Endnotes – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immaginare il comunismo, oggi. https://www.carmillaonline.com/2025/02/19/immaginare-il-comunismo-oggi/ Wed, 19 Feb 2025 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86929 di Sandro Moiso

Phil A. Neel, Nick Chavez, La foresta e la fabbrica. Contributi ad una fantascienza del comunismo, Porfido Edizioni, Torino 2025, pp. 122, 5 euro

Continua con la presente pubblicazione l’opera meritoria delle Edizioni Porfido di traduzione, pubblicazione e proposta all’attenzione del pubblico italiano delle riflessioni condotte sulla rivista online «Endnotes», di cui in passato ci si era già occupati su Carmilla (qui). In questo caso nella medesima collana «I Sanpietrini – Un’idea più grande di noi», viene sottoposta all’attenzione del lettore un testo curato dal geografo comunista americano Phil A. Neel, che collabora frequentemente anche con [...]]]> di Sandro Moiso

Phil A. Neel, Nick Chavez, La foresta e la fabbrica. Contributi ad una fantascienza del comunismo, Porfido Edizioni, Torino 2025, pp. 122, 5 euro

Continua con la presente pubblicazione l’opera meritoria delle Edizioni Porfido di traduzione, pubblicazione e proposta all’attenzione del pubblico italiano delle riflessioni condotte sulla rivista online «Endnotes», di cui in passato ci si era già occupati su Carmilla (qui). In questo caso nella medesima collana «I Sanpietrini – Un’idea più grande di noi», viene sottoposta all’attenzione del lettore un testo curato dal geografo comunista americano Phil A. Neel, che collabora frequentemente anche con la rivista «The Broklyn Rail» di Paul Mattick Jr., e da Nick Chavez, ingegnere meccanico residente negli Stati Uniti che scrive di ingegneria e comunismo sul blog designformanufracture.wordpress.com. Un testo, Forest and Factory. The Science and the Fiction of Communism, originariamente edito nel dicembre 2023 sulla medesima rivista online.

La sfida, quella di pensare oggi il comunismo in una società che sembra essere lontana come non mai da qualsiasi ipotesi di cambiamento radicale e positivo e in cui sembrano potersi leggere soltanto segnali di rivolte acefale o distorte nelle loro finalità1, non è da poco. E, in effetti, c’è da chiedersi come potrebbe mai emergere una tale forma sociale dal pantano e dai vicoli ciechi in cui il capitale sembra aver definitivamente confinato l’umanità.

Soprattutto occorre rispondere a una fondamentale domanda, ovvero quale comunismo immaginare in un contesto in cui la stessa idea non è stata soltanto relegata in soffitta dalle politiche liberali o fasciste contemporanee e dai rimasugli di movimenti sociali dispersi, ma anche dalla sua fasulla realizzazione novecentesca, in cui spesso la sua idea si è confusa con le scelte controrivoluzionarie più spietate, come nell’URSS di Stalin o nella Cine che ancora oggi si richiama alla medesima idea attraverso il nome del partito (unico) al governo.

Eppure è una riflessione che da anni viene condotta dai militanti che ruotano intorno alla rivista americana Endnotes. Militanti rivoluzionari che si interrogano non solo sulla necessità, ma anche sulle forme materiali della sua realizzazione. Su quali possano essere le modalità attraverso cui declinare oggi, in un quadro di crisi ecologica, guerra permanente e crisi e competizione economica globale, una transizione verso una società senza classi, senza denaro e senza lavoro salariato.

Gli autori e i curatori del libello hanno ben presente che tale idea non può essere di carattere utopistico e non a caso in epigrafe è riprodotta una chiara asserzione in tal senso da Amadeo Bordiga nel lungo articolo, intitolato Il programma rivoluzionario della società comunista elimina ogni forma di proprietà del suolo, degli impianti di produzione e dei prodotti del lavoro, pubblicato nel giornale «Il programma comunista» nei numeri 16 e 17 del 1958.

L’errore dell’utopista sta nel trarre […] la trama della società futura non da una concatenazione di processi reali che legano il percorso precedente a noi a quello futuro, ma dalla propria testa, dal razionale umano e non dal reale naturale e sociale. L’utopista crede che il punto di arrivo del corso sociale debba essere contenuto nella vittoria di alcuni principi generali che sono insiti nello spirito umano.

Se così fosse, allora, basterebbe affidarsi a quella che oggi è definibile come cultura woke oppure alla fasulla transizione ecologica ispirata dal green deal per permettere all’umanità di fare un decisivo passo in aventi. Ma così non è e non potrebbe essere e, proprio per questo, fare i conti con la difficile realtà che ci circonda, le sue contraddizioni, le sue crepe e le possibilità che possono aprirsi a partire dalla stessa diventa il tema centrale della riflessione contenuta nel testo di Neel e Chavez. Così come si afferma nella postfazione al testo, datata settembre 2024:

La possibilità di costruire sulle ceneri del capitalismo un mondo di liberi e uguali sarà necessariamente stretta tra due argini: l’esigenza di garantire le condizioni materiali per vivere e quella di organizzare la vita su basi del tutto nuove, al di fuori di logiche di sfruttamento e oppressione. La rivoluzione potrà andare avanti solo se questi due argini rimarranno in piedi lungo tutto il suo corso, senza il primo non si potrà banalmente vivere, senza il secondo si ritornerà invece a farlo lungo il solco scavto in precedenza dal capitalismo2.

Sono i due argini all’interno di cui si muovono anche i due autori con il loro immaginario fantascientifico, ma che di fantastico ha ben poco se non nulla. E i cui cardini possono essere rappresentati proprio dai due termini già contenuti nel titolo: la foresta, come simbolo della natura, dell’ambiente e della varietà dei rapporti sociali necessari per la riproduzione della vita, e la fabbrica, simbolo della necessità di organizzare la produzione in modo consono al mantenimento della prima.

Occorre quindi immaginare le tecnologie, le scelte economico-ecologiche e politiche, intendendo la politica non come funzione dello Stato e delle sua rappresentanza più o meno democratica, ma come gestione e organizzazione della comunità. Umana e autonoma. Uno sforzo variamente e riccamente illustrato nell’opera da cui si trarranno, qui di seguito, alcuni esempi. Così:

il comunismo non costituirà una monocultura sociale. Come le vecchie forme di sussistenza agro-ecologica locale fornirono la base per una molteplicità di pratiche sociali differenti, allo stesso modo la nuova base produttiva planetaria genererà un’efflorescenza di diversi modi di vivere, completamente inediti. Il lungo processo di rovesciamento del capitalismo e di costruzione di un mondo comunista produrrà esso stesso, nel caos della transizione, un mosaico di nuove forme sociali […] Risulta quindi impossibile delineare una loro esatta configurazione, se non ipotizzando alcuni loro principi “in negativo” (assenza di dominio, mantenimento dei principi fondamentali dell’associazione volontaria, interdizione di pratiche ecologiche indebitamente distruttive, ecc.), che verrebbero assicurati dall’azione di istituzioni decisionali di più ampia scala3.

D’altra parte, come si sottolinea ancora nella Postfazione, la riflessione sulle caratteristiche che dovrà esprimere una società comunista dovrà tener conto della necessità di rivoluzionare la tecnica più che fare la rivoluzione con la tecnica. Oppure i limiti spaziali che la società umana futura dovrà sapersi dare per mantenersi in equilibrio con la Natura o, ancora, le forme dello scambio in cui non si tratterà di

ridurre l’attuale sistema dei prezzi ad una sorta di “valore lavoro” o “valore d’uso” assoluto incarnato dalla merce. Il comunismo costituisce l’annientamento del “valore”, quindi anche dei prezzi [tramite] “misure comuniste”, le quali: a) puntano ad un’immediata demercificazione, attraverso la distruzione del denaro, del sistema dei prezzi (compreso il baratto, che è una sorta di sistema di prezzi “zombie”) e dell’intero complesso dei mercati e della proprietà privata; e b) avviano la sperimentazione di pianificazione, di allocazione e di riconfigurazione tecnica, come mezzi di smantellamento del dominio sociale. […] La guerra civile difensiva che segue a qualsiasi insurrezione rivoluzionaria potrebbe così trionfare per davvero soltanto tramutandosi in una guerra sociale più ampia rivolta contro le relazioni di base che strutturano il mondo capitalista, cristallizzate in forme come il prezzo e la proprietà4.

Quindi non si tratterà soltanto di sostituire i “prezzi” con il “piano”, come a partire dall’URSS si è troppo spesso ragionato, lasciando così intatto il fondamento del capitalismo stesso. Soltanto in questo modo la parola Rivoluzione assumerebbe in pieno il suo significato di rovesciamento e ribaltamento totale dell’esistente.

Un testo dunque, quello qui proposto, che sfida troppi assunti di una teoria comunista che guarda ancora troppo agli errori del passato (ma erano davvero solo errori?) senza osare, come ha fatto spesso la migliore fantascienza, accettare la ben più reale sfida del futuro e del mondo nuovo da costruire.

Immaginare, quindi, una fantascienza del comunismo risulta stimolante non perché permette di visualizzare mondi stravaganti e fantasiosi, ma perché mostra come mondi fondamentalmente altri rispetto al nostro possano comunque emergere da questo cumulo di macerie lasciatoci in eredità. […] La questione, pertanto, non è come far funzionare il comunismo in sé, ma come restare comunisti in un frangente in cui le condizioni necessarie alla sua piena instaurazione risulteranno ancora fuori portata. Abbiamo cercato di dimostrare, al contempo, come non esistano vincoli tecnici tali da impedire una riconversione in chiave comunista del mondo attuale. Non è necessario che le “forze produttive” si sviluppino fino ad una “piena automazione” perché un ordine sociale comunista divenga possibile. La costruzione comunista potrebbe benissimo prendere le mosse oggi stesso, se solo esistesse la soggettività politica in grado di avviare tale processo5.


  1. Si veda in proposito: V. Bevins, Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzione, Giulio Einaudi editore, Torino 2024.  

  2. T.S., Postfazione. Inaggirabili possibilità in Phil A. Neel, Nick Chavez, La foresta e la fabbrica. Contributi ad una fantascienza del comunismo, Porfido Edizioni, Torino 2025, p. 91.  

  3. P. A. Neel, N. Chavez, op. cit., p. 38.  

  4. Ibidem, pp. 56–57. 

  5. Ivi, pp. 84-85. 

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Il resto è chiacchiera https://www.carmillaonline.com/2023/10/04/tutto-il-resto-e-chiacchiera/ Wed, 04 Oct 2023 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78998 di Sandro Moiso

John Clegg, Rob Lucas, Jasper Bernes, Nutrire la rivoluzione. Cibo, agricoltura e rottura rivoluzionaria, Porfido Edizioni, Torino 2023, pp. 108, 5 euro

Michele Garau, L’ultrasinistra e il «partito storico» della rivoluzione, Porfido Edizioni, Torino 2023, pp. 63, 5 euro

E come le api nell’alveare deserto un cattivo odore emanano le parole morte (Nikolaj S. Gumĭlëv – La parola, 1921)

Il poeta acmeista Nikolaj Gumĭlëv, marito della poetessa russa Anna Achmatova dal 1910 al 1918, poi fucilato dai bolscevichi nel 1921 per aver preso parte alla guerra civile come ufficiale delle armate bianche, sicuramente pensava alle parole [...]]]> di Sandro Moiso

John Clegg, Rob Lucas, Jasper Bernes, Nutrire la rivoluzione. Cibo, agricoltura e rottura rivoluzionaria, Porfido Edizioni, Torino 2023, pp. 108, 5 euro

Michele Garau, L’ultrasinistra e il «partito storico» della rivoluzione, Porfido Edizioni, Torino 2023, pp. 63, 5 euro

E come le api nell’alveare deserto
un cattivo odore emanano le parole morte
(Nikolaj S. Gumĭlëv – La parola, 1921)

Il poeta acmeista Nikolaj Gumĭlëv, marito della poetessa russa Anna Achmatova dal 1910 al 1918, poi fucilato dai bolscevichi nel 1921 per aver preso parte alla guerra civile come ufficiale delle armate bianche, sicuramente pensava alle parole cadute in disuso o a quelle espresse dal vuoto ideologismo di regime quando scrisse, nello stesso anno della sua fucilazione, il poema citato in epigrafe. Ed è proprio a partire da una riflessione sulle parole morte oppure nate morte che sembra utile a chi scrive iniziare a svolgere una riflessione sui due interessanti testi pubblicati dalle edizioni Porfido qui recensiti.

In effetti viviamo, soprattutto i più giovani, in anni di parole nate morte, pretenziose nel voler disvelare il mondo e assolutamente inutili per un un percorso reale di cambiamento dello stesso. Green economy, uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili, e mille altri piccoli sotterfugi linguistico-ideologici che suggeriscono la possibilità di cambiare il mondo a partire da una concezione platonica della funzione della parola, senza peraltro misurarsi con il gigantesco problema di rovesciarlo, distruggendo il modo di produzione e riproduzione della vita che “materialmente” lo fonda nella sua forma attuale.

Vale per gli esempi appena fatti e vale per un termine come “antropocene” che tende a dare l’dea di un mondo “completamente” a misura d’uomo, in cui la specie, in ogni sua manifestazione sociale e produttiva, si rivelerebbe capace di dominare e trasformare l’ambiente e lo spazio in cui vive, fino alla sua completa distruzione, fin dalla sua comparsa sulla Terra, mentre alcuni già proiettano le disastrose conseguenze della sua capacità di “terraformazione” su altri pianeti, per ora mai raggiunti e ancora irraggiungibili (nonostante le sparate di Elon Musk e della NASA) a causa delle distanze e dei mezzi tecnici realmente a disposizione di chi ne teorizza la diffusione.

Chi qui scrive è abbastanza anziano per contare tra i suoi libri un vecchio testo di Edward Hyams, Terre e civiltà (in origine Soil and Civilization), edito dal Saggiatore nel 1962, ma la cui edizione originale inglese risaliva a dieci anni prima. Già all’epoca lo scrittore e ricercatore di origine britannica, articolista per una delle più antiche riviste di sinistra di lingua inglese («The New Statesman», fondata da esponenti della società fabiana fin dal 1913), pur nel delineare l’evidente parassitismo dell’uomo nei confronti della terra e degli spazi occupati dalle sue società e dai diversi modi di produzione, non dimenticava di sottolineare che: «Esistono dei mutamenti climatici, ma essi sono anche influenzati dalle civiltà, e quindi dalla presenza di uomini dediti a una particolare economia» ovvero che non tutte le forme di organizzazione sociale e della produzione hanno influito in egual modo nei confronti del clima, dell’ambiente e delle sue risorse primarie.

Ad esempio, Hyams ricordava come nelle terre delle primitive comunità germaniche, e nelle forme loro sopravvissute in Età medievale in Europa, «venivano ripartiti i terreni da coltivare per trarne il sostentamento, terreni chiamati family land […] Ma, va sottolineato, ciò che era in tal modo divisibile non era la terra come proprietà materiale ma una partecipazione al diritto di fare certi usi della terra»1. Tale sistema, secondo l’autore inglese, «era stabile e il suo trattamento della terra, quantunque non certo ideale, fu tale che quando la rivoluzione agraria introdusse la high farming, la terra con cui i nuovi uomini ebbero a lavorare era, nel complesso, in condizioni di floridezza»2.

Una terra coltivata per secoli era stata conservata in condizioni di “floridezza” nonostante lo sfruttamento umano conseguente non soltanto alla rivoluzione agraria a cavallo tra XVI e XVIII secolo, ma anche a quanto avvenuto fin dalla prima rivoluzione agricola avvenuta sul finire del Paleolitico, circa dodicimila anni anni prima. Sempre secondo Hyams tale sistema, basato sulla « responsabilità collettiva dell’amministrazione della terra, regolata dalla consuetudine e l’armonioso ordinamento di mutuo servizio dalla sommità alla base, il tutto posante sul sistema di coltivazione su terreno pubblico – tale era lo stato dell’Europa atlantica da circa il 500 d. C. al 1500» era entrato in crisi quando «la graduale sostituzione di una economia commerciale all’autoconsumo andava abbattendo questo sistema e introducendo quello della proprietà privata, che gli successe»3.

Ipotesi che collima perfettamente con quanto affermano le ricerche storiche più recenti a proposito del golden spike da fissare per definire il momento in cui l’attività umana inizia a diventare decisiva per comprendere l’evoluzione non tanto delle società quanto del clima e dell’ambiente.

Avendo stabilito che la Terra si sta avviando verso un nuovo stato, esaminiamo i sedimenti geologici per definire un’epoca, proprio come si sono definite le epoche passate della storia della Terra. Occorre scegliere un cambiamento chimico o biologico specifico che segni l’inizio di un nuovo strato sedimentario influenzato dall’umanità. Questo marcatore deve essere anche correlato ai cambiamenti in altri sedimenti in tutto il mondo. Il marcatore, chiamato «chiodo d’oro» (golden spike), indica: dopo questo punto la Terra procede verso un nuovo stato.
Abbiamo passato ai vaglio i vari chiodi d’oro che sono stati proposti e la conclusione della nostra analisi è che la prima data in cui questi criteri geologici sono stati soddisfatti è l’anno 1610, contrassegnato da una riduzione di breve durata ma pronunciata dell’anidride carbonica atmosferica presente in una carota di ghiaccio antartico, che raggiunse il livello minimo quell’anno. Il 1610, il cosiddetto Orbis spike, (chiodo globale, dal latino orbis: mondo, globo – NdR) segna il momento in cui si può osservare lo scambio colombiano4 nei sedimenti geologici.
Gran parte della diminuzione avvenne perché gli Europei portarono per la prima volta nelle Americhe il vaiolo e altre malattie, causando la morte di più di 50 milioni di persone in pochi decenni. Il collasso di queste società portò alla riforestazione dei terreni agricoli in un’area tanto estesa che la quantità di anidride carbonica atmosferica assorbita dagli alberi in crescita fu sufficiente a raffreddare temporaneamente il pianeta – l’ultimo momento globalmente freddo prima dell’inizio del caldo durevole dell’Antropocene [Questo] è il cambiamento decisivo nella relazione Homo sapiens con l’ambiente. In termini narrativi, l’Antropocene iniziò con la diffusione del colonialismo e della schiavitù: è la storia di come le persone trattano l’ambiente e di come trattano i propri simili […] La nostra tesi è che dall’inizio del mondo moderno nel Cinquecento due circuiti di feedback auto-rinforzati e collegati – l’investimento dei profitti per generare altri profitti e la produzione crescente di conoscenza mediante il metodo scientifico – hanno dominato in misura sempre maggiore le culture del mondo. Queste forze hanno scatenato tassi di cambiamento, compreso il cambiamento ambientale, sempre più elevati5.

La nascita dello sfruttamento intensivo del pianeta e della specie coincide con la nascita del capitalismo mercantile, cui seguirà poco più avanti quello industriale e finanziario, e il fatto rende evidente come il termine Antropocene rischi di essere non solo riduttivo, ma addirittura fuorviante. Motivo per cui andrebbe sostituito, come suggerito già da altri autori e in altre e numerose sedi, da quello di Capitalocene, proprio per indicare una responsabilità non genericamente “umana”, ma di un ben definito e preciso (e distruttivo) modo di produzione e del conseguente modello sociale e di consumo che ne sono derivati.

Anche se a qualche lettore potrà sembrare che la lunga disquisizione fin qui condotta sia servita soltanto a menar il can per l’aia, in realtà va qui affermato che il primo dei due libelli editi da Porfido, Nutrire la rivoluzione, proprio in quest’ambito di riflessione va a situarsi, ovvero su quali siano le responsabilità effettive (sociali, politiche, economiche e scientifiche) non solo dei cambiamenti climatici in atto, ma anche della difficoltà sempre più crescente nel produrre e distribuire cibo senza creare miseria, fame, dipendenza e danno per i suoli, l’ambiente e il futuro del pianeta e della specie.

Nel fare questo, soprattutto nel saggio di Jasper Bernes (Il ventre della rivoluzione: agricoltura, energia e futuro del comunismo, pp. 43 – 94), non si dimenticano affatto alcuni autori classici del socialismo, cui nel libro, e a ragione, si rimprovera di essersi lasciati spesso fuorviare da un’eccessiva fiducia nel progresso di stampo borghese, ma utilizzando comunque ancora le pagine migliori espresse da quegli stessi nei loro testi. Come capita, ad esempio, nei confronti di Friedrich Engels e della sua analisi del rapporto tra città e campagna e di come questo dovrebbe essere modificato in futuro.

La soppressione dell’antagonismo tra città e campagna non solo è possibile, ma è diventata una diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata del pari una necessità della produzione agricola ed inoltre dell’igiene pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie6.

Cui andrebbe forse aggiunta un’altra osservazione, più tarda (1952) ma pur sempre in anticipo sui tempi attuali, di Amadeo Bordiga sulla necessità di giungere all’«arresto delle costruzioni di case e luoghi di lavoro intorno alle grandi città e anche alle piccole, come avvio della distribuzione uniforme della popolazione sulla campagna» (Cfr. qui).

I due testi riportati nel volumetto7 ruotano intorno al problema, tutt’altro che risolto in passato, del rapporto intercorrente tra Rivoluzione e Ri/costruzione di una società altra definibile come comunista e provengono da autori che a vario titolo ruotano intorno alla rivista «Endnotes» realizzata da un gruppo di discussione, con sede in Germania, Regno Unito e Stati Uniti, orientato principalmente a definire le condizioni per un possibile superamento comunista del modo di produzione capitalistico.

Per chi scrive risulta particolarmente importante che tali riflessioni, dedite a recuperare l’esperienza dell’ultrasinistra francese post-68 e conseguentemente della Sinistra Comunista nel suo senso più ampio, siano svolte a partire da quello che è ancora, nonostante l’epoca di crisi, il cuore del capitalismo occidentale e delle sue forme di dominio politico, economico, militare e culturale. Recuperando “parole” e ambiti di riflessione che solo gli allocchi della modernità possono considerare “superati” dalle parole vuote, “morte alla nascita” e inconsistenti cui si è accennato in apertura.

Come affermano i due autori di Le tre rivoluzioni agricole, anche se Marx era notoriamente restio a dare al termine “comunismo” qualsiasi connotazione prefigurativa “da osteria” e preferiva definirlo come il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti, pur rimanendo ferreamente motivata la necessità di incentrare l’attenzione sulle lotte e il loro sviluppo storico, è evidente che tale affermazione possa condurre a ragionamenti di tipo teleologico, «perché senza un criterio atto a definire le lotte e i loro limiti» i rivoluzionari, o pretesi tali, si troverebbero ad aggirarsi in circolo all’inseguimento di lotte e posizioni che di volta in volta sorgono dalle infinite, e irrisolvibili al suo interno, contraddizioni derivanti dall’ordinamento socio-politico-economico imposto dall’attuale modo di produzione.

Con tutta la sequela di inutili speranze, illusioni, confusioni e “creatività linguistica” non dettate dalla effettiva capacità di interpretare il “reale” in vista di una sua trasformazione radicale, ma piuttosto dalla volontà di affrontarlo con poco sforzo e semplici affermazioni di principio (quale principio, poi, sarebbe ancora tutto da vedere), oggi facilmente condivisibili sui social. Spesso costeggiando le spiagge del politically correct liberale contemporaneo che forse rappresenta ancora, a più di cinquant’anni di distanza, la peggiore eredità del ’68. Che si liberò spesso più rapidamente del filo rosso della tradizione rivoluzionaria che di una concezione individualistica dei conflitti sociali che discendeva dritta, dritta dal liberalismo borghese.

Ed è a partire proprio da questo secondo ragionamento che si rivela altrettanto interessante, anche se più contraddittoria, la lettura del secondo dei due testi qui proposti: quello di Michele Garau sull’ultrasinistra e il «partito storico» della rivoluzione.

Se nel primo dei due testi, come si è detto poco innanzi, l’attenzione oltre che alla possibile progettualità comunista era rivolta anche alla necessaria critica di un ”marxismo” spesso infarcito di esagerate speranze nello sviluppo della tecnologia di stampo capitalistico e di una scienza troppe volte rivelatasi coscientemente asservita, facendo sì che le necessità produttive, di consumo e di dominio inficiassero sempre più pesantemente gran parte della ricerca scientifica ottundendone finalità e libertà, nel secondo l’attenzione dell’autore si rivolge in particolare al fatto che l’analisi, per quanto attenta e radicale del reale e della storia del movimento operaio, possa talvolta perdere il “filo rosso” per trasformarsi in una compiaciuta dissertazione rinunciataria sull’inevitabilità della sconfitta.

Per fare questo, come si afferma fin dal titolo, il volumetto analizza in particolare le derive del pensiero di Jacques Camatte e dell’ultra-sinistra più in generale. Che, come già si sottolineava nel primo dei due testi, rischiano di trasformarsi in una sorta di visione teleologica del divenire, spesso nemmeno più ipotizzando una possibile azione rivoluzionaria, ma soltanto auspicando l’inevitabilità del cambiamento.

Al di là delle conclusioni cui Garau giunge, dimenticando però che per la Sinistra Comunista le “lezioni delle controrivoluzioni” ovvero delle sconfitte (tante) sono altrettanto importanti di quelle derivanti dalle vittorie (poche e transitorie), quello che val la pena qui di sottolineare è come ancor oggi, nell’epoca del trionfo delle parole “morte”, sia necessario far riferimento, seppur in maniera critica, a testi tutt’altro che defunti, che solo la polvere alzata inutilmente dagli sproloqui degli innovatori linguistici (più che dei contenuti politici utili alla lotta per il rovesciamento di questo immondo “reale”) può cercare ancora di nasconderne il significato ultimo sotto una montagna di fumisterie.

Un’autentica battaglia per la “decolonizzazione” dell’immaginario fondata su parole e discorsi che ad alcuni potranno sembrare fuori luogo o superate, ma che ricordano ancora oggi, dopo decenni di ricerche di nuovi soggetti, nuove cause e diritti per cui battersi, che la lotta di classe deve avere un centro di aggregazione e che questo, piaccia o meno, si tratti pure di liberazione della donna, di lotta contro la guerra impellente e sempre più presente o di salvaguardia dell’ambiente che ancor ci resta per vivere, deve fondarsi sul coinvolgimento della maggioranza o di una significativa minoranza della classe oppressa per eccellenza, qualunque sia il suo sesso, il colore della sua pelle o la sua dislocazione geografica: quella proletaria.

Classe, quella proletaria, che d’altra parte non può certo permettersi il lusso di commuovere ministri come Pichetto Fratin col piagnisteo sul futuro che gli viene negato o che gli è stato “rubato” poiché, fin dal suo primo apparire sulla scena della Storia, il proprio futuro, insieme a quello dell’intera specie, ha sempre dovuto conquistarselo con scioperi, lotte, battaglie spesso sanguinose, sofferenze e rivoluzioni (nient’affatto improvvisate o di velluto).


  1. E. Hyams, Terre e civiltà, «Il Saggiatore», Milano 1961, p. 197  

  2. Ivi, p. 198  

  3. Ivi, p.197  

  4. Con scambio colombiano si intende generalmente lo scambio biologico (flora, fauna, malattie, virus e batteri) avvenuto tra Vecchio e Nuovo continente a partire dalla “scoperta” dell’America nel 1492.  

  5. Simon L. Lewis, Mark A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019, Prefazione, pp.XVII – XVIII.  

  6. F. Engels, Anti-Dühring ora in J. Bernes, Il ventre della rivoluzione in J. Clegg, R. Lucas, J. Bernes, Nutrire la rivoluzione. Cibo, agricoltura e rottura rivoluzionaria, Porfido Edizioni, Torino 2023, p. 56  

  7. L’altro è quello di J. Clegg, R. Lucas, Le tre rivoluzioni agricole, pp. 17 – 39  

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