Enzo Traverso – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E allora Hamas? La violenza degli oppressi e i dilemmi della sinistra occidentale https://www.carmillaonline.com/2024/08/02/e-allora-hamas-la-violenza-degli-oppressi-e-i-dilemmi-della-sinistra-occidentale/ Fri, 02 Aug 2024 04:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83501 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria. Credo che questo sia un buon punto di partenza per chi vuole esprimere la doverosa e piena solidarietà con la lotta del popolo palestinese mantenendo allo stesso tempo uno sguardo lucido sulle posizioni in campo.
Queste considerazioni sulla violenza si possono trovare nel pamphlet Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso, sebbene non appartengano direttamente all’autore che le riprende da Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di riflessioni che partono proprio dalla condizione dei prigionieri nei lager nazisti. Se qualcuno si scandalizzasse per il paragone tra i palestinesi perseguitati dal colonialismo sionista e gli ebrei vittime del genocidio hitleriano si deve notare che è lo stesso Améry che, riflettendo sugli scritti di Fanon, accosta “l’oppresso, il colonizzato, il detenuto del campo di concentramento, forse anche lo schiavo salariato sudamericano” nelle sue considerazioni sulla violenza.1

Il rovesciamento tra la vittima di ieri e il carnefice di oggi non è l’unica inversione di cui prende atto Traverso riflettendo sulla tragedia di Gaza. Definire i palestinesi come “animali umani” (come ha fatto ultimamente il ministro della difesa israeliano Gallant) o “scarafaggi drogati dentro una bottiglia” (come fece nel 1983 dal capo di stato maggiore dell’esercito Eitan) rimanda immediatamente a stereotipi antisemiti importati in Medio Oriente. Questi “animali umani” che sgusciano fuori dai tunnel per colpire un esercito di occupazione, inoltre, non possono che evocare la tragica lotta degli ebrei nel ghetto di Varsavia nel 1943. La parte più estremista dell’attuale governo di Netanyahu, in aggiunta, apprezza esplicitamente la formula di “spazio vitale” israeliano applicata all’intera Palestina storica. Un apprezzamento che dimentica come questo concetto nasce per opera dei pangermanisti che consideravano le frontiere stabilite dal diritto internazionale come pure astrazioni, rivelatrici di un pensiero disincarnato di marca ebraica. Infine, sono proprio gli antisemiti dichiarati di ieri ad essere i più pronti a denunciare il presunto razzismo antiebraico di chi si oppone al sionismo (salvo continuare a coltivare in segreto i loro vecchi e osceni sentimenti, come ha mostrato l’inchiesta di Fanpage).
Va bene, si dirà, queste sono sottigliezze intellettuali, mentre l’azione di Hamas è stata cosa ben più concreta. Si sarebbe trattato di un’azione terroristica, di più, di un pogrom, figlio di una concezione fondamentalista e, al fondo, antisemita dell’organizzazione palestinese. Di fronte a queste accuse, bisogna osservare che l’attacco di Hamas non può essere definito un pogrom, se le parole devono avere un significato determinato. Perché Hamas non è al potere in uno stato in cui gli ebrei sono una minoranza oppressa, come nella Russia zarista. È evidente che l’utilizzo del termine pogrom serve solo a marchiare l’organizzazione islamica con lo stigma dell’antisemitismo.
Ma si può parlare di terrorismo? Traverso sostiene di sì perché l’attacco di Hamas aveva l’esplicito intento di rovesciare sulla popolazione israeliana il terrore vissuto per decenni dai palestinesi. Per questo motivo non esita a condannare questa azione. Lo ripete più volte. L’oppressione subita non giustifica l’eccidio di civili innocenti così come “la profonda paura esistenziale” degli ebrei, che nasce dalla lunga storia dell’antisemitismo culminata nella Shoah, non rende Israele ontologicamente innocente. 

Eppure, non si può assolutamente parlare di ragioni opposte ed equivalenti. È vero che quelle dei palestinesi e degli israeliani, come sostiene Edward Said citato da Traverso, sono memorie incrociate che si ignorano e si negano a vicenda: la prima è incentrata su una vicenda storica fatta di espropriazione, sradicamento, espulsione dalla propria terra, occupazione e privazione dei propri diritti; la seconda sulla conquista dell’indipendenza, sulla riappropriazione di una terra cui si avrebbe diritto per decreto biblico e sul riscatto da parte di un popolo di vittime. Ma da queste memorie opposte nascono azioni che, ripetiamolo insieme allo storico italiano, non possono essere considerate equivalenti: l’esistenza di un esercito di occupazione è in sé condannabile, mentre le azioni della resistenza sono di per sé legittime, anche quando sono violente, salvo poter essere criticate per gli specifici mezzi che di volta in volta sono utilizzati.
Il fatto è che la questione della violenza degli oppressi e degli sfruttati è oramai diventata un tabù e fa bene Traverso a richiamarla in tutta la sua crudezza.

Decenni di politiche memoriali focalizzate quasi esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza, hanno eclissato una realtà che appariva ovvia in altri tempi. Gli oppressi si ribellano ricorrendo alla violenza e la loro violenza non è bella né idilliaca, talvolta è anzi raccapricciante.2

È falso pensare che i movimenti di liberazione e il terrorismo siano due fenomeni privi di relazioni. Per quanto deplorevole, sostiene Traverso, l’uccisione di civili è sempre stata l’arma dei deboli nelle guerre asimmetriche: questo è stato vero per il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, per i vietcong in Vietnam, per l’African National Congress di Mandela in Sud Africa, per l’OLP di Arafat prima degli accordi di Oslo e anche per l’organizzazione ebraica Irgun prima della nascita di Israele.
Marco Revelli, recensendo il testo di Traverso, ha negato l’analogia tra questi esempi storici e l’attacco di Hamas perché in quest’ultimo ci sarebbe qualcosa che va oltre il massacro di civili innocenti: c’è la ricerca consapevole della rappresaglia indiscriminata di Israele contro la stessa gente di Gaza, la deliberata provocazione del martirio di massa come strumento di propaganda e di proselitismo.3 La questione è certamente importante, ma nel testo di Traverso si risponde in anticipo a questa obiezione. L’autore di Gaza davanti alla storia cita infatti Giorgio Bocca il quale, affrontando il tema del terrorismo della lotta partigiana in Italia contro i nazi-fascisti, parla di “un atto di moralità rivoluzionaria” finalizzato a provocare e inasprire il terrorismo dell’occupante. Si tratta, sostiene ancora Bocca, di “autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E una pedagogia impietosa una lezione feroce”.4 

Insomma, è necessario abbandonare le ingenue illusioni in cui la sinistra occidentale si culla troppo facilmente:

La linea di demarcazione tra il terrorista e il combattente non è sempre chiara; le due figure si sovrappongono. L’immagine sublime del combattente come eroe immacolato è un mito; quella stereotipata del terrorista come bruto, fanatico, esaltato e crudele, inebriato dalla hybris della morte e del sangue, è altrettanto falsa.5

L’immagine di Hamas come un esercito di belve assetate di sangue contrapposto alla visione dello stato di Israele come un’isola democratica in mezzo all’oceano oscurantista del mondo arabo fa parte di un arsenale ideologico che attinge a piene mani all’orientalismo di cui ci parla Edward Said, sempre citato da Traverso. I suoi assiomi, storicamente essenziali per l’autodefinizione dell’Occidente in contrapposizione all’Oriente, sono rimasti i medesimi: civiltà contro barbarie, progresso contro arretratezza, illuminismo contro oscurantismo. La cosa singolare è che gli ebrei per secoli hanno rappresentato l’Oriente interno nel mondo Europeo. Con la fondazione dello stato di Israele hanno invece attraversato la “linea del colore”: sono diventati bianchi (compresi gli israeliani di provenienza non occidentale, di cui è stato di fatto cancellata la storia) in contrapposizione al mondo musulmano che, a seguito delle dinamiche migratorie, è diventato il nemico interno (oltre che esterno) per eccellenza, oggetto di razzismo sistemico. L’immaginaria dicotomia ontologica istituita dall’orientalismo, aggiunge però Traverso, oggi muta di segno: se nel XIX secolo l’Occidente pretendeva di diffondere la civiltà attraverso le sue conquiste, oggi si sente una fortezza assediata. E per questo diventa più feroce, fino al punto di non farsi scrupolo di perpetrare un genocidio trasmesso in diretta attraverso la TV e i social. 

L’utilizzo del concetto di genocidio è fonte di infinite polemiche, anche nella sinistra radicale. Traverso, sulla base della definizione della Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 e della sentenze della Corte internazionale di giustizia dello scorso gennaio, sostiene che è pienamente legittimo. Personalmente ritengo questo dibattito un po’ stucchevole, a maggior ragione dopo le ultime catastrofiche previsioni della rivista The Lancet (che ovviamente non possono essere prese in considerazione da Traverso): tenendo conto dei morti accertati fino all’inizio di luglio 2024 e delle immani e deliberate distruzioni di tutte le infrastrutture civili di Gaza, si può stimare, prudenzialmente, che ci saranno fino a 186.000 decessi dovuti direttamente e indirettamente alla guerra, pari al 7,9% della popolazione della Striscia.
Per evitare inutili polemiche si può aggiungere che 
lo sterminio dei palestinesi non è un obiettivo in sé per Israele perché il fine ultimo dello Stato ebraico è la pulizia etnica della Palestina storica. C’è dunque una differenza significativo rispetto a quanto avvenne agli ebrei sotto la Germania nazista. Ma, è questo il punto messo in evidenza da Traverso, occorre superare un immaginario popolare per il quale un genocidio “deve assomigliare all’Olocausto per meritare questo titolo”. Diversi possono essere i mezzi (proiettili, camere a gas, machete, carestie provocate o non contrastate, bombardamenti sistematici pianificati dall’intelligenza artificiale) e gli obiettivi (sterminio con motivazioni razziali, conquista e sottomissione, sostituzione di una popolazione autoctona). Nel caso specifico, non essendoci le condizioni concrete per un esodo di massa forzato della popolazione, sia per la resistenza palestinese sia per l’ovvia indisponibilità degli stati limitrofi, la pulizia etnica, se perseguita fino in fondo, tende inesorabilmente a trasformarsi in un genocidio.

Seppur ammettiamo la possibilità di un esito estremo delle azioni belliche di Israele, non dobbiamo comunque riconoscere che il massacro di Gaza è una guerra riparatrice di fronte all’improvvisa apparizione del male, alla fulminea esplosione di odio rappresentata dall’attacco del 7 ottobre? Insomma, per quanto terribile sia la risposta dello stato ebraico non siamo di fronte a una colpa che si configura al massimo come eccesso di difesa? La cattiva coscienza dell’Occidente qui si esprime qui alla massima potenza. Il 7 ottobre, qualsiasi cosa si pensi della legittimità dei mezzi utilizzati da Hamas,  è “una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima”6 ci dice Traverso snocciolando i dati di una triste contabilità che non può lasciare adito a dubbi: tra il 2008 e il 6 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha ucciso più di 6.300 palestinesi, di cui oltre 5.000 a Gaza, ferendone 158.440, mentre le vittime israeliane delle azioni di Hamas e altri gruppi palestinesi sono state 310 e i feriti 6.460; nel solo 2023, fino al 6 ottobre, Tsahal aveva ucciso aveva ucciso 248 palestinesi nei territori occupati e ne aveva arrestati 5.200.
E non è tutto. Ci sono altri numeri che smascherano l’ipocrisia di chi oggi, dopo anni di oblio, torna a parlare della soluzione a due stati per il cosiddetto conflitto israelo-palestinese: “Dopo l’annessione di Gerusalemme, in cui sono stati trasferiti almeno 200.000 coloni, l’insediamento di altri 500.000 in Cisgiordania e la distruzione di Gaza, l’ipotesi di due stati è diventata oggettivamente impossibile”.7 Questi dati testimoniano in modo incontrovertibile che Israele ha sistematicamente boicottato gli accordi di Oslo che avrebbero dovuto portare alla creazione dello stato palestinese con l’obiettivo di affossare per sempre le rivendicazioni dei palestinesi. 

Ma quali sono queste rivendicazioni? From the river to the sea Palestine will be free recita uno dei più famosi slogan che i media mainstream si ostinano a considerare antisemita perché alluderebbe a una cacciata degli ebrei dal loro stato. E se il suo significato fosse completamente diverso? Se esso ci prospettasse l’idea di un unico stato laico e binazionale, in grado di garantire a tutti i cittadini ebrei e palestinesi uguali diritti, come sosteneva vent’anni fa Edward Said? Un’idea che certamente non era il solo a sostenere. 

Il progetto di uno stato federale binazionale è stato a lungo quello dell’OLP e di una corrente della sinistra israeliana antisionista, il Matspen. Prima della nascita di Israele, esso era al centro di un movimento allora conosciuto come ‘sionismo culturale’.8

Oggi questa prospettiva appare quanto mai lontana. Eppure, sostiene Traverso, rimane più credibile della ipotesi, strumentalmente resuscitata dai paesi occidentali, dei due stati che, a parte il suo esplicito rifiuto da parte di una recente risoluzione del parlamento israeliano, richiederebbe una pulizia etnica incrociata dei rispettivi territori. “La storia è fatta di pregiudizi che vengono abbandonati e che a posteriori appaiono come stupidi anacronismi. A volte le tragedie servono ad aprire nuovi orizzonti”9, commenta Traverso facendo appello a una buona dose di ottimismo della volontà. 

Avviandoci alle conclusioni, bisogna ammettere senza ipocrisie che in mancanza dell’attacco del 7 ottobre il progetto di cancellare la questione palestinese dall’agenda internazionale attraverso la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi sarebbe andato avanti senza particolari ostacoli. Una circostanza che impedisce di sottovalutare il ruolo di Hamas, nonostante tutte le riserve che si possono avere nei confronti dell’organizzazione islamica.

Il massacro del 7 ottobre va condannato e l’ideologia fondamentalista dei suoi esecutori può certamente essere criticata, ma negare l’appartenenza di Hamas alla resistenza palestinese invocando la sua natura terroristica non è serio ne utile.10

In sede di commento, bisogna notare che Hamas non è solo parte della resistenza. Come afferma perentoriamente Jodi Dean in un articolo che le è costato il sollevamento dai suoi compiti di insegnamento nei democratici Stati Uniti:La lotta per la liberazione palestinese oggi è guidata dal Movimento di Resistenza Islamico — Hamas. Hamas è sostenuto dall’intera sinistra palestinese organizzata”.11 In realtà, per quanto se ne possa capire dall’esterno, la situazione della sinistra sembra più articolata. Quel che si può dire con ragionevole certezza e che, nell’ambito delle formazioni progressiste palestinesi, esiste una parte che “si schiera con le forze islamiche sul piano della resistenza condivisa all’anticolonialismo, ma prende le distanze sul piano dell’agenda sociale, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP)”.12 Si tratta di una posizione che appare basata sulla convinzione che per competere con gli islamisti occorre farlo nella resistenza. Non chiamandosene fuori. E dunque insieme ad Hamas che oggi è l’organizzazione militarmente e politicamente più forte. Un ragionamento che potrebbe far pensare ai comunisti iraniani che nel 1979 parteciparono attivamente alla rivoluzione in Persia per poi essere massacrati dalle forze di Khomeini. Un precedente storico che non è destinato per necessità a ripetersi, ma che rappresenta un monito da tenere in dovuta considerazione.

Queste riflessioni sono veramente troppo parziali per ambire a chiudere il discorso. Vogliono piuttosto mettere in luce quali sono i problemi che abbiamo di fronte. E forse, da un punto di vista concettuale, il problema più grosso oggi è rappresentato dal fatto che la crisi dell’egemonia occidentale ci costringe a rivedere molte delle nostre posizioni. Il socialismo, la laicità, l’universalismo umanista ecc. entravano nelle lotte dei popoli colonizzati al seguito delle merci e ai capitali che invadevano le loro terre. Sembra che oramai l’Occidente abbia molto di meno da offrire sia sul piano delle idee che su quello materiale. Franz Fanon, in una fase storica molto diversa da quella attuale, ammoniva i popoli in lotta contro il colonialismo che il nazionalismo “se non si trasforma molto rapidamente in coscienza politica e sociale, in umanesimo, porta a un vicolo cieco”.13 Possiamo ancora considerare attuale questo avvertimento? Di certo, se esso deve valere ancora oggi, abbiamo bisogno di un umanesimo e di una coscienza politico-sociale ben più articolate di quanto abbiamo pensato in passato, capaci di accogliere la complessità di un mondo che oramai presenta differenti e divergenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico.  Anche se questa complessità più che una forma di multipolarismo oggi produce una sorta di caos sistemico foriero di foschi scenari bellici.
E tutto quanto detto vale a maggior ragione in Palestina se vogliamo arrivare a una qualche soluzione che eviti esiti terrificanti come pulizia etnica e genocidio. La resistenza armata dei palestinesi è un passaggio ineludibile in questo processo. Ma non bisogna mai dimenticare che uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria.  


  1. Cfr. Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 64-65. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Marco Revelli, Traverso, Gaza davanti alla storia,
    https://www.doppiozero.com/traverso-gaza-davanti-alla-storia. 

  4. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, 1966, p. 135. 

  5. E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit. p. 70. 

  6. Ivi, p. 13. 

  7. Ivi. p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 88-89. 

  9. Ivi, p. 88. 

  10. Ivi, p. 72. 

  11. Jodi Dean, Palestine speaks for everyone,
    https://www.versobooks.com/blogs/news/palestine-speaks-for-everyone.  

  12. Abdaljawad Omar, La questione di Hamas e la sinistra
    https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/28323-algamica-la-questione-palestinese-oggi-e-la-crisi-della-sinistra-occidentale.html

  13. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. p.137. 

]]>
La rivoluzione oltre il comunismo novecentesco https://www.carmillaonline.com/2022/02/03/la-rivoluzione-oltre-il-comunismo-novecentesco/ Wed, 02 Feb 2022 23:10:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70276 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Feltrinelli, Milano 2021, edizione Kindle, pp. 585,  € 19,90; edizione cartacea p. 464,  € 39,00.

I militanti dei partiti comunisti del secolo scorso erano convinti di marciare nel senso della storia e per questo di appartenere a un movimento che trascendeva il loro destino individuale. Convinzione che li aiutava a combattere anche nei momenti più tragici e a riprendere la lotta dopo ogni sconfitta. L’esperienza di questo tipo di soggettività, legata alla costellazione pratico-teorica del comunismo novecentesco, si è esaurita, sostiene Enzo Traverso nel [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Feltrinelli, Milano 2021, edizione Kindle, pp. 585,  € 19,90; edizione cartacea p. 464,  € 39,00.

I militanti dei partiti comunisti del secolo scorso erano convinti di marciare nel senso della storia e per questo di appartenere a un movimento che trascendeva il loro destino individuale. Convinzione che li aiutava a combattere anche nei momenti più tragici e a riprendere la lotta dopo ogni sconfitta. L’esperienza di questo tipo di soggettività, legata alla costellazione pratico-teorica del comunismo novecentesco, si è esaurita, sostiene Enzo Traverso nel suo ultimo libro Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia. I movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni, infatti, non appartengono a nessuna delle tradizioni della sinistra del passato, fatte salve alcune affinità con l’anarchismo. Generalmente disinteressati ai grandi dibattiti strategici della tradizione rivoluzionaria e indifferenti ad una dimensione teleologica della storia, hanno inventato nuove forme di organizzazione e sperimentato nuove forme di vita basate sull’autogestione, sulla riappropriazione dello spazio pubblico, sulla partecipazione, sulla deliberazione collettiva, sull’inventario dei bisogni e sulla critica della mercificazione dei rapporti sociali. “In quanto orfani, devono inventare la propria identità. Questa è a un tempo la loro forza, perché non sono prigionieri di modelli ereditati dal passato, e la loro debolezza, perché mancano di memoria”.1 Per questo “se le rivoluzioni del nostro tempo devono inventare i propri modelli, non possono farlo su una tabula rasa, senza incarnare una memoria delle lotte passate, sia le conquiste, sia le assai più frequenti sconfitte”.2 Non si tratta di conservare feticisticamente un retaggio inviolato di prassi e teorie, ma di fare una duplice operazione attraverso l’elaborazione critica della storia: superare il passato e, al contempo, salvare il significato di quell’esperienza storica chiamata rivoluzione.

Per fare questo bisogna liberarsi dalle illusioni del passato. A partire dall’idea che la successione di sollevamenti e insurrezioni popolari che si sono succeduti nei secoli scorsi faccia parte di

una progressione irresistibile conforme a una necessità causale: tutte le rivoluzioni trascendono le loro cause e seguono dinamiche singolari che cambiano il corso “naturale” delle cose. Sono invenzioni umane che non possiedono un carattere ineluttabile; costruiscono una memoria collettiva che si districa dentro una costellazione di fatti significativi. Pensare che appartengano al tempo regolare e cumulativo di una storia lineare è stato uno dei maggiori fraintendimenti della cultura di sinistra del Novecento.3 

Sarebbe però altrettanto sbagliato, come va oggi di moda, invertire la direzione delle vecchie “leggi della storia” e rappresentare la sconfitta delle rivoluzioni come un esito ineluttabile. Le rivoluzioni sono piuttosto processi oggettivamente condizionati “in cui gli esseri umani agiscono sulla base delle proprie scelte, obiettivi e passioni, ma all’interno di una data struttura, che non è immutabile ma neppure eludibile”.4 Si possono spiegare soltanto a partire dall’intreccio tra causalità e azione umana, tra determinismo strutturale e soggettività politica.
La storia della rivoluzione, sostiene Traverso, è per prima cosa la storia dell’irrompere violento delle masse che diventano protagoniste consapevoli della storia.  La rivoluzione è un atto collettivo mediante il quale gli esseri umani si liberano da secoli di oppressione e dominio. È un evento in cui si dà l’improvvisa sincronizzazione tra i cambiamenti cumulativi che hanno luogo nel corso di decenni e il risvegliarsi della coscienza collettiva in un cataclisma che cambia il corso della storia. Per questo, nel realizzarle, gli esseri umani esprimono energie, passioni, affetti e sentimenti in misura ben maggiore rispetto agli standard emotivi della vita quotidiana. Eccesso, frenesia e fanatismo appartengono senza dubbio alla rivoluzione, ma come suoi prodotti e non come cause. La furia rivoluzionaria è l’esito finale di decenni o secoli di oppressione, sfruttamento, umiliazione e frustrazioni. Condannare gli eccessi e le derive criminali del Terrore rivoluzionario è certamente necessario, ma esorcizzare la violenza è inutile e non produce alcuna reale comprensione storica: la critica conservatrice della violenza rivoluzionaria è cieca di fronte al potenziale esplosivo che covava negli anni, quella libertaria non riesce a spiegare come le rivoluzioni possano evitare la coercizione senza farsi rovesciare.

La tragedia delle rivoluzioni risiede nella metamorfosi fatidica che le conduce dalla liberazione alla lotta per la sopravvivenza e infine alla costruzione di un nuovo regime oppressivo; dalla violenza emancipatrice alla violenza coercitiva. La chiave per preservare stabilmente le loro potenzialità liberatrici non è ancora stata trovata, ma questo non è un buon motivo per condannare la liberazione stessa.5

Dal punto di vista di Traverso, lo stalinismo non può essere considerato come un semplice tradimento del processo rivoluzionario. Esso è parte integrante della dinamica storica nata con la Rivoluzione d’ottobre. Allo stesso tempo, però, non può essere interpretato come esito ineluttabile delle circostanze storiche della guerra, dell’arretratezza della Russia e del suo passato assolutista. Nella trasformazione di uno slancio democratico in una spietata dittatura ebbe un ruolo significativo l’ideologia bolscevica con la sua visione normativa della violenza come levatrice della storia e la sua indifferenza verso la costruzione giuridica di uno stato rivoluzionario. Siamo ancora sospesi tra i due corni del dilemma espresso da Victor Serge che, da una parte, tracciò una linea morale, filosofica e politica che separa radicalmente il socialismo autentico dallo stalinismo, dall’altra, riconobbe che l’alternativa più probabile alla spietata politica dei bolscevichi durante la guerra civile sarebbe stato la vittoria del terrore controrivoluzionario.
Il totalitarismo stalinista fu dunque l’esito di quella esplosione liberatrice rappresentata dalla rivoluzione. O meglio, uno dei suoi esiti possibili. Totalitarismo è però un concetto da maneggiare con cura perché è stato utilizzato dalla tradizione politico-storiografica che equipara fascismo e comunismo in quanto entrambi opposti al liberalismo. Le somiglianze indubbiamente ci sono, sostiene Traverso, ma rimangono superficiali: diametralmente opposte erano le rispettive basi sociali, le loro ideologie, i loro obiettivi. A differenza del fascismo, lo stalinismo non fu una controrivoluzione. Non riportò al comando la vecchia aristocrazia, ma plasmò una struttura socio-economica nuova creando una nuova élite economica, manageriale, scientifica e intellettuale reclutata in seno alle classi inferiori, inclusi i contadini. Questa è la chiave per comprendere il consenso di cui godette lo stalinismo, malgrado il terrore e le deportazioni di massa. Questa è anche la ragione che spiega l’autentico slancio che contraddistinse la resistenza russa contro l’invasione nazista durante la seconda guerra mondiale: operai e contadini difesero ciò che rimaneva della rivoluzione, un’economia senza capitalisti e proprietari terrieri. E lo fecero non a causa, ma nonostante il regime stalinista.

Inutile girarci attorno. La rivoluzione d’Ottobre è la matrice comune di tutte le forme del comunismo novecentesco. Questo non significa negare che quella del comunismo sia una storia con più ramificazioni, anche molto diverse tra di loro, ma affermare che tutte quante trovarono nella rivoluzione russa il loro punto di partenza. L’anticolonialismo novecentesco, per esempio, nasce con il congresso di Baku del 1920: lì per la prima volta la tradizione che nasce dai partiti operai europei riconosce i popoli colonizzati come soggetti politici capaci di autoemanciparsi senza aspettare la rivoluzione nei paesi occidentali, come ancora sostenevano i socialisti della seconda internazionale per giustificare il colonialismo dei rispettivi paesi.
Ciò non significa che i rapporti tra comunismo e lotte di liberazione nazionale furono privi di contraddizioni. La rivoluzione russa diventò un paradigma universale, capace di parlare anche ai popoli colonizzati, ma autentiche forme di marxismo nel Sud del mondo non potevano nascere dall’ortodossia del Comintern. A tale proposito Traverso porta l’esempio Mariàtegui, il più importante pensatore marxista peruviano della prima metà del Novecento, per il quale il socialismo non poteva semplicemente essere importato dall’Occidente, ma doveva fondersi con la tradizione ancestrale del comunismo incaico risolvendo in primo luogo il problema della terra, all’origine dell’oppressione del popolo indigeno. Rimane il fatto che l’intera storia della decolonizzazione è inscindibile dai rapporti di forza internazionali che si crearono con la guerra fredda. E come tale rimase anche profondamente segnata dalle due dimensioni che contraddistinsero le vicende russe: emancipazione e autoritarismo, rivoluzione e dittatura. “La gioia dell’Avana insorta il primo gennaio 1959 e il terrore dei campi della morte cambogiani sono i poli dialettici del comunismo come anticolonialismo”.6

Non è affatto casuale che, con la scomparsa dell’URSS, in molte regioni del globo il fondamentalismo islamico abbia sostituito l’anticolonialismo. Così come non è in alcun modo accidentale che il crollo del regime sovietico abbia segnato la fine di quello che l’autore definisce il comunismo-socialdemocrazia che nel Partito Comunista Italiano trova uno degli esempi più significativi. Il PCI fu infatti contraddistinto da una pratica politica sostanzialmente riformistica pur rimanendo formalmente legato all’ortodossia sovietica.  Sta di fatto che, crollata l’URSS, il PCI non si è trasformato in un autentico partito socialdemocratico, ma ha virato decisamente verso il liberalismo. La sua triste parabola conferma quanto sosteneva Rosa Luxemburg: nessuna reale riforma nell’ambito del sistema capitalistico è raggiungibile senza una effettiva spinta rivoluzionaria. Il sistema da solo non è in grado di autoriformarsi.
Dopo il 1989, dunque, finisce l’epoca della decolonizzazione e dello stato sociale. Ma c’è di più. Il collasso del comunismo-regime ha trascinato con sé anche il comunismo-rivoluzione. Il naufragio del socialismo reale ha inghiottito anche l’utopia comunista. Lo stalinismo, combinando il culto della modernità tecnica con una forma radicale e autoritaria di illuminismo, ha trasformato il socialismo in una sorta di “utopia fredda” che difficilmente può scaldare gli animi di chi cerca ancora oggi di ribellarsi allo stato di cose presenti. 

Si potrebbe obiettare a Traverso che un modello ancora oggi esiste ed è quello della Cina governata dal Partito comunista. Obiezione che però sembra debole poiché l’economia socialista di mercato in salsa cinese appare come un’idea ancor più fredda dell’utopia di origine sovietica. Questa affermazione si deve fare senza nulla concedere a chi cerca di fomentare una nuova guerra fredda per superare le contraddizioni interne di uno sviluppo capitalistico inceppato, senza negare gli aspetti socialmente progressivi, ancorché contraddittori, dei successi economici cinesi e senza nascondere le positive incrinature che può aprire nell’ordine mondiale capitalistico la presenza di uno stato in grado di contrastare l’imperialismo occidentale. Ciò detto, quando si pensa alla Cina come il nuovo faro del socialismo si rischia di ricadere nel vecchio cliché rappresentato dalla visione del “Partito comunista come forza demiurgica della storia”.7 Il Partito comunista cinese, infatti, dovrebbe essere capace di nutrire nel suo seno la bestia capitalistica per poi piegarla ai suoi voleri, mantenendo un difficilissimo equilibrio tra controllo statale dell’economia e accumulazione capitalistica in assenza di processi orientati allo sviluppo di istituzioni economico-politiche che prevedano il progressivo rafforzamento dell’autogoverno dei produttori.
Sull’idea del Partito come dominus del processo storico, ci ricorda Traverso, finirono per convergere sia il comunismo ufficiale novecentesco sia l’anticomunismo della Guerra fredda perché in entrambi mancava l’idea di rivoluzione come atto collettivo agito dal basso. Non a caso, possiamo aggiungere, chi pensa che la principale faglia del conflitto si esprima oggi nel contrasto tra l’occidente imperialista e la Cina socialista è chi è abituato a pensare la storia dall’alto, dal punto di vista degli stati che si scontrano tra di loro o dei partiti che aspirano a farsi stato, e non dal basso, dal punto di vista delle masse che si ribellano e inopinatamente possono diventare protagoniste della storia, anche nella “società armoniosa” cinese. Quelle masse che hanno certamente bisogno di scelte tattiche e strategiche elaborate con freddezza, ma anche del calore di un immaginario collettivo in grado di accendere i desideri, dare corpo alle fantasie, esprimere bisogni profondi. Il pane e le rose. 

Tornando al testo di Traverso, dobbiamo rilevare che oggi ci troviamo di fronte “Una nuova generazione … cresciuta in un mondo in cui il capitalismo è diventato una forma di vita ‘naturale'”.8 Un nuovo immaginario sovversivo difficilmente potrà prendere come riferimento il “paradigma militare della rivoluzione”, fortemente legato all’intrecciarsi della sollevazione russa con le vicende della Grande Guerra, che rappresenta i militanti comunisti inquadrati nelle schiere di un esercito guidato dalla disciplina di Partito. “Oggi abbiamo bisogno di federare e far dialogare diverse esperienze, senza gerarchie, in modo ‘intersezionale’, invece di circoscriverle su basi ideologiche”.9 rifacendoci, dal punto di vista organizzativo, al federalismo della prima Internazionale più che al centralismo gerarchico dei bolscevichi.
Dopo il 1989 ci aggiriamo ancora tra le rovine del socialismo reale e per questo abbiamo bisogno di un impegno teorico e soprattutto di nuove battaglie per “Estrarre il nucleo emancipatore del comunismo da questo campo di macerie”. Lo sforzo teorico-pratico cui ci richiama Traverso va ben al di là del tentativo di distinguere tra un’ispirazione ideale e la sua cattiva applicazione pratica. Sia perché, alla luce di una sconfitta di portata storica, non possiamo esimerci da un vaglio critico delle idee che hanno ispirato la tradizione comunista, sia perché le concrete vicende storiche seguono sempre percorsi differenti da quelli inizialmente immaginati dai suoi protagonisti. Se vogliamo ricostruire una memoria storica che sia di una qualche utilità per le battaglie del presente dobbiamo farci carico degli orrori del passato perché questo è l’unico modo per provare a non ripeterli. 

Inutile nasconderci che Traverso si muove su un terreno scivoloso. Il suo testo ci invita ad abbandonare un certo numero di vecchie certezze senza permetterci di guadagnarne molte di nuove.  Si corre il rischio di sentirsi disarmati e per questo di essere trascinati verso un sentimento di amara rassegnazione o, peggio ancora, di cinico disincanto. Probabilmente si tratta di un rischio oggi inevitabile se non vogliamo continuare a predicare nel deserto l’antico testamento della vecchia classe operaia. L’arma migliore che abbiamo a disposizione per non arrenderci consiste nella capacità di conservare un legame ideale con la potenza  liberatrice delle lotte passate e, allo stesso tempo, di rimanere connessi praticamente con i conflitti del proletariato contemporaneo.  Un proletariato che, per alcuni aspetti significativi, ha una composizione materiale e un immaginario diversi da quelli novecenteschi. Il lavoro da fare, insomma, è di grande portata e di fronte alla sua complessità si potrebbe pensare che la soluzioni migliore stia nell’affidarsi a un novello demiurgo. Nulla di più velleitario.  “Le rivoluzioni non possono essere programmate; quando arrivano sono sempre inattese”.10


  1. Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Feltrinelli, Milano 2021, edizione Kindle, p. 41. 

  2. Ivi p. 42. 

  3. Ivi, p. 25. 

  4. Ivi, p. 22. 

  5. Ivi, p. 36. 

  6. Ivi, p. 501. 

  7. Ivi, p. 464. 

  8. Ivi, p. 513. 

  9. Ivi, p. 514. 

  10. Ivi, p. 514. 

]]>
Dal fascismo al postfascismo e ritorno https://www.carmillaonline.com/2018/03/14/dal-fascismo-al-postfascismo-e-ritorno/ Tue, 13 Mar 2018 23:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44023 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, 2017, pp. 141, € 13,00.

Il fascismo può tornare? La domanda non appare retorica dopo la tentata strage di Macerata e la diffusa accondiscendenza, se non aperta approvazione, con cui è stata accolta. Senza considerare le 152 aggressioni fasciste in Italia dal 2014 a oggi, registrate da Infoantifa.1 È senz’altro interessante, a questo proposito, prendere in considerazione le tesi espresse dallo storico Enzo Traverso nel suo libro intervista I nuovi volti del fascismo. Precisiamo subito che la posizione dell’autore è interlocutoria rispetto alla domanda posta [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, 2017, pp. 141, € 13,00.

Il fascismo può tornare? La domanda non appare retorica dopo la tentata strage di Macerata e la diffusa accondiscendenza, se non aperta approvazione, con cui è stata accolta. Senza considerare le 152 aggressioni fasciste in Italia dal 2014 a oggi, registrate da Infoantifa.1 È senz’altro interessante, a questo proposito, prendere in considerazione le tesi espresse dallo storico Enzo Traverso nel suo libro intervista I nuovi volti del fascismo. Precisiamo subito che la posizione dell’autore è interlocutoria rispetto alla domanda posta all’inizio. Traverso sostiene che il fenomeno politico oggi prevalente non è tanto un rigurgito di neofascismo, che pure c’è, quanto una realtà più sfuggente, ambigua, suscettibile di esiti diversi, che è meglio definire postfascismo. Il punto di osservazione privilegiato è la Francia, dove lo storico insegna, con il Fonte Nazionale di Marine Le Pen come oggetto di analisi principale. Ma non mancano numerosi riferimenti al caso italiano, in particolare a due partiti come Fratelli d’Italia e la Lega.
Secondo l’autore, le formazioni postfasciste vengono per lo più da una tradizione fascista in senso proprio, ma da questa si sono emancipate. Altri partiti, come la Lega, hanno origini storico-culturali diverse, ma il loro posizionamento politico attuale è analogo. Autoritarismo, gerarchia, ordine, xenofobia, identitarismo, nazionalismo, sessismo, plebiscitarismo, potere carismatico sono senz’altro elementi che il postfascismo eredita dai suoi progenitori novecenteschi. Manca però qualcosa al postfascismo rispetto al suo precedente storico, potremmo dire seguendo il ragionamento di Traverso. Di fronte alla crisi si propone come difensore dei “piccoli bianchi”. E fin qui nulla di nuovo. Ma in questa difesa esso assume un’attitudine meramente reattiva, in senso proprio reazionaria.
Al contrario, ci ricorda Traverso, i fascismi storici si rappresentano come rivoluzionari, portatori di un’utopia. I valori ripresi dalla tradizione conservatrice e reazionaria vengono articolati all’interno di un’accettazione entusiasta della modernità, in particolare della scienza e della tecnica. Mussolini e Hitler inventano un nuovo stile politico, la loro propaganda si ispira alle avanguardie artistiche europee ed è finalizzata, tra l’altro, alla mobilitazione delle masse. La loro ideologia si configura addirittura come religione politica perché cerca di sostituire quella tradizionale proponendo un proprio sistema di valori, simboli e rituali. Il fascismo storico, in altri termini, vuole creare un nuovo ordine. Si oppone frontalmente al liberalismo, considerato decadente, così come al comunismo. Propone una terza via.

Oggi, ovviamente, non c’è alcun bisogno di opporsi al comunismo. Rimane in piedi soltanto il liberalismo. Da un punto di vista politico il postfascismo non contesta la democrazia parlamentare, anche perché, nella sua forma tendenzialmente dominante, la post-democrazia, assume tratti sempre più autoritari. Assistiamo spesso al malsano tentativo di contrastare il postfascismo assumendone le parole d’ordine da parte dell’establishment politico. “Aiutiamoli a casa loro”, tanto per fare un esempio. Le politiche securitarie, soprattutto contro gli immigrati, sono moneta corrente. Assai diverso è l’atteggiamento del fascismo e del nazismo negli anni ‘20 e ‘30. Il sistema democratico è utilizzato esplicitamente in modo strumentale, l’obiettivo è apertamente quello di abbatterlo.
Oggi, sottolinea l’autore, il modello antropologico neoliberale, quello che mette il libero individuo al centro soltanto per imporgli di organizzare la vita come un’attività imprenditoriale, non è minimamente messo in discussione. Di conseguenza cambia rispetto al passato il rapporto tra leader e masse. Hitler e Mussolini propongono un una filosofia con connotazioni vitalistiche e al tempo stesso mortifere. La massa è in senso proprio truppa, l’individuo è un soldato pronto al sacrificio, anche estremo, per la comunità di sangue e suolo teutonici o in nome della stirpe italica. Il leader è un condottiero, con tanto di uniforme da parata. Il leader postfascista è invece un personaggio mediatico il cui carisma deriva dalla capacità di maneggiare gli strumenti del marketing politico. Guai a parlare di sacrifici! L’unica religione ammissibile è quella del mercato. Il godimento dei beni di consumo è un diritto inalienabile. Alcune libertà individuali difficilmente sono messe in dubbio. Il fatto che il musulmano abbia sostituito l’ebreo quale figura paradigmatica dell’alterità, quale barbaro per eccellenza, consente ad alcune formazioni postfasciste di farsi paladine dei diritti e delle libertà delle donne. Il caso paradigmatico è quello olandese.
Date queste coordinate antropologiche, difficilmente il postfascismo può proporre una critica frontale all’ideologia del mercato di stampo neoliberista. Il nazionalismo, lo statalismo e l’imperialismo del fascismo storico costituivano un pacchetto coerente con le esigenze dei capitali nazionali dell’epoca, colpiti dalla crisi del ’29, soprattutto di quelli che risultavano più deboli nell’ambito della competizione interimperialistica. Nei nostri giorni il ritorno ai mercati nazionali non è nell’agenda delle élite capitalistiche. Certamente, ci ricorda Traverso, i partiti postfascisti si oppongono alla globalizzazione, alle politiche neoliberiste dell’Unione Europea, all’euro. Tuttavia ciò non avviene in nome di una richiesta di maggior intervento pubblico nell’economia, ma di un ritorno ai mercati e alle monete nazionali, confidando nel fatto che questo ritorno, insieme al blocco dei flussi migratori, consenta una maggiore protezione sociale e una maggiore distribuzione della ricchezza a favore degli autoctoni. Il postfascismo, in effetti, presenta secondo Traverso una connotazione sociale più forte rispetto ai suoi antenati. Una connotazione che può esprimere grazie al fatto che il suo antagonista storico che occupava questo terreno, il comunismo, è scomparso dai radar. Per di più ciò che è rimasto della sinistra istituzionale, assumendo una posizione neoliberista, lascia ampie praterie alla destra sociale.

Questa maggiore sensibilità sociale non può comunque arrivare al cuore del problema: il rapporto tra capitale e lavoro. Una questione che, di fatto, non è messa sufficientemente a fuoco nel libro di Traverso. Se è vero che un’analisi improntata al riduzionismo economicista ci fa perdere di vista le fondamentali differenze tra il fascismo e la destra conservatrice e reazionaria, non si può dimenticare che il fascismo storico è stata la clava utilizzata dal grande capitale per bastonare un movimento operaio la cui forza si riteneva mettesse a rischio il mantenimento dei rapporti sociali di produzione capitalistici. Rimuovendo questo, non si capisce ciò che giustamente rileva l’autore a proposito della traiettoria delle formazione fasciste del secolo scorso: nate come movimenti minoritari di “plebei arrabbiati”, esse diventano rapidamente interlocutrici delle élite economiche e finanziarie.
Oggi le forze che dominano nell’economia globale, ci ricorda Traverso, puntano su altri cavalli: in Francia su Macron, in Italia su Renzi. Nel nostro paese, aggiungo, siamo arrivati addirittura al tentativo di riesumazione della mummia di Berlusconi. Fino a quando? Finché, mi viene da dire, questi rappresentanti politici assicureranno l’approvazione di provvedimenti come la loi travail o il jobs act. Cioè fino a quando consentiranno di approfondire il dominio del capitale sul lavoro. Oggi sembra proprio che le élite capitalistiche non abbiano nessuna intenzione di rinunciare a una continua gara al ribasso sui diritti e sulle condizioni del lavoro. A tal fine, per il momento, non hanno bisogno di rompere formalmente con lo stato di diritto e la democrazia. La velenosa sintesi di austerità e xenofobia consente loro un dominio pressoché incontrastato. È sufficiente dare agibilità e legittimità politica alle formazioni postfasciste, e anche a quelle neofasciste, per creare un capro espiatorio in grado di esorcizzare il ritorno della lotta di classe. Che al momento è sottotraccia, incapace di creare massa critica.
Difficilmente, però, questa situazione può essere considerata stabile. Perché l’utilizzo di politiche autoritarie per contrastare i postfascisti crea sempre maggiore spazio per questi ultimi che sono perciò portati a radicalizzare le loro posizioni. Al tempo stesso, gli uomini più o meno nuovi messi al comando per attuare politiche né di destra né di sinistra non possono che dilapidare velocemente il consenso artificialmente creato attorno a loro perché proseguendo sulla strada delle politiche di austerità e di precarizzazione si approfondisce la macelleria sociale. La parabola di Renzi è esemplare. Sorprende, dunque, che l’unico scenario esplicitamente delineato da Traverso per prospettare una radicalizzazione del postfascismo verso forme aperte di neofascismo sia quello della rottura dell’Unione Europea. Ancora oggi, a mio parere, la variabile fondamentale rimane il conflitto di classe. Di fronte al suo auspicabile riemergere, in un clima politico oramai assuefatto alle più becere pulsioni autoritarie e xenofobe, non è plausibile una nuova convergenza tra “plebei arrabbiati” e élite capitalistiche?


  1. Cfr. qui

]]>