scientifico”. “Il giuramento d’Ippocrate non valeva in quel merdaio. Potevano fare di noi ciò che volevano.”

I vecchi devono nutrire i topi, i giovani devono raccoglierne le palline di sterco (“i più curiosi dicevano che a mangiarle non facevano male, che avevano un buon sapore”), e intorno ai topi si sviluppa una fiorente economia: con le loro pelli si fabbricano stivali, e c’è chi se li mangia vivi o ne beve il sangue, incurante dell’epidemia, mentre la città è percorsa da orde di cacciatori, poliziotti corrotti, spacciatori e alienati.

La voce narrante è un detenuto qualsiasi, nei confronti del quale però il Milite, che “continuava ad atteggiarsi a peronista”, mostra una certa simpatia, tanto da affidargli incarichi meno obbrobriosi degli altri: “Il mio compito, spiegò, sarebbe stato quello di accendere il fuoco [per preparare il mate], ma pareva meno pesante che rispondere al telefono in un call center”. Nella seconda parte del romanzo l’io narrante, che legge il Mein Kampf come se fosse la Bibbia o l’I-ching, rivelerà di essere un aspirante scrittore impegnato nella stesura di un romanzo “che nessuno avrebbe mai voluto pubblicare”, oltre che un allucinato convinto di essere stato contattato dagli alieni, che gli infondono il loro sapere straordinario… eiaculandogli dentro.

È anche innamorato – “… lei, che dava un senso al non-mondo”, sempre che si possa parlare d’amore in questo girone infernale – di una donna di cui si fida assai poco e che lo trascinerà in situazioni scabrose ed estreme. L’unica traccia di umanità, di dignità umana, trapela dal comportamento della moglie di un carrettiere, che si suicida dopo aver cantato una canzone tristissima in guaranì, perché il Milite, invaghitosi di lei, le ha ucciso il marito. Tutti gli altri personaggi, che fanno capolino in una sequenza di scene in cui la violenza diventa sempre più parossistica, sono abominevoli: così l’Industriale con la moglie, che visitano il Centro di Detenzione per ottenere un fegato sano da trapiantare al figlio, o decisamente parodistici, come il concorrente di un programma televisivo che finge da dieci anni di vivere in stato vegetativo: “Otto infermieri, quattro sceneggiatori e un direttore di produzione lavoravano per rendere la storia credibile”.

Assistiamo persino a uno spettacolo teatrale allestito per i detenuti che mette in scena la loro stessa grottesca situazione (do you remember Shakespeare, il Sogno d’una notte di mezza estate?).

Il Milite sogna di scatenare una seconda guerra per riprendersi le Falkland/Malvinas (“Là, in quelle isole di merda, me ne stavo in fondo a una trincea, a pisciarmi addosso per cercare di scaldarmi”) e vuole estorcere, con i consueti sistemi brutali, il denaro all’Industriale e l’appoggio tecnologico di uno “scienziato”. All’obiezione secondo cui: “Non basta un conflitto diplomatico per scatenare una guerra”, risponde: “Dipende. Per questo ci sono i media, no?”.

Nel frattempo, “l’ossessione sanitaria cresceva di giorno in giorno e io non ne ero immune”: vi ricorda qualcosa? Bastano poche citazioni per evidenziare le qualità “profetiche” dell’autore, che ha pubblicato in Argentina il suo romanzo nel 2017: “La gente però circolava con le mascherine, e il ricorso alla fecondazione in vitro, per evitare che l’ovulo potesse essere fecondato da un ignaro portatore sano, andava aumentando”.

Le brigate è un romanzo denso, stratificato: en passant Luppino nomina alcuni autori che configurano una stirpe a cui appartiene a pieno titolo: “… cominciai a leggerle dei racconti. Onetti, Fogwill, Laiseca. Niente Saer!”. In un altro punto fa capolino anche Jorge Barón Biza, autore del magnifico Il deserto, mentre non viene fatto il nome di Osvaldo Lamborghini, che pure è assai presente, sia per la violenza del linguaggio – da apprezzare il lavoro improbo del traduttore – sia per le numerose scene a sfondo sessuale. Le metafore sono scarse e scarne: “Mise le mani come se stesse strangolando un suricato”; “non poté frenare l’impulso di andare controcorrente, come un salmone kamikaze”; del resto, se la strada dell’inferno è lastricata di metafore, qui siamo già arrivati a destinazione e non ne abbiamo bisogno.

In Argentina il romanzo è stato accolto con grande favore dalla critica. Ricardo Strafacce ha sottolineato che, facendosi carico della storia del genocidio militare argentino, il modo di narrare di Luppino “ce lo fa vedere meglio di qualsiasi descrizione realista di quel passato”. Agustín Conde De Boeck, che ha scritto la recensione più acuta ed esaustiva, dice che Le brigate “fa sembrare Meridiano di sangue di McCarthy una semplice puntata di Bonanza”. César Aira ha dichiarato di approvare senza riserve il romanzo. E secondo la scrittrice Gabriela Cabezón Cámara, con Le brigate “la letteratura argentina ha raggiunto uno dei suoi nuovi vertici, fra i migliori”. Un libro necessario, che serve a ricordarci che non viviamo affatto nel migliore dei mondi possibili.

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La pandemia, l’immaginario e il conflitto sociale https://www.carmillaonline.com/2020/05/27/la-pandemia-limmaginario-e-il-conflitto-sociale/ Wed, 27 May 2020 21:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60110 Jack Orlando e Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto. Testi e riflessioni di Maurice Chevalier, Fabio Ciabatti, Giovanni Iozzoli, Sandro Moiso, Jack Orlando e Gioacchino Toni, Il Galeone Editore, Roma 2020, pp. 150, euro 13,00

[Compare tempestivamente, ed è già disponibile on line sul sito Il Galeone Editore, un testo che raccoglie una dozzina di testi, scritti da redattori e collaboratori di Carmilla, sui differenti problemi sanitari, sociali, economici e politici suscitati dal diffondersi del virus Covid-19 a livello italiano e internazionale. Crediamo che la sua pubblicazione possa [...]]]> Jack Orlando e Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto. Testi e riflessioni di Maurice Chevalier, Fabio Ciabatti, Giovanni Iozzoli, Sandro Moiso, Jack Orlando e Gioacchino Toni, Il Galeone Editore, Roma 2020, pp. 150, euro 13,00

[Compare tempestivamente, ed è già disponibile on line sul sito Il Galeone Editore, un testo che raccoglie una dozzina di testi, scritti da redattori e collaboratori di Carmilla, sui differenti problemi sanitari, sociali, economici e politici suscitati dal diffondersi del virus Covid-19 a livello italiano e internazionale. Crediamo che la sua pubblicazione possa rivelarsi utile soprattutto in occasione della problematica apertura di una fase due che rischia, sotto tutti gli aspetti, di mettere in scena soltanto una finzione di normalità, così come nei mesi precedenti si è finto un lockdown mai veramente effettuato per un numero troppo grande di settori lavorativi e caratterizzato soltanto da un inasprimento del controllo militare e poliziesco dei territori e del tessuto sociale. Autentico periodo di gestazione di infezioni e conflitti futuri, il momento attuale è contrassegnato da politiche incerte e provvedimenti destinati a favorire soltanto grandi imprese e mafie politico-economiche e, fino ad ora, da una scarsa reazione della sinistra antagonista e delle forze del lavoro, mentre la destra estrema sembra poter liberamente approfittarne per tornare ad emergere in maniera significativa a livello sociale. Sciogliere il nodo tra sicurezza per la salute collettiva e ripresa del conflitto in chiave anticapitalista diventa perciò un passaggi obbligato per le comunità resistenti che vorranno opporsi alla ripartizione dei danni economici e sanitari soltanto tra le fasce meno abbienti della società e tornare ad un’iniziativa di classe in grado di sconfiggere il sempre risorgente fascismo insieme al modo di produzione che lo porta, comunque, in grembo.
Qui di seguito si riporta l’introduzione al testo.]

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara.
Smaschera il mondo in maschera.

I testi qui raccolti sono usciti tra il 4 marzo e il 29 aprile 2020 sulla webzine “Carmilla on line” che si occupa, da quasi vent’anni, di letteratura, immaginario e cultura di opposizione.
Con queste premesse programmatiche era inevitabile che gli autori non potessero esimersi dallo sviluppare una riflessione a largo raggio sui temi della pandemia, delle risposte governative che ha suscitato e della crisi economica e sociale che ha scatenato. Per questo sono scritti nati nella e dalla urgenza di una situazione che necessitava (e continua ad aver bisogno) non soltanto di una ponderata riflessione sulle sue cause, ma anche di una spiegazione in grado di fornire risposte agli interrogativi suscitati tra i cittadini, i lavoratori e i militanti di area antagonista colpiti da tale catastrofe sia in chiave sanitaria che economica e politica.
Che sia di origine “naturale” o meno, il virus ha messo a nudo le debolezze di un sistema e di un modo di produzione la cui auto-narrazione e il cui immaginario non sono più sufficienti a giustificare né le politiche messe in atto per fronteggiarlo, né tanto meno le spiegazioni fornite per mantenere attivo un circuito produttivo che, dietro la mera apparenza del lockdown, non ha mai smesso di funzionare, almeno al 60%, secondo le sue norme principali, legate allo sviluppo, al mantenimento delle quote di mercato nazionale e internazionale e basate esclusivamente sulle leggi del profitto, dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta e della produzione di merce come fine ultimo del lavoro.
Così, se precedentemente i drammi legati all’emergenza climatica, alle guerre e all’impoverimento progressivo di vaste aree, geografiche e sociali, del globo rimanevano, nonostante tutto, ai margini dello sguardo dei lavoratori ancora impiegati con un contratto stabile e dei membri di una classe media ormai destinata all’estinzione, l’esplodere della pandemia ha letteralmente servito in tavola ciò che, prima, poteva ancora essere rimosso per distrazione e ritenuto possibile soltanto oltre i confini dell’Occidente.
Il modo di produzione capitalistico non solo ha dimostrato di aver progressivamente aperto, come un novello apprendista stregone, il vaso di Pandora costituito dall’intreccio tra sfruttamento delle risorse umane e ambientali, scienza prostituita agli interessi finanziari e industriali e politiche rivolte esclusivamente all’arricchimento di una frazione sempre più minoritaria della specie umana, ma ha anche mostrato la sua totale incapacità di risolvere i problemi suscitati dal suo stesso agire e dalla sua irrefrenabile e vampiresca sete di guadagno.
L’unica risposta possibile è stata, così come in ogni occasione e in ogni angolo del pianeta nel corso degli ultimi anni, di carattere per lo più repressivo e militare, confortata e supportata soltanto dalla volontà degli Stati di normare burocraticamente ogni aspetto della vita e dell’esistente.
Per questo motivo, considerata la tendenza diffusasi negli anni, ad affrontare caso per caso singoli aspetti dell’epidemia delle emergenze, senza quasi mai uno sguardo d’insieme, anche nei movimenti che pur si vorrebbero antagonisti, gli scritti riportati in questa antologia assumono inoltre e consciamente la funzione di strumento di agitazione e battaglia politica. Perché, molto probabilmente, il tempo dei rinvii e delle speranze è finito. Così come sembra essere finito quello del demone che li ha alimentati esclusivamente a proprio vantaggio. Non sarà la fine del mondo, ma potrebbe essere la fine del modo di produzione basato sulla schiavitù salariale e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, del genere sul genere e dell’economia mercantile e monetaria sulle risorse naturali, questo forse sì.
Buona e proficua lettura a tutte e tutti!

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Chiamate telefoniche – 6 https://www.carmillaonline.com/2020/05/18/chiamate-telefoniche-6/ Mon, 18 May 2020 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60142 di Piero Cipriano

Lo dico subito, così chi non ama i complottisti può interrompere subito la lettura: questa sesta chiamata telefonica è una chiamata complottista, super complottista, terribilmente complottista. Perché? Perché io ammiro i complottisti, ammiro i complottisti quasi come ammiro i paranoici. Voi direte che tutti i complottisti sono paranoici. Che complottismo = paranoia. E io non sono d’accordo. I complottisti, alcuni, non tutti, sono dei formidabili inventori di storie con una capacità di avvicinarsi quasi con precisione millimetrica al futuro, ma che per un motivo o per l’altra non ce la fanno a essere Philip K. Dick. Gli manca [...]]]> di Piero Cipriano

Lo dico subito, così chi non ama i complottisti può interrompere subito la lettura: questa sesta chiamata telefonica è una chiamata complottista, super complottista, terribilmente complottista. Perché? Perché io ammiro i complottisti, ammiro i complottisti quasi come ammiro i paranoici. Voi direte che tutti i complottisti sono paranoici. Che complottismo = paranoia. E io non sono d’accordo. I complottisti, alcuni, non tutti, sono dei formidabili inventori di storie con una capacità di avvicinarsi quasi con precisione millimetrica al futuro, ma che per un motivo o per l’altra non ce la fanno a essere Philip K. Dick. Gli manca quel quid di prosa o anfetamine o vattelappesca. Dico pure che se non leggerete questa sesta chiamata perché siete prevenuti sui complottisti poi ve ne restano solo due (non complottiste, in compenso, ma non è detto, perché una volta che uno dichiara la stima per il mondo complottista ne viene irreparabilmente assimilato), perché l’epidemia sta per finire (con sommo sconforto dei virologi-con-l’agente quelli che si prendono da duemila euro in su a intervista un po’ come le puttane solo che le puttane siccome sono delle gran signore non vendono la scienza ma il proprio corpo) e pure le chiamate finiranno, non mi resta che una settima chiamata dove il protagonista indiscusso è il virus e l’ottava, e ultima, dove i protagonisti sono i morti, ma ciò è pleonastico perché i morti sono sempre i protagonisti, solo chi non ha fatto i conti con la morte non l’ha ancora capito, ed è per questo che si barrica in casa e si barrica la bocca, perché pensa che dalla bocca entri la morte. Invece no: dalla bocca esce la vita. E non è proprio la stessa cosa.

Ma dicevo dei complottisti, ormai, appena leggo o sento qualcuno che ne parla male mi viene da mettere mano alla pistola poi mi ricordo che non ho una pistola e soprattutto che questa (mettere mano alla pistola) è una brutta espressione che mutuiamo da una brutta persona, per cui mi limito a proporre di abolire la parola complottista, come in passato ho proposto di abolire la parola empatia, non significa più niente ormai ripetere a pappagallo complottista, complottista, complottista, oppure, visto che non è il massimo abolire parole, sa troppo da neolingua orwelliana, propongo di mettere un limite al numero di volte che in uno scritto si può usare la parola complottista, non più di due, massimo tre, alla terza scatta la multa (quattrocento euro, la multa per chi andava in giro senza mascherina), anche perché chi usa troppo spesso la parola complottista tradisce di essere egli stesso un complottista, esatto, uno affascinato dal complotto, il complotto di mettere a tacere le capacità narrative del complottista, e poter sostituire la narrazione (mille volte più interessante) del complottista con la sua sterile e prevedibile e conforme narrazione di anti-complottista che legge Repubblica o Corriere. Dimenticando che l’anti-complottismo dell’anti-complottista è esso stesso complottismo, inconscio complottismo ai danni del vessato complottista.

Non so se si è capito ma io i complottisti vorrei difenderli dalle ingiurie di complottismo con la stessa passione con cui mi viene sempre da difendere le persone che subiscono l’accusa di essere schizofrenici. Le persone più insospettabili ci sono cadute, nell’offesa agli schizofrenici. Umberto Eco, una volta, per chiedere le dimissioni di Silvio Berlusconi, disse che doveva dimettersi non per il suo eccesso di satiriasi, ma per il suo eccesso di schizofrenia. E’ schizofrenia, puntualizzò, se uno non si ricorda il giovedì ciò che ha detto il mercoledì. Come si può essere governati da uno schizofrenico? Eco non sapeva cos’è (io nemmeno, ma lui molto meno di me, eppure era Eco) la schizofrenia, e sempre Eco è il colpevole di aver dato la stura all’offesa del complottista. In quel libro palloso che è Il pendolo di Foucault, mi pare, è lui che inizia la presa per il culo dei complottisti. Piergiorgio Odifreddi è un altro, era a una trasmissione di Piero Chiambretti, irritato dal mago Otelma (quanto mi sta simpatico il mago Otelma, secondo me è abbastanza complottista pure lui), lo metteva a tacere zitto tu, anzi, zitto lei, che è uno schizofrenico. Proprio così diceva. Il tono voleva essere quello di chi dice lei è un cialtrone, o lei è un buffone, o lei è un mitomane, o lei è un millantatore, o lei è un venditore di fumo, o lei è un guitto; invece disse lei è uno schizofrenico. Gli intellettuali del cazzo che adoperano le categorie psichiatriche, o mediche, per offendere. Un tempo si diceva zitto che sei un mongoloide, o zitto che sei un deficiente, oggi dicono zitto che sei uno schizofrenico oppure dicono zitto che sei un complottista.

Tutto ‘sto preambolo per dire: w i complottisti (fossero anco terrapiattisti, quando vuoi dire che uno è complottista ma di quelli terra terra allora dici che è terrrapiattista, i terrapiattisti sono i più sfigati dei complottisti, e infatti sono quelli che mi sono i più simpatici di tutti) abbasso i burionisti.

*

Complottista secondo me era pure Dario Musso ragazzo drammatico e teatrale di Ravanusa che il lockdown (‘sto cazzo di lockdown non vedo l’ora di dimenticare questa parola) come a tutti gli aveva spezzato la pazienza e inizia a fare video inquietanti in cui si punta un cacciavite alla tempia e incita alla rivolta e pochi giorni prima viene fermato da un carabiniere che assiste allibito a lui che contrattacca gli dice che fare il carabiniere di questi tempi a fermare persone innocenti è una merda e brucia la sua carta d’identità e il giorno del fermo sanitario è in giro nella sua auto con un megafono che incita alla disobbedienza a non abboccare alle favole governative non c’è nessun virus dice, togliete le mascherine riaprite i negozi, uscite… (ora confessate di non averlo pensato almeno una volta pure voi tutto ciò) lo circondano carabinieri e agenti municipali, lui fa un video in diretta in cui prova a mantenere la calma, scende, resta calmo, bravo Dario così si fa, ma non basta perché arrivano tre sanitari uno dei quali ha una siringa, il sanitario non gli va incontro davanti per parlargli no, lo aggira gli punta la siringa, vuol siringarlo da dietro con tutti i pantaloni, stato di necessità diranno poi nel processo che si farà perché si farà ma io dico, dalle immagini, non c’era nessuno stato di necessità, legittima difesa dite? nemmeno, eppure un carabiniere lo prende per le gambe e lo atterra, il sanitario col camice e la siringa lo infila, la donna che fa il video grida atterrita in siciliano lo stanno sedando lo stanno sedando. Finisce il video inizia l’audio, il fratello di Dario, avvocato, prova per giorni a chiamare all’ospedale di Canicattì, al reparto psichiatrico dove Dario è ricoverato in TSO sedato legato cateterizzato ma la dottoressa balbetta, dice non possiamo dare notizie lui richiama e lei dice suo fratello dorme lui richiama lei dice non abbiamo il cordless lui richiama lei dice ho un’urgenza ho un ricovero ora non posso parlare, sono imbarazzato per lei, per questa poverina che senza dignità né etica si schermisce. Dopo cinque sei giorni tali le pressioni, le lettere, le telefonate, ai medici e al sindaco, tra queste quella di Gisella Trincas dell’UNASAM (associazione dii famigliari dei pazienti) o del garante nazionale dei detenuti o di me stesso che provo a parlare invano con la dottoressa che ha sempre un’urgenza e non può rispondere, insomma Dario viene (altrettanto selvaggiamente) dimesso e per fortuna non fa la fine di Franco Mastrogiovanni o Giuseppe Casu o Elena Casetto. Dimesso però con una non diagnosi: Disturbo della personalità non altrimenti specificata. La più inutile e fessa e vaga e debole delle diagnosi psichiatrica. La stessa diagnosi che potrei avere io, o voi, o tutti i complottisti del mondo.

Mi chiama Nicola, il mio amico delle Iene, una iena gentile, Pieruzzo, esordisce col suo accento siciliano, che ne pensi del TSO di quel ragazzo di Ravanusa?

*

Ma io in questo pezzo dovevo occuparmi di complottisti e anti-complottisti, non di TSO illeciti e selvaggi. Per cui cominciamo col primo campione del complottismo mondiale che gira intorno al virus. Lui è quello che aveva in tasca l’Hiv e Gallo (poi stato sostituito da Fauci, il virologo che ora Trump vede come il fumo negli occhi) glielo rubò. Lui è quello che nel 2008 prende il Nobel. Lui è quello che ora è perculato dai medici duri e puri perché ha detto che l’acqua c’ha la memoria (figuriamoci, ridono, gli scienziati, la memoria, l’acqua, e mica c’ha il cervello l’acqua per averci la memoria!) e porta al papa la papaya (la papaya, al papa, e che è, un calembour dello scienziato senex?). Perculato più di Tarro, si capisce, perché almeno Tarro non l’ha vinto il Nobel lui sì e una ventina, o erano trenta?, super scienziati fecero pure una petizione, per fargli revocare il Nobel, ma gli svedesi so’ di parola, se lo danno il super premio è per sempre, poi non lo levano. Eh sì, gli svedesi so’ di parola, se dicono che l’epidemia si affronta senza lockdown, vanno fino in fondo. Oggi mi chiama una fattucchiera dal Molise una che mi ha conosciuto vedendomi nell’olio che galleggia nel fondo di un piatto, dice siccome pure io stavo con l’orecchio pizzato al suolo per sentire da dove arriva la fine del mondo ho incrociato i tuoi pensieri che provenivano dal tuo orecchio adagiato sul pavimento del tuo reparto allora ho pensato che devi assolutamente sentire cosa dice quest’uomo. Attacca il suo telefono a manovella al pc per farmi sentire la voce tradotta di Montagnier.

Non posso vederlo in faccia, quindi non vedo i sui capelli colorati di marrone biondo che un po’ gli fanno perdere la credibilità di scienziato premio Nobel, ma tant’è, l’ha già persa ormai, è bastata la papaya e l’acqua con la memoria, e poi c’avrà uno scienziato il diritto di farsi la tinta oppure no?, o valutiamo uno scienziato sulla base della tinta?, ma a questo punto pure Giuseppe Conte va be’ che non è uno scienziato perde credibilità, se ci basiamo sulla tinta, vero è che la tinta di Conte è più credibile della tinta di Montagnier che dice c’è stata una manipolazione su questo virus, così esordisce l’ottantottenne tinto ormai con un piede fuori dalla scienza, il piede fuori dalla scienza è il piede che ha calato nella fossa, cioè nel mondo dei morti, è per questo che Montagnier, come Tarro, non ha bisogno più di queste sciocchezze tipo le pubblicazioni o i numeri o l’h-index, perché chi è con un piede nel mondo dei morti non crede più né nelle pubblicazioni né nei numeri e l’unico libro che legge ormai è il Bardo Thödröl ovvero il Libro tibetano dei morti perché i morti sono superiori alle pubblicazioni scientifiche e ai numeri che le accompagnano, chi glielo ha detto a Montagnier?, glielo ha detto Cartesio, che dal mondo dei morti gli ha confessato: scherzai quattro secoli or sono, con questa cosa dei numeri, era tutto uno scherzo, e voi ancora ci state credendo. E’ vero, continua il francese, che questo virus deriva dal salto di specie, dal pipistrello, ok ok, ma ci hanno aggiunto un pezzo di sequenza genomica del virus dell’Hiv, il virus dell’AIDS per cui mi hanno dato il Nobel, il Nobel che non m’importa di averlo però è ancora mio, chi ce l’ha aggiunto questo pezzo di genoma? E che ne so. Biologi molecolari. Che minuziosamente, come fossero degli orologiai puntigliosi, hanno fatto questa chimera, perché questo è il coronavirus una chimera, avete presente uno scoiattolo con le zampe di leone? Ecco, una cosa del genere, un virus del raffreddore con l’artiglio dell’Hiv, perché? Chissà, magari volevano fare un vaccino contro l’AIDS, per cui hanno preso piccole sequenze di virus Hiv e le hanno installate nella sequenza genica più grande del coronavirus, dove una catena di RNA ha piccole sequenze di Hiv.

Ma le prove? Gli domandano, le prove? E lui (che con un piede nel mondo dei morti sa che non ha più bisogno di prove) mena il can per l’aia, un gruppo di ricercatori indiani aveva pubblicato le prove, ma gli hanno annullato la pubblicazione. Su 30.000 basi del coronavirus, 1.000 sono di Hiv. Un modo per modificare la sequenza del coronavirus, per farlo riconoscere come Hiv e dunque trovare il vaccino. Molti gruppi hanno fatto la stessa cosa, dice il Nobel quasi morto scomunicato dai colleghi vivi della scienza. Ma come ha fatto a uscire da un laboratorio? I virus a RNA hanno mutazioni continue. Cambiano continuamente. Sanno attraversare le porte, come i fantasmi. Non c’è mascherina o muro che tenga. Ma queste sequenze, alcuni dicono che sono troppo corte, e la sovrapposizione con il RNA dell’Hiv potrebbe essere casuale. Ma sono segmenti importanti, obietta il Nobel tinto come la morte, di quelli che portano informazioni genetiche. La versione della Cina è che viene dal mercato del pesce di Wuhan. E io dico che non è vero, ribatte il vecchio scienziato idolatrato dai complottisti e stimato da quelli che sono i morti. E la versione dell’OMS? Hanno tutti interesse a nascondere la verità, ma vogliamo raccontare chi è l’attuale capo dell’OMS? L’OMS, ora come ora, non mi pare più un organismo super partes, mi sa che non serve più a niente dire ogni volta l’ha detto l’OMS l’ha detto l’OMS, basta vedere come il capo dell’OMS, l’etiope Ghebreyesus si arruffiana col leader cinese Xi Jinping. A gennaio si è addirittura complimentato con la trasparenza del governo cinese, trasparenza! Ma ti rendi conto? Una beffa, per il povero Li Wenliang il medico morto di covid-19, minacciato di non parlare dell’epidemia, o per l’altro medica Ai Fen, che aveva accusato il regime cinese di censurare l’epidemia ritardando le misure, pure lei fatta sparire per settimane. Perché l’OMS non è super partes? Perché nel 2017 si giocò una guerra tra il candidato cinese (l’etiope Ghebreyesus, già legato a Pechino sin da quando era ministro della sanità per il governo etiope) contro il candidato americano. Vince l’etiope, e da allora è al servizio della Cina. Ciò per dire che ormai quel che consiglia l’OMS, a parte le cose ovvie ovvero che camminare è più sano che poltrire e abboffarsi, non è più oro colato. Potremmo pure aggiungere che l’OMS è pagato dal Bill Gates, anzi: è Bill Gates ma… non possiamo, perché se no gli anti-complottisti ridono di noi, e noi non vogliamo che gli anti-complottisti ridano perché ridere fa bene alla salute e gli faremmo solo un favore, un favore alla loro perfidia.

E l’omertà degli stati? In biologia molecolare si possono fare (è sempre Montagnier che parla), attualmente, tutte le costruzioni di virus che si vogliono. Gli USA sono al corrente, ma sono loro che hanno finanziato parte delle ricerche fatte nei laboratori di Wuhan, per cui non è più un affare solo cinese. La natura (è ancora il francese ottantottenne) non accetta qualsiasi cosa. Una costruzione artificiale, chimerica, ha poche possibilità di sopravvivere. La natura ama le cose armoniose. Questo è un virus Frankenstein, che non durerà a lungo. Negli USA ci sono altre mutazioni del coronavirus, sta cambiando il suo codice genetico, ci sono delle delezioni, il tratto che porta la sequenza di Hiv è quello che muta più velocemente degli altri, inevitabilmente andrà incontro a delezioni, un’apoptosi, una auto amputazione genica. Non trovate che sia meraviglioso ciò? Se il potere patogeno di questo virus è legato all’introduzione di queste sequenze Hiv nel coronavirus, e esse stanno staccandosi, non trovate che sia una bella speranza? Bisogna seguire il sequenziamento genetico, ci saranno sempre più virus mutanti inattivi, la gravità dell’infezione si attenuerà, si annullerà.

Ecco perché l’isolamento domestico non è un rimedio. Bravi gli svedesi. E non solo perché non si riprendono il mio Nobel. Che detto tra di noi, non mi potrebbe fregare una ceppa, del Nobel. Sa quando tra poco andrò di là, nel mondo dei morti, del Nobel quanto gliene potrà importare? Di una sola cosa gli potrà importare, ai morti: sei stato un bravo medico oppure no? Sa quanti sono i bravi medici da diecimila anni a questa parte? Una decina, Cristo, Semmelweis, Basaglia, mica sono tanti… i medici, quasi tutti, non sono mai eroi, sono sempre colpevoli… se vuoi essere innocente non devi fare il medico… va be’, per concludere, io credo che il virus si distruggerà da solo. Ma ripeto: è stato un errore etico associare il Covid all’Hiv. Non lo ammetteranno mai, ma è avvenuto questo.

*

La fattucchiera molisana mi dice ti sento scettico dottore, non t’ha convinto forse Montagnier? Mi meraviglia che nemmeno tu abbia capito che quello che ci ammazza non è il virus ma il terrorismo mediatico a cui siamo sottoposti. La paura di morire viene somatizzata dai polmoni. L’informazione, reiterata ossessivamente, si incista nell’inconscio e (un po’ come negli anni 90 avere il test Hiv positivo equivaleva a una sentenza di morte) oggi un tampone positivo al covid-19 (che non significa niente) su una persona asintomatica o con una piccola sintomatologia influenzale, mettiamo che è uno molto impressionabile, attiva il contrario dell’effetto placebo, l’effetto nocebo, tu mi insegni che esso atterrisce tutto l’organismo, che si predispone a morire. E’ su questo principio d’altronde che noi fattucchiere molisane tiriamo il malocchio ai malandanti, e funziona, quanto più il malandante è un tipo impressionabile, tanto più facilmente si ammala. Le difese immunitarie crollano, i polmoni collassano e trattengono liquidi (ecco la polmonite interstiziale). Ecco perché bisogna spegnere televisione e smart phone e non leggere nemmeno i giornali. Per fare il vuoto nella testa, eliminare questa reiterata informazione tossica, essa sì immunodepressiva. E trasgredire assolutamente (fai bene tu dottore a correre, mica sei fesso) il lockdown, in tutti i modi, uscire, prendere il sole, respirare aria pulita, fare esercizio fisico. Ciononostante, dottore, non basterà, perché prima o poi, tutti, compreso Bill Gates, dovremo pur morire.

*

Mi chiama Jack, il virologo dissenziente, il triste figuro, lo vogliono ricoverare. Per tutto il lockdown il servizio psichiatrico si era scordato di lui. E lui si era scordato di loro. Si erano reciprocamente scordati. E vivevano bene così. Finito il lockdown, superato il 4 maggio, i servizi si sono ricordati di fare l’appello dei pazienti in carico, dei collaborativi e dei riluttanti. Ce l’ho mi manca ce l’ho mi manca. Jack mancava all’appello. Pronto siamo la psichiatria, deve fare il depot. Non voglio fare il depot. Allora c’è il ricovero.

Dice mi stanno venendo a prendere. Prima che mi prendano per ricoverarmi mi ascolti. Un amico che non vuol rivelarsi ma che lei conosce molto bene (Cafiero jr) mi dice di raccontarle questa storia qua, lui non la chiama di persona perché si scoccia che lei poi nella chiamata telefonica che senz’altro scriverà lo faccia apparire come il paranoico complottista della situazione, mi dice pure di dirle che lo sa pure lui che il complottismo è un genere letterario che ora va per la maggiore, ma mi dice pure di dirle che questo genere letterario da due secoli almeno poi inevitabilmente ci prende, insomma la storia è questa poi veda un po’ lei, ne faccia l’uso che vuole, tuttavia mi domando perché lei senta il bisogno di questa penosa mise en abyme (per evocare Gide che lei immagino non abbia mai avuto il buon senso di leggere, vero?) per raccontare tutto quanto, seppur in pochi purtroppo, cominciano a pensare o pensano già da tempo. Non mi pare che qui siamo tutti paranoici o, almeno finora, non tutti (io sì ma molti altri no) abbiamo una cartella psichiatrica nel cassetto che comprovi ciò. È che qui ci facciamo delle domande, ci interroghiamo, cerchiamo di capire che dove ci sono in gioco montagne di soldi e interessi economici non può esserci imparzialità nel fare informazione, né tantomeno numeri statistici… Il grande sonno non è solo il titolo di un romanzo di Chandler ma è quello che quasi tutti gli italiani stanno vivendo adesso, obnubilati dalle onde elettromagnetiche delle paraboliche delle emittenti televisive.

Mi dispiace che quelli che non si adeguano o obbediscono vengano etichettati come paranoici, psichiatrici o compagni di merende dei terrapiattisti.
Fatto questo preambolo vengo al dunque.

Il mio amico dice che Trump sta facendo cose grosse, mai fatte da nessun presidente prima (forse iniziate da JFK). Da noi non ne parla nessuno. La situazione mondiale è questa. La divisione oggi non è più tra razze, non è più tra nazioni o stati, ma solo tra i due Cappelli, o se vogliamo tra due fronti massonici che si stanno facendo la guerra con la scusa di questo coronavirus a cui credono ormai solo gli allocchi. Tutte le notizie del mio amico sono direttamente consultabili, quindi prima di classificarle e bollarle nella categoria delle cospirazioni fantasiose, si tolga lo sfizio di leggere il New York Times, il Washington Post, il Wall Street Journal; oppure ascolti i tg americani più recenti, cosa verrà a sapere, anche lei per la prima volta visto che la stampa italiana è zitta e muta su questo fronte, verrà a sapere di arresti di medici dell’università di Harvard, perché? Per aver fatto sfuggire a settembre il virus da un laboratorio americano, virus che solo in un secondo momento per una serie intricatissima di fughe che non sto a dire anche perché non lo sa nessuno nemmeno il virus c’è da scommetterci che se lo ricorda, anche perché nel frattempo è mutato mille volte e come lei sa i virus non hanno memoria se no che virus sono? Insomma, il virus in un modo o nell’altro sarebbe arrivato a Wuhan. Charles Lieber, chimico di Harvard esperto di nanomateriali e sviluppo di applicazioni in medicina e biologia, è stato arrestato il 28 gennaio. L’accusa a Lieber è di aver ricevuto centinaia di migliaia di dollari dalla Wuhan University of Technology e accettato di gestire un laboratorio per essa.

Quindi ricapitoliamo: qui dottore ci sono due fronti massonici che si stanno contrapponendo e presto o tardi ci toccherà decidere con chi stare a meno che lei non voglia dimettersi dal suo inutile lavoro che è tutta una copertura lo sappiamo non abbocca più nessuno ormai di noialtri scrutatori di complotti, he he, a meno che dico lei non voglia dimettersi passare in clandestinità e organizzare la resistenza anarchica planetaria, voglio dire un terzo minuscolo ma significativo fronte, altrimenti dovrà scegliere se stare coi Cappelli Bianchi che rispondono al movimento conosciuto come Q, tra le cui fila troviamo Putin, Xi, Trump, il defunto Kennedy, suo nipote Robert Kennedy jr ma pure Bob Dylan e udisca udisca Giuseppe Conte l’avvocato de noartri, insieme a tanta altra bella gente. E questi pensi un po’ sarebbero i buoni, perché i cattivi sono la fronda nota come Cabala o Deep State di cui Shiva è stato uno dei pochi a parlare (ecco, si potrebbe mettere con Shiva a organizzare la resistenza, lui sarebbe la mente e lei il braccio, insieme sareste perfetti). Insomma, questa fazione, i cattivoni, sono inclini a fare cose molto molto brutte bruttissime che per telefono è meglio non dire dato che senz’altro il suo telefono da qualche tempo è sotto controllo io infatti non la chiamerò più qui al telefono dell’ospedale se lo tenga bene a mente.

Comunque i mammasantissima del deep state sono ovviamente i Rothschild, i Williamsburg, i Rockfeller, ma pure i Clinton, e i Bush ma perché no Obama, e ecco che arriviamo a Bill Gates e consorte che tanto hanno a cuore la vaccinazione planetaria e il loro minuscolo tatuaggio quantico, e gente celebre come Tom Hanks e cantanti per niente mistiche nonostante il nome come Madonna e mi fermo qui perché sento la sirena dell’ambulanza che sta per arrivare a prendermi e devo scappare dalla porta di servizio che dà sul parco dell’Insugherata. Questa è gente che controlla Hollywood e tutta la produzione filmica mondiale e tutte le televisioni del pianeta e tutta l’informazione, ecco perché pure in Italia non c’è Fazio non c’è Mentana non c’è fino all’ultimo giornalista del giornalino parrocchiale che si possa permettere anche solo di accennare a queste cose perché sarebbe sommerso dal coro: complottista! Ma oltre alla società dello spettacolo e dell’informazione fanno parte dei cattivoni pure le banche centrali che ricattano bellamente gli stati vedi FED e BCE, ma ecco che il nostro eroe Trump che ti fa? Nazionalizza la FED alcune settimane fa liberando gli americani dal cappio al collo di questi strozzini! Ma lo vede allora che ha ragione quel lacaniano con la tosse di Slavoj Žižek quando dice che il virus per eterogenesi dei fini ci regala un nuovo comunismo? E chi se lo poteva immaginare che Trump facesse scelte comuniste? E come mai secondo lei i nostri tg non riportano queste notizie? E come mai secondo lei i nostri tg non hanno parlato degli arresti che stanno avvenendo in America in merito all’affare coronavirus? Perché i tg appartengono al deep state! Ecco perché. E perciò ai tg non fanno piacere certi arresti. Perché secondo lei adesso fanno la nuova normativa anti fake news? Secondo lei le sue chiamate telefoniche su Carmilla contro informative e in odor di complottismo dureranno ancora a lungo? No. Appena sarà in vigore la normativa anti-fake lei sarà oscurato al pari dell’ultimo terrapiattista con un blog di quattro lettori.

La narrativa è questa: il deep state ha sguinzagliato il virus, scatenando una campagna terroristica sulle televisioni e sugli smart phone per mettere in ginocchio i servizi sanitari, chiudere le persone due mesi agli arresti, scioccarle insomma, se la ricorda la teoria di Noemi Klein sul dottor choc? Lo psichiatra che elettroscioccava i pazienti per un mese per poi ricostruirne la personalità? Ebbene è proprio ciò che è stato fatto su base planetaria, ci hanno fatto l’elettrochoc per due mesi, spaventati, tolto memoria delle libertà, di modo che dopo saremo cittadini mansueti e proni a ogni loro decisione, e quali saranno i prossimi atti? Ma la vaccinazione di massa, obbligare il pianeta a vaccinarsi per ridurre la demografia planetaria. Si ricorda il pallino di Malthus: e mica possiamo far accomodare tutta l’umanità alla mensa dei ricchi? No. Chi è ricco mangia chi è povero è giusto che crepi per fare spazio a una umanità ridotta all’essenziale, un’umanità dei migliori. Ma pensi, non piacerebbe anche a lei abitare un pianeta senza avere tra le palle un miliardo di indiani un miliardo di cinesi e africani e altri miserabili che credono in dei assurdi e nell’oltre vita? Bene, pensi allora uno ricco sfondato come Bill Gates quanto gli scoccia dividere il pianeta con lei con me con l’africano che si imbarca per affogare con il cinese che si mangia i cani con l’indiano che si inchina alle vacche col mussulmano che vela o infibula sua moglie eccetera, potrebbe abitare questo pianetino meraviglioso come duemila anni fa insieme solo agli eletti, a qualche milione di persone ben distribuite tra i continenti senza fare assembramento, senza folla, ah che spazio finalmente, la solitudine, la solitudine di dio, a questo aspirano. Ecco perché la demolizione demografica tramite vaccino è sempre stato un loro pallino. Per cui da una parte cattivoni con delirio di immortalità del deep state dall’altra i meno cattivoni ma comunque non proprio degli stinchi di santo dei cappelli bianchi, che da sessant’anni lottano per riprendere il potere che con la morte di JFK hanno perduto.

Questo per darle un assaggio ora infilo l’ultimo gettone per dirle addio, non so se sarò ancora in grado di telefonarle. Ci pensi. Si informi. Decida se appoggiare i cappelli bianchi oppure iniziare la resistenza anarchica planetaria. Cazzo stanno sfondando la porta. Scappo. Addio.


[Chiamate telefoniche precedenti]

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Economia di guerra / 2: ancora sulla centralità del lavoro e del necessario conflitto che l’accompagna https://www.carmillaonline.com/2020/04/20/economia-di-guerra-2-ancora-sulla-centralita-del-lavoro-e-del-necessario-conflitto-che-laccompagna/ Mon, 20 Apr 2020 21:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59487 di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara. Smaschera il mondo in maschera.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza. Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il [...]]]> di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara.
Smaschera il mondo in maschera
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Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza.
Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il tramite di ingegnose acrobazie linguistiche, geomorfologiche e statistiche), dati di una autentica strage a livello sanitario che i partiti istituzionali si rimpallano, con minacce di inchieste e commissariamenti, tra Destra e Sinistra come in una partita di volley ball, noiosissima e già vista centinaia di volte. Una guerra tra rane, topi e scarafaggi che, se fosse ancora vivo Giacomo Leopardi, sarebbe degna soltanto di un nuova “Batracomiomachia”.

In questo autentico bailamme, che sembra soltanto peggiorare di giorno in giorno, sono però ancora troppi coloro che, pur animati dalle migliori intenzioni, affrontano le questioni legate all’attuale pandemia in ordine sparso. Rincorrendo il momento, chiedendosi quando si potrà ricominciare ad agire, senza chiedersi su cosa si potrebbe davvero incidere, scambiando un problema per il “problema”, anteponendo l’idea dell’azione allo studio delle azioni necessarie, contrapponendo l’individuale al sociale oppure scambiando per sociale ciò che in sostanza è individuale. In una girandola di iniziative che tutto fanno tranne che fornire prospettive concrete per un’uscita dall’attuale catastrofe che, occorre ancora una volta dirlo, non è né naturale né umanitaria, ma derivata direttamente dalle “leggi” di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Come afferma Frank M. Snowden, storico americano della medicina, nel suo Epidemics and Society: non è vero che le malattie infettive “siano eventi casuali che capricciosamente e senza avvertimento affliggono le società”. Piuttosto è vero che “ogni società produce le sue vulnerabilità specifiche. Studiarle significa capirne strutture sociali, standard di vita, priorità politiche”1

Gli elementi che potrebbero aiutare a definire il campo per un intervento immediato, concreto e condivisibile a livello di massa sono già molti. Sono compresi nelle parole, nelle promesse fasulle e nei provvedimenti che i governi e i loro padroni, nazionali e internazionali, stanno esplicitando, come si affermava all’inizio, sotto gli occhi di tutti. Una lunga sequenza di leggi, prevaricazioni, distruzioni e violenze che costituiscono la trama della più lunga crime story mai raccontata.
Ancora una volta è inutile, infatti, cercare l’ordito nascosto o segreto della realtà, basta saperla osservare e ascoltare, oppure semplicemente leggere, following the money.

Ad esempio, nella “Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020” concordata il 30 marzo 2020 a Roma, alla presenza del Ministro del lavoro e delle politiche sociali tra Associazione Bancaria Italiana (ABI), l’ Alleanza delle Cooperative Italiane, tutte le maggiori associazioni imprenditoriali e confederazioni sindacali.

Il tema è sostanzialmente quello della cassa integrazione ordinaria o in deroga. Provvedimenti da sempre destinati a ricadere economicamente sulle spalle dello Stato, degli imprenditori e dell’INPS, ma che grazie a questo accordo, in piena crisi economica (di cui la pandemia da coronavirus costituisce un’aggravante ma non l’unica origine), potrebbe ricadere direttamente sulle spalle dei lavoratori che la vorranno o dovranno richiederla.

Se già la cassa integrazione comporta sempre e comunque un costo per i lavoratori, consistendo mediamente in un 80% del salario, a partire da questo accordo la stessa si trasforma in una sorta di prestito che viene accordato ai lavoratori in attesa che sia l’INPS a ripianarlo e a provvedere ai successivi pagamenti, ma il cui costo iniziale ricadrà interamente sui dipendenti coinvolti, a differenza della cassa integrazione comunemente intesa che prevede, in caso di ritardo delle prestazioni dell’INPS, che il costo iniziale ricada sugli oneri delle imprese che, di fatto, sono costrette ad anticipare per qualche mese gli stipendi parziali pagati dall’ente previdenziale.
Come si può leggere nel testo della Convenzione, invece:

Al fine di fruire dell’anticipazione oggetto della presente Convenzione, i/le lavoratori/trici […] dovranno presentare la domanda ad una delle Banche che ne danno applicazione […]
Il/la lavoratore/trice e/o il datore di lavoro informeranno tempestivamente la Banca interessata circa l’esito della domanda di trattamento di integrazione salariale per l’emergenza Covid-19.
In caso di mancato accoglimento della richiesta di integrazione salariale […] qualora non sia intervenuto il pagamento da parte dell’INPS, la Banca potrà richiedere l’importo dell’intero debito relativo all’anticipazione al/la lavoratore/trice che provvederà ad estinguerlo entro trenta giorni dalla richiesta.
Nei casi della anticipazione del trattamento di integrazione salariale da parte della Banca, quest’ultima, in caso di inadempimento del lavoratore, […] comunicherà al datore di lavoro il saldo a debito del conto corrente dedicato.
In tal caso, a fronte dell’inadempimento del lavoratore, il datore di lavoro verserà su tale conto corrente gli emolumenti spettanti al lavoratore, anche a titolo di TFR o sue anticipazioni, fino alla concorrenza del debito. Il lavoratore darà preventiva autorizzazione al proprio datore di lavoro […] in via prioritaria rispetto a qualsiasi altro vincolo eventualmente già presente evitando che sia il datore di lavoro a dover regolare i criteri di prevalenza tra i diversi impegni presenti, nei limiti delle disposizioni di legge2.

La Convenzione con le banche non è un inedito, è già stata usata nel 2008/2009 e se la pratica di cassa non va in porto l’impresa è comunque obbligata a pagare le mensilità al lavoratore, che può così restituire gli anticipi versati dalla banca. La Convenzione è un accordo astratto, ma agli sportelli (persino di due filiali diverse dello stesso gruppo) possono nascere piccoli ricatti o fraintendimenti che il lavoratore, di solito inesperto, può non saper gestire – tipo l’obbligo di aprire una posizione permanente in quella banca, al di là del conto corrente e a termine della Convenzione. Inoltre:

“«L’accordo con l’Abi parla di un’istruttoria di merito creditizio nei confronti del lavoratore. Ma questa previsione rischia di essere un problema per chi ha un finanziamento in corso e magari non sia riuscito a pagare qualche rata di credito al consumo», spiega Roberto Cunsolo, consigliere dell’Ordine nazionale dei commercialisti. Tanto basta, infatti, per essere segnalati alla Centrale rischi finanziari (Crif) e di conseguenza vedersi rifiutare l’anticipo degli ammortizzatori.
L’argomento non è da poco visto che il governo nei provvedimenti adottati finora non ha previsto lo stop alle rate per i piccoli prestiti.” (qui)

Fermiamoci qui. E’ chiaro però che, in questo modo, la cassa integrazione ordinaria o in deroga si trasforma in nient’altro che in un prestito ai lavoratori/trici, che gli stessi sottoscriveranno con le banche, liberando quasi del tutto i datori di lavoro da qualsiasi responsabilità economica in merito. Un sistema perfetto di sfruttamento circolare del lavoro dipendente. Soprattutto nel caso della cassa in deroga per la quale viene del tutto esclusa la possibilità che questa possa essere anticipata dal datore di lavoro.
L’anticipo è sui conti dei lavoratori e, se qualcosa va storto, i padroni possono detrarre le cifre per il ripianamento del debito direttamente dai salari (senza neanche il limite del quinto dello stipendio). In questo modo il lavoratore diventa il garante ultimo della politica economica d’emergenza. Il lavoro è il fideiussore generale di riserva, la banca l’intermediario, l’impresa fa la ritenuta alla fonte per conto del sistema bancario di governo. L’accordo, inoltre, non prevede il vincolo di non licenziare, come indirettamente confermato dal silenzio sindacale in proposito. Così il salario è eventuale, ma se c’è, il padrone può versarlo ai suoi finanziatori.

In un contesto in cui si prevede che siano più di 11 milioni i lavoratori che dovranno far ricorso alla cassa integrazione (o ai bonus) e in un panorama in cui le imprese con meno di 10 dipendenti, ovvero quelle ritenute maggiormente a rischio, costituiscono l’82,4% (col 22,6% dei dipendenti complessivi) delle imprese manifatturiere, il 96,2% (con il 66% dei dipendenti) delle imprese edili e il 96,6% (con il 52,3%) di quelle legate ai servizi, commercio all’ingrosso e al dettaglio3 i tempi della Cig saranno già più lunghi di almeno 10-15 giorni. Mentre, per la complessità delle operazioni richieste in modalità diversa per ogni istituto bancario, i lavoratori meno esperti di strumenti informatici, considerato che le banche escludono la possibilità di una ‘consulenza’ sindacale a soccorso degli stessi, rischieranno di essere tra gli ultimi ad essere pagati, vista anche la precedenza che sia le banche che l’Inps accorderanno agli aiuti per le aziende.

Più che lo sdegno per lo strumento in questione, andrebbe rimarcato l’eterno ineliminabile ruolo delle banche. Dal Q.E., all’Ape, alla Cassa: tutto deve passare dalle banche, che tra l’altro in questa fase non hanno assolutamente uomini e mezzi per svolgere il ruolo “burocratico” che lo Stato gli appalta – oltre al costo economico e sociale che questo parassitismo bancario comporta. Questa pletora di ammortizzatori (Cigo, Cig, Naspi, Bonus autonomi, Reddito Gigino di Maio, contributi comunali) di cui alla fine non ci si capisce più nulla, costituisce però il risultato della mancanza di uno strumento di reddito generale e universale. Così, sia a livello sindacale che prefettizio, inizia a crescere l’allarme per il clima da insorgenza sociale ed economica che sembra nascere spontaneamente, soprattutto in città come Torino dove le code davanti al Monte dei pegni si allungano ormai di giorno in giorno (qui).

Ma occorre fare ancora qui alcune osservazioni di carattere generale.
La prima, naturalmente, è quella riguardante il fatto che tale provvedimento conferma la tendenza generale alla completa finanziarizzazione di ogni attività o provvedimento un tempo compresi in ciò che veniva definito welfare state. Che si tratti di sanità, di lavoro o di previdenza (con tutti gli addentellati del caso: cassa integrazione, pensioni, etc.) il costo oggi non solo non deve più essere sostenuto dalla finanza e dall’intervento pubblico, ma deve anche costituire motivo di realizzazione di interessi per chi si sostituisce, anche solo momentaneamente, allo Stato e alle sue agenzie in veste di ufficiale pagatore. Insomma, in soldoni le banche non muovono un dito se non ne ricavano una qualche forma di profitto.

La seconda, non meno importante, è che le casse dello Stato si avviano ad essere sostanzialmente vuote. Anni di ruberie, rapine politico-mafiose autorizzate, prebende, investimenti fantasma o in grandi opere inutili e dannose mai terminate (e interminabili), premi a consorterie politiche di ogni tendenza e genere, profitti e prestiti garantiti a imprese e banche too big to fail, tasse mai pagate e attività svolte in nero hanno letteralmente prosciugato la casse dello Stato e dell’INPS. La quale ultima, nata come Istituto di previdenza sociale per i lavoratori, ha dovuto sempre più farsi carico anche delle pensioni e dei trattamenti di fine servizio milionari di manager e dirigenti, privati e pubblici, oltre che diventare il tappabuchi per i periodi di sospensine dell’attività produttiva programmati dalle grandi aziende (come la Fiat).
Impressione generale confermata dallo slittamento in avanti continuo della data di presentazione dei provvedimenti economici governativi resi necessari dalla crisi.

Lo Stato sociale ha un costo sicuramente elevato che è andato crescendo nel tempo, ma non tutto è stato dissipato, come vorrebbe far credere una narrazione tossica e di parte, a causa delle pensioni un tempo calcolate su una età media più bassa e una vita lavorativa che veniva calcolata su un numero di anni inferiore a quelli attualmente necessari. Né si tratta soltanto di truffe rappresentate dai falsi invalidi, che pur ci sono state ma non tali da determinare l’attuale situazione di difficoltà.
Certo l’innalzamento dell’età media della vita ha comportato un prolungamento inaspettato dei pagamenti pensionistici e delle spese assistenziali per la terza età, ma troppo spesso ci si dimentica di sottolineare come proprio nel settore dell’assistenza alla stessa e in quello della Sanità non sia mai stato messo in pratica alcun tipo di controllo e di calmiere dei prezzi. Contribuendo così a fare dell’assistenza sanitaria e agli anziani un autentico Far West dove tutto è concesso, in termini di guadagno e profitto privato, e dove nessuna attività, o quasi, è svolta avendo come primo obiettivo quello della salute e del benessere dei cittadini.

Le tanto venerate privatizzazioni, concesse tanto da destra che da sinistra4, hanno dimostrato, proprio nel cuore dell”eccellenza’ sanitaria lombarda, la loro reale efficienza. Soprattutto nelle RSA, ovvero nelle residenze per anziani, sempre più costose (per lo Stato e per i cittadini) e meno protette dal punto di vista sanitario.
Residenze per anziani che sono diventate, in tutta Europa, uno dei settori più interessanti di investimento per le società finanziarie a caccia di nuovi territori in cui poter praticare le proprie scorrerie, garantendo profitti annui anche del 6-7% e trasformandosi, almeno fino all’esplodere della pandemia, in uno dei settori in cui si attendevano i maggiori investimenti nei prossimi anni. Fino a 15-20 miliardi di euro entro il 2035.
Basti pensare che in Lombardia l’84% delle RSA, che nel loro insieme rappresentano un affare da 1,4 miliardi di euro, è privato. Un affare che coinvolge 8.000 strutture e 262.000 persone censite dallo Spi-CGIL soltanto per il 2018 in tutt’Italia5.

«È un settore a metà tra l’immobiliare e l’infrastrutturale, che rappresenta un ottimo modo per diversificare e proteggere i portafogli, soprattutto nei momenti di ciclo economico debole», ha affermato in un recente convegno Giuseppe Oriani, ceo per l’Europa di Savills Investment Management. Ma che cosa attira gli investitori? In primo luogo, si tratta di un investimento a basso rischio, che si traduce in una sostenibilità dei canoni su un arco temporale medio lungo. «A questo, concorre il fatto che nel sistema italiano, così come in quello francese o tedesco, solo una parte delle rette di degenza è a libero mercato, ma una quota consistente è coperta dal pubblico, nel nostro caso dalle Regioni. Questo è un elemento di garanzia per chi investe», spiega Pio De Gregorio, responsabile Industry trend & benchmarking analysis di Ubi Banca, che ha redatto un accurato studio sul settore.
Naturalmente fanno gola i rendimenti medi lordi, stimati in un range compreso tra il 6% il 7,5%. La dinamica demografica è legata a doppio filo a questa classe di investimento. Infatti, a seconda degli scenari che si verificheranno, e dunque della necessità di posti letto in Rsa, si parla di investimenti in nuove strutture per 15 miliardi di euro entro il 2035, secondo l’ottica più conservativa, o fino a 23 miliardi secondo lo scenario più generoso. L’Italia ha ancora un forte gap da recuperare. In Germania ci sono oltre 12mila strutture per circa 876mila posti letto, in Francia 10.500 strutture e 720mila posti letto, in Spagna rispettivamente circa 5.400 e 373mila.6

Quello delle RSA, alla luce dei decessi ricollegabili alla mancata prevenzione sanitaria in occasione dell’attuale pandemia, sembra essere un esempio piuttosto efficace per dimostrare concretamente come salute, assistenza e finanza non possano collimare nei loro obiettivi ultimi7.
L’assalto finanziario ad ogni aspetto del sociale infatti non rappresenta soltanto una riduzione della spesa dello Stato nel settore dei servizi ai cittadini, ma un vero rovesciamento di questi ultimi che si trasformano in un autentico settore di investimento protetto per il capitale finanziario sempre più alla ricerca di aree garantite in cui essere “parcheggiato” con una resa maggiore di quella fornita dall’investimento produttivo.

La strategia messa in atto da anni nei confronti della spesa pubblica e del suo taglio, si rivela dunque sempre di più per quello che di fatto è: fornire la possibilità di continuare ad investire speculativamente senza rischiare che l’enorme bolla finanziaria che si è venuta a creare negli anni (con scarsa o nulla base nell’economia reale) finisca con l’esplodere.
Questo può tranquillamente farci affermare che proprio per tale motivo i paperoneschi fantastiliardi promessi dal governo di Totò e Peppino per fronteggiare la crisi non esistono. Non esistono nelle casse del governo e non esistono nemmeno nelle casse delle banche. Le quali ultime avendo investito cifre da capogiro in titoli gonfiati, se non in veri e propri junk bond, oppure in titoli di Stato per impedire l’aumento dello spread e degli interessi pagati oggi non hanno disponibile tutta la liquidità richiesta dal governo per finanziare le imprese in crisi.

Interessante, da questo punto di vista, può rivelarsi la posizione assunta dall’AD di Intesa San Paolo, Carlo Messina, che, nei giorni scorsi, ha dichiarato che se la banca farà la sua parte mettendo a disposizione 50 miliardi di crediti, anche gli imprenditori che hanno spostato i loro investimenti e le loro ricchezze all’estero dovrebbero fare altrettanto facendoli rientrare in Italia8. La globalizzazione si incrina quindi, proprio ai suoi vertici, di fronte a una crisi che, al di là delle vacue dichiarazioni di Conte e Gualtieri, non troverà nei finanziamenti europei la sponda troppo a lungo strombazzata. Né i 1500, né i 400 miliardi ma, per ora e al massimo, i 37 messi a disposizione dal ferreo fondo salva stati (MES).

Da qui due conseguenze immediate e tutte due da consumarsi sulla pelle dei lavoratori: la prima è la riapertura di tutte le aziende che ne hanno fatto richiesta in deroga9 in cambio del mancato aiuto promesso su così larga scala (certo qualcosa ci sarà, ma non nella misura attesa da gran parte del mondo imprenditoriale), mentre la seconda (che non sarà comunque l’ultima) è compresa nell’accordo di cui abbiamo parlato all’inizio di questo intervento.

Non vedere in questo accordo una forma di liberalizzazione dei contratti di lavoro destinata a durare ben oltre l’emergenza sarebbe da imbecilli e non denunciarlo semplicemente criminale.
Ecco allora serviti gli snodi su cui articolare la nuova protesta sociale, non sull’idealità o l’ideologia o su un solidarismo più di marca cattolica che rivoluzionaria, ma sulla salda concretezza costituita dall’impossibilità di far coincidere gli interessi dei lavoratori con quelli dello Stato e del capitale, soprattutto nei periodi di crisi. Si tratti dei lavoratori dell’industria, si tratti dei lavoratori e degli operatori della sanità, si tratti ancora dei lavoratori dei servizi pubblici e privati e della scuola, la crisi ha tolto la maschera alla controparte. E’ ora di smettere di considerare il lavoro dipendente un privilegio o una fortuna, anche là dove sembrava garantito. E’ venuta l’ora di riportarlo al centro del conflitto e dell’attenzione antagonista.

In questi giorni il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che siamo davanti ad una crisi peggiore di quella del 1929, dalla quale, occorre sempre ricordarlo, si uscì soltanto con il secondo macello imperialista mondiale; sorto ed esploso non per un insanabile conflitto tra democrazia e autoritarismo, ma soltanto per ridefinire i confini delle aree di influenza economica e politica nel e sul mercato mondiale. Il Financial Times si è spinto a dichiarare in prima pagina (15 aprile) che questa sarà la peggiore crisi economica degli ultimi 300 anni. Ma è stato il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, a giungere ad una sintesi storica più adeguata, dichiarando che:

Una volta che l’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia sarà sotto controllo, il rischio è che si apra una delle più grandi fasi di stagnazione economica degli ultimi secoli e con essa una ristrutturazione dei sitemi politici di riferimento. Il pericolo è di ritrovarsi in una nuova «grande crisi generale» paragonabile a quella che gli storici definiscono la «crisi generale del XVII secolo», quando la seconda ondata pandemica di peste fu accompagnata da un profondo cambiamento degli assetti politici ed economici […] La conseguenza è che dobbiamo attenderci non solo della povertà la più grave recessione economica degli ultimi secoli, con un crollo inimmaginabile della capacità produttiva e un aumento mai registrato e delle disuguaglianze a livello globale, ma anche lo stravolgimento dell’ordine esistente. Già all’indomani della grande crisi del 2008, infatti, l’ordine internazionale liberale ha cominciato a dare segni di cedimento strutturale.10

Mai come in quest’occasione la salvaguardia della salute e delle garanzie sul lavoro sono state coincidenti; mai come in questo momento lotta sindacale e lotta politica (intesa nel suo senso più ampio di ridefinizione delle necessità sociali e del modo di governarle) si sono avvicinate nelle loro finalità; mai come oggi la lotta per la ripartizione della ricchezza prodotta è stata tanto importante per ridefinire i modi della sua creazione, delle sue finalità e della difesa dell’ambiente. E della salvaguardia della specie umana.

Soprattutto in un contesto in cui la sostanziale confusione sui dati epidemiologici, la chiacchiera politica, la propaganda mediatica e le continue e contraddittorie illazioni di presunti esperti quali Roberto Burioni e Ilaria Capua (nomi che valgono soltanto come esempio considerato che l’elenco potrebbe continuare a lungo) non hanno fatto altro che coprire di parole inutili e pietose la sostanziale scelta dell’immunità di gregge come unica strategia da applicare nei confronti dell’epidemia, pur senza averlo mai dichiarato pubblicamente.

Lontani dalla memoria storica della Chiesa, che ha motivo di mantenerla non per ragioni di cambiamento e sovvertimento dell’ordine esistente, ma al contrario per la necessità di conservare i suoi apparati e la sua funzione11, i tecnici del dream team di Vittorio Colao già insistono per rendere obbligatorio lo smart working, il telelavoro, per le grandi aziende e ovunque sia possibile. Mentre alcuni lavoratori e alcune lavoratrici possono vedere in questa “modernizzazione” una forma di flessibilità che potrebbe andare incontro alle loro esigenze personali e famigliari, è inevitabile osservare come tale ristrutturazione del lavoro white collar sia destinata a promuovere un’ulteriore parcellizzazione dello stesso e un’atomizzazione dei suoi esecutori che, ben presto, dovranno fare i conti con una totale privatizzazione dei loro contratti e con una tendenza inarrestabile alla creazione di lavoratori “autonomi” (in realtà dipendenti) assolutamente non più garantiti sia sui tempi di lavoro che sulle retribuzioni. Come già ben sanno molti lavoratori precari.

Sarebbe poi da affrontare il tema della ristrutturazione del lavoro nel comparto sanità, dove è evidente che dietro agli untuosi elogi agli “eroi che ci difendono in prima linea” si cela una totale ristrutturazione peggiorativa delle condizioni di lavoro dei medici (qui) e di tutto il personale sanitario12, già da tempo iniziata con le privatizzazioni messe in atto nel settore. Non solo in Lombardia, caso più eclatante, ma in tutta Italia e da ogni governo nazionale o locale.

Nella scuola anche non ci sarà da scherzare. Anche qui il telelavoro di queste settimane, le lezioni a distanza e le riunioni fiume per via telematica, non costituiranno altro che un ulteriore aumento dei carichi di lavoro dei docenti, una riduzione delle risorse disponibili (che bisogno ci sarà di pagare i corsi di recupero, se gli insegnanti saranno obbligati a tenere delle lezioni da casa al pomeriggio?) e se le classi saranno ridotte di numero sarà solo per sdoppiarle su un lavoro che potrebbe svolgersi sia di mattina che pomeriggio, con un aumento dell’orario settimanale dei docenti non accompagnato da un’adeguata retribuzione. Non a caso già si parla di un nuovo contratto e di nuove assunzioni che certo non sarebbero minimamente adeguate a coprire un raddoppio delle cattedre.

Del lavoro in fabbrica, nei cantieri, nella distribuzione e nel commercio abbiamo già indirettamente parlato anche negli articoli precedenti. Ma se da un lato su ogni lavoratore di questi settori, come anche di quelli citati prima, graverà la spada di Damocle del licenziamento e della disoccupazione, è chiaro che su tutti i lavoratori e le lavoratrici peseranno fin da subito l’aumento dei ritmi, l’inasprimento delle turnazioni, la probabile riduzione delle retribuzioni per permettere alle aziende, grandi e piccole, di superare ‘insieme’ il difficile momento. Lo ha sintetizzato benissimo il presidente degli industriali vicentini, Luciano Vescovi, quando ha affermato: “Si tratta di trovare un percorso italiano per tamponare l’emergenza e aiutare il sistema, ma è molto complicato in uno Stato privo di soldi. Bisogna dirlo chiaramente: bisogna tornare a lavorare, e tirare la cinghia per un po’” (qui). Mentre lo stesso presidente del consiglio Conte ha già preannunciato che, con la prossima riapertura, si lavorerà sette giorni su sette.

D’altra parte l’elezione di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria e l’immediata proposta di anticipare ufficialmente la riapertura produttiva del settore auto (che significa, in realtà, praticamente tutta la metalmeccanica) e di quello della moda (tessile e non solo: cuoio. chimica, etc.) mostrano chiaramente come tutte le decisioni della politca siano completamente assuefatte, a Destra come a Sinistra, agli ordini provenienti dai “padroni del vapore” e dagli investitori. In fin dei conti, nella pletora di tecnici arruolati di giorno in giorno per svolgere le funzioni che dovrebbero essere specifiche del Governo e del Parlamento, i veri specialisti sono loro: gli imprenditori. Che, però, non ancora soddisfatti dagli omini di pezza posti al governo o nel parlamento, si spingono già a chiedere la presenza di un nuovo de Gaulle13.

Non tenere conto di ciò, chiudersi nello specifico o nel proprio orticello, scimmiottando gli orridi specialisti ed esperti come i 17 membri della super-commissione varata dal governo in questi giorni, sarebbe semplicemente perdente e conservatore.
In tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti i lavoratori di tutti i settori hanno capito che la lotta contro la crisi da coronavirus coincide con la lotta contro il virus del capitale (qui).
Ma ciò che fa paura, forse, è proprio il fatto che nelle crisi sistemiche tutti i nodi sono destinati a venire al pettine e non ci sia più spazio per le incertezze e i tentennamenti.
Stiamo dunque ben attenti a non perdere questa occasione, a partire proprio dalle assemblee, dalle discussioni e dalle eclatanti contraddizioni che si svilupperanno sui posti di lavoro. Non abbiamo bisogno di inventarci spazi, ma di riconquistare quelli che ci sono e conosciamo già.
In fin dei conti, se già gli “esperti”, i media e l’economia ci dicono che “fa brutto”, anche noi avremo prima o poi il diritto di sbroccare, no?14

N.B.
Questo lungo articolo, la cui responsabilità per i contenuti e gli eventuali errori ricade interamente sull’autore, non sarebbe stato possibile senza i consigli, le critiche e le considerazioni espresse da Luca B., Giovanni I., Maurizio P., Gioacchino T. e Cosetta F.


  1. F.M.Snowden, Epidemics and Society. From the Black Death to the Present, New Haven- London 2019, Yale University Press, p.7  

  2. Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020  

  3. Dati Istat riferiti al 2016  

  4. Resta qui da ricordare sempre il vademecum prodiano per la “proficua collaborazione “ tra Stato e mercato: Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino 1995  

  5. R. Galullo e A. Mincuzzi, Residenze per anziani, affare da 1,4 miliardi in Lombardia. L’84% delle Rsa è privato,il Sole 24ore, 8 aprile 2020  

  6. Adriano Lovera, Residenze per anziani, mercato in crescita costante, il Sole 24ore, 14 ottobre 2019  

  7. In Italia, Spagna, Francia, Belgio e Irlanda la metà dei decessi da Covid-19 è avvenuta nelle residenze pr anziani (qui)  

  8. A. Greco, Intervista a Carlo Messina, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  9. Facendo sì che il lockdown promesso e strombazzato non sia mai neppure lontanamente esistito per la maggioranza dei lavoratori, come si può osservare anche solo dai dati dell’ISTAT (qui); fatto evidente che soltanto da qualche giorno il Viminale e alcuni quotidiani fingono invece di scoprire 

  10. Raul Caruso, Dopo la pandemia si rischia una crisi degli assetti globali, Avvenire 14 aprile 2020  

  11. Anche quando per bocca di Papa Francesco avanza la richiesta di un salario universale per i lavoratori più poveri (qui)  

  12. Come spiega molto bene l’intervista ad un’infermiera contenuta qui  

  13. Carlo Andrea Finotto, Virus e rischio baratro. Perché all’Italia servirebbe un nuovo de Gaulle, il sole 24ore, 18 aprile 2020  

  14. Sia ‘far brutto’ che ‘sbroccare’ sono due possibili traduzioni in italiano dell’americano ‘breaking bad’  

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Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

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Cronache epidemiche https://www.carmillaonline.com/2020/03/26/cronache-epidemiche/ Thu, 26 Mar 2020 22:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58947 di Giovanni Iozzoli

Si scorgeva in lontananza una striscia di fumo nera, indolente, salire verso il cielo. Neanche tanto in lontananza: un paio di chilometri in linea d’aria, da casa mia. Pareva l’eco angosciante di epoche lontane – e vicinissime; il fumo triste che dovevano vedere giorno e notte gli abitanti di certe cittadine una settantina di anni fa, dalle loro finestre – la memoria dannata d’Europa. Le nostre anime, passeranno tutte dal camino.

Ora che siamo piombati dentro il peggior incubo distopico – non uscite, non vi assembrate, non vi toccate -, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Si scorgeva in lontananza una striscia di fumo nera, indolente, salire verso il cielo. Neanche tanto in lontananza: un paio di chilometri in linea d’aria, da casa mia. Pareva l’eco angosciante di epoche lontane – e vicinissime; il fumo triste che dovevano vedere giorno e notte gli abitanti di certe cittadine una settantina di anni fa, dalle loro finestre – la memoria dannata d’Europa. Le nostre anime, passeranno tutte dal camino.

Ora che siamo piombati dentro il peggior incubo distopico – non uscite, non vi assembrate, non vi toccate -, ora che ogni scenario apocalittico o autoritario sembra plausibile, cominciamo a riflettere seriamente sulla nostra condizione. Non come malati o potenziali infettati, ma come esseri umani improvvisamente risvegliati dal sonnambulismo indotto dal tran tran fasullo e quotidiano a cui eravamo avvezzi.

Un mio amico fischietta allegro, quando va a fare la spesa, nel vuoto desolato nel nostro quartierino di prima periferia: dice che la mascherina gli ha migliorato l’estetica, e trova anche tutte le donne attraenti, coi loro volti esoticamente velati dalla FFP3. Fuori c’è un sole di primavera che ricorda l’aprile berlinese del 1945, magistralmente raccontato da Jonthan Littel ne Le Benevole: la città spettrale, vuota di corpi e desideri, scassata e rassegnata, in attesa della Nemesi terribile – mentre la natura fiorisce irridente, dolcissima, struggente e puntuale, promettendo un futuro di normalità che sembra lontanissimo, sepolto dai rimpianti di tutti coloro che vorrebbero tornare indietro, cancellare gli anni della follia, godersi legittimamente la primavera – come agognavano i berlinesi tardivamente pentiti nel ’45. Solo che non c’è nessun nemico, alle porte. Forse è per quello che le strategie difensive si accatastano inutilmente. Dai nostri bunker antivirali, non si coglie uno spiraglio di futuro ipotizzabile. C’è il qui e ora. Le tragedie sono sempre una lucida immersione nel presente – lo raccontava bene Benedetto Croce quando rammemorava la sua esperienza di sepolto vivo sotto le macerie di Casamicciola, durante il terremoto del 1883 che gli uccise la famiglia. Si resta lucidi, guardando il cielo stellato e sperando che i soccorsi arrivino al più presto, a liberare il corpo imprigionato da tufi e calcinacci.

Quello che fa più paura, non è la situazione economica. Ciò che spaventa è l’irreversibilità delle nostre paranoie. Per quanto tempo, quando sarà finita, continueremo a disinfettare il nostro mondo, in una illusione di incontaminazione, di asetticità? Per quanto tempo continueremo a girare in mascherina, a lavarci ossessivamente le mani, a perpetuare solo rapporti a controllata lontananza? L’ideologia del distanziamento sociale viene introiettata da una società che già, embrionalmente, aveva cominciato a praticarla da anni, in dosi omeopatiche. Metà dei nuclei familiari milanesi sono single – il “distanziamento” era già penetrato nei polmoni. Le relazioni umane come un impiccio da evitare – tra un aperitivo, un pilates o una impiccagione per debiti.

Le nostre bardature anti-virus fanno riflettere – per noi sono una fastidiosa novità. Ma sappiamo che milioni di cinesi, indiani, indonesiani, nelle sterminate metropoli d’Asia, indossano già normalmente quelle stesse mascherine, da anni. Fa parte della loro routine. E non per proteggersi dai virus: solo per ripararsi dall’intossicazione di uno smog ormai incontrollato – qualcosa di quotidiano, ineluttabile, non eccezionale, che si sa non passerà. Particelle inerti, non virus. Agenti patogeni che aggrediscono il sistema respiratorio e innescano la tosse cronica con cui si convive, nella frenetica tristezza tipica delle metropoli asiatiche. Dov’è il virus nell’aria lercia e irrespirabile di Bangalore? Non è quello il problema principale, da quelle parti. Ma che razza di vita è quella in cui normalmente decine di milioni di persone barattano un po’ di elevazione sociale, un po’ di modernità e di accesso alle merci, con l’impossibilità fisiologica di respirare in maniera normale? Diventare ceto medio significa soffocare? E’ una buona metafora? Intanto, nella ridente Padania – da sempre catino fetido e stagnante – le autorità fanno a gara a smentire la possibilità che il virus possa essere veicolato attraverso le micropraticelle dell’inquinamento urbano. Sarebbe un bel problema, se fosse così. Meglio non pensarci nemmeno. Come faremmo, dopo, quando sarà passata, a risalire ordinatamente sulla giostra?

Chi sono i vecchi padani che stanno morendo dentro reparti stracolmi e improvvisati, a Brescia o Milano? Pensionati di piccoli paesini, insediati in un contesto di solido benessere, sociale e famigliare. Sono passati nel giro di pochi giorni, dai riti placidi della bocciofila alla terapia intensiva; e adesso sono lì, dentro uno scafandro o attaccati ad un respiratore, con gli occhi sbarrati, la fame insaziabile di ossigeno, soli nella morte come nella nascita. Pure loro, ceto medio, medissimo; vecchi eroi del boom, custodi di una solida ricchezza privata: probabilmente non si erano accorti di quanto, negli anni, fosse stata tanto gravemente erosa quella pubblica – né potevano ipotizzare ricadute così drammatiche sulla propria cartella clinica.

Ho letto che nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Bergamo, prima della crisi, c’erano 17 posti disponibili. Non so se il numero sia quello giusto (già la scaramanzia non lasciava presagire nulla di buono), ma comunque era una disponibilità scandalosamente inadeguata, per una grande città. Scenario tipico dell’egemonia liberista: crescono le ricchezze private, decrescono quelle comuni, collettive. Mentre i capannoncini grigi, della meccanica, dell’agroalimentare e della logistica, facevano girare l’economia del Nord, mentre la disponibilità economica delle famiglie ti faceva sentire al sicuro – chi se ne frega delle attese, vado a fare l’esame a pagamento -, ci siamo scordati di vigilare sul lento inesorabile sfilacciamento del sistema pubblico.

Come in un bizzarro cartone animato, una lunga fila di topolini maligni ci aveva sfilato sotto gli occhi migliaia di posti letto, uno alla volta, ogni santo giorno, per anni. Non se ne era accorto nessuno? Reparti chiusi, ospedali e presidi cancellati, pezzi di sanità trasferiti pari pari al privato. Non è vero che il sistema sta facendo fatica ad affrontare la criticità, oggi, per colpa del virus. Era già così da tempo. Adesso sta piangendo il Nord, ma in condizioni normali, erano le strutture sanitarie meridionali, che quotidianamente condannavano ad un’assistenza indegna o addirittura alla morte i pazienti più fragili, anziani, poveri. Con qualche occasionale denuncia pubblica, che dopo due giorni spariva dai giornali, derubricata nell’archivio strapieno, alla voce “malasanità”.

Adesso tra Bergamo e Brescia si sta decidendo a chi dare priorità nelle terapie salvavita. A Sud non c’era bisogno del virus: funzionava più o meno così, nei luridi pronto soccorso trasformati in depositi di fine vita. Abbiamo ballato al ritmo dell’euro-riformismo per vent’anni – ideologia e tagli feroci – e adesso piangiamo sull’austerity versata. Non autosufficienza e invecchiamento: quando la buriana sarà passata, ci ricorderemo che non sono temi a margine? Ci torneranno in mente le file delle bare solitarie caricate dai mezzi militari – i vecchi che spariscono, letteralmente, dai reparti e ricompaiono in forma di urna funeraria? Le bare, Cristo Santo. Almeno quelle le capiamo? Sono un linguaggio esplicito, le bare: 180×50 cm, la misura della verità. Ci ricorderemo, quando qualche illuminato maestrino della Bocconi verrà a dirci che “ce lo chiede l’Europa”? Saremo pronti a reagire, onorando la memoria dei nostri morti?

A proposito di ideologie introiettate: questa estrema, totale, requisizione delle nostre libertà da parte dell’esecutivo – al di là che possa essere ritenuta necessaria in questa fase o meno – quali effetti avrà sulla psicologia di massa? E’ la prima volta, dal 1945, che in questo paese si confinano i cittadini dentro le mura di casa senza una realistica previsione di cessazione della misura. Come ne usciranno gli italiani medi, già immunodepressi sul piano dell’autonomia di pensiero, privati già da tempo di strumenti di lettura o critica che vadano al di là del mugugno anti-casta o anti-negri? Sembrerà normale e acquisito il circuito shock sociale/comando verticale – l’esautorazione di ogni margine non solo di opposizione, ma anche di semplice discussione? L’idea nefasta della “compagine nazionale” potrà essere ritirata fuori dal cassetto ad ogni passaggio di svolta – non solo epidemiologico -, come una specie di bandierina, di retaggio, di orgoglio della “resilienza italiana” che canta dai balconi e invoca i militari nelle strade?

Non preoccupa tanto la propensione autoritaria delle istituzioni – che ormai è un automatismo biopolitico – quanto il pericolo che essa possa trasformarsi, tra la gente, in senso comune, ineluttabilità e indiscutibilità di questi meccanismi. I check point, le ordinanze minacciose, la tracciabilità digitale delle nostre vite: tutte cose già da tempo nella disponibilità degli Stati, ma che adesso rischiano di non aver più bisogno di alcun alibi emergenziale.

Il virus impecorisce o risveglia le coscienze? Certo è che siamo in una congiuntura astrale speciale. Gli imprenditori privati, che per vent’anni avevano rivendicato il primato morale e la guida di fatto del paese, si stanno rivelando meschini bottegai pronti a barattare salute e fatturati; il Presidente del Consiglio è uno scappato di casa, che si trova lì senza sapere bene perché; l’opposizione è clownesca; la Protezione civile assume compiti di governo abnormi e inadeguati. Insomma: non c’è più la borghesia, la classe dirigente che forma le élite del paese e lo dirige. Puff. Estinta. Sparita. La nuova autorità morale è fatta di paramedici che indossano come protezione sanitaria i sacchetti della spazzatura, le infermiere che piangono impotenti i pazienti morti, i medici di famiglia che non sanno che pesci prendere, i facchini e i trasportatori della logistica che alimentano le reti distributive, i lavoratori dei settori di pubblica utilità. I fanti straccioni, insomma – mentre generali e approfittatori di guerra aspettano che passi. A molti verrà il dubbio che tutto sommato, anche “dopo” potremmo fare a meno di loro: capitani d’industria, manager, economisti, euroburocrati, consulenti del nulla.

Nel notte fatale tra il 20 e il 21 marzo, il Governo ha appurato che l’immunità operaia non esiste – né di gregge né individuale. E ha chiuso tutte le attività “non essenziali”, formula che lascia ampi margini di trattativa a squali manageriali di ogni risma. Al momento in cui scriviamo è già aperto il suk sottogovernativo, quello dei protocolli e degli applicativi, dove mezze seghe pseudoimprenditoriali e mezze seghe pseudopolitiche, confrontano le loro mediocrità, patteggiando la soglia della sopravvivenza dei dipendenti o delle aziende. Una trattativa levantina sulle proroghe e le deroghe di ogni genere, guidata dagli ascari di Confindustria. Ricavi, profitti, fette di mercato: se fossero sul Titanic, morirebbero con la calcolatrice in mano.

L’essenzialità produttiva e merceologica è una tale catena di sant’Antonio, che alla fin fine anche Gucci potrebbe rivendicarla (sembra una barzelletta, ma pare stiano riconvertendo a camici ospedalieri parte della produzione. Infermieri con poche protezioni e scarse gratifiche: ma elegantissimi). Gli operai italiani hanno manifestato in queste settimane una sana estraneità alle ragioni della produzione. Lo spettacolo delle multe agli innocui frequentatori di parchi, mentre metropolitane e stabilimenti si riempivano di salariati ogni mattina, aveva provocato sdegno e rabbia sacrosanta, dentro i perimetri aziendali.

Si è scioperato per la salute ma anche per strappare la cortina ipocrita dell’iostoacasa, mentre si impediva alla gente proprio il diritto di starsene a casa. Scioperi che hanno incalzato le timidezze dei confederali, sempre propensi a interpretare un ruolo nello spettacolo dell’union sacrée, modesta particina in cui si sono tristemente specializzati. Ma non in tutti i lavoratori è scattato il normale riflesso autoconservativo. C’è anche “l’insana” fetta degli irriducibili – non solo i fidelizzati, o i terrorizzati: ci sono anche quelli che vogliono continuare a lavorare perché quello è ormai l’unico residuo aggancio che hanno rispetto alla loro idea di normalità. Il lavoro come vera casa, come habitat naturale: una vita deprivata dai ritmi del lavoro come indegna di essere vissuta. Una psicosi, insomma. Un po’ come quella dei maniaci che fotografavano i runner dalla loro finestra e mettevano le foto in rete per esporli al ludibrio che meritano gli untori. Il virus è anche un formidabile rivelatore di malattie mentali che la normalità occulta.

Quel filo di fumo non costituiva un richiamo quasi per nessuno. Tutti voltavano la testa imbarazzati. La città sapeva, che stava succedendo qualcosa, là, a Modena, dalle parti di Sant’Anna, al carcere. Le voci cominciavano a girare, nei notiziari locali on line. Davanti ai cancelli solo qualche attivista solitario e impotente – e i parenti, disperati, e torme di divise che entravano e uscivano. Eppure lo vedevamo tutti, dai quattro angoli della città, il fumo di guerra. Quando sono arrivato lì davanti, ho sentito un operatore di polizia che spiegava con disinvoltura ad un avvocatessa: hanno avvisato tutti gli avvocati dei morti, se a te non ti ha chiamato nessuno, vuol dire che i tuoi sono ancora vivi. Qualche passo più in là un’anziana signora tunisina, velata di turchino, singhiozzava con le mani in faccia appoggiata ad una macchina. Tre ragazzoni intorno a lei l’abbracciavano e se la baciavano, come si deve fare con le vecchie madri: hamdullillah, le dicevano per consolarla, ringraziamo Dio. Nostro fratello non è nell’elenco dei morti. E’ solo scomparso, non si trova: è asserragliato, è deportato, chissà dove, chissà in che condizioni…

Fioriscono le analisi, alcune assai interessanti pubblicate anche da Carmilla, circa le conseguenze globali del virus. In che direzione spingerà, questa formidabile accelerazione della storia? Come si ridisegneranno le gerarchie mondiali, nella divisione internazionale del comando, del lavoro, delle risorse, dei mercati? E’ noto che le grandi epidemie, spesso hanno accompagnato massicci mutamenti degli scenari geopolitici – i rapporti tra città e campagna, lo sviluppo delle forze produttive, della scienza, della tecnica: i virus come araldi della krisis, di uno stadio ulteriore della modernità. Una lettura che diffida di ogni crollismo, di ogni catastrofismo fine a se stesso.

Le tendenze in atto sono contraddittorie: le screditatissime élite occidentali, si rilegittimeranno grazie al senso di protezione che i sudditi umanamente coltivano davanti al Male? O ci sarà il collasso finale degli assetti politici, già così precari, dei vecchi epicentri imperialisti – Washington, Londra, Bruxelles? E l’Iran, la Turchia, l’asse dei paesi intermedi – soprattutto quelli che gli Usa odiano – riuscirà a reggere le grandi onde telluriche in atto, tra sanzioni, profughi, crollo dei prezzi del petrolio? E l’epidemia, può essere paragonata ad una guerra, con i suoi ben noti effetti catartici sul ciclo economico? Può essere che questo contesto così distruttivo di ricchezza, possa determinare una nuova fase di ri-accumulazione, che contrasti almeno per un po’ la tendenza alla depressione che da mesi segnava le economie capitalistiche mondiali? Qualcuno si chiede se stiano cambiando i paradigmi, le categorie, le strutture di pensiero, dopo un quarto di secolo di egemonia liberale. Ma quello non è un problema. Il liberismo è sempre stato una religione del pragmatismo. Le ortodossie vanno bene per l’accademia, mica nella vita. Gli economisti sono al servizio di chi paga. E i padroni già invocano l’economia di guerra, l’eccezionalismo, il cambio di passo – precisando però che “niente nuova Iri”, lo Stato dovrà metterci i soldi, le commesse, gli appalti, gli esoneri fiscali, gli iperammortamenti, il finanziamento alle grandi opere, mica pensare di cambiare spartito. Assisteremo alle pantomime del 2008, quando i boss dell’industria e della finanza americana andavano a Washington col capo cosparso di cenere – oh, quanti paradigmi da cambiare! – per ritrovarsi l’anno dopo più arroganti e famelici di prima.

Intanto gli animali selvatici si stanno riavvicinando ai centri urbani, silenziosi e salubri come non mai. Volpi, lepri, germani reali e fagiani: il microscopico virus sta generosamente aprendo loro le porte delle città, mentre gli abitanti sono costretti a barricarsi in casa. Ci ricorda che non siamo soli sul pianeta, con le nostre malattie, le nostre ipocondrie, il nostro ventaglio di abitudini sguaiate: c’è un mondo che si muove intorno a noi, spesso invisibile – almeno per chi non vuol vedere.

Milioni di persone stanno ignorando il corona virus, semplicemente perché per loro è normale e naturale vedere un bimbo morire di diarrea o chiamare “vecchio” un cinquantenne: una massa enorme di uomini e donne che vive negli infiniti slums del mondo e che convive con ogni genere di virus – e di morte – senza vie d’uscita. Un popolo senza acqua, senza fogne, dall’alimentazione scarsa, dal sistema immunitario fisiologicamente compromesso fin dalla nascita. La vita e la morte di quelli che non hanno paura del coronavirus, che adesso ci vedono annaspare terrorizzati e magari non capiscono, o pensano che finalmente c’è un po’ di giustizia virale, in questo mondo.

Domenica 8 marzo 2020. Nove cani crepano in seguito alla rivolta nel canile di Sant’Anna, in Modena. Non verrà il Gabibbo, a indagare su quelle morti: erano cani cattivi, idrofobi, accusati di reati contro il patrimonio. Assurdi coltivatori di dipendenze. Morti come si muore nei canili, tra guaiti soffocati e anonimato. Nessuno sa come è cominciata la rivolta, nessuno sa bene quando è finita. Un balletto di versioni contrastanti e fatti occultati per giorni, una censura di Stato degna del Guatemala, del Salvador. La stampa locale, il Garante dei detenuti, le autorità, gli amministratori, tutti allineati e coperti, hanno dedicato poche parole distratte a questo inaudito eccidio modenese – il primo dopo quello delle Fonderie del 9 gennaio 1950.

Rendiamo almeno l’onore del nome a questi cani ribelli e sfortunati: Hafedh Choukane, 36 anni; Slim Agrebi, 40 anni; Ali Bakili, 52 anni; Lofti Ben Masmia, 40 anni; Erial Ahmadi, 37 anni; Salvatore Cuono Piscitelli, 40 anni; Ghazi Hadidi, 36 anni; Abdellah Rouan, 34 anni (fonte Antigone – e ne manca pure uno). Quattro sono morti in viaggio, li avevano caricati mezzi morti sui furgoni per portarli presso altri penitenziari – capita nel trasporto animali. Per loro non c’è stata nessuna mobilitazione della società civile, nessuna indignazione, nessun dibattito si è aperto: il sindaco ha mandato persino una squadra di imbianchini a coprire celermente qualche scritta solidale comparsa sui muri della città, tanto per calibrare le emergenze… Meglio, così ci risparmieranno in futuro le retoriche sul carcere “casa di vetro”, le irriducibili bugie liberali sul carcere “specchio di una società democratica”. Tutte chiacchiere. Non frega un cazzo a nessuno, di quelli là dentro.

A Sant’Anna non è successo niente, poco più di un incidente, questa è la parola d’ordine. Ricostruiranno il canile – distrutto dalla torma degli ingrati rivoltosi – più funzionale e sicuro di prima. Avevano intuito, le autorità, che con l’avanzare del virus la rivolta di Modena sarebbe semplicemente scomparsa dalle cronache, dalla labile memoria di una città attonita – bastava tenere duro e tacere per qualche giorno in più. Non ci sarà nessun comitato di controinchiesta, a bilanciare le versioni ufficiali. Ci fideremo dei PM e archivieremo alla svelta questa pratica incresciosa. Guai ai vinti. Ai perdenti. Saranno cancellati. E così siamo morti da emarginati, da antichi clandestini della storia – recitava il canto dolente di Domenico Rea nel 1980, contemplando la morte umile e dimessa dei cafoni, durante il terremoto d’Irpinia. Nessun poeta canterà invece la morte di Hafedh o Salvatore, nessuna Spoon River racconterà i loro giorni contorti – e poi cosa scriveresti sulle lapidi a beneficio del poeta: epidemia di overdose? Clandestini tra i clandestini, cani selvatici in mezzo ai cittadini civili. Il fumo nero è andato avanti per due giorni.

Restiamo umani, scriveva Vittorio Arrigoni. L’altro giorno, allineati davanti al Conad, una fila disciplinata di gente di mezza età (tra cui io). Tutti muniti di mascherina, più o meno a norma, tranne un signore sulla sessantina, dall’aria preoccupata, gli occhi sgranati, che esibiva sul muso un fazzoletto da bandito-cowboy, annodato alla nuca. Si vede che non aveva trovato di meglio. Uno della fila, allora, si è avvicinato e gli ha passato una mascherina: – tieni, ne ho una in più, nuova. L’altro l’ha presa riluttante, insisteva per pagarla, ma non c’è stato verso – era un regalo e l’ha accettato; se l’è infilata visibilmente soddisfatto e ha detto al donatore ad alta voce: ti auguro tanta salute! – così con semplicità – e si vedeva che era sincero. Un augurio bellissimo. Poche parole. Forse voleva solo dire: abbiamo i capelli bianchi, ne abbiamo viste, passerà anche questa, cazzo, e ci ritroveremo al bar o giù in polisportiva. Ti auguro tanta salute.

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