Emma Goldman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0 https://www.carmillaonline.com/2022/08/10/la-metafisica-delle-guerre-civili-americane-paul-auster/ Wed, 10 Aug 2022 20:02:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72827 di Sandro Moiso

“Forse questo è il punto più interessante di tutti: vedere quello che accade quando non rimane più nulla e scoprire se, anche così, sopravviveremo”. (Paul Auster – Nel paese delle ultime cose)

“Negli Stati Uniti sta destando sempre più scalpore un sondaggio realizzato dall’Institute of Politics dell’University of Chicago e reso pubblico in questi giorni, secondo cui la maggioranza degli americani ritiene che il governo sia “corrotto” e che agisca “contro gli interessi della gente comune”. La stessa indagine demoscopica ha inoltre evidenziato che un terzo degli statunitensi sarebbe [...]]]> di Sandro Moiso

“Forse questo è il punto più interessante di tutti: vedere quello che accade quando non rimane più nulla e scoprire se, anche così, sopravviveremo”. (Paul Auster – Nel paese delle ultime cose)

“Negli Stati Uniti sta destando sempre più scalpore un sondaggio realizzato dall’Institute of Politics dell’University of Chicago e reso pubblico in questi giorni, secondo cui la maggioranza degli americani ritiene che il governo sia “corrotto” e che agisca “contro gli interessi della gente comune”. La stessa indagine demoscopica ha inoltre evidenziato che un terzo degli statunitensi sarebbe pronto a “imbracciare le armi contro le autorità”. (Gerry Freda – Il Giornale, 27 luglio 2022)

“La guerra civile è già in corso”. (Gloria Feldt, femminista americana, 26 giugno 2022)

E’ il fantasma della guerra civile che oggi sembra assumere, sempre più spesso, forme concrete e tangibili nella società statunitense. Qualcuno, gravemente contagiato dal politically correct, potrebbe affermare che ad aggirarsi nell’immaginario di quella società sia ancora e soltanto il fantasma di Donald Trump, ma in realtà quel fantasma agita le coscienze e l’immaginario americano da ben più tempo.

Almeno dagli anni che precedettero e seguirono la Guerra Civile svoltasi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865. Quella guerra che costituisce infatti, al di là di ogni retorica, il fatto politico fondamentale della nazione nord-americana, ben più della Dichiarazione di Indipendenza e della successiva guerra contro la corona britannica. Un fatto politico e militare la cui valenza mitopoietica e fantasmatica per l’immaginario collettivo fu chiaramente colta già all’epoca dal fondatore della poesia americana moderna, Walt Whitman:

Quattro anni in cui si sono concentrati secoli di passioni ancestrali, immagini di prima categoria, tempeste di vita e di morte – una miniera inesauribile di vite e di morti, che riempiranno la storia, il teatro, la letteratura e persino la filosofia dei secoli a venire – anzi, un’autentica colonna vertebrale della poesia e dell’arte (anche di carattere personale) per tutta l’America futura (molto più possente, secondo me, per le penne che saranno in grado di cimentarsi con esse dell’assedio di Troia di Omero e delle guerre francesi di Shakespeare)1.

Se all’epoca di Thoreau e John Brown furono molti gli scrittori che si schierarono apertamente con la causa della lotta contro la schiavitù, da Melville a Whitman e da Whittier ed Emerson ad Hawthorne, ancora nel corso del ‘900 molti sono stati gli autori statunitensi a schierarsi con la causa della lotta contro le guerre imperiali o per la libertà dei popoli, dalla guerra civile spagnola alla lotta contro la guerra in Vietnam. Si pensi soltanto a Ernest Hemingway, John Dos Passos, William March, Joseph Heller oppure Allen Ginsberg e i poeti, soprattutto, della generazione beat, come Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti.

Gli scrittori degli ultimi decenni invece, almeno a partire dalla dubbia elezione di George Bush Jr., sembrano maggiormente preoccupati da ciò che i rappresentanti dei vertici economico-finanziari e dei media mainstream iniziano a denunciare sul pericolo di rivolte e di rimessa in discussione dei principali assunti dell’attuale modo di produzione, rendendo ancor più significativo il fatto che ormai da diversi anni proprio dagli Stati Uniti provengano opere letterarie che trattano il tema della guerra civile oppure della resistenza armata contro lo Stato e tutti i suoi addentellati economici, politici e militari.

Un autore come Paul Auster, con il suo Man in the Dark (uscito in Italia per Einaudi con il titolo Uomo nel buio), nel 2008 è stato uno dei primi a introdurre il tema all’interno della letteratura non di genere, seguito poi da diversi altri scrittori. Ma occorre dirlo, prima di procedere successivamente all’analisi della trama libro: sembra non esservi più vitalità. partecipazione e convinzione nell’osservazione dei drammi in atto o a venire. Come se si fosse persa la causa per cui combattere, che, in fin dei conti, per gran parte degli scrittori americani del passato è sempre stata rappresentata dai valori “autentici” della democrazia e della libertà americana, più che da qualsiasi altra esplicita causa politica.

Questo è il deserto sociale, ideale, umano che sta alle spalle dei romanzi di Paul Auster, soprattutto della guerra civile soltanto immaginata ma dalle conseguenze e cause reali, anche se tutte racchiuse nella psiche dei disturbati protagonisti e dell’anziano narratore di Man in the dark2. Un confronto militar-terroristico in cui gli Stati Uniti si sono divisi, almeno nella mente dell’anziano critico letterario August Brill che svolge il ruolo di narratore, secondo linee di faglia molto simili a quelle determinate anche dall’ultimo voto americano.

Una guerra in cui chi combatte non comprende le ragioni di ciò che sta succedendo e vorrebbe in realtà abbandonare il campo il più in fretta possibile. Senza riuscirci, in un alternarsi di piani temporali e narrativi che inseguono inutilmente un centro, che sembra non esistere più da tempo, se non nei sogni, deliri e costruzioni narrative di uno scrittore vecchio e malato. Cui è toccato assistere, alla tv, più e più volte alla decapitazione da parte dei miliziani dell’Isis dell’ex-boy friend della nipote, recatosi nelle aree incendiate dal califfato islamico per un servizio di trasporti privato al fine di avere un lavoro meglio pagato.
Sogno dentro sogno seguiamo per un attimo le riflessioni di Owen Brick, il personaggio immaginato da August Brill:

Memore dei discorsi di Serge su una guerra civile, si domanda perché ci si combatta e chi stia combattendo contro chi. Ancora il Nord contro il Sud? L’Est contro l’Ovest? Il Rosso contro il Blu? Il Bianco contro il Nero? Qualunque sia stata la causa della guerra, si dice e qualunque interesse o ideale sia in gioco, non ha senso. Come può essere l’America se Tobak non sa nulla dell’Iraq? Completamente smarrito, Brick torna all’ipotesi precedente, cioè di essere prigioniero di un sogno3.

E’ lo smarrimento a dominare la narrazione, smarrimento che domina anche nelle altre opere di Auster che andremo ad esaminare. Ed è così che Il folle mondo viene avanti rotolando, intuizione tratta da da una poesia di Rose Hawthorne, ultima dei tre figli di Nathaniel Hawthorne, nata nel1851, come ci ricorda lo stesso Auster nel riassumerne brevemente la vita nell’ambito del romanzo.

Rose rossa di capelli, nota in famiglia come Rosebud, Bocciolo di Rosa, una donna che visse due vite, la prima triste, tormentata, fallimentare, la seconda straordinaria […] una donna che per quarantacinque anni ha brancolato per il mondo, una persona difficile e scontrosa, una «straniera a se stessa» per propria ammissione, che dapprima tentò la sorte con la musica, poi con la pittura, e non avendo avuto risultati con nessuna di queste attività si volse alla poesia e ai racconti, riuscendo anche a pubblicarne alcuni (senz’altro grazie al nome di suo padre), ma la sua produzione era pesante e goffa, a essere generosi mediocre: tranne un verso di una poesia […] E il folle mondo viene avanti rotolando.
Aggiungiamo al ritratto pubblico le circostanze private della fuga d’amore, a vent’anni, col giovane scrittore George Lathrop, un talento che non mantenne mai le promesse, gli amari conflitti del loro matrimonio, la separazione, la riconciliazione, la morte a cinque anni del loro unico figlio, la separazione definitiva, i litigi protratti di rose con suo fratello e sua sorella […] Ma poi, nella maturità, Rose subì una metamorfosi. Si convertì al cattolicesimo, prese i voti e fondò un ordine di suore, le Serve del conforto per il cancro incurabile, dedicando i suoi ultimi trent’anni alla cura dei malati terminali poveri come appassionata tutrice del diritto di ognuno a morire con dignità. Il folle mondo viene avanti4.

L’immagine, già tipica del blues e della folk music, della pietra che rotola (rolling stone) sul fondo di un fiume, sulle strade del mondo oppure verso l’abisso, viene qui, indirettamente, ripresa e portata alle sue estreme conseguenze. Sia sul piano dell’esperienza personale, sia sul piano simbolico di una Nazione che rotola verso il suo incerto futuro senza più alcun punto di riferimento o legame certo.

Il secondo romanzo di Auster qui analizzato è Leviatano5, liberamente ispirato alle imprese di Unabomber, identità fittizia, attribuitagli in parte dai media e in parte dal Federal Bureau of Investigation, di Theodore John “Ted” Kaczynski, terrorista individualista contrario alla società dominata dalla tecnologia, matematico ed ex-docente universitario statunitense che tra il 1978 e il 1996 inviò numerosi pacchi postali a varie persone, causando 3 morti e 23 feriti. E’ stato anche autore di un celebre manifesto politico-filosofico che riuscì a far stampare su alcuni quotidiani USA, prima di essere denunciato dal fratello che ne aveva riconosciuto lo stile leggendo quello stesso testo.

Auster non ripercorre esattamente le vicende di Ted Kaczynski, ma ancora una volta ricorre alla figura di invenzione di uno scrittore, Peter Aaron, che, dopo aver intuito che la vittima di un’esplosione, causata dalla preparazione di una bomba, per un attentato è il suo più caro amico: Benjamin Sachs, autore di un unico romanzo, decide di narrare la vita e le vicende che l’hanno condotto alla decisione di diventare terrorista.

Ben si dedica alla distruzione con l’esplosivo delle copie della Statue della Libertà sparse in centinaia di località americane, sempre evitando di fare vittime. Anche in questo caso la scelta simbolica rinvia alla delusione nei confronti delle mancate promesse di libertà, uguaglianza e democrazia che il monumento originale, posto in mezzo alla baia prospicente New York, dovrebbe rappresentare. Ben in realtà ha preso il posto di un uomo che ha ucciso per difendersi, Reed Di Maggio, ma di cui ha iniziato ad apprezzare le idee dopo aver scovato, in una stanza chiusa nella casa della vedova, i suoi documenti, i suoi libri e la sua tesi. Uno studio sulla figura di Alexander Berkman l’anarco-comunista americano che aver sparato a Henry Clay Frick, colui che durante lo sciopero degli operai metallurgici di Homestead del 1892 aveva riunito un esercito di detective e agenti di compagnie private e ordinato loro di fare fuoco sugli scioperanti.

Giovane radicale ebreo emigrato pochi anni prima, all’epoca Berkman aveva vent’anni e scese in Pennsylvania inseguendo Frick con una pistola, con la speranza di eliminare quel simbolo dell’oppressione capitalista. Frick sopravvisse all’attentato e Berkman fu rinchiuso in un penitenziario di Stato per quattordici anni. Dopo il suo rilascio […] portò avanti il suo impegno politico, soprattutto insieme ad Emma Goldman. Fu direttore di “Mother Earth”, contribuì alla fondazione di una scuola libertaria, tenne discorsi, si batté per cause come lo sciopero degli operai tessili di Lawrence […] Quando l’America entrò nella Prima guerra mondiale fu messo di nuovo in carcere, questa volta per aver parlato contro la coscrizione obbligatoria6.

Quindi Ben si ispira a Reed che, a sua volta, si era ispirato a Berkman. Così in qualche modo farà anche Peter, iniziando a scrivere un romanzo intitolato come il secondo progettato dall’amico, che finirà col narrare la storia di Ben e si intitolerà Leviatano, come il libro vero a e allo stesso fittizio che il lettore si trova a leggere, finito pochi istanti prima dell’arrivo degli agenti del FBI decisi ad interrogarlo per perseguirlo penalmente per i suoi precedenti silenzi sull’amico scomparso. Ancora una volta una vicenda di scambi di identità e di acquisizione casuale di ruoli già appartenuti ad altri, in un’America sempre più confusa, ad ogni livello, che sembra anch’essa andare avanti rotolando follemente.

Tema che costituisce anche il centro del terzo romanzo di cui si vuole qui parlare, Nel paese delle ultime cose (In the Country of Last Things, 1987)7, che in realtà, pur mostrandoci da vicino gli effetti devastanti sulla vita americana di una catastrofica guerra civile una volta avvenuta, è il primo dei tre.

L’epoca è indefinita, ma non molto distante nel tempo rispetto al presente e l’unica cosa certa è che Thanatos ha trionfato, insieme al disordine, alla fame e all’impossibilità di immaginare un futuro diverso, illuminato magari da un barlume di speranza.

Almeno la metà della gente è senza casa e non sa assolutamente dove andare. Pertanto ogni volta che giri l’angolo trovi cadaveri, sul marciapiede, sotto i portoni, sulla strada stessa.
[…] I cadaveri il più delle volte sono nudi. Gli spazzini perlustrano le strade senza interruzione, e non passa tanto tempo prima che un morto sia spogliato dei propri averi. Le prime a sparire sono le scarpe, molto richieste e molto difficili da trovare. Subito dopo vengono le borse e poi di solito ogni altra cosa, gli abiti e tutto quel che contengono. Gli ultimi ad arrivare sono gli uomini con pinza e scalpelli, che strappano i denti d’oro e d’argento dalla bocca.
[…] Ogni mattina passano i camion per la raccolta dei cadaveri. Questa è la funzione principale del governo, che investe in quest’operazione più che in qualsiasi altra cosa. Tutt’intorno alla città ci sono i forni crematori – i cosiddetti Centri di Trasformazione – e giorno e notte si vede il fumo che sale in cielo. Ma dato che le strade sono in così cattivo stato e molte si trovano ridotte in macerie, il compito diventa sempre più difficile. Gli uomini sono costretti a fermare i camion e andare a piedi a raccogliere i corpi, e questo rallenta considerevolmente il lavoro. Come se non bastasse, ci sono frequenti danni meccanici ai veicoli, seguiti dagli occasionali scoppi di risate di chi sta a guardare. Lanciare pietre agli uomini dei camion della morte è una comune occupazione tra i senzatetto. Anche se questi uomini sono armati e sono noti per puntare le loro mitragliatrici sulla folla, alcuni di questi lanciatori di sassi sono molto abili nel nascondersi, e le loro tattiche di «toccata e fuga» ottengono talvolta il risultato di paralizzare completamente la raccolta. Non c’è un motivo coerente dietro questi attacchi. Maturano nella rabbia, nel risentimento e nella noia, e poiché i raccoglitori di cadaveri sono gli unici dipendenti municipali a farsi vedere nei quartieri, diventano facili obiettivi. Si potrebbe dire che i sassi rappresentano il disgusto della gente nei confronti di un governo che non fa nulla per loro finché non sono morti. Ma questo discorso ci porterebbe troppo in là. I sassi sono un’espressione di infelicità e basta. In città infatti non c’è posto per la politica, di nessun tipo. Le persone hanno troppa fame, sono troppo sconvolte, troppo in lotta le una contro le altre8.

La forma è quella di un diario in forma epistolare, scritto da una giovane donna di buona famiglia che ha attraversato l’Oceano per tornare nella grande metropoli sconvolta (la Grande Mela?) a cercare tracce del fratello William scomparso dopo essersi recato là per scrivere un reportage. Un contesto in cui Beckett sembra incontrare il Boccaccio della Cornice del Decameron, mentre le immagini dei forni crematori e dei morti privati di tutto, anche dei denti, rinviano alle grandi tragedie del ‘900.
Come nel romanzo La strada di Cormack Mc Carthy (Einaudi, 2007 – edizione originale 2006) tutto è già avvenuto e non ha bisogno di essere spiegato. I protagonisti o l’io narrante non possono far altro che andare incontro alla fine, anche se quest’ultima, come scrive Auster:

è solo immaginaria, una destinazione che inventi per continuare ad andare avanti, ma arrivi a un punto in cui ti accorgi che non vi giungerai mai.
[…] Qualunque cosa è possibile, ed è come non dire niente, come essere nati in un mondo che non è mai esistito. Forse troveremo William dopo aver lasciato la città, ma cerco di non sperarci troppo. L’unica cosa che chiedo, per ora, è la possibilità di vivere ancora per un giorno9.

Sopravvivere, ancora per un giorno, in un mondo privato di qualsiasi senso, se non ancora quello della guerra e della rivolta senza scopo.

L’unica alternativa che abbiamo eliminato del tutto è il nord. Sembra infatti che in quella parte del paese vi sia un grande pericolo e la possibilità di tumulti, ed è già un po’ di tempo che si parla di un’invasione di armate straniere radunate nella foresta e pronte a colpire la città quando la neve sarà sciolta.[…] Boris continua a spiare e ascoltare, ma i discorsi che sente sono troppo confusi e discordi per avere un valore concreto. Lui ritiene che ciò significhi che il governo sarà di nuovo rovesciato. Se così fosse, potremmo avere il vantaggio della temporanea confusione, ma a questo punto nulla è davvero chiaro. Nulla è chiaro e noi continuiamo ad aspettare10.

Non si fugge da ciò che un tempo si annunciava come il Paradiso e che oggi è soltanto più uno degli inferni possibili sulla Terra. Il senso è finito insieme a ciò che ne produceva una possibile, e riduttiva, espressione. Il lungo tramonto dell’Occidente rimane tale, soltanto un interminabile crepuscolo, alla cui luce incerta si possono consumare tutti i delitti, tutte le meschine vendette, tutte le perversioni dell’essere umano alimentate dalla fame e dalla disperazione. Cannibalismo compreso.

Nella logica “metafisica” di Auster tutti e due gli altri romanzi, di cui si è parlato più sopra, convergono quindi inesorabilmente verso la fine che era già contenuta nell’inizio di questa immaginaria trilogia delle guerre civili americane.
Tornano in mente le affermazioni di Karl Marx sulla fine dell’Impero romano, che causò e fu causata allo stesso tempo dalla comune rovina delle classi in lotta. Tornano le immagini di imperi millenari o secolari che scompaiono in un batter d’occhi, soltanto un po’ più lungo del solito. Tornano alla memoria le immagini di imperi le cui frontiere sono sorvegliate da eserciti alleati e stranieri, ma pronti a divorarli appena mostreranno un minimo di debolezza in più.

Tornano le immagini di rivolte senza scopo, rebellion without a cause parafrasando il titolo di un celebre film di Nicholas Ray dove già il protagonista correva incontro alla morte su una strada che conduceva soltanto ad un precipizio11. Le immagini del Campidoglio assaltato, dei diritti inutilmente negati, degli scontri inter-razziali, dei massacri nelle scuole, nei mall e nelle chiese. Tutte pietre lanciate per infelicità, rabbia, risentimento o forse soltanto per noia.

Tornano le immagini di Jayland Walker, afroamericano poco più che ventenne, ucciso con sessanta colpi d’arma da fuoco dalla polizia di Akron, Ohio, e ai mille casi di uccisioni che avvengono ogni anno negli Stati Uniti ad opera delle forze del dis/ordine. Mille morti ammazzati di cui almeno il trenta per cento è costituito da afro-americani.
E tornano anche le immagini di un 4 luglio insanguinato non soltanto dalla strage alla parata di Chicago, ma anche dai nove tentativi messi in atto in altrettante località degli Stati Uniti, nello stesso giorno di quest’anno.
Giorno in cui, nella sola Chicago, 57 persone sono rimaste uccise in sparatorie al di fuori di quella di Highland Park 12.

Mentre politologi e storici – come la docente di San Diego, Barbara Walter, autrice del saggio How Civil Wars Start – avvertono che il rischio di guerra civile è reale […] l’espressione “guerra civile” diventa subito tra gli argomenti più cercati su Google, così come lock and load: caricare un’arma da guerra nel gergo militare13.

L’Occidente cade nelle pagine di Auster, la grande metropoli non mantiene le sue passate promesse e il mondo sta a guardare in attesa che altri vengano (da Nord, Est, Sud?) a rivendicarne il ruolo, le aspirazioni e le fasulle promesse. Benvenuti alla fine del viaggio di un modo di produzione che da troppo tempo sta morendo, come un malato terminale, però, cui sia stata negata per sempre la possibilità del suicidio assistito. Mentre anche i suoi possibili killer, impoveriti e indigenti, preferiscono rivolgere le proprie armi contro i propri simili piuttosto che sveltire le pratiche funerarie per la sua definitiva eliminazione.

Ancora una volta, però, non sono l’analisi politica e sociologica o il piagnisteo democratico a condurci ad una tale cruda e inesorabile visione, bensì la letteratura. Ma, per favore, non definitela nichilista.


  1. Walt Whitman, Taccuini della guerra di secessione, Mattioli 1885, Fidenza 2017, pag. 19  

  2. Paul Auster, Uomo nel buio, Einaudi, Torino 2008  

  3. Paul Auster, op. cit., p.41  

  4. Paul Auster, op. cit., pp. 38-39  

  5. Paul Auster, Leviatano, Einaudi, Torino 2003 – Leviathan, prima edizione americana 1992  

  6. Paul Auster, Leviatano, p. 257  

  7. Il paese delle ultime cose, Guanda, 1996 – Nel paese delle ultime cose, Einaudi, 2003  

  8. P. Auster, Nel paese delle ultime cose. Einaudi, Torino 2003, pp. 16-17  

  9. P. Auster, op. cit., pp. 163-167  

  10. Ibidem, p. 166  

  11. Rebel Without a Cause (1955), in Italia meglio noto con il titolo Gioventù bruciata, di Nicholas Ray e con James Dean  

  12. Marina Catucci, La tradizione del “mass shooting”: 4 luglio di fuoco in nove stati, il Manifesto, 7 luglio 2022  

  13. Massimo Gaggi, “Caricate i fucili”. Si scaldano le milizie (e torna l’incubo della guerra civile) , Corriere della sera, 10 agosto 2022  

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Errico Malatesta tra crisi dello Stato liberale e crisi del movimento operaio https://www.carmillaonline.com/2018/05/23/errico-malatesta-tra-crisi-dello-stato-liberale-e-crisi-del-movimento-operaio/ Wed, 23 May 2018 20:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45822 di Sandro Moiso

F. Bertolucci, R.Carocci, V. Gentili, G.Sacchetti, Errico Malatesta. Un anarchico nella Roma liberale e fascista, (a cura di R. Carocci) BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 176, € 18,00

Quelli appena pubblicati dalla BFS Edizioni sono gli atti del convegno Malatesta un rivoluzionario a Roma, organizzato dall’Associazione di Idee “I Refrattari” a Roma il 28 maggio 2016. Atti la cui la pubblicazione risulta particolarmente importante poiché non soltanto riguardano uno dei principali esponenti dell’anarchismo italiano ed internazionale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma anche perché coincide con un periodo particolarmente travagliato e complesso della [...]]]> di Sandro Moiso

F. Bertolucci, R.Carocci, V. Gentili, G.Sacchetti, Errico Malatesta. Un anarchico nella Roma liberale e fascista, (a cura di R. Carocci) BFS Edizioni, Pisa 2018, pp. 176, € 18,00

Quelli appena pubblicati dalla BFS Edizioni sono gli atti del convegno Malatesta un rivoluzionario a Roma, organizzato dall’Associazione di Idee “I Refrattari” a Roma il 28 maggio 2016.
Atti la cui la pubblicazione risulta particolarmente importante poiché non soltanto riguardano uno dei principali esponenti dell’anarchismo italiano ed internazionale a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma anche perché coincide con un periodo particolarmente travagliato e complesso della vita politica e sociale italiana del XXI secolo.

Nato nel 1853 e morto nel 1932 Errico Malatesta ebbe modo di seguire da protagonista, quasi indiscusso, i travagli del movimento operaio e rivoluzionario negli anni compresi tra lo sviluppo e il fallimento della Prima internazionale, la crisi e le lotte di classe di fine secolo, lo sviluppo del terrorismo di stampo anarchico, la rinascita e il tragico fallimento della Seconda internazionale, il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa e il successivo avvento del fascismo e dei totalitarismi.

“Il primo arresto a 17 anni, a 23 conosce Bakunin, nel 1877 organizza con Cafiero un moto rivoluzionario nel Matese; a 29 anni va in Egitto, poi fugge in Argentina dove per un periodo prova a fare il cercatore d’oro in Patagonia con alcuni compagni; viene accusato di falsificare monete e fa ritorno in Europa; gira l’Europa tra Spagna e Inghilterra vivendo poi da esule a Londra dove svolge il lavoro di elettricista fino a quando, nel 1919, fa ritorno definitivamente in Italia”.1

Poche righe per descrivere una vita politicamente e umanamente avventurosa, che proprio negli anni dell’avvento del fascismo ritroverà la strada di casa. In un momento di crisi e spaesamento del movimento operaio internazionale, diviso tra la vittoria del bolscevismo in Russia e l’affermazione di un movimento reazionario di tipo nuovo quale quello di Benito Mussolini in Italia.
Crisi e spaesamento che avrebbero spinto l’anarchico non più giovane, a cercare nuove risposte e nuove spiegazioni per un fenomeno destinato, poi, a reiterarsi più volte nel tempo fino ai giorni nostri con significativa ridondanza proprio tra quegli oppressi che avrebbero dovuto cambiare la Storia e rinnovare la società dalle fondamenta.

I testi di Bertolucci, Carocci, Gentili e Sacchetti affrontano i temi rispettivamente dell’azione e rivolta morale contro il fascismo tra il 1922 e il 1932; dei rapporti tra Errico Malatesta e il movimento operaio e le sue attività a Roma tra il 1874 e l’anno della sua morte; del suo rapporto con gli Arditi del Popolo e, infine, del rapporto tra anarchia e violenza nella biografia politica dello stesso Malatesta.
A questi si aggiunge una storia, curata da Franco Bertolucci e accompagnata dagli indici analitici, della rivista “Pensiero e volontà” uscita sotto la guida di Malatesta tra il 1° gennaio 1924 e l’agosto del 1926 (quando le leggi fascistissime avrebbero posto fine ad ogni libertà di stampa e di opinione).

Per sottolinearne l’attualità si è scelto di pubblicare qui, quasi integralmente, l’appello di Malatesta alla ristretta cerchia di amici e compagni che avrebbero poi collaborato alla rivista stessa: Luigi Fabbri, Camillo Berneri, Carlo Molaschi, Luigi Bertoni, Francesco Saverio Merlino, Giuseppe Turci, Max Nettlau ed Emma Goldman. Appello che sembra riproporre, anticipandoli, temi che torneranno obbligatoriamente alla ribalta nei mesi a venire.

A quelli che studiano e che lavorano
La rivista che annunziamo, e che vedrà la luce coi primi del prossimo anno, intende rispondere ad un bisogno largamente sentito, quello cioè di studiare i numerosi problemi politico-economici che si affacciano con carattere di urgenza in questo periodo di intensa ed universale commozione sociale e dalla cui soluzione, in un senso o nell’altro, dipenderanno per lungo decorrere di tempo le sorti dell’umanità.
Non ci dilungheremo ora sulle condizioni in cui si trova oggi l’Europa e per essa il mondo intero.
È uno stato di convulsione generale. Tutti gl’interessi, tutti i bisogni, tutte le aspirazioni che hanno in ogni tempo divisi gli uomini tra loro, acuiti fino al parossismo dello squilibrio materiale e morale prodotto dalla grande guerra, si trovano in violento contrasto. E dove non vi è guerra aperta, vi è una compressione eccessiva che mentre impedisce lo scoppio, lo prepara e lo provoca più formidabile che mai.
Da una parte disordine, misera crescente, conati rivoluzionari; dall’altra reazione, militarismo, oppressione. Ed intanto la produzione e gli scambi si disorganizzano e si arrestano e lo spettro della fame si affaccia minaccioso all’orizzonte: già larghe plaghe d’Europa e numerosi strati della popolazione stanno in preda alla fame effettiva e, naturalmente, a tutti i ciechi eccessi che la fame provoca e giustifica.
Tutti sentono, tutti sanno che così non può durare, perché così si dissolve la vita sociale e diventa impossibile la stessa vita materiale. Le classi oppresse, animate da una crescente coscienza, sospinte da bisogni urgenti e sempre meno soddisfatti, non si rassegnano, o non si rassegneranno a lungo, ad uno stato di sofferenze e di umiliazioni che sembrava ormai sorpassato; e le classi sinora dominanti, minacciate esse stesse, oltre che dalla rivolta popolare, dal prepotere di una ristretta oligarchia capitalistica e militarista, cercano e non trovano un ordinamento che dia loro la possibilità e la sicurezza di un tranquillo sfruttamento del lavoro altrui. Che cosa avverrà?
Certo non mancano né la possibilità di produrre abbastanza per soddisfare largamente i bisogni di tutti, né il desiderio nelle masse di lavoro e di pace.
Ma in tutti i paesi la borghesia, o piuttosto quella parte di essa che ancora detiene il comando effettivo, divisa dalle rivalità che producono l’ingordigia ed il cieco egoismo, si mostra incapace di ristabilire un qualsiasi ordine di cose che possa vivere e durare. Ed è bene che sia così perché l’ordine quale potrebbe ristabilirlo una meno malvagia e più intelligente borghesia non sarebbe poi che il ritorno alle condizioni anteriori alla guerra, il ritorno cioè ad uno stato di oppressione temperata, duraturo perché sopportabile, e non farebbe insomma che ristabilire delle condizioni che poi, attraverso nuove guerre e nuove convulsioni, riprodurrebbe la catastrofe attuale.
È la massa degli oppressi e degli sfruttati che deve salvare sé stessa e che salvando sé stessa, assicurerà l’avvenire di tutta quanta l’umanità.
Si va verso un cataclisma generale. Saranno forse nuove guerre internazionali; sarà certamente nell’interno di ciascun paese un alternarsi di rivoluzioni e di repressioni; ma si dovrà poi finire con un assetto qualunque, determinato, se non da altro, dal bisogno generale di riposo.
E questo assetto potrebbe essere l’inizio di una civiltà superiore, ma potrebbe anche essere il naufragio di quella qualsiasi civiltà che, attraverso lavoro, lotte e sacrifizi secolari, l’umanità aveva raggiunto.
La natura del nuovo assetto sociale, che seguirà le convulsioni attuali, e il nuovo corso in cui s’incamminerà la storia umana, dipendono dall’opera degli uomini che prendono parte cosciente ed attiva alle lotte sociali.
Anarchici, noi vogliamo la fratellanza fra tutti gli esseri umani, vogliamo per tutti la libertà, la giustizia ed il massimo sviluppo possibile, morale, intellettuale e materiale. E perciò ci sforzeremo d’indirizzare il pensiero e la volontà dei nostri lettori verso gli scopi nostri. E siccome sappiamo che le idee astratte e le aspirazioni teoriche restano purtroppo dei pii desideri se non si attuano nei fatti nel nodo che le circostanze lo permettono, noi cercheremo le soluzioni pratiche e contingenti dei problemi che prevedibilmente si presenteranno nelle varie fasi delle rivoluzioni che stanno per venire […]

Roma, novembre 1923.

Per la Redazione: Errico Malatesta.


  1. Premessa, pag. 9  

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Rivoluzione e disillusione https://www.carmillaonline.com/2017/11/15/rivoluzione-e-disillusione/ Wed, 15 Nov 2017 22:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41462 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900. Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE. Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa 1917-1922, BFS EDIZIONI 2017, pp. 120, € 12,00

La rivoluzione russa del 1917 ha costituito sicuramente uno dei momenti fondativi per la politica, la società, la geopolitica e, forse più semplicemente, per l’intera storia del ‘900.
Le trasformazioni politiche, economiche e sociali avvenute nel grande paese eurasiatico tra quel fatidico anno e i due decenni successivi avrebbero suscitato speranze, paure, illusioni, odi, disillusioni e conflitti di classe, nazionali ed internazionali, le cui conseguenze avrebbero trasformato definitivamente le concezioni ottocentesche del socialismo e, allo stesso tempo, la concezione borghese della funzione dei partiti.

Franco Bertolucci, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, storico militante e ricercatore attento a tutte le manifestazioni del pensiero espresso tra Otto e Novecento dal movimento operaio e anarchico italiano ed internazionale, ha condensato in un agile e documentato volumetto, edito dalle edizioni BFS, le contraddittorie posizioni manifestate dal movimento anarchico italiano nei confronti di quella rivoluzione.

Posizioni la cui contraddittorietà non derivava dalla più generale concezione anarchica della trasformazione sociale, quanto piuttosto da quella che fondava la rivoluzione stessa.
Un moto enorme di soldati, operai, donne e contadini che nel giro di pochi giorni, nel febbraio del 1917, aveva di fatto cancellato dalla Storia un’autocrazia che da cinque secoli governava il territorio più grande al mondo: quei 24 milioni di km quadrati che costituivano l’impero zarista.

Un moto rivoluzionario, che avrebbe costituito, ad un primo giudizio storico e politico, l’evento più importante della guerra (la prima mondiale) come ebbe a dire Rosa Luxemburg nel suo scritto dedicato all’evento e scritto a caldo nel 1918 mentre si trovava in carcere.1
Il fatto più importante di un evento che a sua volta avrebbe contribuito in maniera decisiva a fondare le premesse e i percorsi politici e sociali del XX secolo.

Un moto che sembrava smentire le concezioni gradualistiche della socialdemocrazia, sia europea che russa, che fondava le proprie idee di trasformazione sociale su una concezione distorta del pensiero di Marx.2 Un processo rivoluzionario che partiva dalle masse esaurite da anni di guerra, morte, fame e miseria, in un contesto socio-economico e politico che poteva ben considerarsi come il più arretrato d’Europa, ma che si esprimeva in un contesto rappresentativo, i soviet, in cui era ancora forte la funzione dei partiti. Non sempre all’altezza del compito e non sempre, anzi quasi mai, in sintonia con le richieste provenienti dal basso.

Basti qui citare un estratto da una lettera al soviet di Pietrogrado proveniente da un gruppo di soldati al fronte alla fine di luglio del 1917 (quando il governo provvisorio era in carica già da cinque mesi):

Al congresso3
E’ l’ultima volta che vi chiamiamo compagni.
Noi credevamo che il congresso avrebbe portato, o se non altro avvicinato la pace, invece i discorsi vertono su tutt’altro: sugli arresti degli anarchici, sulla disputa con i bolscevichi a proposito dell’allontanamento degli anarchici dalla dacia di Durnovo, sull’esistenza della Duma di Stato, sugli ossequi a Rodzjanko e così via. Ricordate signori ministri e principali dirigenti: noi i partiti li capiamo poco, sappiamo solo che non è lontano nè il futuro nè il passato, lo zar vi ha confinati in Siberia e imprigionati, ma noi vi trafiggeremo con le baionette.
Perché voi menate la lingua come le vacche menano la coda.
A noi non servono le belle parole, a noi serve la pace.4

Testimonianza esplicita di una rivendicazione all’azione diretta ed efficace contro la guerra e le inutili cianfrusaglie ideologiche ed opportunistiche espresse dall’assemblea che avrebbe dovuto innanzitutto dare voce e corpo alle istanze di chi le aveva permesso di esistere e sopravvivere.
Voci e moti che fin da febbraio avevano costituito per il movimento anarchico, italiano e internazionale, un più che valido motivo di speranza nell’avvicinarsi di un più vasto sommovimento di classe internazionale.

Voci e moti che trovavano corrispondenza anche in Italia e sul fronte italiano. Bertolucci non dimentica infatti di ricordare che le speranze degli anarchici italiani si fondavano non soltanto sulla resistenza alla guerra manifestatasi nelle campagne e città italiane già nel 1914, ma anche nei moti insurrezionali di Torino nel corso del mese di agosto del 1917 e, soprattutto, nell’elevato numero di diserzioni e procedimenti contro i renitenti alla leva (circa 470.000). In una situazione in cui in una regione come la Sicilia il numero dei renitenti corrispose al 50% dei chiamati o richiamati al fronte.

«Fare come in Russia» diventa in breve il leitmotiv dei giornali sovversivi e libertari. Gli anarchici e i propri organi tra i quali «L’Avvenire anarchico» e «Guerra di classe», periodico dell’Unione Sindacale Italiana, seguono con trepidazione e crescente simpatia l’evolversi della situazione.
Ragioni politiche e storiche – considerando l’influenza esercitata dal movimento rivoluzionario russo in Italia – determinano questa spontanea ed entusiasta attenzione verso la Rivoluzione russa da parte degli anarchici italiani, che con una visione messianica attendono la rivoluzione sociale come risposta alla guerra imperialista. Le prime notizie dalla Russia confermano le loro attese e le loro previsioni. Gli anarchici, nel marzo-aprile 1917, sperano che l’affermazione di quella rivoluzione sia il prodromo dell’espandersi del moto agli altri paesi coinvolti nel conflitto mondiale.5

Tali speranze e previsioni erano poi ulteriormente alimentate dalla stampa borghese che, come nel caso del quotidiano «La Stampa» di Torino in un articolo del 21 aprile di quello stesso anno, definiva Lenin come un «anarchico russo». Ignorando completamente le differenze che correvano tra le concezioni politiche del leader bolscevico e quelle libertarie. E che di lì a poco si sarebbero pesantemente manifestate in entrambe le direzioni di marcia.

Paradossalmente l’ultima manifestazione pubblica degli anarchici in Russia corrispose ai funerali, nei primi giorni di febbraio del 1921, del vecchio nobile e anarchico Kropotkin che, sebbene criticato dal movimento libertario, sia in Russia che in Italia, per aver scritto e firmato, il 21 febbraio 1916 ma pubblicato sul quotidiano «La Bataille» soltanto il 14 aprile di quello stesso anno, il Manifesto dei sedici in cui si inneggiava alla guerra a fianco dell’Intesa contro l’imperialismo tedesco, proprio nel momento in cui centinaia di migliaia di soldati russi avevano cominciato a disertare,6 costituiva pur sempre un simbolo di continuità tra le vecchie e nuove generazioni del movimento libertario.

Di lì a poco, nel marzo del 1921, la distruzione e la dispersione, ad opera dell’Armata rossa diretta da Trockij e dal generale Michail Nikolaevič Tuchačevskij, della comune dei marinai, dei soldati e degli operai di Kronštadt, che aveva costituito una delle anime più generose e determinate della rivoluzione del ’17, avrebbe determinato la definitiva cesura tra movimento libertario e bolscevismo. Come ebbe ad osservare l’anarchica americana Emma Goldman all’epoca ancora presente sul territorio russo.

Cesura, tra movimento rivoluzionario autentico e politiche bolsceviche, che gli anarchici avevano già iniziato a denunciare precedentemente e che la convocazione del I Congresso della Terza Internazionale nel marzo del 1919, dopo un primo momento di partecipazione ideale e di positivo accoglimento dell’iniziativa, aveva portato, per esempio, ad affermare sulle pagine del giornale «Il Risveglio» di Ginevra:

Lenin ci ha fatto intendere chiaramente che non vuole di noi nella Terza Internazionale, a meno che fossimo disposti ad ammettere la conquista dei poteri pubblici e la dittatura cosiddetta del proletariato, ossia cessare d’essere anarchici.7

Dittatura del proletariato in cui gli anarchici non intravedevano altro che una sorta di dittatura di una minoranza di operai specializzati dell’industria, insieme agli intellettuali rivoluzionari e socialisti e ai nuovi proprietari terrieri, come scrivevano sulle pagine di «Umanità nova» nel novembre del 1920.

Delle tragiche conseguenze di quella rottura legata alla progressiva presa del potere da parte del partito bolscevico scrive ancora Bertolucci nel suo testo, così come altri hanno già fatto.
Ciò che occorre, però, qui individuare non sono soltanto le illusioni e le disillusioni che accompagnarono i movimenti reali e quelli sovversivi di quegli anni, ma anche il fatto che le difficili informazioni provenienti dalla Russia e le distorte interpretazioni ideologiche di quegli avvenimenti nascosero, allora come troppo spesso ancora oggi, il fatto che nel 1917 giunsero ad un fatale incrocio quattro treni lanciati in corsa: 1) quello del movimento reale dei soldati, degli operai, delle donne e dei contadini; 2) quello delle aspirazioni anarchiche e populiste attive in Russia fin dalla seconda metà dell’Ottocento; 3) quello dei partiti socialdemocratici, liberali e borghesi che intendevano approfittare di un rinnovamento in chiave capitalistica dell’assetto economico e sociale della Russia zarista e 4) quello della minoranza socialista bolscevica, sospesa tra marxismo ortodosso e rivoluzione. Il tutto in un contesto in cui l’imperialismo internazionale da subito fece di tutto per impedire e distruggere l’esperimento «sovietico» fin dai suoi primi e incerti passi.

Da quel cozzo di forze gigantesche emersero vincitori, ma soltanto per un breve periodo, i bolscevichi. Illusi essi stessi di poter guidare quel magma dopo averlo correttamente interpretato nei giorni di Ottobre. Illusi di essere in grado di rappresentare sempre e comunque le reali esigenze del proletariato, fino ad arrivare a distruggerne le avanguardie insieme agli avversari politici, anarchici e socialisti rivoluzionari. Prima di essere essi stessi divorati dallo stesso infernale e cieco meccanismo partitico e dittatoriale. Come dalle belle e pacate pagine scritte da Bertolucci è possibile correttamente intravedere.


  1. Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), BFS Edizioni 2017  

  2. Si confrontino Ettore Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e la sua recensione su Carmilla: https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

  3. dei Soviet  

  4. cit. in Alessandra Santin, Lettere di soldati russi al Soviet di Pietrogrado (marzo-novembre 1917) raccolte in Paolo Giovannini (a cura di ), Di fronte alla grande guerra. Militari e civili tra coercizione e rivolta, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione delle Marche, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1997, pp.168-169  

  5. Franco Bertolucci, A ORIENTE SORGE IL SOL DELL’AVVENIRE, pag. 38  

  6. Si calcola che nel solo 1916 siano state un milione e mezzo le diserzioni nell’esercito zarista  

  7. Bertolucci, pag. 77  

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Dopo cinque generazioni https://www.carmillaonline.com/2017/11/08/dopo-cinque-generazioni/ Wed, 08 Nov 2017 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41429 di Sandro Moiso

Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli 1917-1921, eléuthera 2017, pp. 200, € 15,00

Ti bacerà sul petto la mia palla, io sulla bocca. (Anna Barkòva)

A un secolo di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre diventa sempre più evidente l’importanza del ruolo giocato dalle donne all’interno degli eventi drammatici che la accompagnarono e coronarono. Prima dando vita a quelle manifestazioni che a partire dal 23 febbraio (8 marzo) 1917 avrebbero scatenato la tempesta che nel giro di pochi giorni avrebbe rovesciato un regime autocratico che durava da cinque secoli. Poi attraverso la lotta che le stesse avrebbero condotto per far [...]]]> di Sandro Moiso

Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli 1917-1921, eléuthera 2017, pp. 200, € 15,00

Ti bacerà sul petto la mia palla,
io sulla bocca
.
(Anna Barkòva)

A un secolo di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre diventa sempre più evidente l’importanza del ruolo giocato dalle donne all’interno degli eventi drammatici che la accompagnarono e coronarono.
Prima dando vita a quelle manifestazioni che a partire dal 23 febbraio (8 marzo) 1917 avrebbero scatenato la tempesta che nel giro di pochi giorni avrebbe rovesciato un regime autocratico che durava da cinque secoli.
Poi attraverso la lotta che le stesse avrebbero condotto per far sì che quella prima rivoluzione proletaria e socialista non dimenticasse le differenze e le specificità legate alla loro condizione che ancora costituivano un ostacolo alla piena e reale liberazione del genere umano dalle catene dell’oppressione di classe e di genere.
Infine con la lotta serrata che molte di esse, dentro e soprattutto fuori dal partito bolscevico rapidamente salito al potere, condussero per opporsi alla degenerazione non solo progettuale di una rivoluzione che, nata in nome del trionfo dell’eguaglianza sociale ed economica, avrebbe portato ad uno dei regimi massimamente responsabili per il trionfo della controrivoluzione su scala planetaria.

Il volume intenso e serrato di Lorenzo Pezzica, che si era già occupato in parte dell’argomento nel precedente Anarchiche. Donne ribelli del Novecento,1 si occupa fondamentalmente dell’ultimo dei tre punti sopra elencati e lo fa con passione e indiscutibile efficacia. Anche se talvolta le fonti storiografiche utilizzate per la ricostruzione generale del periodo affrontato (1917-1921) appaiono un po’ limitate e segnate dalle interpretazioni liberali tipiche della meritoria, ma pur sempre “orientata”, storiografia anglo-sassone.2

Tenendo come filo conduttore per una parte del testo l’autobiografia dell’anarchica americana di origine russa Emma Goldman,3 che tra il gennaio del 1920 e la primavera del 1921 ebbe modo di compiere un lungo viaggio attraverso il paese dei soviet per osservare più da vicino quella rivoluzione che aveva acceso in lei, come in tanti altri anarchici, grandi speranza in un prossimo avvicinarsi della rivoluzione mondiale, l’autore traccia le sintetiche e più che drammatiche vicende che accompagnarono le vite di Fanya Baron, Marija Nikiforova (meglio conosciuta come Marusja), Fanya Kaplan (detta anche Dora), Marija Spiridonova, Irina Kakhovskaja, Ida Mett, Mollie Steimer (pseudonimo di Marthe Alperine), Senya Fleshin, Marija Veger, Marija Korshunova (nota tra i lavoratori di Pietrogrado con il soprannome di «Perovskaja») e della poetessa Anna Barkòva.

Quasi tutte queste donne furono militanti anarchiche o socialiste rivoluzionarie. Tutte pagarono pesantemente con anni di carcere, deportazione, torture, violenze e quasi sempre con la morte la colpa di essere ribelli e rivoluzionarie. Molte avevano impugnato le armi e sparato contro i funzionari dello zar, i generali delle armate bianche o contro i rappresentanti di un bolscevismo ormai tramutatosi in strumento di oppressione. In un caso anche contro lo stesso Lenin, ferendolo gravemente. Molte di loro erano di origine ebraica e diverse, dopo essere emigrate in giovane età in America da sole o con la famiglia per sfuggire ai pogrom e alle persecuzioni che si abbattevano spesso sulle fasce più povere della popolazione di lingua yiddish, tornarono sul suolo russo proprio a seguito dello scoppio della rivoluzione.

Come afferma l’autore:

“Un aspetto fondamentale che lega la maggior parte di queste donne […] è il fatto che racchiudono in sé una seconda «alterità»: oltre all’essere donne, anche l’essere ebree. In effetti, sono state numerose le donne ebree impegnate nei movimenti rivoluzionari, in particolare anarchici, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Molte di loro provengono dall’Europa orientale, dove gli ebrei hanno sofferto una particolare condizione di oppressione politica, economica, sociale legata in primo luogo all’antisemitismo. Sono giovani donne nate nell’impero russo, in special modo nei paesi baltici, che spesso abbandonano la terra d’origine in cerca di una vita migliore negli Stati Uniti o nell’Europa occidentale. […] Sono donne che non hanno mai smesso di praticare la dissidenza e che hanno avuto la capacità e la libertà di pensiero di guardare «le cose come sono». […] La loro testimonianza è di una grande onestà intellettuale. Si schierano risolutamente dalla parte della rivoluzione e condividono un modo di percepirla che è largamente diffuso e che sarà poi l’ostacolo maggiore da superare quando esprimeranno ad alta voce il loro dissenso nei confronti del regime bolscevico a causa della piega che questo imprimerà al processo rivoluzionario dopo l’ottobre 1917.
La loro azione, il loro pensiero e le loro riflessioni abitano il quotidiano di quel periodo e si concretizzano in pratiche effettive. E questo perché il loro pensiero è il risultato di un corpo e una mente, di un temperamento contraddittorio, passionale e complesso, intriso di una storia singolare e allo stesso tempo plurale.
Il «tradimento» della rivoluzione – così è vista la conquista del potere da parte dei bolscevichi – non le porta ad abbandonare il desiderio di un cambiamento sociale radicale, semmai ad esasperarlo e renderlo più urgente. La disillusione, accompagnata dalla denuncia di una politica risolta in pura e semplice paura e in delirio di potere, non ne fa delle «controrivoluzionarie», sebbene questo sarà lo scopo della propaganda bolscevica.” 4

Accanto a loro compaiono anche altre donne, anch’esse rivoluzionarie, anch’esse prese negli ingranaggi spietati della rivoluzione in cui, nonostante tutto, cercano di difendere i diritti di genere e affermare una nuova morale sessuale e sociale. Sono bolsceviche come Aleksandra Kollontaj, Angelica Balabanoff, Inessa Armand o la stessa Nadeshda Krupskaja, compagna di Lenin. Anche nei confronti di queste ultime le figure dei leader rivoluzionari bolscevichi, anche i più importanti come Lenin e Trockij, impallidiscono dal punto di vista umano e politico, trascinati come sono in un fiume di cui non possono, non sanno e, forse, non vogliono dirigere la corrente se non canalizzandola in un flusso costante di repressione e negazione di ogni forma di autonomia di classe e di genere.

Scomparse nel Gulag, colpite nei loro affetti, uccise e seviziate nei corridoi più oscuri della Čeka, come Marija Spiridonova torturata e violentata prima dagli agenti della polizia zarista5 e in seguito condannata a lunghe detenzioni in manicomio e infine a morte dai tribunali di Stalin, o ancor prima da quelli messi in atto dai bolscevichi già prima della tragica repressione di Kronstadt, oppure salvatesi soltanto dopo essere state messe nell’impossibilità di esprimere le loro idee, queste rivoluzionarie ferme e coraggiose ci raggiungono ancora oggi con la loro voce e la loro esperienza a cinque generazioni di distanza.

Proprio come la poetessa Anna Barkòva, che passò quasi tutta la sua vita nel Gulag, aveva osato anticipare in una sua poesia:
Chissà, forse tra cinque generazioni
Dopo il terribile straripare del tempo,
il mondo ricorderà l’epoca dei turbamenti
e il mio nome fra gli altri
.

Davanti a tanto coraggio e a tanta lucida passione non ci resta altro da fare che chinare il capo in segno di rispetto e ringraziare l’autore che ha voluto così ricordarcele in occasione di questo contraddittorio centenario di una rivoluzione destinata a diventare, sostanzialmente, la prima delle grandi rivoluzioni nazionali asiatiche, ma non la realizzazione effettiva di una comunità umana più giusta ed eguale.


  1. Shake Edizioni 2013  

  2. Valga da esempio il testo di Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Mondadori 2016  

  3. Emma Goldman, Vivendo la mia vita: autobiografia. 1889-1899, La Salamandra 1980 e Vivendo la mia vita 1917-1929, Zero in condotta 1993 (che forse qualche editore, magari la stessa eléuthera che già nel 2016 ha dedicato alla rivoluzionaria e femminista americana il testo di Max Leroy, Emma la Rossa. La vita, le battaglie, la gioia di vivere e le disillusioni di Emma Goldman, «la donna più pericolosa d’America», dovrebbe prendere la decisione di ripubblicare)  

  4. pp. 10-11  

  5. Marija Spiridonova era stata arrestata e condannata nel 1906 a 11 anni di lavori forzati in Siberia per l’attentato portato a termine contro l’ispettore generale di polizia Gavriil Luznovskij che aveva diretto la repressione dei contadini della regione di Tambov dopo la rivoluzione del 1905. Per un tragico paradosso della Storia quella stessa regione nel 1920 vide ancora i contadini protagonisti di una vasta rivolta contro la leva obbligatoria che, nel 1921, fu duramente repressa dall’armata rossa. La ribellione era stata organizzata militarmente da Aleksandr Stepanovič Antonov (ucciso in combattimento nel 1922 da agenti della Čeka) che, mentre era a capo della Milizia governativa del Soviet di Tambov, era riuscito anche a disarmare le legioni cecoslovacche, autentica spina nel fianco dell’armata rossa durante i primi anni della guerra civile.  

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