Emilio Quadrelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 05:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura /1: Asia ribelle 1900-1930 https://www.carmillaonline.com/2024/11/13/la-rivoluzione-come-avventura-1-asia-ribelle-1900-1930/ Wed, 13 Nov 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85272 di Sandro Moiso

Tim Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 776, 45 euro

Non vi può essere dubbio alcuno che ogni grande rivoluzione abbia rappresentato sicuramente, per i suoi protagonisti più o meno famosi come per le generazioni e le classi sociali coinvolte, sia un evento drammatico che avventuroso. Con una forte prevalenza del secondo elemento rispetto al primo, soprattutto quando ad agire nel suo nome sono stati giovani militanti tutt’altro che restii ad adattarsi alle logiche normalizzatrici del tempo in cui erano nati e degli stessi partiti che avrebbero dovuto rappresentare [...]]]> di Sandro Moiso

Tim Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 776, 45 euro

Non vi può essere dubbio alcuno che ogni grande rivoluzione abbia rappresentato sicuramente, per i suoi protagonisti più o meno famosi come per le generazioni e le classi sociali coinvolte, sia un evento drammatico che avventuroso. Con una forte prevalenza del secondo elemento rispetto al primo, soprattutto quando ad agire nel suo nome sono stati giovani militanti tutt’altro che restii ad adattarsi alle logiche normalizzatrici del tempo in cui erano nati e degli stessi partiti che avrebbero dovuto rappresentare il cambiamento sociale.

Così la serie di articoli che ha inizio con la presente recensione del bellissimo testo di Tim Harper, per i motivi suddetti ed altri ancora, vuole costituire per chi scrive, oltre che la ricostruzione di momenti storici particolarmente significativi e convulsi dal punto di vista socio-politico e militare, ancora una volta un omaggio sia al genio letterario di Emilio Salgari che a quello politico dell’amico e compagno di riflessione teorica Emilio Quadrelli, recentemente scomparso.

Il primo per la gran mole di libri avventurosi prodotti, in cui il tratto anticoloniale e antimperialista si accompagnava, sia che si trattasse dei romanzi del ciclo del Borneo e della Malesia che di quelli ambientati nelle Filippine durante la guerra ispano-americana del 1898 oppure di quelli dei fuggiaschi dalle prigioni siberiane dello zarismo o, ancora, ambientati sulle grandi pianure del West durante le guerre indiane, una ricca mole di osservazioni decisamente antirazziste che, nell’insieme, contribuirono a formare generazioni di futuri scrittori e rivoluzionari. Come lo stesso Che Guevara che, prima di diventare egli stesso un personaggio da avventure leggendarie a Cuba, in Africa e, infine, in Bolivia, aveva letto tutti i romanzi dell’autore italiano1, intendendoli sempre come parte fondamentale della sua formazione rivoluzionaria.

Il secondo per la concezione dell’audacia necessaria per i rivoluzionari nel momento in cui si pongano il problema dell’azione destinata a combattere e rovesciare l’esistente. Un’audacia nell’osare che deve costituire, nella riflessione di Quadrelli, la diretta conseguenza dell’espressione piena e cosciente della soggettività della classe, al di là ed oltre i limiti imposti da qualsiasi tipo di ortodossia comunista, socialista o d’altro genere ancora2.

E nel libro di Tim Harper di avventura, determinazione e audacia ce n’è davvero moltissima, come ben si adatta ad un progetto che, sorto sotto il tallone dell’imperialismo e colonialismo occidentale nel momento della sua massima espansione e forza militare, dovette sembrare ai più, soprattutto tra coloro che rappresentavano le potenze coloniali europee a cavavllo tra XIX e XX secolo, davvero incredibile e folle.

Tim Harper è, dal 2020, a capo della School of the Humanities and Social Sciences e Direttore del Centro per la Storia e l’Economia dell’Unversità di Cambridge, oltre che essere membro, da quest’anno, della Accademia Britannica. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla Storia del Moderno Sud-est asiatico e le connessioni globali di quella regione. Il suo primo libro, The End of Empire and the Making of Malaya (1999), costituiva uno studio sulla guerra, la ribellione comunista e il raggiungimento dell’indipendenza sia della Malesia che di Singapore.

Da allora ha pubblicato, insieme a Christopher Bayly, un resoconto storico in due volumi della Seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze nell’Asia meridionale e del Sud-est: Forgotten Armies (2004) e Forgotten Wars (2007). Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale (uscito originariamente come Underground Asia: Global Revolutionaries and the Assault on Empire nel 2020) costituisce il suo lavoro più recente. Oltre a ciò ha collaborato a svariate riviste, come «Modern Asian Studies», con una grande mole di articoli e contributi compresi in raccolte di saggi.

La ricerca appena pubblicata in Italia da add editore è stata accolta e segnalata come libro dell’anno sia dall’«Economist» che dal «Financial Times». E, sostanzialmente, prende avvio da una annotazione contenuta in un un pamphlet anonimo del 1913, di autore indiano, a metà fra il manuale bellico e l’esortazione alla rivolta: «Come può liberarsi dal terrore chi dal terrore è oppresso? Come possono gli schiavi ottenere la libertà? Ecco la risposta: con la “Bomba”».

A inizio Novecento l’Asia coloniale – l’immensa rete di località marittime, passi montani, piantagioni e vie d’acqua compresa tra l’oceano Indiano e le coste orientali cinesi – costituiva una polveriera pronta a mandare in frantumi gli imperi europei. Da Bombay a Shanghai, da Singapore a Manila, le banchine dei porti e i transatlantici che facevano la spola dall’Europa diventarono la via d’accesso di idee anarchiche e marxiste, oltre che il teatro di un continuo scambio di personalità, traduzioni, ricette politiche tanto varie quanto originali. I pellegrini di questo sottosuolo antimperiale – come il futuro Ho Chi Minh, Sun Yatsen, la nemesi di Gandhi M.N.Roy e Mao Zedong – hanno tutti un ruolo nelle vicende narrate, ma non sono necessariamente i protagonisti, anche se quasi tutti avrebbero finito col convergere verso una nuova Mecca, la Mosca dei primi anni Venti, per poi diffondere in Asia il verbo di un mondo che non sarebbe più stato lo stesso.

Confermando in tal modo come la Rivoluzione russa e la successiva fondazione dell’Internazionale Comunista all’interno del paese dei Soviet più che servire alla causa della liberazione del proletariato dell’Europa Occidentale, soprattutto dopo la fallita e disastrosa avanzata sulla Polonia del 1920 fermata alle porte di Varsavia, sia servita alla liberazione dell’Asia dal giogo imperiale e coloniale europeo.
Come afferma l’autore nella Premessa:

Ho scritto dalla prospettiva di attori diversi, molti dei quali oggi trascurati dalle storie nazionali, partendo da ciò che sapevano, vedevano o pensavano sarebbe stato possibile. Ricostruendo le loro vicende, ho cercato di non indulgere troppo nel giudizio postumo dello storico. Con il senno di poi, molti potrebbero sembrare degli sconfitti; invece, con i loro trionfi, i fallimenti e le avversità che hanno attraversato, hanno segnato a fondo il futuro dell’Asia.
Questo libro fornisce consapevolmente una visione eccentrica, nel senso più letterale del termine, della storia asiatica, traccia la geografia ribelle della rete clandestina dei rivoluzionari asiatici, descrivendone le traiettorie e illustrando come certi contesti abbiano contribuito alla nascita di nuove idee e strategie di lotta. Racconto di vite vissute negli interstizi degli imperi, di battaglie in cui lo Stato nazionale non era il fine ultimo e nemmeno l’ordine naturale del mondo futuro. Sebbene gran parte dei protagonisti del libro si trovassero su posizioni assai distanti, spesso in violento contrasto, in tutti era vivo l’impegno per una «nazione umana mondiale», secondo la definizione del giornalista, scrittore e militante indonesiano Mas Marco Kartodikromo. Questi intellettuali sottolineavano con particolare enfasi di vivere in un’epoca di transizione, in un tempo e in uno spazio tra l’impero e la nazione. O forse, per essere più precisi, accanto all’impero e alla nazione. Mas Marco Kartodikromo e i suoi contemporanei celebravano un «mondo in movimento» e un «mondo sottosopra». Parole che rimandavano a un’idea di Asia – e del mondo nel suo complesso – più aperta di quanto non fosse mai stata e forse non sarebbe stata mai più 3.

In un contesto in cui rivoluzione anticoloniale e rivoluzione proletaria si svilupparono inizialmente in un breve tempo, anteriore allo sviluppo di qualsiasi successivo dogmatismo, in cui si concretizzò in “un’onda inarrestabile di consapevolezza collettiva” volta a liberarsi dalla violenza, dai soprusi e dallo sfruttamento coloniale più implacabile. Un contesto, però, che ci rivela anche come tali istanze rivoluzionarie fossero ben distanti dalle successive affermazioni nazionalistiche espresse a rivoluzioni avvenute e, altrettanto, dalla attuale conflittualità antioccidentale espressa dai BRICS, sia ristretti che allargati.

Terroristi, ammutinati, femministe con i capelli a caschetto, doppiogiochisti, tipografi clandestini, facinorosi che s’imbarcarono come marinai: tra fonti d’archivio, stampa dell’epoca e documenti privati, Tim Harper ripercorre, in un affresco affascinante e magistrale, le traiettorie avventurose degli uomini e delle donne che, attraverso l’intero continente ma anche attraverso i mari e gli oceani, posero le basi del mondo di oggi. Le cui radici affondano forse più in quelle aree e in quelle rivolte che non in Occidente e nelle sue sempre parziali rivoluzioni.

E’ un racconto epico quello che attende il lettore in queste pagine, attraversato da decine di vicende individuali e collettive che sarebbe qui troppo lungo riassumere, ma di cui vale la pena di raccontare almeno alcuni episodi. Come quella di Pham Hon Thai, il giovane rivoluzionario vietnamita che nel giugno del 1924 aveva attentato alla vita di Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese recatosi in visita all’isola di Shamian, una delle più antiche enclave coloniali in terra cinese, posizionata di fronte a Canton, la più grande città autonoma del continente.

Città già attraversata da contraddizioni estreme di carattere nazionale, sindacale, militare, politico e sociale, che nel 1923 divenne sede del neonato governo nazionalista di Sun Yat-sen, che controllava tutte le sei province meridionali, mentre il resto della Cina era ancora suddiviso fra cricche militari capeggiate dai cosiddetti «signori della guerra», in continua lotta tra loro per succedere agli ultimi eredi della dinastia Qing.

Nei primi mesi del 1924 venne presa la fondamentale decisione di creare una base militare indipendente del governo nazionalista e di fondare l’accademia militare di Whampoa, a una ventina di chilometri da Canton. Una delle sue principali funzioni sarebbe stata la formazione politica, tanto che i giovani radicali cinesi, coreani e del Sudest asiatico sgomitavano per essere ammessi. Canton, ora il centro ideale della nuova nazione, era un luogo di intense sperimentazioni sociali in nome dell’unità e del progresso, ed esportava nuove idee e pratiche: un faro per l’Asia libera4.

Mentre l’isola di Shamian, era posta al di là di un canale largo appena trenta metri e unita alla terra ferma da due ponti sigillati all’ingresso da filo spinato e sorvegliati rispettivamente da soldati sikh e vietnamiti.

In quell’avamposto dell’Occidente, costruito su un banco di sabbia artificiale di circa ventidue ettari nel cuore della città cinese, risiedevano cinquecento cittadini britannici, un centinaio di francesi e una manciata di tedeschi, americani e giapponesi. In seguito all’intervento anglo-francese in Cina del 1860, il porto di Canton, soggetto ai trattati di pace, era stato suddiviso in due concessioni extraterritoriali: una, che occupava i quattro quinti dell’isola, era amministrata dagli inglesi; l’altra, dai francesi. […] I piroscafi e le cannoniere europee ormeggiati al Bund – la banchina nella zona meridionale di Shamian – navigavano lungo il fiume delle Perle, una delle vie d’acqua interne più trafficate del mondo, affollata di sampan cinesi, giunche, enormi battelli a ruota a propulsione umana, case sull’acqua e flower boats, i leggendari bordelli galleggianti. A nord e a est, i due ponti collegavano Shamian alla vecchia periferia occidentale di Canton, con il suo labirinto di mercati e botteghe, abitata da oltre un milione di cinesi. Per questi ultimi l’isola era un luogo «quasi proibito»: per accedervi era necessario il permesso del consiglio cittadino di Shamian, che ne limitava comunque l’ingresso a zone ben precise, mai dopo mezzanotte, e beninteso con il divieto di calpestare i prati. [Motivo per cui] All’epoca Shamian era al centro di forti tensioni patriottiche ed era sostanzialmente sotto assedio. Come scrisse un giornalista locale: «Chiunque, a parte i collaborazionisti cinesi, mettendo piede su quest’isola segnata dal marchio dell’infamia sentirebbe il cuore accendersi di rabbia e disprezzo»5.

Ma fu proprio in quel contesto, ultra-sorvegliato e protetto, che il giovane Pham Hon Thai osò applicare il metodo indicato dall’anonimo libello indiano del 1913 citato in apertura di questa recensione.

Il 19 giugno 1924 sua eccellenza Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese, fece il suo ingresso in quella polveriera. Arrivò in serata da Hong Kong, dove aveva fatto tappa rientrando da una visita in Giappone e nel Nord della Cina, in tempo per partecipare a una cena nella concessione britannica di Shamian. Merlin apparteneva alla prima generazione di funzionari civili coloniali e aveva raggiunto l’attuale posizione dopo un turbolento periodo di servizio nei nuovi possedimenti francesi in Africa. Se all’inizio della carriera aveva sostenuto la politica di «associazione» con le élite native, i cosiddetti évolués, nel corso dell’ultimo incarico in Senegal aveva adottato la posizione opposta: gli évolués, ammoniva, erano déracinés («sradicati») ed era compito della Francia ripristinare la coesione sociale di fronte agli «appelli individualistici e alle promesse fallaci degli agitatori di professione». […] La cena, per una cinquantina di invitati, si tenne nel salone principale, con le grandi finestre aperte sulla strada. In occasione della visita, il governo di Canton aveva disposto un rigido sistema di sicurezza su entrambe le rive del canale. I due ponti di pietra che collegavano l’isola alla città erano chiusi e presidiati. Agenti di polizia, seppure non armati, pattugliavano le strade. Gli ospiti si sedettero a tavola alle 20:30; dieci minuti dopo, mentre veniva servita la minestra, un uomo «molto ben vestito» si affacciò a uno dei finestroni. Secondo un testimone oculare, si mise a osservare la tavolata «come farebbe chiunque, gentiluomo o coolie». Poi, tutto a un tratto, lanciò all’interno una ventiquattrore che finì dritta sul tavolo, mandando in frantumi piatti e bicchieri. Dopo qualche secondo la valigetta esplose. Il boato rimbombò per tutta l’isola6.

L’esplosione fece diversi morti e numerosi feriti tra i commensali, anche se non raggiunse l’obiettivo principale, ma con il suo fragore esplose nella via illuminando l’aria, proprio come la «bomba proletaria» cantata da Francesco Guccini quasi cinquant’anni dopo7. Innescando una serie di eventi che, nonostante la morte del giovane attentatore, inseguito e ferito dagli agenti e successivamente morto suicida, avrebbero scosso il continente dalla Cina all’Indocina francese.

Ma era stato già prima, al momento del coinvolgimento delle truppe coloniali nel primo conflitto mondiale, che l’antagonismo tra colonizzati e colonizzatori si era acuito. Come in quel lunedì 15 febbraio 1915, festa del Capodanno cinese, quando il 5º Fanteria Leggera indiano si ammutinò alla caserma Alexandra di Singapore. Il reggimento, composto interamente da truppe musulmane, era il pilastro della guarnigione dell’isola. Intorno alle 15:00 erano stati sparati dei colpi, quando i soldati avevano tagliato le linee telefoniche militari. Gli ufficiali britannici del reggimento erano fuori servizio, riposavano a casa o sulla spiaggia, e la notizia della rivolta tardò a diffondersi. Nessuno, a quanto pare, pensò di dirlo alla polizia. Così un gruppo di ribelli si diresse verso la Chinatown di Singapore, uccidendo i britannici incontrati lungo la strada. Altri si diressero verso una batteria vicina, presidiata da Sikh reclutati localmente dalle Guide degli Stati Malesi: uccisero l’ufficiale britannico e lanciarono le armi contro le Guide, ma la maggior parte di loro fuggì nella giungla vicina. La più numerosa e risoluta banda di ribelli si diresse a ovest verso il campo di Tanglin, dove erano detenuti 307 internati e prigionieri di guerra tedeschi, e offrì loro armi e libertà. Ma le gerarchie coloniali tennero: nelle parole riportate da un tenente di marina, “un ufficiale tedesco non combatte senza la sua uniforme o nelle file degli ammutinati”. Alcuni militari e alcuni uomini d’affari, tuttavia, colsero l’occasione per fuggire. Nei confusi combattimenti in tutta l’isola, 47 soldati e civili furono uccisi: cinque cinesi e malesi morirono, ma la maggior parte erano britannici, presi di mira sui campi da golf, in auto e in carrozze. Le loro donne e i loro bambini si ritirarono – “come le immagini cinematografiche dei profughi belgi” – sui piroscafi nel porto, provocando una brutta rissa razziale quando le donne eurasiatiche e altre donne asiatiche tentarono di unirsi a loro. Gli inglesi persero il controllo della loro fortezza sull’isola per due giorni e la fragilità di fondo della società coloniale fu messa a nudo8.

Ma non solo, poiché ancora una volta la rivolta contro la guerra e l’occupazione coloniale era partita proprio da coloro che avrebbero dovuto ubbidire agli ufficiali. Anticipazione non soltanto delle successive rivoluzioni asiatiche, ma anche delle insurrezioni nelle trincee europee del 1916 e 1917 che portarono in Russia alla Rivoluzione di Febbraio prima e a quell di Ottobre poi. E successivamente alla capitolazione tedesca dopo l’insurrezione dei soldati, dei marinai e degli operai nel 1918. Chiudendo idealmente un cerchio che ancora oggi ha qualcosa di importante da ricordarci e suggerirci. Come lo splendido testo di Harper riesce ancora a fare con qualsiasi lettore appassionato di rivoluzione e di avventura.


  1. Si vedano in proposito: P. I. Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024 e S. Moiso, Il Magister e il Capitano. Sogno e immaginario guerrigliero in S. Moiso, A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 119-138.  

  2. Per cogliere tutta la riflessione sul tema da parte di Emilio Quadrelli, si vedano: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa, in corso di pubblicazione su «Carmillaonline» e, ancora, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024 e, infine, sempre dello stesso, Cronache marsigliesi capitoli 7 e 8: la guerra civile in Francia, «Carmilaonline», 6 e 13 luglio 2023.  

  3. T. Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 21-22.  

  4. T. Harper. op. cit., p. 29.  

  5. Ibidem, pp. 27-28.  

  6. Ivi, pp. 30-31.  

  7. F. Guccini, La locomotiva, nell’album Radici del 1972.  

  8. Si veda in proposito proprio il capitolo 7, Navi fantasma (1915) in T. Harper, op. cit.  

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György Lukács, un’eresia ortodossa / 1 — L’attualità dell’inattuale https://www.carmillaonline.com/2024/11/06/gyorgy-lukacs-uneresia-ortodossa-1-lattualita-dellinattuale/ Wed, 06 Nov 2024 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85172 di Emilio Quadrelli

[Inizia oggi la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]

“È più piacevole e più utile partecipare alle esperienze della rivoluzione che scrivere su di essa.” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione)

La decisione del Governo ungherese di chiudere l’Archivio Lukács è un indicatore dei tempi. Un indicatore che rimanda a quell’ora più buia già tristemente conosciuta [...]]]> di Emilio Quadrelli

[Inizia oggi la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]

“È più piacevole e più utile partecipare alle esperienze della rivoluzione che scrivere su di essa.” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione)

La decisione del Governo ungherese di chiudere l’Archivio Lukács è un indicatore dei tempi.
Un indicatore che rimanda a quell’ora più buia già tristemente conosciuta dall’Europa. Riproporre Lukács allora è anche un atto, per quanto limitato, di resistenza. Limitato ma non inutile. La resistenza non nasce dal nulla ma da idee–forza in grado di armarla. Lukács è un’arma utile e attuale. Si tratta di imparare a maneggiarla.

Nel febbraio del 1924, a poche settimane dalla morte di Lenin, György Lukács dà alle stampe il pamphlet Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario. Un centinaio di pagine scritte di getto che, come proveremo ad argomentare, si mostrano uno dei testi più ricchi e densi della teoria politica marxiana dell’intero novecento. La sua complessità e ricchezza è tale da rivestire ancora nel presente molto di più di una semplice curiosità e ancor meno l’ennesimo omaggio malinconico al mondo di ieri. Se c’è una cosa che nel testo di Lukács sorprende e assieme stupisce è la sua attualità. Comunque prima di immergerci nell’esposizione del saggio lukácsiano è necessario dire qualcosa sull’autore: György Lukács è tutto tranne che una figura semplice, la sua condizione di militante costretto alla autocritica in permanenza racconta già qualcosa di non proprio irrilevante. In continuazione, e a questo destino non sfugge neppure il Lenin, Lukács deve far ricorso, per poter essere letto e pubblicato, a una qualche forma di ammenda. Paradossalmente ogni ortodossia instauratasi nel santuario comunista si è sentita in dovere di criticare Lukács almeno un poco, lasciandogli però sempre aperto lo spiraglio dell’autocritica. Figura intellettuale di prim’ordine cresciuto in quella fucina culturale, forse irripetibile, che è stata la crisi intellettuale del primo novecento europeo, ha una formazione ben poco in linea con ciò che diventerà l’ortodossia comunista1.

Weber e Simmel possono, a ragione, essere annoverati tra i suoi padri intellettuali tanto che non saranno pochi gli echi di questi autori che rimarranno presenti nelle sue opere2. A Marx giunge attraverso Hegel nei confronti del quale, anche nei momenti in cui lo stesso movimento comunista tratta il medesimo come un cane morto, continua a rivendicarne il tratto profondamente sovversivo racchiuso nelle sue opere, sottolineando in continuazione il debito contratto dalla teoria marxiana con la dialettica hegeliana3; del resto lo stesso Lenin rivolse qualcosa di più che un semplice apprezzamento alla hegeliana Scienza della logica, apprezzamento che gli epigoni fecero presto a riporre nell’oblio4.

L’oggettivismo e il determinismo, che iniziarono a farsi strada all’interno del movimento comunista, hanno il loro incipit proprio con la messa al bando della dialettica hegeliana che, ben presto, si mutuò in una messa al bando della dialettica tout court. Con questa, l’intera dimensione della soggettività di classe finì con l’essere crocefissa e sepolta nel folto mondo dell’eresia e, con lei, il partito dell’insurrezione normalizzato dentro la classica sociologia politica michelsiana5.

Paradossalmente l’ortodossia comunista, sempre prona a cercare influenze borghesi tra le righe dei pensatori scomodi, finì con l’assumere, proprio dentro il partito rivoluzionario, quel destino che non senza sofferenza Weber aveva profetizzato per il mondo moderno. Anche su questo Lenin, nella sua nota battaglia contro l’irrompere del dominio burocratico nei Soviet e nel partito, aveva avuto parole estremamente chiare. Come aveva ampiamente argomentato in Stato e rivoluzione, e su questo ci soffermeremo molto in seguito, compito della rivoluzione proletaria era, in primo luogo, spezzare la macchina statuale borghese, non riprodurla o addirittura ampliarla. Tra proletariato e borghesia vi è un salto storico, non un passaggio di consegne. Nella cuoca di Stato e rivoluzione Lenin sintetizzava al meglio l’essenza stessa della rottura rivoluzionaria. Cuore di questa rottura non può che essere la soggettività di classe. Il delinearsi e il rafforzarsi della gabbia d’acciaio non è un fatto tecnico ma politico. Non riconoscerlo significa negare alla classe il suo ruolo strategico e far riemergere e recuperare, sotto le spoglie della necessità oggettiva, l’apparato statuale tradizionale. In tale ottica, ovviamente, non vi può essere spazio alcuno per quel: “Bisogna sognare!” sul quale Lenin costruisce il programma rivoluzionario e che, nonostante le immani difficoltà che lo circondano, continua a far suo. L’ottobre è un cominciamento, “On s’engage…. puis on voit!”, qui è per intero Lenin. “Poi si vede!” ma dentro l’orizzonte della dialettica storica. In ogni cominciamento vi è solo una certezza, quella della radicale rottura. Questo, in fondo, è il Lenin che Lukács coglie e ci restituisce 6.

Autore difficilmente addomesticabile è stato costretto a vivere in una sorta di semi-clandestinità politica e intellettuale, trovando nel volontario confino dell’erudizione l’escamotage per poter continuare a scrivere e pensare, allontanando in tal modo da sé l’occhio vigile ma poco sveglio dei vari censori che si sono susseguiti nel vaglio dei suoi testi. Costretto, come si è detto, a criticare le proprie opere ogni qualvolta queste venivano nuovamente edite in realtà, tra le righe e le pieghe di ogni sua autocritica, vi è sempre la conservazione e la difesa del nocciolo duro di quanto sostenuto. Nella stessa introduzione a Storia e coscienza di classe del 1967, il testo nei confronti del quale, almeno in apparenza, sembra prendere con maggiore decisione la distanza, archiviandola come passaggio formativo dell’epoca giovanile, una lettura minimamente attenta mostra come gran parte delle tesi sostenute più che rinnegate vengano, per quanto in parte smussate, sostanzialmente riconfermate7. In ciò, inoltre, vi è una non secondaria finezza che sfugge per intero alle pletore dei censori. Nel legare Storia e coscienza di classe alla fase giovanile, avendo a mente quanto in quel testo Lukács civetti con Hegel, costruisce l’immagine di un giovane Lukács non poco affine al giovane Marx, quel giovane Marx che, dopo la scoperta e la pubblicazione dei noti Manoscritti insieme a tutta la sua opera giovanile, non pochi problemi stava dando alla teoria politica comunista mainstream. Il giovane Lukács, sembra dire il Lukács maturo, compie gli stessi errori del giovane Marx lasciando in sospeso, tra le righe, la domanda: ma questi sono stati veramente degli errori? In qualche modo, quindi, l’impressione è che Lukács rimodelli, nella forma voluta dai censori dell’epoca i suoi testi, continuando a mormorare eppur si muove.

Come tutti i pensatori di razza è rimasto pressoché immune alle insidie del tempo mentre, dei suoi solerti censori, se ne sono perse abbondantemente le tracce. Se già il nome di Zinoviev8, il grande accusatore di Storia e coscienza di classe, è forse ancora noto ai residui cultori della tradizione comunista, personaggi quali Deborin e Rudas9, grandi pubblici ministeri dell’ortodossia dell’epoca, difficilmente sono in grado di far sorgere un qualche ricordo mentre del grande ortodosso Ždanov tutti ricorderanno il valore militare mostrato a Leningrado, mentre stenderanno un pietoso velo di silenzio su tutto ciò che concerne teoria politica, arte, letteratura e filosofia10. Se il tempo del presente è spesso magnanimo con gli yes man, il filo del tempo è fortunatamente uso a parametri diversi. Al pari dei suoi vari maestri Lukács e i suoi scritti continuano a essere fonte non di risposte certe, bensì di continui interrogativi che, nella loro inattualità, continuano a mostrarsi attuali.

Con la rottura imposta dal ’68 Lukács conosce una non secondaria e profonda reinassance, le sue opere, dentro un movimento che non poteva che assumere le vesti dell’eresia, tornano attuali. Quell’Angelus Novus che è sempre alla base di tutte le insorgenze proletarie si scagliava, e non poteva essere altrimenti, equamente contro tutte le vestali dello status quo11, del quale il movimento operaio e il movimento comunista erano una componente non secondaria. Con il ’68 il tema dell’alienazione diventa centrale12, ma al contempo riaffiora prepotentemente, e ciò sarà particolarmente vero nel nostro paese, la questione della guerra di movimento che il movimento operaio ufficiale aveva, da tempo, riposto nell’archivio polveroso della storia di ieri13. L’attualità della rivoluzione torna a essere il qui e ora della lotta di classe. In tale contesto, l’autore che intorno alla attualità della rivoluzione aveva, al banco della storia, puntato tutto non poteva che ritornare attuale. Una attualità che non nasce in un qualche seminario, o tra le ristrette schiere dell’erudizione ma nell’insorgenza delle colonie interne occidentali, nella critica al socialismo reale, sulle barricate parigine per approdare e soffermarsi a lungo nelle lotte operaie e proletarie italiane, senza dimenticare l’apparire di quel soggetto, il colonizzato, che irrompe prepotentemente sulla scena storica ponendo questioni che il movimento operaio e comunista ufficiale è ben distante dal comprendere e ancor meno dall’accettare così come, a irrompere prepotentemente sulla scena politica, è la questione femminile e la critica al patriarcato, del quale l’ortodossia comunista rappresenta un pilastro non secondario. Proprio razza e genere saranno gli elementi che metteranno principalmente in crisi le retoriche dominanti all’interno dell’ortodossia comunista e che la renderanno del tutto estranea al riapparire prepotente dell’Angelo della storia. Non per caso tutti i partiti comunisti europei, e in special modo quelli di maggior peso politico come quello italiano e francese, si schierano apertamente contro il movimento e a difesa dello status quo. Puntualizzato ciò, riprendiamo il filo del nostro discorso.

(1continua)


  1. Per una buona esposizione della complessa figura intellettuale di Lukács si veda, G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Laterza, Roma–Bari 1971. Sulla formazione di Lukács il bel lavoro di, F. Fortini, Lukács giovane, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003. Per un buon dibattito sulla figura intellettuale di Lukács e l’insieme di tradizioni filosofiche che precipitano nella sua elaborazione si possono vedere i saggi compresi in, AA. VV., Letteratura, storia, coscienza di classe. Contributi per Lukács, Liguori, Napoli 1977; T. Perlini, Utopia e prospettiva in György Lukács, Edizioni Dedalo, Bari 1968.  

  2. Basti pensare al classico, G. Lukács, L’anima e le forme, SE, Bellaria (Rimini) 2012. Per una discussione su questi aspetti per nulla secondari della formazione intellettuale di Lukács si veda, A. De Simone, Lukács e Simmel. Il disincanto della modernità e le antinomie della ragione dialettica, Milella, Bari 1985.  

  3. L’incontro con Hegel insieme all’influenza che questi esercitò costantemente nei suoi confronti è retrodatabile sin da quel, G. Lukács, Teoria del romanzo. Saggio storico–filosofico sulle forme della grande epica, SE, Bellaria (Rimini) 2015, iniziato nel 1914 e pubblicato nel 1920. L’interesse per la filosofia hegeliana rimase una costante dell’attività intellettuale di Lukács che lo accompagnò praticamente per tutta la vita. A Hegel e all’interpretazione della sua filosofia, e in particolare alle ricadute che La fenomenologia dello spirito, G. W. F. Hegel, 2 Vol., La Nuova Italia, Firenze 1973, avrebbero avuto per il materialismo storico – dialettico consacrò uno dei suoi lavori più importanti e significativi, G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, 2 Vol., Einaudi, Torino 1975  

  4. Cfr. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, Editori Riuniti, Roma 1971  

  5. R. Michels, La sociologia del partito politico, Il Mulino, Bologna 1966. In questo testo Michels descrive il funzionamento del partito politico, indipendentemente dai suoi orientamenti ideologici, nelle società moderne. Una modellistica alla quale non sfugge alcuna forma politica organizzata la quale è del tutto interna alle retoriche proprie del mondo borghese. In ciò Michels ha sicuramente ragione. Tutti i partiti interni all’ordinamento borghese non possono fare altro che uniformarsi a questo ordinamento ma è esattamente qui che si situa la differenza e la rottura tra tutti i partiti della borghesia e il partito dell’insurrezione. Questi non è un altro partito che si presenta sulla scena della competizione borghese bensì il partito che si propone di affossare la borghesia, per questo la sua strutturazione non è commensurabile con quella degli altri partiti. Del resto, questo partito mira a spezzare la macchina statuale non a impossessarsene. La differenza con tutti gli altri partiti si colloca sul piano della rottura storico–politica con un’intera epoca, non con un programma di governo in competizione con altri programmi di governo. Il partito dell’insurrezione incarna la relazione classe contro classe e non, come solitamente avviene tra i partiti borghesi, quella tra ceti politici momentaneamente avversi. Prendendo a prestito Schmitt si può asserire che, mentre la relazione tra i partiti borghesi è riconducibile alla dimensione dell’inimicus, quella tra il partito dell’insurrezione e tutti gli altri partiti è contrassegnata dalla relazione amico/nemico in senso esistenziale.  

  6. Questo è ciò che M., Cacciari, nella sua corposa introduzione ai testi lukacsiani pubblicati sulla rivista Kommunismus, Sul problema dell’organizzazione. Germania 1917–1921, in G. Lukács, Kommunismus 1920–1921, Editore Marsilio, Padova 1972, sembra non cogliere. Cacciari, infatti, considera il destino weberiano come qualcosa di ineludibile e insuperabile per cui non può che ascrivere Lukács tra gli utopisti di ispirazione escatologica e millenarista. Ciò che sembra sfuggire a Cacciari è proprio quel cominciamento che la rivoluzione proletaria si porta appresso insieme a tutte le possibilità che un’era nuova, frutto di una rivoluzione di classe, apre. Cacciari rimane prigioniero del tempo del presente dimenticando che, quel tempo, non è un tempo impolitico ma è il tempo e lo spazio sedimentato dal capitale. Sfugge, ad esempio, a Cacciari, che la metodicità dei tempi, lo sfruttamento maniacale di questi non appartengono indistintamente alla società ma sono il frutto di una modellistica storico–politica che si è imposta attraverso quella religione, il protestantesimo, che, come ben argomenta M. Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991, meglio di altre incarnava lo spirito del capitalismo. In sostanza ciò che Cacciari nella sua critica a Lukács rimprovera è l’adesione incondizionata alle possibilità che la dialettica storica offre e, con ciò, il legame di Lukács con Marx. Non stupisce che, a partire da questi presupposti, Cacciari, con il suo realismo pragmatico, sia diventato uno dei principali alfieri delle società neoliberiste e se, tra le sue vene, scorre una qualche goccia di sangue hegeliano è quello dell’Hegel politicamente prono allo status quo e non l’Hegel dal quale Marx ricavò la possibilità dell’utopia comunista.  

  7. Su questo aspetto si veda la bella introduzione di M. Spinelli, Storia e coscienza di classe cinquanta anni dopo, in G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973.  

  8. G. E. Zinoviev diresse l’Internazionale comunista sino al 1925. Da quella postazione non irrilevante bollò di eresia Storia e coscienza di classe.  

  9. A. B. Deborin filosofo e militante menscevico aderì al bolscevismo nel 1928 e divenne, anche se solo per breve tempo, un fanatico cacciatore di eresie. L. Rudas dirigente del partito comunista ungherese insieme al sopra ricordato Deborin fu tra i più accaniti avversari di Lukács e della sua eresia filosofica. Per una puntigliosa e anche ironica critica del loro operato si veda, G. Lukács, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, Edizioni Alegre, Roma 2007.  

  10. A. A. Ždanov, vestale della cultura sovietica si mostrò, in realtà, assai prono a una cultura nazionalista e conservatrice. Intellettuale per nulla brillante si rivelò, invece, un organizzatore politico e militare di primordine dirigendo, con grande successo, le difese e la resistenza di Leningrado per tutto il suo lungo assedio sino alla liberazione.  

  11. Il ’68 fu senza ombra di dubbio un momento di rottura storica che coinvolse tutti i sistemi politici. Oriente e Occidente furono scossi da un moto sovversivo dove il treno contro la storia sembrava nuovamente essersi messo in moto. Per una concettualizzazione di questa asserzione si veda il bel lavoro di G. Roggero, Il treno contro la storia. Considerazioni inattuali sul ’17, Derive Approdi, Roma 2018. La pubblicistica sul ’68 è sterminata e di difficile catalogazione per una sua ampia panoramica si può vedere, P. Ortoleva, I movimenti del Sessantotto in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988; volendo scegliere un paio di testi in grado di, in senso ampio, fornire l’humus culturale ed esistenziale del movimento occorre indicare in, H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999 il libro che ha sicuramente maggiormente segnato e influenzato tutta una generazione e F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007 che ha contribuito non poco a rompere con i dogmatismi in cui era precipitato il movimento comunista e a ridare fiato e respiro all’idea di rivoluzione totale che l’ortodossia comunista aveva da tempo seppellito dentro il pragmatismo imperante. Sia Marcuse che Fanon rilanciarono quel tratto escatologico che la stessa idea di rivoluzione si porta appresso. In questo senso non è neppure inessenziale ricordare, dentro il ’68, la scoperta di un autore come E. Bloch e i suoi, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano 2010 e ancor più, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 2005, edito proprio nel 1968, che ribadivano la necessità di pensare e praticare l’utopia marxiana del passaggio dalla preistoria alla storia. Fanon, inoltre, immetteva prepotentemente dentro il panorama politico occidentale il costante rimosso della “questione coloniale” un aspetto che, soprattutto in Germania, ebbe ricadute considerevoli, cfr. G. Bausano, E. Quadrelli, Ulrike Meinhof, Una vita per la rivoluzione, Interno 4 Edizioni, Rimini 2021. Infine, ma non per ultimo, va ricordato come proprio dentro il ’68 iniziò a imporsi prepotentemente il tema della questione di genere, sostanzialmente estranea alle retoriche del movimento comunista ufficiale, e come questo tema, nelle sue articolazioni più radicali, finì con il legarsi alle tematiche della razza scoprendo così il vaso di Pandora del colonialismo come non secondaria articolazione del dominio patriarcale. Patriarcato e colonialismo irruppero dentro il movimento del’68 creando non pochi problemi all’insieme della sinistra il cui volto bianco e maschilista, tanto che la famiglia ancorché in versione proletaria rimaneva un suo totem inamovibile, non la distingueva di molto dal mondo e dalla cultura borghese. Su questi aspetti si veda il bel saggio di A. Davis, Donne, razza e classe, Edizioni Alegre, Roma 2018.  

  12. Di qua la renaissance di Lukács il quale, proprio intorno al tema dell’alienazione nella società capitalista, aveva incentrato parte delle sue opere giovanili e, conseguentemente a ciò, la ripresa di interesse per quell’umanesimo marxiano che, soprattutto le opere del giovane Marx, facevano albeggiare così come, l’aspetto etico dell’agire politico rivoluzionario, un tema che in Lukács compare in gran parte della sua elaborazione teorica, si impose come una vera e propria linea di condotta del ’68. Sotto questo aspetto, almeno come arco di senso, un’importanza sicuramente determinante lo rivestono i saggi lukacsiani raccolti in, G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919–1928, Editore Laterza, Bari 1972. Quanto la renaissance di Lukács influenzò il ’68 è ben sintetizzabile in un testo, H. J. Krahl, Costituzione e lotta di classe, Jaca Book, Milano 1983, una delle più importanti produzioni teoriche del ’68, il quale, proprio dai temi lukacsiani, prende le mosse. 

  13. Al proposito si vedano, A. Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1994; P. Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944–1964, Einaudi, Torino 2014. Con Gramsci, che non a caso era stato posto ai margini dell’Internazionale comunista e dentro lo stesso partito comunista italiano viveva in una condizione di sostanziale isolamento politico, si fa strada l’idea che nei paesi a capitalismo avanzato la guerra di movimento, ossia la lotta rivoluzionaria violenta e insurrezionale, non potesse darsi e che, pertanto, il partito si dovesse attrezzare per una lunga guerra di posizione al fine di conseguire una egemonia culturale dentro la società civile. Di qui la teorizzazione dell’edificazione delle casematte della cultura che sarebbero diventate il cuneo attraverso il quale fare breccia nella società borghese. Un’ipotesi che Togliatti fece interamente sua dopo il suo ritorno in Italia nel 1944. Con ciò il movimento comunista rinunciava, per decreto, a qualunque possibilità rivoluzionaria imbracciando la mesta e fallimentare via del parlamentarismo. La deriva prima opportunista e poi apertamente collaborazionista e controrivoluzionaria che il PCI mostrò apertamente nell’era Berlinguer non è altro che il naturale approdo dell’assunzione della guerra di posizione come progetto strategico del movimento proletario. Una scelta che non ebbe sullo sfondo alcuna furberia tattica ma la reale e, occorre riconoscerlo, onesta rinuncia, in piena tradizione socialdemocratica, alla rivoluzione comunista. Un abbaglio e un malinteso, quello della furberia tattica, coltivato da molti sia nell’ambito della borghesia che in quello proletario. Su ciò si creò il mito della doppiezza di Togliatti il quale avrebbe ufficialmente optato per questa ipotesi continuando però a coltivare progetti rivoluzionari. Sull’inconsistenza di questo aspetto, diventato un luogo comune anche se del tutto privo di un qualche fondamento, si possono vedere, R. Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al trattato di pace 1943–1947, Editori Riuniti, Roma 1995; G. Bocca, Togliatti, Feltrinelli, Milano 2014.  

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Avanti barbari!/5 – Gang, merce, autodifesa. Note sul “fronte interno” e la guerra in permanenza (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2024/09/19/avanti-barbari-gang-merce-autodifesa-note-sul-fronte-interno-e-la-guerra-in-permanenza-seconda-parte/ Thu, 19 Sep 2024 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84117 di Emilio Quadrelli

Il doppio volto della merce Un secondo aspetto decisamente non trascurabile è il ruolo che le merci assumono tanto nell’immaginario quanto nella concretezza dell’esistente dei ragazzi albanesi. Se nella nota Critica della filosofia del diritto di Hegel Marx asserisce che la religione è, al contempo, l’oppio dei popoli e il gemito degli oppressi, possiamo realisticamente mutuare oggi questo enunciato in: la merce è l’”oppio dei popoli” e, al contempo, il “gemito degli oppressi”. Non si scandalizzino i cultori dell’ortodossia per questa trasposizione di Marx dagli scranni austeri della critica religiosa, alle vetrine dei Centri commerciali ma la [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il doppio volto della merce
Un secondo aspetto decisamente non trascurabile è il ruolo che le merci assumono tanto nell’immaginario quanto nella concretezza dell’esistente dei ragazzi albanesi. Se nella nota Critica della filosofia del diritto di Hegel Marx asserisce che la religione è, al contempo, l’oppio dei popoli e il gemito degli oppressi, possiamo realisticamente mutuare oggi questo enunciato in: la merce è l’”oppio dei popoli” e, al contempo, il “gemito degli oppressi”. Non si scandalizzino i cultori dell’ortodossia per questa trasposizione di Marx dagli scranni austeri della critica religiosa, alle vetrine dei Centri commerciali ma la modesta ricerca empirica sembra fornire più di un indicatore per andare in questa direzione. Rimanendo nell’ambito della città di Genova chiunque, per quanto poco prono alla ricerca etnografica, potrà constatare, con piena soddisfazione persino per il più irriducibile fautore dello scientismo e del coevo empirismo di matrice funzionalista che gli fa da corollario, come il centro commerciale della Fiumara con il suo sfavillio di merci esposte sia una delle mete maggiormente frequentate e preferite dalle gang dei giovani albanesi.

Il potere attrattivo di tutte quelle merci in bella vista ha una attrazione al limite del mistico tanto che, quasi si trattasse di una novella Terra Santa, il diritto esclusivo a stazionare nei perimetri immediatamente adiacenti ai “monasteri delle merci” è stato duramente conteso e infine conquistato da questi a discapito di altre gang giovanili di provenienza nordafricana. Il numero non proprio irrilevante di risse tra giovani albanesi e marocchini per il “controllo del territorio” ne rappresenta un’eccellente esemplificazione. Le merci sembrano possedere un potere ipnotico e sopranaturale al quale è impossibile resistere. Ma cosa incarnano le merci e in particolare alcune di loro? Questa la domanda alla quale bisogna provare a rispondere.

A governare l’immaginario dei giovani albanesi sono, in prima istanza, quelle marche come Adidas e Nike le quali, da tempo, governano i gusti e gli “stili di vita” della gioventù subalterna internazionale. In seconda battuta a essere oggetto e soggetto delle bramosie delle gang sono tutti quei capi di abbigliamento i quali, per i motivi più diversi, sono diventati oggetti di moda. Ciò non deve stupire poiché, almeno da Simmel in poi, sappiamo quanto, nelle società di massa, la moda giochi un ruolo, al contempo, normativo e distintivo oltre a essere un veicolo di inclusione sociale non trascurabile. Proprio sul carattere inclusivo occorre soffermarsi. Ciò a cui aspirano i giovani albanesi è quel consumo medio socialmente necessario in grado di garantire loro una sorta di “egualitarismo estetico” in modo da non farli percepire come altro. Esattamente qua si colloca il ruolo normativo e al contempo distintivo della moda il quale, a sua volta, veicola socializzazione e inclusione tra il gruppo dei pari. Ecco che, allora, il vezzo delle merci abbandona l’apparenza dell’effimero che una critica, bianca e benestante, riserva al mondo delle merci per assumere una valenza politica della quale il più delle volte se ne elude il senso.

Un tratto, quello dell’anticonsumismo di maniera, certamente non nuovo che ha caratterizzato a lungo un certo radicalismo bianco e borghese il quale, tra l’altro, può vantare teorici e autori di non poco spessore. Basti ricordare, al proposito, Marcuse, vera e propria icona di parte del movimento studentesco americano e non, che proprio intorno alla società dei consumi ha costruito la critica alle società neocapitaliste. Una critica non proprio insensata la quale, però, mostrava tutti i limiti di una critica bianca a uso e consumo dei bianchi (e per di più benestanti). Non per caso Marcuse ignora la linea di condotta dei nigger i quali, attraverso le forme organizzate del Black Panthers Party o nelle pratiche spontanee del riot, mostravano, nei confronti delle merci, un approccio, per essere gentili, a dir poco diverso1.

Allora non si tratta di celebrare l’ennesimo plauso al mondo delle merci ma, più materialisticamente e marxianamente, cogliere la contraddizione, ossia la relazione dialettica, che dentro questo mondo si cela. Solo cogliendo i due lati della questione, oppio dei popoli e gemito degli oppressi, ci si emancipa da quella “critica illuminista” che ben poco ha a che vedere con la condizione materiale proletaria così come, più prosaicamente, è sempre opportuno ricordare che la povertà o la scarsità dei consumi può risultare accattivante a chi ha consumato troppo ma non per chi passa la vita a osservare con rancore il luccichio delle vetrine. In altre parole, un’esistenza a base di “pane e cerase” può risultare suggestiva e intrigante a chi è abituato a ingozzarsi ma sicuramente non lo è per chi, di “pane e cerase”, si è abitualmente nutrito. A fronte di ciò non del tutto incomprensibile si mostra l’“accanimento consumistico” ovvero il desiderio di possedere e ostentare le merci che anima i giovani albanesi.

Marciare o morire
Se le merci assolvono a questa imprescindibile ed esistenziale funzione sociale, averle diventa una questione di vita o di morte. In assenza di risorse non resta che rubarle ed è esattamente questa la linea di condotta delle giovani gang albanesi. Del numero di giovani albanesi denunciati per taccheggio nei Centri commerciali si è persino perso il conto. Tuttavia, sarebbe estremamente riduttivo perimetrare il tutto all’interno di una semplice questione economica. Nella pratica del furto e del taccheggio c’è qualcosa di ben poco riconducibile all’economicismo. Con buona pace dei meccanicisti o dei pavloviani di ritorno la linea di condotta dei giovani albanesi va oltre il nudo e puro dato economico.

Prima di proseguire vale la pena di evidenziare il tratto apertamente razzista che fa da sfondo alle spiegazioni economiciste. Queste, infatti, riducono l’insieme dei comportamenti subalterni, e ciò oggi è particolarmente vero nei confronti degli immigrati, al semplice soddisfacimento di un insieme di bisogni primari. Ciò che a una quota di popolazione viene bellamente sottratta è la dimensione della soggettività con tutto ciò che questa si porta appresso. Nessun immaginario e alcun desiderio animerebbe l’agire, in questo caso, dei giovani albanesi ma la semplice e “bestiale” necessità di soddisfare un bisogno elementare. A fronte di questa interpretazione oggettivista e meccanicista diventa invece decisivo cogliere gli elementi di soggettività che fanno da sfondo alle gang. Solo a partire da questi diventa possibile comprendere la complessità di significati alla base della forma gang. Con ciò entriamo direttamente nella parte conclusiva del ragionamento.

A prima vista le gang potrebbero apparire come una semplice struttura semi organizzata finalizzata al realizzo di una serie di attività illecite. A uno sguardo leggermente più attento le cose si mostrano più complesse e ciò che, in apparenza, appare come una micro-struttura criminale apre a un intero mondo sociale del quale, obiettivamente, sappiamo ben poco ma nei confronti del quale, il più delle volte, vengono adottati tutti i criteri possibili dello stigma. Si tratta, allora, di dare linguaggio a un mondo confinato perennemente nell’ambito della voce.

Partiamo, intanto, con il definire il perimetro della gang. Questo si pone radicalmente in opposizione, potremmo dire polemica, con il mondo adulto. In sostanza una forma di organizzazione e autodifesa dei “piccoli uomini” verso il mondo degli adulti. In primis, questo l’aspetto centrale e per lo più non osservato, il mondo adulto dei connazionali. Per comprenderlo dobbiamo partire dal modello sociale, pesantemente patriarcale, presente in Albania e tutto ciò che si porta appresso. Il maschio adulto, qui, esercita un potere politico pressoché assoluto sulle donne e i “piccoli uomini”. La dominazione delle donne e dei “piccoli uomini” appare talmente ovvio e scontato da assumere tratti al limite del naturalismo. Una dominazione che si reitera, e con ampio successo, anche dentro i percorsi migratori. La dipendenza dei “giovani uomini” dalle infinite pletore di zii, cugini o più semplicemente degli “amici di famiglia” è pressoché assoluta. Non si tratta di una dominazione fine a sé stessa ma di un dominio che comporta la messa al lavoro delle donne e dei “piccoli uomini” dentro una relazione non distante dalla dimensione coatta. Ciò è vero sia nel caso della messa al lavoro legale e ancor più nel caso di attività illecite.

Sullo sfruttamento del lavoro minorile si basano, infatti, una parte considerevole delle imprese a capitale albanese. Uno sfruttamento che, per molti versi, ricorda il modo in cui, nel corso della grande immigrazione interna dal sud a nord Italia, veniva reclutata mano d’opera meridionale de-contrattualizzata per quell’enorme indotto che faceva da corollario alle grandi fabbriche, sia pubbliche che private. Anche allora, giocando sullo stigma che accompagnava la figura dell’immigrato, parenti o anche semplici compaesani inseriti, sia come titolari o “caporali”, nei settori lavorativi propri della “classe operaia dura” reclutavano con fare palesemente “mafioso” tutta quella forza lavoro approdata al nord senza alcun tipo di reti protettive. Il compaesano che li inseriva dentro un qualunque lavoro e che su di loro si arricchiva diventava, però, anche l’unico personaggio in grado di offrire loro una qualche forma di protezione sociale e amicale. Ciò ha comportato, per tutta una fase, il reiterarsi di quel vincolo “di comunità” che la modernità sembrava, grazie all’affermarsi della “filosofia del denaro”, aver mandato in archivio. Una condizione di servaggio che sembrava tanto eterna quanto priva di emancipazione. Ci sono voluti anni, infatti, per mandare in frantumi l’insieme di questi vincoli e con loro i vari compari e comparielli che li sostanziavano. Le lotte dell’operaio-massa, mentre inceppavano i processi di valorizzazione e accumulazione, mettevano definitivamente fine a quell’insieme di “vincoli comunitari” all’origine della propria sudditanza.

Fatte le tare del caso tutto ciò si ripete attualmente con i giovani albanesi. Socialmente stigmatizzati ed esclusi trovano nell’inserimento lavorativo dello zio di turno la sola chance che gli viene offerta. Una chance che, a conti fatti, più che una felice articolazione di quel fiorire di opportunità che, secondo le retoriche neoliberiste, l’era cosiddetta globale si porterebbe appresso, assume molto più realisticamente i tratti della “forca caudina”. Proprio in questo lo “scarto antropologico” tra i “piccoli uomini” e i Millennial si mostra, ancora una volta, quanto mai radicale. Al mondo delle opportunità in permanenza di questi ultimi si contrappone il mondo della servitù in permanenza dei “piccoli uomini”. Di ciò la cornice lavorativa ne offre qualcosa di più di una semplice esemplificazione.

Ritmi, orari e salario sono variabili decise unicamente dal connazionale che incarna in tutto e per tutto la figura del padre/padrone così come, per altro verso, norme di sicurezza, assicurazione e via discorrendo non sono altro che chimere. Tutto ciò permette a queste aziende di essere estremamente competitive e di ritagliarsi quote di mercato di una certa, per quanto modesta, rilevanza nei mercati secondari dei nostri mondi. Un inserimento particolarmente caro agli abitanti della città legittima poiché, a usufruire di ciò è immancabilmente l’individuo-cittadino il quale, di queste aziende, si serve con non malcelato compiacimento. Provatevi a chiedervi, in maniera molto prosaica, quanti appartamenti, quante facciate dei palazzi, quanti impianti idraulici o elettrici, solo per fare gli esempi che immediatamente vengono a mente, di proprietà degli individui-cittadini, sono stati realizzati da ditte di questo tipo oppure quante ristrutturazioni di abitazioni sono state realizzate a prezzi estremamente economici.

Gran parte di questi lavori, in economia, sono possibili solo grazie allo sfruttamento intensivo di questa giovane forza lavoro socialmente esclusa e ascritta agli ambiti della marginalità. Sullo sfondo di questa gestione “mafiosa” e patriarcale della forza lavoro si staglia, in veste di primo attore, l’interesse dell’individuo–cittadino il che non è un caso. In ciò, questi, non fa che reimportare entro i confini nazionali la linea di condotta neocoloniale, e qua torna prepotentemente la continuità tra guerra interna e guerra esterna, esportata abitualmente attraverso quelle operazioni di polizia internazionale o guerre umanitarie che dir si voglia verso le popolazioni extracomunitarie.

Ecco che, allora, da quella che poteva apparire una semplice curiosità sociologica o un vezzo dell’antropologia culturale si approda velocemente dentro una condizione politica e materiale che non poche cose racconta intorno alla guerra, la sua gestione, le sue finalità. Se la guerra è principalmente guerra contro la popolazione al contempo è anche guerra per la popolazione. La messa al lavoro dei corpi subalterni, in condizioni estremamente vantaggiose per il comando del capitale è, se non il solo, uno degli obiettivi strategici della guerra in permanenza. Realisticamente l’anticolonialismo istintuale dei giovani albanesi che si traduce in insofferenza e odio verso il colonizzatore italiano sembra avere più che un grano di sensatezza. Dietro allo zio di turno compare sempre la macchina coloniale e questa macchina ha targa italiana.

Servitù o barbarie
La musica non cambia se dalle attività legali spostiamo lo sguardo verso i mondi illegali. Anche in questo caso, e forse in maniera ancora più dura, il mondo degli adulti sfrutta senza remore e parsimonia la condizione di sudditanza del “piccolo uomo”. Confidando sulla minore punibilità che la condizione di minore comporta, questi vengono impiegati in uno dei “lavori” più pericolosi: il micro-spaccio di strada. Il mestiere di “cavallo”, infatti, è una delle più frequenti attività alla quale le bande illegali adulte indirizzano i “piccoli uomini”. A ciò, in non pochi casi, va aggiunto il furto su commissione, specie in appartamento. Curiosamente, ma neppure troppo, anche in questo caso il lavoro illegale soggiace alle stesse regole salariali del lavoro legittimo. Sia i proventi dello spaccio che il bottino procacciato attraverso i furti non finiscono nelle tasche dei “piccoli uomini” ma in quelle dei rispettivi “datori di lavoro”. Ai “piccoli uomini” viene semplicemente corrisposto un modesto salario giornaliero. Tutto questo dentro un ambito gerarchico che non conosce modificazioni di sorta.

Di fronte a tutto ciò le gang costituiscono un elemento di difesa, solidarietà e socialità che concretizza un autentico spazio di autonomia. Difesa perché consente loro di porre in campo una forza, anche di tipo “militare”, in grado di contrapporsi collettivamente ai vari tipi di imposizioni e soprusi confidando sulla rimessa in circolo di quel: uno per tutti, tutti per uno che, nella storia dei subalterni, ha giocato un ruolo ben diverso da quel romanticismo di maniera in cui la morale borghese, per depotenziarlo, lo ha confinato. Essere uno per tutti e tutti per uno rimanda a quella idea di “forza di massa” che tanti brividi fa scorrere sulle schiene dei borghesi. Questo esistere come “collettività cosciente e compatta”, che è ben diverso dall’essere massa informe senza volto è, già di per sé, un elemento che rompe l’ordine sociale contemporaneo. Se c’è qualcosa che la borghesia, tutta la borghesia, non può tollerare è il riaffiorare di una forma collettiva fondata su complicità, solidarietà, senso dell’appartenenza, fratellanza e, in virtù di ciò, assolutamente non prona ad assoggettarsi alle diverse articolazioni del dominio.

La gang quindi si mostra come uno spazio autonomo e autogestito all’interno del quale è possibile sottrarsi alle imposizioni che il mondo degli adulti impone in continuazione ai “piccoli uomini”. Non l’edulcorato mondo dei Millenial e il loro essere giovani per sempre ma tutta la materialità di questa nuova “dura razza pagana” la quale, per non soccombere e servire, può solamente imparare a combattere e lo deve fare velocemente. Non il patinato mondo degli individui-cittadini ma tutta l’asprezza di chi, nell’economia globale, non può essere altro che massa senza volto e per emanciparsi deve trovare una qualche forma di esistenza collettiva. Non il rassicurante mondo degli inclusi globalizzati ma la dura condizione dei globalizzati in basso che, fuor di metafora, li ascrive nella dimensione dei dannati della metropoli 2.

A partire da ciò, allora, la gang diventa in prima istanza una forma concreta di quel riscatto al quale, da sempre i subalterni aspirano. Un luogo in qualche modo affrancato all’interno del quale, insieme al senso di appartenenza, si respira un’aria di eguaglianza e sodale fratellanza. Ciò consente di sottrarsi, o almeno provarci, alle relazioni di potere entro cui i giovani albanesi sono immessi. Essere una gang significa avere sufficiente forza e autonomia da poter contrapporsi all’imposizione del lavoro coatto tanto legale quanto illegale. Significa rompere con quella dimensione di solitudine e impotenza nella quale si è relegati. Significa soprattutto acquisire rispetto. Ciò comporta inevitabilmente una serie di atti di sfida, con tutto ciò che questo comporta, nei confronti dei vari poteri deputati a governarli. Non è un caso, quindi, che le gang siano entrate velocemente nel mirino degli specialisti della sicurezza. Ciò che obiettivamente inquieta non sono tanto i modesti reati che questi consumano ma la loro palese intenzionalità di sottrarsi al dominio. Questo il linguaggio che va restituito alle gang.

Come enunciato sin da subito queste sono solo semplici note. La materia è talmente ampia che meriterebbe sicuramente una trattazione di altro spessore. Tuttavia, a partire da queste note, si può se non altro iniziare a restituire una dimensione di dignità e legittimazione ai “piccoli uomini” i quali, con ogni mezzo necessario, cercano di sottrarsi alla dimensione dei dannati della metropoli. Come anticipato tutto ciò non è molto, sicuramente però è qualcosa e lo è, in particolare, per tutti coloro che si pongono il problema di porre in relazione guerra interna e guerra esterna. La condizione dei “piccoli uomini albanesi” è un frutto diretto dell’imperialismo contemporaneo, la loro riduzione a masse senza volto diretta conseguenza di quella pratica neocoloniale che informa per intero la forma guerra del presente. Obiettivamente, lo vogliano o meno, sono uno dei molteplici poli del “fronte interno”. Provarne a conoscerne, per lo meno, i tratti non è solo utile ma doveroso.

(Fine)


  1. Si veda al proposito il classico Jerry Cohen, William S. Murphy, Burn, Baby, Burn! The Los Angeles Riot, August 1965, Dutton, New York 1966.  

  2. Su questo aspetto si veda il bel lavoro di Andrea Staid, I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, Milieu, Milano 2014.  

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Avanti barbari!/5 – Gang, merce, autodifesa. Note sul “fronte interno” e la guerra in permanenza (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2024/09/12/avanti-barbari-gang-merce-autodifesa-note-sul-fronte-interno-e-la-guerra-in-permanenza-prima-parte/ Thu, 12 Sep 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84109 di Emilio Quadrelli

[A un mese di distanza dalla prematura scomparsa di Emilio, si è scelto di pubblicare in due parti un contributo dello stesso per il testo Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, a cura di Sandro Moiso, Il Galeone Editore, Roma 2021.]

Guerra esterna e guerra interna sono oggi l’elemento costitutivo e costituente della fase imperialista contemporanea tanto che, la guerra in permanenza, può essere considerata e presa come la cifra del presente. Questi due aspetti si intersecano formando un intreccio pressoché indissolubile. Le pratiche di neocolonialismo proprie del comando capitalistico contemporaneo fanno sì che i [...]]]> di Emilio Quadrelli

[A un mese di distanza dalla prematura scomparsa di Emilio, si è scelto di pubblicare in due parti un contributo dello stesso per il testo Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, a cura di Sandro Moiso, Il Galeone Editore, Roma 2021.]

Guerra esterna e guerra interna sono oggi l’elemento costitutivo e costituente della fase imperialista contemporanea tanto che, la guerra in permanenza, può essere considerata e presa come la cifra del presente. Questi due aspetti si intersecano formando un intreccio pressoché indissolubile. Le pratiche di neocolonialismo proprie del comando capitalistico contemporaneo fanno sì che i “fronti di guerra” attuali si siano emancipati dall’esistenza di confini rigidi e certi, le zone di guerra e le zone di pace, ma che guerra e pace convivano dentro un continuum. Ciò fa sì che le retoriche intorno alla sicurezza siano diventate un aspetto costante della guerra in permanenza1.

Se nelle situazioni di guerra del passato il problema della sicurezza interna riguardava la possibile presenza di una “quinta colonna” entro i perimetri statuali e l’azione di agenti nemici, oggi le cose si pongono in maniera assai diversa. La guerra al nemico interno non è più appannaggio di quegli “uomini nell’ombra” che non poco hanno contribuito a una narrazione storica, romanzesca e cinematografica particolarmente suggestiva e accattivante, ma è una guerra che si combatte pubblicamente e a viso aperto nelle strade contro “etnie”, “asociali”, “operai conflittuali”, “subalterni riottosi”, “devianti”, “marginali”, “banditi”, “criminali” o, più prosaicamente, “poveri”. Una guerra senza eroi. Se nelle epoche precedenti tutti i premi Oscar avrebbero fatto a gara per interpretare i personaggi di una bella spy story di guerra oggi, assai difficilmente, è pensabile che qualcuno scalpiti per interpretare un qualche anonimo funzionario di polizia alle prese con il suo ratissage quotidiano2.
Questa dimensione antieroica della guerra, questo presentarsi come routine burocratica e amministrativa, però, è esattamente la dimensione che la guerra interna incarna. Insomma, dobbiamo fare i conti con una forma–guerra che ben difficilmente potrà ascriversi alla dimensione dell’èpos. Detto questo, tuttavia, una qualche forma “eroica” in tutto ciò è possibile rintracciarla. Questo eroismo, per quanto sui generis ed estraneo ai canoni estetici e morali convenzionali, è riscontrabile nelle pratiche di resistenza che, magari inconsciamente, gli attori sociali mettono in atto. Se, in questo, vogliamo trovare una qualche genealogia nobile forse dobbiamo pensare a un classico del noir francese, I senza nome3.

Senza nome e senza volto, infatti, è la condizione nella quale è ascritto il nemico interno contemporaneo. Non individui ma una massa anonima la quale, con il suo fare apparentemente illogico e scomposto, incrina le sicurezze dell’individuo – cittadino che fa da sfondo al potere legittimo delle nostre società4. Ciò che nella forma guerra attuale si profila, ancora prima che uno scontro di potere, è uno scontro di legittimità. Il richiamo a I senza nome, allora, è qualcosa di più di una semplice suggestione artistico-narrativa ma incarna esattamente la relazione asimmetrica che informa per intero, dentro le metropoli dell’Occidente, la conflittualità contemporanea.
Di un aspetto particolare di questa realtà, la presenza delle gang di giovani albanesi nella città di Genova, prova a rendere conto il breve saggio che segue. Non si tratta di un fenomeno certo nuovo e poco coltivato dalle scienze sociali. Quanto la forma gang abbia rappresentato qualcosa di più di una curiosità al limite dell’esotico è testimoniato sia dalla ricca bibliografia scientifica prodotta soprattutto in ambito anglosassone, sia dall’interesse che il mondo del cinema ha riversato verso questo fenomeno. Gangs of New York, ma anche C’era una volta in America tanto per citare titoli noti ai più, mostrano come le gang abbiano rappresentato momenti centrali nella definizione degli assetti urbani, e quindi anche politici e culturali, delle metropoli Occidentali.
Almeno a partire dalla “Scuola di Chicago” in poi, sociologi della cultura, sociologi della devianza, antropologi culturali sino alla più recente etnografia sociale hanno avuto un occhio di particolare riguardo verso questo fenomeno urbano. La stessa sociologia maggiormente prona al convenzionalismo accademico, il funzionalismo parsoniano, non ha disdegnato di assumere le gang nei perimetri della sua ricerca. In Italia di ciò vi è sicuramente poca traccia. Il provincialismo del mondo accademico italiano è talmente noto da non fare neppure notizia così come è altrettanto noto, corollario di quanto appena asserito, la sua ostilità nei confronti di ciò che proviene al di là dei propri confini nazionali. Se, a conti fatti, si trattasse solo di ciò potremmo risolvere semplicemente il tutto facendoci ragione di un mondo accademico particolarmente conservatore e ampiamente bigotto, tuttavia la questione assume contorni che vanno ben oltre gli angusti perimetri nazionali. Il disinteresse per queste forme di “socialità subalterna” sembra essere diventato moneta corrente a trecentosessanta gradi nell’intero panorama delle scienze sociali occidentali, il che non è casuale. Il fatto che le masse siano uscite dai radar di ciò che, in senso ampio, possiamo definire ricerca sociale racconta qualcosa di non secondario. Ciò che ormai da tempo è accaduto è una delegittimazione dei mondi subalterni i quali, se esistono, lo sono solo in quanto ricettacoli di devianza, degrado, emarginazione e via dicendo. Non è un caso, quindi, che solo lo stigma diventi il contenitore nel quale inserire tutto ciò che non è consono alle retoriche dell’individuo-cittadino. Provare a incrinare questa gabbia di luoghi comuni non è certo tutto, ma è sicuramente qualcosa.

Millennial e “piccoli uomini”
Da qualche tempo a Genova sembra essersi materializzata una nuova ed ennesima “emergenza”: lo spettro delle gang giovanili albanesi. Risse, furti, scippi, spaccio, ancorché di modeste proporzioni, sono ciò che, nelle retoriche di senso comune, fa da sfondo allo “stile di vita” dei giovani albanesi. Non si tratta certo di una invenzione mediatica anche se, per onestà intellettuale, in contemporanea andrebbe ricordato il massiccio utilizzo e sfruttamento di questa giovane forza lavoro in attività particolarmente dure come quelle edili, dei ponteggi o del facchinaggio. Lavori sottopagati e in nero di cui l’attuale ciclo di valorizzazione del capitale appare particolarmente ghiotto. A questi si aggiungono i diversi impieghi, anche se in misura minore rispetto all’immigrazione africana e orientale, nei retrobottega della ristorazione e dei locali della “movida”. Significativamente gli appartenenti alle gang alternano attività legali ed extralegali in un continuum senza alcuna sorta di continuità. Ciò, per molti versi, li porta a essere un elemento paradigmatico di una condizione proletaria, ampiamente diffusa e continuamente in estensione, dell’era cosiddetta globale. Una realtà esistenziale, propria di ampie quote di proletariato soprattutto “extracomunitario”, dove la linea di confine tra attività lecite e illecite è particolarmente sottile. Ma non anticipiamo troppo.

Partiamo, intanto, con il definire la condizione politica ed esistenziale dei giovani albanesi. Anche loro, anagraficamente, fanno parte della generazione Millennial ma le assonanze con gran parte dei loro coetanei europei finiscono esattamente qua, soprattutto perché la così detta fase adolescenziale, che sociologi e psicologi ammalati di un inguaribile etnocentrismo considerano condizione universale, rimane una dimensione e una condizione a questi obiettivamente sconosciuta5. Più realisticamente il loro dato anagrafico corrisponde a quella dimensione di “piccolo uomo” la quale, a conti fatti, è la condizione comune dei minori in gran parte del mondo. Non a caso, e chiunque abbia minimamente a che fare con loro (ma la cosa è assolutamente identica per i giovani provenienti dall’Africa, dal Medio Oriente o dai diversi paesi orientali) può facilmente riscontrarlo, mostrano non poche difficoltà a comprendere il senso dello “essere minori”. Tutto ciò ha ben poco a che vedere con quella dimensione, tanto cara ai “multiculturalisti” di ogni sorta, con l’astrattezza della dimensione culturale, ma detta incomprensione affonda le sue radici in una condizione materiale sostanzialmente tanto estranea quanto distante a quella dei nostri Millennial.
Più che focalizzare lo sguardo sulle culture diverse occorre, allora, tenere a mente la diversa materialità che fa da sfondo alla vita dei “piccoli uomini” albanesi rispetto a una parte degli adolescenti nostrani. Una parte perché anche all’interno dei nostri mondi, tra chi può vantare la condizione propria del Millennial e ampie quote di minori subalterni, si assiste a una cesura non proprio secondaria. Al proposito è sufficiente ricordare la “differenza antropologica” riscontrabile tra gli studenti di un liceo e quelli di un istituto professionale, per non parlare delle quote non propriamente irrisorie di coloro che vanno a riempire le schiere degli “abbandoni scolastici” e coevo inserimento nell’indistinto mondo del lavoro occasionale o delle micro-attività illegali.

Mentre i Millennial approdano in maniera pressoché inerziale nella dimensione del giovane per sempre i “piccoli uomini”, in maniera altrettanto inerziale e sovra determinata, sono obbligati a crescere in fretta6. Le derive alle quali sono obbligati non consentono loro incertezze di sorta. Immersi nella dimensione del più duro e bieco darwinismo sociale non possono far altro che marciare o morire. Per quanto sinteticamente tutto ciò evidenzia come, nelle nostre società, le tradizionali differenze di classe abbiano finito con il cambiare pelle. Tra i Millennial e i loro coetanei non vi sono semplici differenze di status e di reddito ma uno scarto che può essere definito “antropologico”. All’inclusione e legittimità dei primi si contrappone l’esclusione e l’illegittimità dei secondi. A partire da qua, allora, diventa possibile, in maniera “avalutativa”, comprendere tutto ciò che il fenomeno gang si porta appresso.

Genealogia delle gang
Nel descrivere i comportamenti dei giovani albanesi attualmente presenti sul territorio genovese sono almeno tre gli aspetti che vanno tenuti a mente. Il primo ha a che vedere con il fenomeno dell’immigrazione interna consumatosi in patria. Gran parte di loro, infatti, proviene dalle zone rurali dell’Albania dove, prima del salto in Europa, hanno stazionato per periodi più o meno lunghi nei centri urbani del loro paese. Il punto di partenza è una condizione di estrema povertà e privazione dove, in non pochi casi, mettere insieme il pranzo con la cena ha ben poco di scontato il che non è per nulla un modo di dire. Una minima conoscenza delle loro biografie racconta come pane, olio e sale siano stati sovente la loro alimentazione base. Una differenza non proprio inessenziale con i nostri mondi dove una quota non proprio irrisoria di popolazione spende molto di più per dimagrire che per nutrirsi. Questa condizione di carenza alimentare, al limite del famelico, può essere facilmente testimoniata da chiunque abbia avuto a che fare con i minori albanesi inseriti in una qualche struttura deputata all’accoglienza dei “minori stranieri non accompagnati”. Il cibo somministrato a pranzo e cena, tra l’altro non proprio di ottima qualità, si trasforma, almeno inizialmente, in un vero e proprio “assalto alla diligenza”. Con buona pace dei multiculturalisti lo stomaco e non una qualche forma di hybris culturalmente determinata detta i loro ritmi e tempi. Detto ciò torniamo al nostro ragionamento.
Qua, ovvero negli ambiti urbani nei quali sono approdati, sono andati a infoltire quelle schiere di forza lavoro a buon mercato della quale il comando del capitale è famelico. Ma comando del capitale in astratto vuol dire poco se, al contempo, non se ne concretizzano le sembianze. Ed è esattamente qui che i giochi si complicano ma si fanno anche interessanti. Comando capitalistico, in Albania, significa in gran parte “comando italiano”. Ciò che non era riuscito all’impresa imperiale fascista, che proprio in Albania aveva conosciuto l’ennesima sua disfatta, ha trovato una corposa rivincita attraverso il recente colonialismo democratico proprio della cosiddetta era globale. In Albania si sono precipitate frotte di aziende e industrie italiane le quali hanno impiantato siti produttivi dove, in maniera semi-schiavistica, hanno potuto mettere al lavoro, in pieno accordo con i diversi governi che si sono succeduti nel paese, parti non irrilevanti delle masse proletarie e subalterne locali. L’Albania, come ampiamente noto, è il paese con i salari più bassi del Continente europeo e dove le protezioni sociali si materializzano solo dopo la masticazione di qualche fungo allucinogeno.
Per le imprese italiane si è trattato di una opportunità senza precedenti e non si sono certo fatte sfuggire l’occasione. A conti fatti l’Albania è un paese colonizzato con governi del tutto proni alle esigenze del comando capitalistico internazionale e, sotto il profilo militare, sotto tutela NATO. In tutto ciò l’Italia gioca un ruolo di attore protagonista. Le pessime condizioni di vita ed esistenza della popolazione albanese sono, in buona parte, frutto della dominazione economica italiana. Ciò non sfugge, senza dover essere esperti di geopolitica e geo-economia, ai giovani subalterni albanesi i quali, nei confronti del nostro paese, non nutrono sentimenti particolarmente sereni e amichevoli. Succede, con i giovani albanesi, ciò che accade abitualmente con gli immigrati africani dell’area francofona. Chi, in qualche modo ha avuto a che fare con quella immigrazione, sa benissimo quanto astio e odio i giovani africani francofoni nutrano nei confronti della Francia la quale, a tutti gli effetti, continua a esercitare una dominazione di stampo coloniale nei confronti delle ex colonie. Per i giovani albanesi l’Italia rappresenta esattamente ciò che la Francia incarna per i loro coetanei africani.
Non senza ragione, quindi, nei comportamenti “barbari” dei giovani albanesi si potrebbe leggere una sorta di anticolonialismo istintuale il quale, come ben ha rilevato Fanon, finisce con il far sorgere nel colonizzato il desiderio di sostituirsi al colono. Infatti, contrariamente a quanto amano pensare o, più realisticamente, desiderare le anime belle della sinistra perbenista sempre alla ricerca di un mitico selvaggio, la condizione del quale può essere facilmente ascritta al “grado zero, da educare e plasmare al fine di edificare l’uomo nuovo, i giovani albanesi, ma la cosa vale per l’insieme dei soggetti migranti, hanno ben poco di selvaggio, piuttosto è la figura del barbaro quella che meglio gli si addice. In ciò, con grande disappunto degli educazionisti di ogni genere e risma, mostrano una corposa sintonia con i nostri modelli culturali e morali. In un mondo fondato sul dominio i “nuovi barbari” provano a dominare a loro volta. Dentro questa contraddizione e non andando alla ricerca del buon selvaggio, semmai, è necessario lavorare per far sì che questo anticolonialismo istintuale si trasformi in qualcosa di diverso. Dentro questa strettoia occorre saper agire. In ciò non vi è alcuna certezza ma, come la storia del nostro paese racconta a proposito delle gang e delle “batterie” degli anni Settanta, sicuramente una possibilità che occorre saper cogliere e coltivare. Riassumendo, quindi, l’astio nei confronti della nostra dominazione neocoloniale è il primo aspetto che occorre tenere presente quando si affronta la questione delle gang giovanili albanesi. Questa la cornice oggettiva da tenere costantemente a mente.

(Fine prima parte)


  1. Per una buona disamina di queste retoriche si può vedere, Alessandro Dal Lago, Polizia globale: guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003.  

  2. Ho provato a descrivere empiricamente queste procedure poliziesche in relazione alla “rivolta della banlieue”, Emilio Quadrelli, Militanti politici di base. Banlieuesards e politica, in Matilde Callari Galli (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi, Rimini 2007.  

  3. I senza nome, scritto e diretto da Jean-Pierre Melville, è un film noir italo–francese del 1970.  

  4. Cfr. Alessandro Dal Lago, Emilio Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003.  

  5. La figura del “minore” ha ben poco di universale e ancor meno di naturalistico, ma è il frutto di determinati “ordini discorsivi” e di “potere”. Al proposito si veda, Egle Becchi, Dominique Julia (a cura di), Storia dell’infanzia dal ‘700 a oggi, Laterza, Roma 1996.  

  6. Si veda al proposito, Cristiana Ceci, Francesco Iarrera (a cura di), Ho viaggiato fin qui. Storie di giovani migranti, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 2017.  

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Avanti barbari!/4 – Una precisazione necessaria https://www.carmillaonline.com/2024/08/28/avanti-barbari-4-addenda-1/ Wed, 28 Aug 2024 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84073 di Sandro Moiso

«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati ad impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Church di Detroit, 10 novembre 1963)

Alcune settimane or sono, nel primo intervento [...]]]> di Sandro Moiso

«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati ad impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Church di Detroit, 10 novembre 1963)

Alcune settimane or sono, nel primo intervento intitolato «Avanti barbari!» dedicato alla recensione di un testo di Louisa Yousfi, sono state fatte alcune affermazioni che, a giudizio di chi scrive, occorre ancora approfondire e chiarire, in tutta la loro reale portata, con una serie di precisazioni. A partire da quella, contenuta nel testo di Amadeo Bordiga del 1951, che «questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà.»

Motivo per cui non vi sarà nessuna continuità tra l’ordine sociale capitalistico e la novella società futura, se questa rifiuterà i fondamenti del primo. Il comunismo non potrà essere in continuità con il capitalismo, poiché, per essere definibile come tale dovrà costituirne la radicale negazione. Infatti, soltanto la rottura dell’ordine sociale, politico ed economico del modo di produzione capitalistico, a partire dalla sua macchina statale, potrà condurre ad un altro ordinamento sociale e produttivo. Destinato a negare radicalmente i valori ordinativi che una interessata interpretazione della Storia ha attribuito a ciò che si intende per civiltà.

Chi continua ad affermare il contrario dimostra soltanto di voler ancora illudere, e illudersi, che la transizione verso il nuovo mondo, non più basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta e accumulata e lo scambio mercantile e monetario, anche del lavoro prestato, possa avvenire senza scosse e senza abolire i pilastri, appena citati, che la fondano fin dalle sue origini.

Un’illusione che porta spesso a credere e sostenere che tale passaggio possa addirittura avvenire in virtù del voto di una maggioranza combattiva, ma anche ben educata e asservita alla mentalità liberale e democratica della partecipazione elettorale e parlamentare. Ma che ha anche giustificato la leggenda del socialismo di stato e del socialismo reale, a partire dall’URSS stalinizzata, in cui salari, moneta, mercato, appropriazione della ricchezza da parte dello Stato e dei suoi apparati politici ed economici avevano continuato a sopravvivere e a svilupparsi sulla pelle e lo sfruttamento di coloro che avrebbero dovuto essere, in teoria, i reali beneficiari della Rivoluzione d’ottobre e delle sue conseguenze: i lavoratori e il proletariato.

Illusioni che giustificano la partecipazione elettorale agli occhi di chi immagina che soltanto piccoli spostamenti dell’asse parlamentare e governativo possano condurre al socialismo e che, sempre in nome di velleitarie democrazie popolari e antifascismo da operetta, possono invece soltanto condurre al rafforzamento del potere del grande capitale sulla società. Come hanno recentemente dimostrato le elezioni francesi, in cui una sinistra vociferantesi radicale ha aiutato il ritorno al centro della scena politica di Emmanuel Macron, sfiancato e sfinito dalle due precedenti tornate elettorali, in nome di un antifascismo istituzionale che non fa altro che rafforzare il fascismo stesso.

E non si tratta nemmeno di porre il proletariato e i suoi rappresentanti al posto della classe borghese, come invece una mal compresa idea di dittatura del proletariato sembra invece suggerire, riaffidando al proletariato la gestione degli “affari nazionali”, dei confini della nazione e dei suoi apparati senza nulla modificare nella sostanza e nella continuità della gestione capitalistica dell’ordine ereditato. Condannandolo a rimanere nei limiti definiti da una riduttiva interpretazione della sua funzione sociale. Mentre nella visione dei fondatori del comunismo moderno la classe oppressa, nel raggiungere i propri obiettivi, dovrà innanzi tutto negare se stessa.

Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità, nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile1.

Il proletariato negli scritti di Marx ed Engels è, prima di tutto, rivoluzionario contro se stesso, contro le proprie forme di esistenza e sopravvivenza impostegli dal Capitale e dai suoi funzionari. Il proletariato è estraneo per forza di cose all’ordine che sarà costretto a distruggere, perché la classe oppressa, che sempre secondo Marx «o lotta o non è», ne è esclusa e non troverebbe alcun vantaggio nel farsi definitivamente integrare nello stesso. Sforzo che tutte le forze opportuniste di sinistra e il fascismo hanno portato avanti nel tentativo di disarmarlo. Il proletariato è dunque barbaro per sua intima essenza, e solo questa barbarie, questa sua estraneità mantenuta e difesa, potrà liberarlo dal giogo dell’oppressione permettendogli di rimanere autenticamente umano.

Lo sforzo di integrazione del proletariato, bianco o internazionale che questo sia, rivendicato da socialdemocratici e liberali costituisce il tentativo di disarmarlo davanti al suo nemico per spingerlo ad accettare le regole del gioco decise dalla classe borghese e dai funzionari del capitale stesso. Un’integrazione in cui l’obiettivo finale è quello di uccidere ed eliminare definitivamente l’intrinseca tendenza alla ribellione compresa nelle condizioni di vita degli oppressi. Sia che si tratti di popoli oppressi e colonizzati, sia che si tratti dei lavoratori salariati, donne e uomini, delle metropoli colonialiste e imperialiste.

Coloro che non l’accettano devono essere per forza definiti “terroristi”, “banditi”, “delinquenti” e allontanati con la forza oppure eliminati fisicamente dal consesso civile. Questo diventa particolarmente visibile là dove popoli oppressi, e privati della possibilità di avere un propria organizzazione politica e militare riconosciuta, vedono definire come “terroristica” qualsiasi loro iniziativa o organizzazione in grado, pur tra mille difficoltà ed errori di valutazione, di mantenere l’iniziativa militare e politica nei confronti dell’oppressore.

Certo, l’ipocrisia borghese e liberale potrà sempre, in seguito, piangere sugli errori, le stragi e i macelli compiuti a danno degli oppressi. Che si tratti della Comune di Parigi oppure dello sterminio dei nativi americani oppure ancora del commercio degli schiavi africani e del mantenimento in condizioni di segregazione dei loro discendenti o ancora di mille altri casi, la commemorazione ex-post e il percuotersi istituzionalmente il petto per gli “errori commessi”, le giornate della memoria fasulle, non impediranno mai che, davanti all’aperta rivolta e azione armata degli oppressi, tutto possa ripetersi, con violenza sempre maggiore e sempre giustificata dalla necessità di difendere dagli estremisti e dai terroristi l’ordine costituito insieme alla libertà e alla democrazia che dovrebbe rappresentare.

Che si tratti di movimenti indipendentisti e anti-coloniali, di Black Panther oppure dell’American Indian Movementi degli anni Settanta o, ancora, dei movimenti di resistenza attuali in Palestina, poco cambia. La risposta sarà sempre la stessa: sangue e violenza senza limiti, giustificati dalla necessità di salvaguardare l’ordine occidentale e bianco, liberale e “democratico” del mondo.

Nel 1821, Nat Turner, che era nato in schiavitù nella contea di Southampton in Virginia, fuggì dalla schiavitù all’età di 21 anni. Circa un mese più tardi, ritornò alla piantagione del suo padrone dopo aver avuto una visione profetica che lo invitava a farlo. Le visioni continuarono mentre egli viveva in schiavitù ma, questa volta, Nat comprese che lo indirizzavano a guidare una rivolta di schiavi. Al fine di vendicarsi sui bianchi per la condizione di schiavitù in cui gli afro-americani erano tenuti. Così, nell’agosto del 1831, dieci anni dopo l’inizio delle sue visioni, Turner iniziò a pianificare la sua rivolta e, con altri schiavi – che raggiunsero al massimo il numero di quaranta – uccise il padrone, la sua famiglia e, nel giro di 48 ore, ogni altro bianco i rivoltosi trovassero sul loro cammino, giungendo ad ucciderne o ferirne circa sessanta. Turner fu catturato, imprigionato e condannato a morte per impiccagione, comprensiva di linciaggio e scorticamento del condannato. Come Randolph Scully ha annotato in Religion and the Making of Nat Turner’s Virginia Baptist Communty and Conflict 1740-1840, l’evento «scosse la confortevole illusione bianca del reciproco rispetto e affetto tra schiavi e proprietari.»2

Quella di Nat Turner è soltanto una delle prime ribellioni di schiavi sul territorio degli Stati Uniti, eppure sembra anticipare tutto ciò che sarebbe avvenuto in seguito e ancora avviene in ogni angolo di un mondo in cui la mannaia della supremazia bianca, travestita da giustizia, cade ancora su chiunque osi ribellarsi al suo sempre più frusto comando.

Che si tratti dei Mau Mau africani degli anni Sessanta del XX secolo, oppure dei piccoli gruppi di nativi che nell’Ottocento fuggivano dalle riserve indiane per portare, per poche ore o pochi giorni, la paura tra coloro che pensavano di averli definitivamente sconfitti o sottomessi, o della rivolta dei sepoy in India nel 1857, quando le truppe indiane della Compagnia delle Indie si ribellarono al dominio inglese, alzarono il vessillo della jihad prendendo il nome di mujahiddin e uccisero gran parte dei cristiani e degli europei di Delhi, la giustificazione per i successivi massacri è sempre stata la stessa: non nata sotto il fascismo, ma dalla stessa esigenza dell’imperialismo liberale di mantenere il proprio comando sugli oppressi in nome della civiltà e dei suoi diritti3, mai radicali e sempre inegualmente distribuiti, secondo linee in cui classe e colore si sovrappongono senza sosta.

Dedicato con affetto, stima e, allo stesso tempo, rabbia per la prematura scomparsa, alla memoria di Emilio Quadrelli, sempre e comunque schierato dalla parte della “zagaglia barbara”.


  1. K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845  

  2. Melissa A. Weber, Revolution Rebels: Nat Turner’s Rebellion, 2021.  

  3. Si vedano in proposito: Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Storia dell’Impero britannico, Einaudi editore, Torino 2024 (ed. originale 2022) e, sul tema della nascita del razzismo moderno con l’ordine coloniale imposto al mondo dall’Occidente a partire dal XIX secolo, Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Pratiche editrice, Parma 1992 (ed. originale Black Athena, 1987).  

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Andare a scuola dalle masse https://www.carmillaonline.com/2024/08/14/andare-a-scuola-dalle-masse/ Wed, 14 Aug 2024 05:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83620

Emilio Quadrelli è morto ieri, 13 agosto 2024. Avevamo in programma questo intervento di Marco Codebò sul suo ultimo geniale libro L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, che era stato già recensito da Sandro Moiso, ma che offre molteplici spunti di riflessione su quell’esperienza rivoluzionaria con cui è impossibile non fare i conti. Ho conosciuto Emilio Quadrelli leggendo il suo nome sui muri di Genova, quando le scritte con lo spray rosso ripetevano “Emilio ed Enza liberi”. Enza era Enza Siccardi.

Quadrelli non era semplicemente stato in carcere, lo aveva vissuto e da quell’esperienza umana e assieme politica e intellettuale ne [...]]]>

Emilio Quadrelli è morto ieri, 13 agosto 2024. Avevamo in programma questo intervento di Marco Codebò sul suo ultimo geniale libro L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, che era stato già recensito da Sandro Moiso, ma che offre molteplici spunti di riflessione su quell’esperienza rivoluzionaria con cui è impossibile non fare i conti. Ho conosciuto Emilio Quadrelli leggendo il suo nome sui muri di Genova, quando le scritte con lo spray rosso ripetevano “Emilio ed Enza liberi”. Enza era Enza Siccardi.

Quadrelli non era semplicemente stato in carcere, lo aveva vissuto e da quell’esperienza umana e assieme politica e intellettuale ne aveva tratto qualcosa di straordinariamente importante per esistere e per lottare. I suoi libri ora parlano per lui, per il compagno Emilio Quadrelli. [nico gallo]

 

Emilio Quadrelli. L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo. Roma: DeriveApprodi, 2024

di Marco Codebò

L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, è lo studio di tre congiunture della Storia – la Russia rivoluzionaria fra il 1905 e il 1917, l’Italia degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, il nostro presente – viste attraverso la lente del rapporto fra la classe da una parte e l’intellettualità rivoluzionaria, organizzata o no in partito, dall’altra. Cosa interessi Quadrelli quando parla di classe lo si comprende già dalla dedica del libro, indirizzata a “Rossano Cochis, un amico e un fratello…”. Cochis, rapinatore seriale, braccio destro di Renato Vallanzasca, autore di oltre quattrocento rapine, è stato un bandito degli anni Settanta. Quel che conta è che per Quadrelli sia un fratello, termine che suggerisce l’esistenza di un rapporto stretto di uguaglianza e solidarietà fra chi lo usa e la persona che ne è destinataria. Rapporto però, non fondato sulla comune condivisione di un’idea politica. Fratelli e non compagni, ad esempio, si chiamano fra di loro gli operai delle ditte di appalto dello stabilimento Fincantieri di Sestri Ponente a Genova, in gran maggioranza stranieri di religione musulmana.

La dedica de L’altro bolscevismo a un elemento di spicco della più famosa banda di fuorilegge “indipendenti”, non affiliati a organizzazioni mafiose o camorriste, della seconda parte del secolo scorso, aiuta a identificare le aree sociali cui si indirizza Quadrelli nella sua ricerca di soggettività potenzialmente rivoluzionarie. Sono i soggetti che il libro identifica con un nome proprio fin dalla seconda parte del titolo, Lenin l’uomo di Kamo. Kamo, al secolo Semion Aršakhovič Ter Petrosian (1882-1922), è stato un bandito georgiano. Collaborava con l’Ufficio Tecnico, l’apparato illegale del partito bolscevico, in particolare nel settore dell’autofinanziamento, al cui servizio poneva la sua notevole esperienza di rapinatore di banche e portavalori.

Il titolo del lavoro di Quadrelli è la citazione invertita di Kamo l’uomo di Lenin, una biografia del bandito tradotta in italiano da Bompiani nel 1974.[1] Il rovesciamento del rapporto di dipendenza tra Kamo e Lenin è l’espressione grammaticale della tesi centrale del libro di Quadrelli, ovvero che la soggettività del partito, Lenin, è al servizio di quella della classe, Kamo. Concetto, questo, che alberga una seconda eresia: la soggettività della classe si esprime con maggiore intensità e chiarezza nella pratica di vita del proletariato illegale, la criminalità indipendente, libera da legami con organizzazioni di tipo mafioso, piuttosto che in quella degli operai di fabbrica. Nel caso della Russia fra il 1905 e il 1917, cuore della classe sono appunto le bande dei fuorilegge come Kamo e non le officine Putilov, roccaforte operaia della Pietrogrado rivoluzionaria.

Nell’analisi di Quadrelli, Lenin guida il partito bolscevico fuori dalla linea della Seconda Internazionale, che fa dipendere il passaggio al socialismo da una tendenza oggettiva della Storia. Lenin abbandona così il positivismo determinista dei partiti operai dell’Europa occidentale per trasformare i bolscevichi nel “partito dell’insurrezione”, una formazione politica che persegue con tutte le sue forze la rottura del corso della Storia e scopre nella soggettività proletaria l’agente di tale frattura.[2] Quadrelli individua la radice della posizione leniniana (l’aggettivo leninista non compare mai nel testo) nel rapporto fra Lenin e i populisti di Narodnaja Volja (Volontà del popolo), a cui apparteneva suo fratello maggiore, Aleksandr, giustiziato nel 1887 per aver partecipato a un complotto contro la vita dello zar Alessandro III. Del populismo Lenin contrasta in ogni modo la tendenza a guardare all’indietro, a sognare un ritorno della Storia al passato, a idealizzare il contadino russo, ma adotta l’idea dell’inimicizia assoluta fra popolo e classi dominanti e soprattutto quella dell’intellettuale attivista, rivoluzionario di professione.

Lenin può concepire la rottura del flusso della Storia, che poi è sempre quella dell’Occidente e del suo inevitabile dominio sul mondo, afferma Quadrelli, perché è un non-europeo, un barbaro che nega l’educazione e la civiltà occidentali (p. 27). Un concetto, questo, della non-occidentalità di Lenin, che ne arricchisce la pratica politica di una componente anti-coloniale. Il Lenin di Quadrelli non agisce così sulla sola Russia, ma sul sistema-mondo; lo fa a partire dal punto di vista degli esclusi, i Kamo, siano essi i marginalizzati della metropoli o i colonizzati del Sud del mondo. La soggettività dei Kamo irrompe nella storia russa con la rivoluzione del 1905. È allora che gli intellettuali populisti vanno a lezione dal proletariato extralegale. Imparano dalla guerra partigiana che si diffonde in Russia nel 1905 e nel 1906 (pp. 34-41). E vanno a lezione anche dalle “es”, gli espropri, motivati o no politicamente, che nello stesso biennio conoscono una crescita impressionante in tutto il paese. I bolscevichi dimostrano di aver appreso la lezione degli extralegali nel 1907, quando organizzano, sotto la guida di Kamo, una rapina a Tiflis, in Georgia, che trasferisce nelle casse del partito un bottino di 250.000 rubli, pari a circa mezzo milione di euro attuali.

Lenin tiene in alta considerazione la spontaneità, ma si rifiuta al tempo stesso di adorarla. Si tratta piuttosto di trasformarla in un progetto politico coerente: la guerra partigiana, per esempio, va guidata perché, se lasciata a se stessa, può degenerare nel banditismo. Così, fra il 1905 e il 1917, i bolscevichi mettono in pratica la direttiva leniniana di andare a scuola dalle masse per poterne diventare la testa cosciente. Nell’ultimo atto di questo percorso, nell’ottobre del ‘17, il partito fa sue le scelte più avanzate della classe e conquista il potere. Ma per arrivare a questo un passaggio, dopo il suo rientro in Russia il 3 aprile di quell’anno, Lenin si trova di frequente a lottare da solo contro il resto della dirigenza del partito bolscevico. È un processo rappresentato con efficacia in October: The Story of the Russian Revolution (2017), una storia del ‘17 scritta con gli strumenti e il talento del romanziere. L’autore, China Miéville, racconta come Lenin si schieri contro la linea della maggioranza del partito fin dal suo arrivo a Pietrogrado, il 3 aprile del 1917. Può agire così perché coglie qualcosa che agli altri dirigenti bolscevichi resta irraggiungibile, il rifiuto della guerra da parte delle masse. Si collega così alla soggettività dei soldati che disertano e abbandonano il fronte, nonché a quella dei proletari urbani e dei contadini poveri che lottano contro i sacrifici, a partire dalla chiamata alle armi, imposti dal regime di guerra. Si tratta di soggettività più avanzate di quella dei bolscevichi, che ancora ad aprile sono contrari al disfattismo anti-Governo provvisorio e vicini alla riunificazione con i menscevichi. I disertori e renitenti alla leva sono i Kamo del ‘17. È da loro che il partito impara a rifiutare in maniera radicale la guerra, quel conflitto che per il Lenin delle Tesi di Aprile non è altro che una forma imperialista di brigantaggio.

Nella seconda parte del suo studio, Quadrelli si accosta all’Italia degli anni fra il 1960 e il 1980. È un “ventennio rosso”, in cui si assiste a un enorme soprassalto di soggettività. Espressione di tale eccesso sono cinque rivolte di strada: Genova 1960; Torino, Piazza Statuto, 1962; Valdagno 1968; Roma, Valle Giulia, 1968; Torino, Corso Traiano, 1969. Quadrelli affida il racconto di quei vent’anni a cinque storie di vita, tutte biografie che si snodano a cavallo fra legalità e illegalità. A parlare, insomma, sono cinque Kamo – M.C., Graziano, Anna, Vittoria e Mauro – le cui esperienze personali si intrecciano con gli avvenimenti della storia grande.

Particolarmente significativa del peculiare rapporto fra legalità e illegalità che informa queste vite è la storia di Vittoria, una compagna del movimento genovese che ne attraversa varie espressioni, Lotta Continua, un Collettivo femminista legato al Manifesto, il comitato di agitazione di Lettere e Filosofia, l’Autonomia, sempre rimanendo se stessa, una soggettività irriducibile sia alla logica del capitale sia a quella della militanza politica totalizzante. Vittoria non è mai stata né una clandestina né una bandita, eppure partecipa a un’operazione illegale di notevole rischio e significato: la tentata liberazione di alcuni prigionieri politici dal carcere di Perugia. Segno che la soggettività delle Kamo degli anni Settanta, come quella del bandito da cui prendono il nome, non si limita ad agire sul terreno della spontaneità ribelle, ma è anche in grado di gestire momenti di confronto con lo Stato che richiedono un notevole livello di organizzazione.

Fra le aree intellettuali e politiche che si confrontano con il popolo ribelle del “ventennio rosso” italiano, va da sé che all’operaismo tocchi il primo posto, posizione che gli spetta a partire dalla pubblicazione della trontiana “Linea di condotta” nel 1966. Quadrelli, tuttavia, legge una debolezza di metodo nell’approccio operaista alle lotte della classe: gli operaisti non sanno andare al di là del tratteggiare un perenne conflitto in fabbrica. Descrivono uno scontro in cui le posizioni degli avversari restano congelate per sempre: da una parte lo stato-piano, dall’altra la sinistra operaia che lotta contro il lavoro. Alla fine, l’operaismo esce dall’impasse scegliendo il primo termine del confronto, ovvero il riformismo.

Al posto della mera teorizzazione del conflitto, quel che è da fare, sostiene Quadrelli, è osservare l’emergere di un soggetto che si incarichi della critica dell’economia politica. Nell’Italia degli anni Settanta, questa soggettività è rappresentata dal colonizzato – l’emigrato dal Sud, un colonizzato interno – che rifiuta il lavoro. Nel ciclo di lotte che questo soggetto ha ispirato, destinato a spegnersi intorno al 1982, il comunismo si afferma come programma immediato della classe. Ci sarebbero quindi state le condizioni per un ritorno a Lenin, mettendo cioè Kamo, il colonizzato ribelle, al centro della linea politica. Ma negli anni Settanta in Italia Lenin è assente, c’è solo Kamo. Gli intellettuali che hanno decodificato la soggettività operaia, quella del rifiuto del lavoro, nel 1973 abbandonano la lotta o si uniscono, in qualche caso, alle Brigate Rosse. Il passaggio al partito non si compie e Kamo rimane solo.

In quegli anni, in parallelo al manifestarsi di una soggettività antagonista in fabbrica, nasce nel sociale una nuova criminalità, la stessa che Quadrelli ha esplorato diverse volte nella sua ricerca, con particolare efficacia nel notevole Andare ai resti (Roma: DeriveApprodi, 2004). È il mondo delle “batterie”, i nuclei informali, basati sull’amicizia, in cui si raccolgono i rapinatori degli anni Settanta. Una volta in carcere, i Kamo italiani combattono l’ordine carcerario imposto dalla malavita tradizionale, in cui i boss malavitosi collaborano con le guardie carcerarie nel controllo della popolazione detenuta. Quelli delle batterie, i “bravi ragazzi”, stabiliscono invece in carcere un ordine basato sulla fratellanza. Durerà fino all’assassinio, nello speciale di Nuoro, di Francis Turatello, gangster milanese che coi bravi ragazzi delle batterie condivideva il rifiuto di qualsiasi accordo o collaborazione con gli apparati statali. L’assassinio di Turatello segna un cambio di paradigma del tutto simile a quel che accade fuori dalle prigioni, con la trasformazione dei soggetti ribelli, legati fra di loro da rapporti di solidarietà sovversiva, in individui privi di vincoli e legami sociali. In questo senso, assolve la stessa funzione, in carcere, che la marcia dei 40.000, nell’ottobre 1980, ha assolto in fabbrica.

Nella terza parte de L’altro bolscevismo, Quadrelli si sofferma sul nostro presente. Lo fa partendo ancora una volta da Lenin, quello che, nella Russia del primo Novecento, fa suo il punto di vista del colonizzato (p. 153). Anche oggi, davanti alla guerra, può agire solo il partito dell’insurrezione, centrato però su una nuova soggettività, diversa da quella, non più utilizzabile, degli anni Sessanta e Settanta. Ci vuole un nuovo popolo, sinteticamente espresso nella formula Lenin più Fanon. Occorre passare dal partito di Mirafiori a quello delle banlieues: la marginalità di oggi, che comprende quote significative di salariati, corrisponde alla condizione operaia di ieri. L’esclusione come dato interno alla condizione lavorativa inizia con la fine dell’Unione Sovietica, nel 1991. È un processo che si combina il trasferimento di intere filiere produttive (localizzate nel tessile, nella siderurgia, nell’abbigliamento, nella meccanica) nell’est e nel sud del mondo e la conseguente emarginazione sociale di ampi settori della classe operaia del cosiddetto “primo mondo”. Mentre le masse sono espulse dalla vita pubblica, di fronte alla borghesia, come accade nel modello coloniale di società, restano solo canaglie e anormali. Espressione materiale, visiva, di tale situazione è l’urbanistica delle moderne metropoli. Ma nelle banlieues Kamo continua a lottare. Quel che manca è sempre Lenin.

Quadrelli vede in Kamo una figura politica che, dal 1905 ai giorni nostri, in diverse situazioni, trascende ogni volta i limiti del proprio contesto storico e geografico. Collocare Kamo al centro di più di un secolo di pratiche rivoluzionarie permette a L’altro bolscevismo di raggiungere il suo obiettivo chiave: dimostrare la vitalità di Lenin a più di cent’anni dall’ottobre russo. Se il referente di classe di Lenin fossero stati, ad esempio, gli operai delle Officine Putilov, allora i rapporti fra partito e classe sarebbero, di necessità, cambiati nel tempo. Dopo i processi di ristrutturazione industriale iniziati negli anni Ottanta, che hanno comportato un drastico ridimensionamento della centralità produttiva e politica della classe operaia di fabbrica in tutto l’Occidente, anche il partito leninista avrebbe dovuto affrontare un significativo processo di aggiustamento. Ma se la soggettività rivoluzionaria si (ri)produce sempre all’interno del medesimo strato di esclusi, allora anche lo stesso strumento politico, il partito leninista, mantiene intatta tutta la sua vitalità.

[1] Il libro uscito per Bompiani è la traduzione italiana, ad opera di Luisa Cortese, di Jacques Baynac, Kamo, l’homme de main de Lenine (Paris: Fayard, 1972).

[2] “Partito dell’insurrezione” è una citazione da un verso dell’inno di Potere Operaio, gruppo operaista della sinistra extraparlamentare italiana nei primi anni Settanta: “Stato e padroni fate attenzione nasce il partito dell’insurrezione”. L’inno rimanda a sua volta a una serie ragguardevole di altre canzoni rivoluzionarie, dalla Polonia alla Russia, dall’Inghilterra alla Spagna, per mezzo della comune base musicale, tratta dalla Warszawianka, canto socialista polacco del tardo Ottocento.

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Kamo, Lenin e il “partito dell’insurrezione” https://www.carmillaonline.com/2024/07/17/kamo-lenin-e-il-partito-dellinsurrezione/ Wed, 17 Jul 2024 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83421 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 208, 18 euro

Oratori silenzio! A voi la parola compagno Mauser. (Vladimir Vladimirovic Majakovskij, Marcia di sinistra)

Sono numerosi i contributi e le ricerche di Emilio Quadrelli sullo sviluppo e la storia dei movimenti antagonisti e rivoluzionari, così come sulle problematiche che gli stessi, anche in situazioni di riflusso sociale come quella che accompagna i nostri giorni, devono costantemente prepararsi ad affrontare. Per questo motivo si è scelto di aggiungere in coda alla presente recensione una bibliografia, certamente ancora incompleta, dell’opera e degli articoli dello [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 208, 18 euro

Oratori silenzio!
A voi la parola
compagno Mauser.

(Vladimir Vladimirovic Majakovskij, Marcia di sinistra)

Sono numerosi i contributi e le ricerche di Emilio Quadrelli sullo sviluppo e la storia dei movimenti antagonisti e rivoluzionari, così come sulle problematiche che gli stessi, anche in situazioni di riflusso sociale come quella che accompagna i nostri giorni, devono costantemente prepararsi ad affrontare. Per questo motivo si è scelto di aggiungere in coda alla presente recensione una bibliografia, certamente ancora incompleta, dell’opera e degli articoli dello studioso e, soprattutto, militante genovese che nel corso degli ultimi anni ha fornito anche alla nostra testata.

Detto e sottolineato questo, però, va detto che a giudizio di chi scrive il testo da poco pubblicato da DeriveApprodi può costituire una specie di summa dell’interpretazione data dall’autore dell’azione di classe e del rapporto intercorrente tra questa e lo sviluppo di una coerente teoria rivoluzionaria, capace di fornire ai militanti dei movimenti e al processo destinato a superare lo stato di cose presenti una cassetta degli attrezzi non permeata dall’ideologia e dai suoi evidenti limiti, ma capace di resistere alle chimere di questo tempo infame per superarlo.

Non per nulla il volume si intitola L’altro bolscevismo e rovescia, nel sottotitolo ma non soltanto, quel Kamo, l’uomo di Lenin che era stato il titolo della più celebre opera pubblicata in Italia1 sulla figura del militante, bandito e combattente irriducibile che dal 1903 al 1922, anno della sua morte per una banale caduta dalla bicicletta, avrebbe dato prova di una fedeltà totale alla causa della Rivoluzione proletaria e comunista. Motivo per cui avrebbe trascorso, in fasi e periodi diversi, una buona parte della sua vita nelle carceri zariste.

Il rovesciamento del titolo non corrisponde soltanto alla necessità di superare la visione parzialmente romantica dell’eroe fornita dal testo di Baynac ma, soprattutto, da quella di spezzare letteralmente la vulgata che si è data a Sinistra del rapporto intercorrente tra prassi e azione in Lenin e nel suo partito. Una lettura mitopoietica, tutt’altro che dialettica, che sempre ha anteposto all’analisi concreta dello sviluppo dell’attività rivoluzionaria, anche sul piano militare e della “forza”, quello della capacità critica del singolo individuo, in questo caso Lenin, “solidamente” formatosi nella tradizione marxista.

Una lettura sviluppatasi sia in ambito staliniano che in quello dell’antistalinismo, che ha cercato di fare del rivoluzionario e dirigente russo una sorta di deus ex-machina della rivoluzione bolscevica che le varie fazioni in gara per contendersene l’eredità hanno potuto citare e, probabilmente, mutilare per poter rivendicare la propria “autentica” se non “unica” discendenza. Accantonando, nel fare ciò, la realtà della Storia e la concretezza dell’azione militante richiesta per giungere alla Rivoluzione di ottobre e alla sua successiva influenza sul movimento comunista internazionale.

Oggi, in anni in cui quest’ultimo termine ha cominciato a risultare un po’ troppo vago per definire lo sviluppo di un nuovo movimento antagonista capace di rovesciare gli attuali rapporti di produzione su scala mondiale, è salutare l’impegno di Quadrelli teso a dimostrare i diversi apporti, spesso dal basso e da aree politiche poi rimosse, in nome dell’”ortodossia”, dal curriculum del partito bolscevico, da cui derivò il successo dello stesso, prima e dopo il 1917.

Parafrasando l’incipit di un famoso e probabilmente dimenticato editoriale degli anni Sessanta2 iniziamo con una asserzione che non lascia spazio a equivoci e tanto meno a malintesi di sorta: cominciamo con il dire Kamo poiché, ciò che con il testo presente si è provato a ricostruire è la fabbrica della strategia leniniana, o l’altro bolscevismo, osservando la figura di Kamo come esemplificazione di tutto questo. Con ciò proveremo a discutere e leggere Lenin in maniera decisamente poco convenzionale, nella convinzione che il brigante del Caucaso (questo l’altro modo in cui Kamo, specialmente nella narrazione popolare è passato alla storia) rappresenti, non il tratto folcloristico del bolscevismo, bensi la cartina tornasole della teoria leniniana stessa3.

Come afferma fin dalla prima pagina, l’autore va a ricostruire su più solide e materialistiche basi lo sviluppo di quella che è stata considerata la fabbrica della strategia leniniana, in cui, occorre dirlo da subito, l’audacia (esattamente come nel pensiero militare di Napoleone) ha giocato un ruolo essenziale. Sia sul piano teorico che pratico. Una teoria e una prassi politica, oltre che militare, dell’audacia di cui Kamo costituì l’autentica e, forse, insuperata epitome.

Il testo di Quadrelli si divide in tre parti ben distinte. Nella prima (L’altro bolscevismo. Kamo, Lenin e il «partito dell’insurrezione», pp. 5- 69) viene evidenziato come non pochi tratti del populismo politico russo, di cui Marx nell’ultima parte della sua vita fu estimatore nonostante l’opera di rimozione in seguito condotta a partire da Plechanov4, divennero parte costitutiva dell’eresia leniniana. Nella seconda parte (La stagione di Kamo, pp. 70-146), avvalendosi delle metodologie della storia orale e della ricerca etnografica, si ricostruisce la ricezione che i militanti politici di base ebbero di Kamo nel corso degli anni Settanta. Mentre nelll’ultima (S’avanza uno strano soldato, pp. 147-204), declinata al presente, si argomenta la necessità di una ripresa «metodologica», senza dogmi di sorta, dell’eresia di Kamo e di Lenin.

In questa terza e ultima parte del libro si rivela la summa teorica, si potrebbe dire, dell’ulteriore eresia di Quadrelli che inizia là dove egli si pone una domanda tipica del presente:

esiste oggi “una questione immigrazione”? La risposta appare scontata. Ma cosa significa porsi questa domanda se non riconoscere che, in fondo, gli immigrati sono un corpo estraneo alle nostre societa? Cosa significa porsi “la questione immigrazione” se non percepire l’immigrato come qualcosa che rompe gli equilibri dei nostri mondi? Cosa significa ratificare l’esistenza dell’extracomunitario se non continuare a pensare che esiste un qua e un rigidamente separati. In fondo le retoriche dell’accoglienza o del respingimento che tanto animano il dibattito politico europeo soggiacciono alla medesima logica: “gli immigrati sono altro da noi”.
Ma gli immigrati sono veramente altro? I Paesi dai quali provengono sono veramente qualcosa che non ha nulla a che vedere con i nostri mondi? In altre parole, siamo ancora dentro i confini della vecchia fase imperialista? Ecco che, se posta in questi termini, la domanda sull’esistenza o meno di una “questione immigrazione” appare meno ovvia e scontata di quanto, in prima battuta, poteva apparire. La cosiddetta questione immigrazione, a ben vedere, non e altro che lo specchio per nulla deformato di cio che la fase imperialista globale ha prodotto. Gli immigrati e con loro i rispettivi Paesi di origine non sono l’arcaicità che approda al moderno, non sono i retaggi di un qualche ritardato modello di sviluppo, non sono il frutto esotico che improvvisamente compare nel mercatino rionale sotto casa, ma l’avanguardia, sotto il profilo politico e sociale, dell’attuale modello politico, economico e sociale capitalistico. Gli immigrati non sono plebi, lumpen, e chi più ne ha più ne metta. Gli immigrati sono la concretizzazione della figura proletaria prodotta dal punto piu alto dello sviluppo capitalista. Sono la storia del presente, non del passato5.

Per poi proseguire affermando che:

La polarizzazione sociale dell’attuale fase imperialista non può che proletarizzare gran parte di quella middle class sulla quale poggiava per intero il “consenso di massa” al potere imperialista nelle nostre società. La classe media e l’aristocrazia operaia occidentali di un tempo, il che è ampiamente comprensibile, rimangono strenuamente ancorate alle coordinate del vecchio mondo imperialista, guardando con avversione e terrore l’imporsi del nuovo ordine imperialista globale. La loro battaglia di retroguardia è tutta tesa ad evitare di precipitare dentro la condizione di vita del proletariato internazionale, non certo a sovvertire il modo di produzione capitalista. Per loro, ma non per il proletariato internazionale, la conservazione dei perimetri politici dello Stato Nazione è qualcosa di assolutamente appetibile e desiderabile. In fondo ciò a cui questi settori sociali mirano è la conservazione di un modello politico in grado di riconvertire nelle loro tasche una quota dei sovra-profitti rastrellati dall’imperialismo sulla pelle e sul sangue delle popolazioni extraoccidentali.
Questi settori, del resto, si sono sempre mostrati ampiamente schierati contro le insorgenze di popolo e proletarie di carattere radicale. Basti pensare, solo per citare esempi tanto noti quanto macroscopici, alla “linea di condotta” di questi segmenti di classe in Francia nel corso della Rivoluzione algerina, oppure nei confronti del movimento antimperialista tedesco degli anni
Sessanta e Settanta o nell’Italia del decennio insurrezionale. Centrale in questo ragionamento è il riconoscere come oggi siamo posti di fronte ad una trasformazione radicale sia della forma-stato che ha fatto da sfondo al nostro ‘900 sia della composizione di classe e della sua soggettività6.

Ed è a questo punto che Lenin, sempre secondo Quadrelli, torna ad insegnarci qualcosa, al di fuori degli schemi:

Abbiamo visto come, per Lenin, la lotta di classe e la soggettività a questa coeva siano il solo e unico termometro su cui misurare l’agire del partito. Tutto ciò, ovviamente, ha delle ricadute non secondarie sull’organizzazione e il suo modello. Abbiamo visto come, per Lenin, l’organizzazione sia sempre il prodotto storico della lotta di classe, quindi di una determinata composizione di classe e della soggettività di questa. L’organizzazione non è mai data una volta per tutte ma, volta per volta, il partito formale è tale solo se in grado di essere la materializzazione storicamente determinata del partito storico. Dentro le fasi storiche, e su questo Lenin, come si e ricostruito nei paragrafi precedenti, scrive cose che non lasciano dubbi in merito, l’organizzazione deve essere sempre in grado di cambiare pelle. Per farlo, non di rado, deve letteralmente gettare per aria tutto ciò che solo un attimo prima poteva considerarsi il punto di vista politico e organizzativo più elevato del conflitto di classe. Ma la storia, la lotta di classe, come non cessa mai di ammonire Lenin, obbligano a balzi, rotture e fratture che scompaginano e disorientano anche lo stesso partito d’avanguardia poiché quest’ultimo non può essere o pensarsi come soggetto astorico immune dalla dialettica storica. Ciò che vale per la classe, vale per il partito. Per questo tra partito formale e partito storico non può che esistere una costante dialettica storica in virtù della quale il partito formale è soggetto a una permanente mutazione.
Mantenere la struttura, la forma e le retoriche del partito formale all’interno di un contesto storico trasformato vuol dire condannarsi all’estinzione. Ciò che e valso per i populisti, incapaci di leggere il mondo nuovo che avevano di fronte e perciò condannati a estinguersi o a sopravvivere nell’ambito dell’archeologia storica, vale non meno per il movimento comunista. Chi non coglie il portato delle giornate rivoluzionarie e, a partire da ciò, non e in grado di organizzare e rilanciare ciò che la lotta di classe ha posto all’ordine del giorno si pone, obiettivamente, fuori dalla storia7.

Purtroppo, e per sole ragioni di spazio e tempo di lettura, occorre fermare qui l’analisi di un testo e di un’opera, quella complessiva di Quadrelli, che soltanto negli anni a venire dimostrerà appieno la sua utilità e indispensabilità per il ragionamento militante. Ecco perché vale davvero la pena di iniziare a conoscerla fin da oggi.

Bibliografia (sommaria) delle opere di Emilio Quadrelli.

La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, (con Alessandro Dal Lago), Feltrinelli Editore, Milano 2003

Andare ai resti. Banditi. Rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, DeriveApprodi, Roma 2004

Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, DeriveApprodi, Roma 2005

Evasioni e rivolte. Migranti Cpt Resistenze, Agenzia X, Milano 2007

Sulla guerra. Crisi Conflitti Insurrezioni, Red Star Press, Roma 2017

Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, Roma 2019

Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975, Interno 4, 2020

Gang, merce, autodifesa. Note sul “fronte interno” e la guerra permanente in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021

Ri-cominciamo a dire Lenin. Dal “Partito di Mirafiori” al “Partito della banlieue” in G. Toni, P. Lago, Spazi contesi, cinema e banlieue, Milieu Edizioni, Milano 2024

Articoli di Emilio Quadrelli apparsi su Carmillaonline:

É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio; serie di otto articoli comparsi tra il 22 luglio e il 22 settembre 2023

Atena sulla terra, 5 agosto 2023

Cronache marsigliesi; serie di otto articoli comparsi tra il 2 aprile 2023 e il 13 luglio 2023

Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia ; serie di quattro articoli comparsi tra il 26 marzo 2023 e il 22 aprile 2023

Genova 2001. Una storia del presente; due articoli comparsi il 3 e il 6 marzo 2023

Il mondo della prigione tra alterità e realismo storico. La morte di Francis Turatello, (con Bruno Turci); due articoli comparsi il 25 e il 28 febbraio 2023

Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica; serie di sei articoli comparsi tra il 1° ottobre e il 29 ottobre 2022

Le gang dei “minori stranieri”: teppisti o nuovo soggetto operaio?, 28 settembre 2022

Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente; serie di quattro articoli comparsi tra il 6 e il 17 settembre 2022

Le voci di dentro. Intervista a Emilio Qudrelli (a cura di Chiara Cretella); pubblicata in due parti il 22 e il 23 dicembre 2005

A tutto questo va aggiunto che se nel frattempo nessun editore vorrà farsi carico della pubblicazione dell’opera di Quadrelli sulla lettura data da György Lukács dell'”eresia Leniniana”, György Lukács, un’”eresia” ortodossa, questa sarà presentata, nei prossimi mesi, in una serie di circa dodici puntate ancora una volta su Carmillaonline.


  1. Jacques Baynac, Kamo. L’uomo di Lenin. Una biografia, Casa editrice Valentino Bompiani & C., Milano 1974 (edizione originale francese 1972).  

  2. “Cominciamo a dire Lenin”, in Potere operaio, n.3, ottobre 1969.  

  3. E. Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 5.  

  4. Si veda: E. Cinnella, L’altro Marx. Una biografia, Della Porta Editori, Pisa- Cagliari 2014.  

  5. E. Quadrelli, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, pp. 180-181.  

  6. Ibidem, pp. 183-184.  

  7. Ivi, p. 184.  

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É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 8 https://www.carmillaonline.com/2023/09/22/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-8/ Fri, 22 Sep 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78490 di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La [...]]]> di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La classe” si ritroveranno dentro le ipotesi che fanno da sfondo alla costituzione del soggetto politico dell’autonomia operaia.

Nell’esperienza di «Linea di condotta» si ritrovano pezzi de “La classe” confluiti in Potere Operaio nel momento in cui il giornale chiude i battenti, insieme a gran parte della diaspora operaia di Lotta Continua che non poche “affinità elettive” mostrava di avere con l’esperienza de “La classe”, invece una parte di Potere Operaio darà vita, attraverso il giornale «Rosso», a un modello di autonomia operaia che si lasciava alle spalle la centralità della fabbrica focalizzando l’attenzione su quel soggetto, l’operaio sociale, che secondo l’area teorico–politica di «Rosso» era diventato il cuore della nuova composizione di classe. In questa area finirono per confluire, anche se in misura minore rispetto a coloro che si posizionarono dentro «Linea di condotta» prima e «Senza tregua» poi, non pochi militanti di Lotta Continua che alla spicciolata abbandonavano l’organizzazione la quale aveva assunto tratti sempre più neoriformisti e neoistituzionali1.

Indipendentemente da tutto, ciò che appare evidente è come “La classe” abbia tenuto a battesimo gran parte della storia degli anni settanta di questo paese e questo sembra essere un motivo più che sufficiente a giustificare il senso di questo lavoro così come, per altro verso, sulla base delle argomentazioni portate appare del tutto forzata per non dire fuorviante la contrapposizione tra classe e ceto politico–intellettuale. Uno sguardo minimamente obiettivo ci restituisce, al contrario, una sostanziale sinergia tra classe e intellettuali il che è ben distante, come non poche narrazioni del presente tendono a fare, dall’assolutizzare il ruolo di questi nelle vicende e nella storia dell’autonomia infine, sulla base di quanto esposto, pare sensato sostenere il peso che una ritraduzione di Lenin ha comportato nell’elaborazione teorica e analitica del movimento dell’autonomia operaia e come proprio intorno a detta ritraduzione si siano costruiti i principali passaggi politici dell’autonomia operaia.

Giunti a questo punto facciamo un salto nel presente. Sicuramente, oggi, il panorama delle lotte non è dei più rosei, ma non è neppure vero che le lotte operaie e proletarie siano assenti. In un settore strategico come quello della logistica, solo per fare un esempio non proprio irrilevante, in questi anni abbiamo visto lo sviluppo di lotte di notevole intensità in grado di ribaltare, almeno in parte, condizioni lavorative prossime al lavoro coatto. Abbiamo assistito all’affermarsi di un potere operaio di non modeste dimensioni attraverso la pratica costante del blocco dei cancelli e la rimessa in atto del picchetto operaio. Per altri versi, a macchia di leopardo, lotte operaie autonome si verificano con una certa continuità dentro fabbriche, officine e cantieri mentre nuove figure operaie come quelle dei riders e degli operatori della sicurezza più noti come buttafuori, pur in situazioni di estrema difficoltà, iniziano a lottare. Da parte loro i braccianti agricoli hanno dato vita, nonostante condizioni di vita e di lavoro durissime, a lotte ed embrioni di organizzazione operaia non proprio indifferenti. Dentro le prigioni e nei campi di concentramento un proletariato in condizioni di marginalizzazione ed esclusione estrema ha continuato a lottare e resistere infine, ma certamente non per ultimo, si è assistito come nel caso delle lotte di Italpizza2 a una nuova Valdagno3 a opera di operaie immigrate. Proprio su questo ultimo aspetto è opportuno soffermarsi poiché può essere assunto come un vero e proprio paradigma del presente.

Chiedersi il perché una lotta come quella di Italpizza, che pure ha interessato un colosso della gastronomia e un numero cospicuo di operaie, sia rimasta sostanzialmente confinata in sé stessa è un modo per affrontare alcuni snodi centrali del presente. Il fatto che in questa lotta un ruolo centrale lo abbiano svolte donne immigrate, ruolo sostanzialmente ignorato, lascia, almeno in apparenza, ancor più stupefatti poiché è innegabile che, da tempo, uno dei movimenti con maggiore capacità di mobilitazione sia proprio quello femminista. Eppure intorno alla lotta di Italpizza si è costruito ben poco e non è neppure troppo lontano dal vero sostenere che la notizia di quella lotta sia rimasta ignota ai più. Colpa delle femministe? Asserirlo sarebbe un abbaglio colossale e significherebbe non cogliere il cuore della questione che merita ben altra spiegazione; del resto ciò che vale per le donne di Italpizza vale per le donne impiegate in condizioni di sfruttamento estremo nell’agricoltura. Anche in questo caso si tratta prevalentemente di donne immigrate le quali, in non pochi casi, ai livelli di sfruttamento estremo devono associare molestie sessuali se non veri e propri stupri ma, nonostante ciò, anche su questo tende a calare un sostanziale velo di silenzio. Non diversamente che su Italpizza anche qui assistiamo al silenzio del movimento femminista e alla sua assenza di intervento ma è colpa del femminismo in quanto tale oppure, il femminismo, al pari di gran parte degli ambiti del movimento antagonista, tace perché la dimensione del lavoro operaio gli è estraneo? Quello che vale per il movimento femminista non è forse moneta corrente per gran parte degli altri ambiti del presunto antagonismo?

Non abbiamo visto, per esempio, di fronte a braccianti uccisi dalla fatica, l’assunzione della condizione dei lavoratori agricoli come ambito di intervento militante, se si escludono alcune iniziative del sindacalismo di base, di una qualche consistenza da parte di alcun settore di movimento e coevi ceti politici–intellettuali eppure, in agricoltura, siamo di fronte a un dominio che vede chiamate in causa direttamente le grandi multinazionali agroalimentari e non una qualche nicchia residuale e arcaica del capitalismo. Nel settore agroalimentare si concretizza il punto più alto del comando, si dipana il modello per antonomasia del dominio, non il mondo di ieri ma la storia del presente4. A fronte di tutto ciò si potrebbero aggiungere una serie infinita di fatti più o meno analoghi come, tanto per dire, la condizione di lavoro neoschiavile in cui versano i rider o gli invisibili della ristorazione. Insomma la non attenzione del movimento femminista nei confronti delle operaie di Italpizza ha ben poco a che fare con il movimento femminista in sé ma rientra in una non visione delle cose che sembra accomunare i più.

Per dirla in parole semplici e chiare, il lavoro operaio è stato espunto da ogni agenda politica e l’interesse nei suoi confronti di fatto è nullo anche se, a uno sguardo solo un poco più attento, non è difficile osservare come la lotta operaia e proletaria sia tutto tranne che inesistente. Insomma, la sconfitta operaia non c’è così come dimostrano la quantità di denunce, fogli di via, cariche della polizia, impiego di vigilantes di pochi scrupoli, sino ad arrivare agli omicidi avvenuti in occasione di un qualche sciopero, sono fatti che hanno riempito le cronache operaie di questi anni ma di queste cronache, questo è il punto, vi è ben scarsa traccia5. Scioperi, picchetti, blocchi stradali e via dicendo non trovano alcuna risonanza dentro i ceti politici–intellettuali, il che fa sì che le cose rimangano prive di parole. Indubbiamente i fatti esistono e hanno anche la testa dura ma fatti privi di un linguaggio e di una narrazione finiscono con il rimanere semplici cose.

Facciamo un esempio: abbiamo detto che la lotta di Italpizza presenta assonanze non distanti dai fatti di Valdagno ma che a differenza di questi hanno lasciato un po’ il tempo che avevano trovato. Perché Valdagno sì e Italpizza, no? Che cosa differenzia i due momenti? La risposta la possiamo facilmente trovare confrontando gli ordini discorsivi che fanno da sfondo ai due fatti. Nel primo caso abbiamo, da parte della quasi totalità del ceto politico intellettuale e militante una attenzione costante sul mondo operaio e le sue lotte, poiché la centralità operaia è l’ordine discorsivo che egemonizza per intero il dibattito politico, teorico e culturale. Sulla scia di ciò, allora, un fatto come quello di Valdagno assume velocemente i tratti di un paradigma: ecco le donne operaie in atto e questo inizia a essere ripetuto, da nord a sud, dentro tutte le realtà operaie, ma non solo. Il paradigma Valdagno attraversa la scuola, l’università, i quartieri. Quel fatto viene amplificato all’inverosimile tanto che, con quella realtà, tutti saranno obbligati a misurarsi. Le parole non si sono inventate nulla, non si sono sostituire alle cose hanno però permesso alle cose di raccontarsi.

Quello che vale per Valdagno vale un po’ per ogni contesto di lotta più o meno radicale, le parole ne consentono la immediata socializzazione. Con ogni probabilità senza la presenza di un ceto politico–intellettuale in grado di farsi carico di ciò ben difficilmente, non solo i fatti di Valdagno, ma la stessa centralità operaia avrebbe potuto diventare l’elemento intorno al quale tutte le agende politiche finirono con il doversi misurare. Oggi, invece, neppure gli omicidi riescono a trovare le parole. In questi anni non pochi operai sono caduti nel corso di scioperi e picchetti, ma le loro morti sono cadute nel silenzio e la stessa cosa vale per la quantità impressionante di morti sul lavoro, morti che, come non poche inchieste ufficiali confermano, hanno ben poco dell’incidente casuale ma sono il frutto maturo di una organizzazione del lavoro tutta declinata alla massima estrazione di profitto a scapito della protezione della vita operaia. A conti fatti non sono le cose a mancare, sono le parole a essere assenti, ma questo è esattamente il frutto di un interesse delle parole verso altri ambiti i quali hanno finito con l’occupare ed egemonizzare l’agenda politica e culturale dei vari ceti politici e intellettuali.

Mentre le retoriche dominanti nei mondi militanti oscillano tra la narrazione di tutta l’area post operaista e della nuova sinistra, che hanno decretato la fine del lavoro operaio e la morte della classe operaia o quella reducista, tutte le aree vetero-comuniste capaci solo di vivere del e nel ricordo della mitica classe operaia delle grosse concentrazioni di questi e che, mentre ne loda e incensa i fasti, riesce solo, mentre si piange addosso, ad andare alla ricerca del tempo perduto, le lotte operaie continuano a esistere, però, purtroppo, nel più totale isolamento. Con isolamento, nel contesto, si intende la dimensione politica e culturale in cui queste si danno e l’obiettiva incapacità di imporre la centralità operaia come elemento cardine dell’agenda politica. Esattamente qui sembra delinearsi la principale differenza con l’epoca presa in considerazione da questa trattazione della quale, con ogni probabilità, “La classe” ne ha rappresentato uno degli aspetti più interessanti e significativi.

Nelle osservazioni precedenti si è molto insistito sul rapporto classe operaia/ceto politico–intellettuale mostrando come detta relazione rimanga sostanzialmente indispensabile per la messa in atto di un ordine discorsivo in grado di esercitare egemonia e direzione politica. “Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario.”, con ciò si vuole ribadire che il Che fare? mantiene inalterata tutta la sua freschezza e continua a essere l’unico orizzonte possibile e realistico intorno al quale rideterminare il partito dell’insurrezione nel presente ma, una volta detto ciò, occorre comprendere come questo passaggio sia possibile.

Intanto dobbiamo prendere atto di come, sicuramente in questo paese e in buona parte del mondo occidentale, il novecento sia del tutto finito. Quel tipo di organizzazione del lavoro che presupponeva sempre più massicce concentrazioni operaie è andato in archivio tanto che, osservatori a dir poco superficiali, sulla scia di ciò hanno decretato la fine del lavoro operaio. In realtà ciò che è accaduto veramente è il cambiamento di pelle del lavoro operaio e della sua condizione. Una condizione che nella giungla delle disparità contrattuali ha trovato la sua forma fenomenica maggiormente significativa. A fronte di ciò il proliferare, ormai come condizione normale, del lavoro irregolare per quote non secondarie di operai o, per altro verso, l’obbligo di diventare imprenditori di sé stessi attraverso la massificazione delle partite IVA è una condizione operaia e proletaria sempre più maggioritaria. Il novecento è stato archiviato e non pochi tratti della cosiddetta post modernità, per quanto riguarda la condizione operaia, hanno non poche assonanze con la condizione subalterna ottocentesca e questo è il dato dal quale occorre partire.

Come nell’Ottocento, per altro verso, classe operaia e proletariato sono politicamente esclusi, non bisogna infatti dimenticare che l’inclusione politica delle masse inizia a delinearsi nel corso della Prima guerra mondiale e occorrerà attendere la Costituzione di Weimar6 perché, sul piano giuridico formale, tale inclusione diventi legittima.

Oggi possiamo dire che il Trattato di Weimar è stato stralciato insieme a tutta quella costruzione che Keynes e lo stato–piano avevano messo in forma dopo il crack del ’297. Ciò che in realtà è successo è stata la ricollocazione dei subalterni nell’ambito della marginalità ed esclusione sociale e conseguente privazione della loro legittimazione storico–politica tanto che, per molti versi, la loro condizione si approssima a quell’essere massa senza volto propria dei colonizzati. Occorre riconoscere che nei confronti di queste masse non vi è alcuna empatia da parte dei ceti politici–intellettuali. In altre parole sembra veramente impensabile che, all’orizzonte, si possa paventare una operazione in qualche modo simile ai Quaderni rossi e a tutto ciò che li ha seguiti, se classe operaia e proletariato romperanno l’isolamento, questa volta, potranno contare solo su sé stessi e direttamente dal suo interno si dovrà formare un ceto politico–intellettuale, almeno per tutta una fase.

Se la centralità operaia riconquisterà il cuore dell’agenda politica lo potrà fare solo partendo da sé stessa ma, una volta preso atto di ciò, l’ipotesi di un giornale operaio, un “La classe” del presente, è utile o no, è fattibile o meno, assume una valenza strategica o è un’ipotesi del tutto peregrina? Un luogo deputato anche alla teoria della classe operaia rimane o meno un aspetto strategico della lotta operaia? Un luogo dove provare a far vivere l’ordine discorsivo della centralità e direzione operaia rimane o no un aspetto ineludibile per la costituzione dell’organizzazione operaia? Gli operai hanno o no bisogno di elaborazione teorico–politica o possono farne tranquillamente a meno? Dobbiamo tentare una nuova ritraduzione di Lenin o possiamo considerare il pensiero strategico leniniano del tutto inutile nel presente? Dobbiamo imparare a essere anche ceto politico–intellettuale o rimanere quelli dei picchetti? Dobbiamo essere in grado, contando solo sulle nostre forze, di riattivare la triade marxiana prassi/teoria/prassi o limitarci a una sorta di prassi in permanenza tanto eroica e volenterosa ma sicuramente poco capace di caricarsi sulle spalle tutto il peso dei passaggi politici che la lotta operaia si porta appresso? Dobbiamo essere in grado di agire e funzionare anche come supplenza politica nei confronti della classe o inibirci per intero la dimensione del politico? Dobbiamo tentare una battaglia per riconquistare l’egemonia politica o accontentarci di vivere tra le marginalità del presente? Queste le domande e le sfide che dobbiamo provare ad affrontare oggi.

Per rispondere cominciamo con il dire, intanto, che il giornale è uno strumento di organizzazione, non certamente l’organizzazione operaia ma sicuramente un passaggio importante, perché mette in collegamento le lotte operaie, ponendo in primo piano i punti di vista di queste. Dal momento che sviluppa dibattito tra gli operai, costruisce una serie di tasselli non secondari dell’organizzazione e dell’insieme di problematiche che questa indubbiamente si porta appresso. Dentro la classe questa funzione diventa strategica, perché, infatti, bisogna tener presente che, in non pochi casi, le numerose lotte esistenti non comunicano tra loro, così come è del tutto impossibile trovare un luogo comune dove esplicitare il punto di vista operaio e per la classe questo è un limite che contribuisce non poco, a renderla monca.

Non è difficile da immaginare che un giornale operaio andrebbe a ricoprire un ruolo essenziale dentro la classe; pensiamo all’impatto che potrebbero avere delle semplici cronache operaie tra gli operai in lotta, pensiamo alle pagine fitte di corrispondenze operaie de “La classe” negli scenari di lotta attuali. Forse che nel ’69 il coordinamento e la socializzazione delle lotte era un qualcosa che si raccoglieva sugli alberi? Forse che la classe operaia viveva una condizione di minor isolamento di oggi? Gli operai della fabbrica X conoscevano ciò che accadeva nella fabbrica Y per volontà divina e ancora gli operai di Torino cosa sapevano di quelli di Porto Torres se non ci fosse stata l’organizzazione di una narrazione. Certo, le notizie di notevole spessore non potevano essere eluse, Avola e Battipaglia non potevano essere ignorate dalla stessa informazione di regime, ma non è questo il punto, ciò che rimaneva costantemente celato era il livello di lotta e conflittualità che attraversava le fabbriche, gli obiettivi che gli operai perseguivano, le forme di lotta adottate. Il giornale, quindi, è in prima istanza uno strumento del dibattito operaio che consente sia di fissare i punti delle varie situazioni, sia di individuare collettivamente i passaggi necessari per il loro prosieguo. Va anche detto che il giornale, oltre che funzionare come elemento di organizzazione della classe, rimane uno strumento, non secondario, in grado di rompere la sensazione di isolamento e accerchiamento in cui, in non pochi casi, la classe ritiene di trovarsi. Percezione non così fantasiosa come chiunque abbia un minimo di familiarità con le lotte, può testimoniare.

Pensiamo, ad esempio, ai conflitti nel settore della logistica: i magazzini sono dislocati in autentici territori del nulla dove per chilometri si dipanano attività produttive che non hanno alcuna comunicazione l’una con l’altra. Il magazzino X sciopera e picchetta i cancelli, ma intorno a questo nessuno si accorge di niente. Se, come in non pochi casi avviene, si arriva allo scontro con i guardiani o alle cariche della polizia, tutto rimane circoscritto a quel contesto e può accadere che, il giorno seguente, si ripeta uno scenario simile a un paio di chilometri di distanza, anche questo in maniera del tutto isolata. L’assenza di comunicazione produce isolamento e inibisce non poco l’attività di agitazione e propaganda. Andare davanti a una fabbrica o un magazzino con un giornale operaio non è proprio come andarci a mani vuote e questo è un aspetto importante della questione.

Accanto a questo ve ne è un secondo, non meno rilevante e anzi, per alcuni versi, forse più decisivo: la funzione che il giornale può e deve assolvere dentro le aree politiche antagoniste, rivoluzionarie e comuniste, in altre parole il giornale è uno strumento essenziale per la conduzione della battaglia politica al fine di portare sul terreno della centralità operaia un ceto politico–intellettuale in grado di entrare in relazione dialettica con le lotte operaie, assumerle come centrali dell’agenda politica del presente, imporre la questione operaia come asse portante del dibattito di tutto il movimento antagonista. Compito titanico? Forse. Ciò non toglie che è una partita che occorre tentare. Se ci guardiamo intorno possiamo facilmente osservare come, ad esempio, nei mondi studenteschi e intellettuali vi sia un dibattito politico e culturale sui più svariati temi tranne che sulla classe operaia e le sue lotte. Questo è certamente il frutto di tutta una serie di retoriche che hanno preso campo negli ultimi decenni ma, occorre riconoscerlo, è anche e soprattutto il frutto di una assenza. Come si fa a parlare di classe operaia, di lotte operaie se queste non sono in grado di produrre uno straccio di narrazione? Su quali basi diventa possibile provare a forzare una situazione se per le mani non si ha nulla di teoricamente consistente? Pensiamo alla quantità non proprio irrisoria di giovani che si avvicinano, con intenti radicali e rivoluzionari, alla politica. Che occasione hanno di conoscere il mondo operaio se questo, sul piano organizzativo e comunicativo, si avvicina di molto al modello carbonaro?

È ovvio che, in uno scenario simile, queste migliaia di possibili militanti verranno cooptati dagli unici ordini discorsivi che hanno visibilità. Occorre sia dare visibilità alle lotte operaie ma non solo bisogna far sì che, intorno a queste lotte, si focalizzi l’attenzione e l’azione di tutto ciò che si considera e autorappresenta come ambito antagonista e conflittuale e questo è possibile solo se la centralità delle lotte operaie ritorna a essere il punto di riferimento del punto di rottura del rapporto sociale capitalista. Senza questo passaggio le lotte operaie corrono il concreto rischio di una endemicità priva di qualunque prospettiva e, nostro malgrado, torneremo a non essere troppo diversi da quell’operaismo che aveva bellamente eluso il rapporto delle lotte con il momento di rottura ignorando così la dimensione propria della politica. Questa l’ottica nella quale dovrebbe collocarsi l’ipotesi di un nuovo giornale, da “La classe” a “La classe”, per una nuova stagione del potere operaio.

(8Fine)


  1. L’esperienza di «Linea di condotta» è riportata per intero in, E., Quadrelli, Autonomia operaia, cit. Sull’esperienza di Rosso si veda: T. De Lorenzis, V. Guizzardi, M. Mita, Avete pagato caro non avete pagato tutto. Antologia della rivista Rosso (1973–1979), Derive Approdi, Roma 1979.  

  2. Al proposito si veda, «Il Manifesto», 120 operai di Italpizza a processo, 13/9/2020.  

  3. Il 19 aprile 1968 gli operai, ma soprattutto le operaie della Marzotto entrarono autonomamente in lotta contro il padrone Marzotto il quale gestiva la fabbrica apertamente patriarcale e paternalista. Tra le prime cose che le operaie fecero fu distruggere la statua del padre–padrone. Nonostante i duecento arresti e i violenti scontri con le forze dell’ordine la lotta continuò in maniera sempre più dura e determinata. Le donne furono la testa del movimento, dall’inizio alla fine. L’evento, in un batter d’occhio, diventò il simbolo della nuova stagione delle donne operaie e della loro radicalità. Sugli eventi di Valdagno si veda, L. Guiotto, La fabbrica totale. Paternalismo e città sociali in Italia, Feltrinelli, Milano 1979.  

  4. Una buona documentazione di ciò è reperibile sul sito di “Campagne in lotta”, campagneinlotta.org.  

  5. Una rara eccezione è data dal testo scritto dal Si.Cobas, Carne da macello, Red Star Press, Roma 2016.  

  6. Su questo passaggio si veda il fondamentale lavoro di S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.  

  7. In particolare, John, M. Keynes, La fine del laissez–faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991.  

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É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 7 https://www.carmillaonline.com/2023/09/17/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-7/ Sun, 17 Sep 2023 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78432 di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più alto del ciclo di accumulazione capitalista. Con ciò si pone una pietra tombale all’edulcorata visione gradualista e riformista la quale, nello sviluppo delle forze produttive capitaliste, intravvede in prima istanza un principio di civilizzazione per rimettere al centro quel lato cattivo della storia sul quale non poco si era soffermato Marx nella sua “Miseria della filosofia”. Del resto questo proletariato in pelle scura mostra non poche affinità con il proletariato locale che è andato a sedimentare la nuova composizione di classe, a ben vedere gli operai che vanno a posizionarsi intorno alla catena di montaggio sono soprattutto operai meridionali ossia prodotti diretti della colonia interna italiana 1.

Esattamente qui, contro tutte le retoriche risorgimentali care al movimento operaio ufficiale, si delinea un discorso storico–politico che non fa sconti sul tratto coloniale che sta alla base dell’unificazione italiana e che non poche ripercussioni finisce con l’avere sul presente. Molto realisticamente la monarchia sabauda è colta nella sua realtà ossia quella di una tra le monarchie più reazionarie in vena di conquiste e annessioni e non è secondario rilevare come, proprio da ambiti interni a “La classe”, prenderà forma una contro narrazione anche sul mito garibaldino il cui tratto conquistatore e coloniale sarà irrimediabilmente marchiato a fuoco riportando alla luce il massacro di Bronte2. Per altro verso sempre da ambiti interni o affini a “La classe” prenderà forma una rivisitazione storica sul brigantaggio meridionale come forma di resistenza al dominio coloniale della monarchia sabauda3.

La lettura che “La classe” dà del nuovo operaio deportato nelle metropoli industriali del nord è una lettura sostanzialmente coloniale, da qui la facile affinità con tutti quegli spezzoni e segmenti di classe operaia i quali, pur con storie diverse, respirano la medesima aria di famiglia. In ciò vi è una drastica e radicale rottura con tutta la narrazione socialdemocratica e riformista sullo sviluppo del capitalismo e sulle modalità dei suoi cicli di accumulazione4. Nella narrazione classica del movimento operaio ufficiale sullo sviluppo del capitalismo il colonialismo non è mai stato osservato come tratto essenziale dell’accumulazione. Le colonie sono sempre state considerate una appendice dello sviluppo capitalistico, sicuramente importanti per quanto concerne l’accaparramento di materie prime essenziali ma del tutto prive di interesse per quanto riguarda l’estrazione di plusvalore. Le colonie sono state considerate importanti per i materiali grezzi presenti ma non per come il capitalismo metteva a profitto il corpo dell’indigeno anzi, sotto questo aspetto, il colonialismo è spesso stato osservato come un doloroso ma necessario passaggio poiché, proprio grazie al colonialismo, i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere ai fasti della modernità. In sostanza si è finito per ignorare bellamente l’importanza che il colonialismo e il coevo modello coloniale hanno avuto per l’accumulazione capitalista.

“La classe” non solo si emancipa da queste pastoie, ma indica una lettura, che solo molti anni dopo diventerà moneta corrente, non poco innovativa a proposito dello sviluppo capitalista. L’attenzione che il giornale riversa verso il proletariato in pelle scura, le sue lotte e le sue forme organizzative ne sono una non secondaria esemplificazione. Prima di chiudere su questo aspetto pare importante rilevare come, proprio a partire da ciò, per “La classe” l’unità operaia è, in prima istanza, unità di quei settori operai i quali poco o nulla hanno da guadagnare nel rapporto con il capitalismo. Si evidenzia, cioè, come “La classe” non sia attratta dal mostro sacro dell’unità (indistinta) della classe ma focalizzi interesse e attenzione su determinati comparti operai. In Italia, proprio in virtù della colonia interna rappresentata dal Meridione, la spaccatura dentro la classe operaia non avrà tratti macroscopici ma, se volgiamo lo sguardo verso un paese come gli USA, è facile comprendere come questa contrapposizione dentro la classe assuma contorni di ben altra natura. Negli Stati Uniti la classe operaia bianca di ceppo anglosassone ha sempre giocato un ruolo avverso nei confronti sia dei neri, sia del proletariato immigrato identificandosi quasi integralmente con le politiche imperialiste del governo, di ciò l’appoggio alla guerra contro il Vietnam ne ha rappresentato qualcosa di più che un semplice esempio.

Veniamo ora a un altro tema che caratterizza il giornale: gli studenti e il rapporto con il movimento studentesco. Agli studenti il giornale dedica un certo spazio compiendo con ciò una non secondaria rottura con la tradizione operaista. Per l’operaismo che abbiamo definito classico e/o tradizionale gli studenti non rappresentavano alcun interesse. Considerati genericamente piccola borghesia potevano riscuotere un qualche interesse se, come singoli, decidevano di approdare alla militanza operaista, ma gli studenti in quanto tali erano considerati del tutto estranei e inutili alla lotta operaia. Ciò accade, ovviamente, prima del ’68 dopo di che, nulla sarà come prima.

Non lo sarà perché si modifica radicalmente l’analisi sulla composizione di classe della scuola e in particolare sulla figura del tecnico il quale, come più volte “La classe” riporta, è artefice nella fabbrica di lotte non secondarie, anche perché, nelle punte avanzate del capitalismo, ciò è soprattutto vero per quanto riguarda le grosse fabbriche del milanese dove la ristrutturazione capitalista poggia esattamente su una dilatazione e massificazione del tecnico il quale, dentro questo passaggio, perde velocemente il suo ruolo di comparto privilegiato per farsi classe operaia a tutto tondo. La scuola, attraverso l’inaugurazione della scuola di massa5, ha cambiato volto e si è adeguata alle istanze e alle esigenze del neocapitalismo.

La proletarizzazione del corpo studentesco è un dato di fatto che non può essere ignorato e su ciò “La classe” si spende non poco. Il legame operai-studenti ha ormai perso quel tratto ideologico in cui tendevano a rinchiuderlo tanto il riformismo quanto le varie anime dell’ortodossia comunista e che riduceva questi ultimi simili a una sorta di boy scout, proni a farsi missionari davanti alle fabbriche. Con ciò veniva anche meno quella funzione sociale che riformisti e ortodossi vari avevano prefigurato per gli studenti dentro i quartieri poiché, per “La classe”, questi non sono un supporto ideologico esterno agli operai ma parte dello stesso fronte di lotta. La loro proletarizzazione li rende del tutto interni o almeno affini alla lotta operaia benché nessuno si sogni di mettere in discussione la centralità e la direzione operaia. C’è un altro aspetto sul quale, però, vale la pena di soffermarsi: ossia le contaminazioni che il mondo operaio subisce dal e attraverso il mondo studentesco.

Abbiamo detto, parlando del maoismo, di quanto l’indicazione dello sparare sul quartier generale abbia fatto presa su questa tipologia operaia e di come l’antiautoritarismo sia un tratto indelebile della lotta operaia ma abbiamo anche detto come questa classe operaia si caratterizzi per il rifiuto del lavoro e per il volere tutto. È una battaglia di potere e di libertà che caratterizza questo soggetto operaio il quale ha nelle corde non il mito soviettista dell’operaio assunto a simulacro, ma semmai la sua negazione, sulla scia di Marx è la classe, non per sé ma contro di sé. Poteva una classe operaia simile rimanere immune dalle suggestioni libertarie del ’68 delle quali il movimento studentesco era stato l’alfiere? Poteva questa classe operaia tutta protesa a liberare il tempo dal lavoro per vivere, non venire in qualche modo attratta dagli stili di vita che il ’68 aveva inaugurato? Questa classe operaia ha rotto con la tradizione comunista a trecentosessanta gradi e non diversamente dagli studenti è alla ricerca di qualcosa d’altro.

Liberare il tempo dal lavoro significa sperimentare possibili rotture con l’alienazione della condizione operaia, rompere con gli schemi esistenziali entro i quali il rapporto sociale capitalista ha confinato gli operai. Si tratta, allora, di coniugare la lotta in fabbrica con l’avventura della vita; da lì, quindi, anche uno strappo generazionale con la famiglia e gli orizzonti quanto mai ristretti che le fanno da sfondo. Questo sarà ancora più vero per le donne, quelle operaie in particolare, le quali dentro quella stagione possono porre in atto una duplice liberazione: la lotta contro la schiavitù del lavoro salariato, ma anche la lotta contro il loro ruolo sociale. Per le donne, ancora più che per gli operai maschi, liberare il tempo dal lavoro significa rompere tutte le gabbie in cui non solo il lavoro salariato e il comando le ha imprigionate ma fare i conti con il patriarcato e tutte le sue derive. Per le donne la lotta significa iniziare a riappropriarsi di sé stesse, a esistere come soggetto autonomo, a parlare in prima persona a non essere più appendici di qualcosa, tutti temi, questi, che erano stati propri del ’68 che trovano non pochi consensi tra le donne in fabbrica6.

Sulle donne “La classe”, in realtà, si mostra ben poco attenta e se sulla razza e il colonialismo anticipa temi la cui attualità oggi è a dir poco dirompente, sul genere si mostra ben poco innovativa anche se non del tutto ignara e questo, a conti fatti, è forse il vero e proprio rimprovero che le può essere fatto. Con ciò chiudiamo la parentesi sull’astratto per tornare a calarci nella concretezza delle lotte e del dibattito che intorno a queste si va sviluppando. Arriviamo così a Corso Traiano e all’epilogo de “La classe” provando, al contempo, a gettare un corposo sguardo sul presente.

Il 3 luglio 19697 segna un passaggio decisivo per il movimento dell’autonomia operaia, quella che è stata chiamata la battaglia di Torino anticipa ciò che, di lì a poco, diventerà la normalità del conflitto operaio e studentesco e dà obiettivamente il la, alla anomalia italiana degli anni settanta. Corso Traiano è una svolta dalla quale non è possibile tornare indietro, una accelerazione che finirà con lo scompaginare la stessa “La classe” a riprova di come non si possano separare le questioni organizzative da quelle politiche e come le strutture formali possano vivere ed esistere solo se in grado di stare sul filo del tempo del partito storico. Corso Traiano conferma, ancora una volta, come la dialettica marxiana prassi/teoria/prassi sia la sola e unica stella polare alla quale affidarsi e come, fuori da ciò, vi sia solo sclerotizzazione burocratica, in altre parole corso Traiano mostra come Lenin avesse ancora una volta ragione. I fatti sono abbastanza noti, pertanto ci si limiterà a riportarli in maniera estremamente sintetica.

Il 3 luglio il sindacato ha indetto uno sciopero e una manifestazione contro il caro affitti e la questione abitativa mentre, da parte sua, “La classe” ha indetto una manifestazione per il pomeriggio indicando la porta 2 di Mirafiori come luogo del concentramento. Si tratta di una decisione che ha suscitato non poche perplessità anche all’interno dell’assemblea operai–studenti poiché, non pochi, considerano l’iniziativa prona all’avventurismo con possibili ricadute nefaste per il livello repressivo che sicuramente comporterà, con la conseguenza di un vero e proprio azzeramento di tutto il lavoro politico svolto dall’assemblea e dal giornale negli ultimi mesi. Una parte dell’assemblea obietta che un conto è la forza che si è in grado di esercitare dentro la e le fabbriche, ma ben altra cosa è riversare questa forza fuori dalla fabbrica; lì la partita cessa di essere focalizzata sul padrone e si sposta immediatamente sullo stato, lì il terreno in parte consolidato della violenza operaia in fabbrica va a misurarsi su un terreno in gran parte sconosciuto, il che potrebbe comportare una disfatta con conseguente annichilimento di tutto quel tessuto di avanguardie di fabbriche che un lavoro certosino aveva costruito nei mesi precedenti.

Si tratta di dubbi più che legittimi e sensati ma che, per altro verso, mostrano come, anche inconsciamente, in non pochi casi la struttura organizzata tenda a privilegiare la conservazione di sé stessa piuttosto che arrischiare l’incognita del salto politico. Se pensiamo, infatti, a come, in un contesto ben più drammatico, a ridosso dell’insurrezione sovietica, Lenin si trovò contro una buona fetta del partito bolscevico, diventa abbastanza evidente come la decisione sia sempre un momento drammatico, ben poco lineare e come, in aggiunta, sia sempre un grano di azzardo quello che finisce con l’accompagnarla. Siamo al momento dell’audacia, dell’audacia e ancora dell’audacia, il che, per forza di cose, non può fare affidamento su troppe certezze. Alla fine, soprattutto per la spinta proveniente dalla componente operaia che evidentemente aveva maggiormente il polso degli umori interni alle fabbriche, la decisione per la manifestazione autonoma è presa, davanti alla porta 2 di Mirafiori si deciderà il destino delle lotte operaie.

Il corteo non riuscirà mai a partire perché immediatamente caricato da polizia e carabinieri, ma la sorpresa arriva esattamente in quel momento poiché dopo un attimo di sbandamento il corteo si ricompatta e inizia a reagire, mentre pressoché in contemporanea, dal Lingotto e da altre fabbriche, approdano altri cortei operai verso la porta 2 di Mirafiori e stessa cosa fanno gli studenti. In brevissimo tempo gli scontri si allargano a macchia d’olio finendo con il coinvolgere non pochi quartieri operai tanto che la battaglia di Torino si protrarrà sino a notte inoltrata e troverà nel quartiere operaio di Nichelino il suo epicentro. Polizia e carabinieri sono in rotta, la classe operaia ha vinto, questo ridefinisce per intero i rapporti di forza tra le classi in città ma non solo, poiché quanto accade alla Fiat è qualcosa che ha ripercussioni immediate sui rapporti di forza generali finendo con il porre in crisi gli stessi assetti governativi. Tutto ciò obbliga anche a un ragionamento ex novo per quanto riguarda il terreno dell’organizzazione politica e la messa in campo di adeguate strutture militari in grado di farsi carico del livello di scontro che spontaneamente la lotta operaia ha posto all’ordine del giorno e, come la dinamica stessa della battaglia di Torino ha evidenziato, si pone il problema, non più rimandabile, del rapporto tra lotta di fabbrica e lotta dentro la metropoli. Una quantità di questioni che investono direttamente tutta l’esperienza portata avanti da “La classe”, una accelerazione che va ben oltre gli orizzonti che, prima di corso Traiano, questa aveva ipotizzato.

Ben prima di corso Traiano “La classe” si era attivata per cercare di far compiere un salto all’organizzazione autonoma operaia e per fine luglio aveva convocato a Torino un convegno dei comitati e delle avanguardie operaie, una operazione che aveva il duplice scopo di iniziare a tirare le somme di ciò che si era andato sedimentando in termini di lotte, esperienze, progettualità e dibattito dentro la sempre più diffusa area dell’autonomia operaia e, a partire da ciò, delineare i necessari passaggi politici organizzativi in grado di aggredire e affrontare le nuove scadenze a partire da quella decisiva dei contratti dell’imminente autunno. “La classe”, quindi, è pienamente cosciente che la sua funzione, almeno in quella forma, è giunta al termine e che occorre andare oltre quella pur fondamentale esperienza, in tutto questo, comunque, immagina di attivare questo passaggio in continuità con quanto posto a regime sino a quel momento, il convegno dovrebbe mirare esattamente a ciò ovvero chiudere l’esperienza de “La classe” e dalle sue ceneri far sorgere un soggetto politico capace di farsi carico complessivamente dell’organizzazione operaia. Le cose, però, andranno diversamente.

Le due anime che avevano convissuto dentro il giornale, adesso più di prima, acutizzano le loro differenze e in ciò la battaglia di Torino ha sicuramente giocato un ruolo non secondario. Come si è detto non vi era stata unanimità dentro al giornale sull’indire una manifestazione autonoma, una diversità che rimandava, per lo più, alle due posizioni presenti nel giornale. L’ala prettamente operaista, che di lì a poco darà vita a Potere Operaio, aveva mostrato le maggiori perplessità sulla manifestazione mentre l’ala che si costituirà in Lotta Continua era stata quella che maggiormente aveva spinto perché la manifestazione si facesse. In ciò emergono e in maniera neppure troppo sottile le differenze sul modello di organizzazione che le due componenti de “La classe” hanno a mente. Per i futuri militanti di Potere Operaio l’organizzazione è organizzazione di quadri operai con funzione di avanguardia e direzione delle lotte e, in piena coerenza con ciò, il problema dell’organizzazione operaia è strutturarsi in maniera tale da prendere la testa del movimento inoltre, per questi militanti, la centralità della fabbrica rimane pressoché assoluta, è lì, senza farsi distogliere da alcuna sirena di lotta metropolitana che va concentrato e focalizzato tutto il lavoro delle avanguardie operaie. In questo senso, pur con tutte le tare del caso, coloro che daranno vita a Potere Operaio si mostrano in più di un tratto, interni alla tradizione comunista.

Molto diversa l’impostazione che fa da sfondo ai militanti che daranno vita a Lotta Continua. Anche per loro il nodo dell’organizzazione è centrale ma tendono ad affrontarlo in maniera assai diversa dai primi. Per chi andrà a formare Lotta Continua, è la lotta e le sue forme che costruiscono l’organizzazione e proprio per questo l’organizzazione non deve porsi il problema di prendere la testa del movimento ma deve, invece, essere la testa del movimento. Due ipotesi che rimandano a idee e concezioni abbastanza diverse sul senso che assume l’autonomia operaia. Ciò che diventerà Lotta Continua avrà un ampio seguito operaio e alla FIAT potrà vantare a lungo una egemonia incontrastata, cosa che obiettivamente non si può dire di coloro che perseguono l’ipotesi di Potere Operaio nonostante l’area che si coagula intorno a Lotta Continua non sia per nulla fabbrichista ma, al contrario, fautrice di una socializzazione della lotta operaia nella la metropoli il che diventerà quanto mai esplicito poco tempo dopo, quando lancerà il programma “Prendiamoci la città”8.

Questa area non rinuncerà certo alla centralità operaia, anzi, e questo era già evidente all’interno dell’esperienza de “La classe”, ma allarga il suo raggio d’azione verso la complessità delle figure proletarie che animano la metropoli. Era stata quella a rompere con gli schemi rigidi del vecchio operaismo, in parte presenti anche nel nuovo, in merito agli studenti e al ruolo giocato da questi nei nuovi scenari del neocapitalismo; non per caso proprio questa area politica fu in grado di farsi egemone soprattutto tra gli studenti medi dei tecnici e dei professionali e in più, sempre quest’area, iniziò a lavorare, frutto di un non secondario radicamento all’interno dei quartieri operai e proletari, con il proletariato extra legale e prigioniero del resto, ancor prima che lo scontro in fabbrica si radicalizzi e vada in scena la battaglia di Torino, l’11 aprile proprio Torino aveva visto la battaglia delle Nuove, quando i detenuti si erano ribellati e avevano distrutto la prigione. Ben difficilmente, a partire da queste non secondarie differenze, le due ipotesi possono convivere e pensare, per di più, di compiere insieme quel salto qualitativo politico–organizzativo che corso Traiano ha reso quanto mai urgente.

Il Convegno, di fatto, non approda a nulla. Le due principali anime che stavano dentro a “La classe” tendono a polarizzare le loro differenze ma, con ogni probabilità, non si tratta solo e semplicemente di questo, bensì del fatto che tutto quello che “La classe” poteva dare, aveva dato e questo non è stato certo poco. Corso Traiano non era stato, come gli avvenimenti dell’autunno saranno lì a dimostrare, un fulmine al ciel sereno e neppure un falò tanto intenso quanto effimero, ma il corposo incipit di una nuova e durissima stagione di lotta. L’offensiva operaia non lascia spazi a interpretazioni di altro tipo, è il salto alla guerra. Dentro tale scenario “La classe” non poteva più svolgere il ruolo che, con non poco merito, aveva svolto nei pochi mesi della sua attività, un passaggio politico si mostrava tanto urgente quanto necessario e, con ogni probabilità e proprio in virtù di ciò, più che la nascita di una organizzazione monolitica a dover sbocciare erano cento fiori. Siamo di fronte a un passaggio sicuramente complessivo ma anche complesso, passaggio che ben difficilmente può essere perimetrato in un unico contenitore. Le due aree de “La classe” rimandano a questioni reali e per nulla effimere, l’aver ipotizzato e tentato strade affini ma diverse sembra essere stato qualcosa di obbligato e imposto da una situazione materialisticamente determinatasi, più che il frutto di cattivi ideologismi.

( 7continua)


  1. Cfr. A., Serafini, L’operaio multinazionale in Europa, Feltrinelli, Milano 1974.  

  2. Su questa vicenda si veda, P. Iaccio, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di scuola non hanno raccontato. Un film di Florestano Mancini, Liguori, Napoli 2002.  

  3. Tra l’immensa pubblicistica inerente a questo fenomeno si può vedere, F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1966. 

  4. Su questo aspetto si veda l’ottimo testo di S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre Corte, Verona 2008.  

  5. Cfr. G. Decollanz, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Dalla Legge Casati alla riforma Moratti, Edizioni Laterza, Roma–Bari 2005.  

  6. Su questa tematica si veda in particolare: E. Bellé, L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo, Rosemberg & Sellier, Torino 2021.  

  7. D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano (Torino 3 luglio 1969), Edizioni BFS, Pisa 1997.  

  8. Al proposito si veda, «Lotta continua», Prendiamoci la città. II Convegno nazionale, Bologna 24 luglio, Anno III, N. 12, Milano 1971.  

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É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 6 https://www.carmillaonline.com/2023/09/03/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-6/ Sun, 03 Sep 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78426 di Emilio Quadrelli

Potere operaio e programma comunista

Abbiamo visto come la centralità operaia abbia ben poco di oggettivo e tanto meno di scontato. Certamente nella loro evoluzione le lotte operaie assumeranno forme tali da imporsi all’attenzione di tutti, difficile, infatti, ignorare l’autunno caldo quando milioni di operai entreranno in lotta ma ciò che nel contesto a noi interessa è osservare tutto ciò che accade prima. Ciò che diventa importante, soprattutto se vogliamo recuperare quella storia nel presente, è come l’ordine discorsivo intorno alla centralità operaia si sviluppa. In questo senso un [...]]]> di Emilio Quadrelli

Potere operaio e programma comunista

Abbiamo visto come la centralità operaia abbia ben poco di oggettivo e tanto meno di scontato. Certamente nella loro evoluzione le lotte operaie assumeranno forme tali da imporsi all’attenzione di tutti, difficile, infatti, ignorare l’autunno caldo quando milioni di operai entreranno in lotta ma ciò che nel contesto a noi interessa è osservare tutto ciò che accade prima. Ciò che diventa importante, soprattutto se vogliamo recuperare quella storia nel presente, è come l’ordine discorsivo intorno alla centralità operaia si sviluppa. In questo senso un giornale come “La classe” può assumere un valore paradigmatico. Due sembrano essere gli aspetti centrali: l’attenzione continua per tutte le lotte e le insubordinazioni operaie che si sviluppano e la ricerca costante del punto di vista operaio.

Questo corpo militante, una parte del quale si è formato all’interno delle varie esperienze operaiste degli anni precedenti mentre un altro è maturato nel ’68, che dà vita a “La classe” lavora costantemente per mettere in contatto le lotte, anche di modesta proporzione, che si sviluppano nella classe operaia. Qui riemerge in maniera non dogmatica quell’uso del giornale come elemento essenziale finalizzato alla messa in forma di quel partito dell’insurrezione che aveva fatto da sfondo al leniniano “Che fare?”.

Ma cosa significa mettere in contatto le lotte? Certo, banalmente, far sapere che esistono, ma non è solo questo il punto. Il dialogo e la conoscenza tra gruppi di lotta significa socializzare delle esperienze, unificare dei comportamenti, rompere l’isolamento a cui, di fatto, la vita operaia rinchiusa nella fabbrica–prigione è costretta. Significa che gli operai possono iniziare a riconoscersi come corpo sociale collettivo e percepirsi concretamente come classe ma non solo. Un giornale che focalizzi l’attenzione sul punto di vista operaio, e quindi assume le parole operaie come punti cardinali per la propria azione, non si limita a fare della cronaca o dell’informazione, ma assolve a un duplice obiettivo: da una parte è veicolo d’organizzazione e dall’altro fa sì che la lotta operaia assuma un ruolo centrale sulla scena politica. Ma questo è possibile solo se la centralità operaia è depurata tanto da un qualunque sostrato ideologico quanto da ogni sorta di mitologema. La centralità operaia può essere fattivamente tale se, in primo piano, è posta la concretezza operaia del suo qui e ora. Ciò che verrà definito protagonismo operaio sarà esattamente l’essere di questa concretezza che, dentro esperienze come “La classe”, iniziò a elaborare una propria sintassi e un linguaggio appropriato.

Solo chi della classe operaia ha una conoscenza del tutto astratta e, come diretta conseguenza, profondamente mitologica, ignora le condizioni materiali della vita operaia. Solo chi è estraneo al lavoro operaio può esaltarlo mentre, chi dentro a quel lavoro è costantemente imprigionato, non può fare altro che odiarlo. Gli operai se ne fottono della classe operaia in astratto ma, molto più realisticamente e sensatamente, non vogliono più essere operai. Ma il comunismo non era forse la soppressione del lavoro salariato? Allora si tratta, a partire da ciò, di leggere i comportamenti che spontaneamente pongono in crisi la macchina del comando. Il giornale diventa, in pieno stile leniniano, un organizzatore collettivo, un momento tanto di sintesi quanto di elaborazione e, con ciò, uno strumento d’organizzazione. Il giornale diventa lo strumento che costruisce la linea politica operaia perché è da dentro la classe e solo dentro di lei che può darsi linea politica e organizzazione. Non si dà linea politica, non si dà linea operaia precipitandosi davanti ai cancelli delle fabbriche con le direttive di un qualche improvvisato Comitato Centrale, ma si dà linea politica e linea operaia solo dentro la pratica dell’inchiesta e delle lotte.

Per altro verso questo lavoro è costantemente attento al punto di vista operaio perché è proprio questo a fornire l’ossatura del partito dell’insurrezione. Scorrendo anche solo di sfuggita i numeri de “La classe” è facile notare la quantità di materiali empirici di cui il giornale è ricco. Si tratta di resoconti operai, interventi in fabbrica, interventi in assemblea, interviste insomma tutto ciò che dentro la classe si muove e questo produce almeno tre risultati: da un lato rompe qualunque possibilità di isolamento della classe operaia e delle sue lotte, le quali, grazie alla risonanza che il giornale offre loro, si socializzano con una certa facilità, gli operai comprendono che quanto accade in una determinata officina non è un fatto isolato, ma quanto accade ha dinamiche e motivazioni del tutto simili a qualcosa in atto a qualche chilometro di distanza, o anche a centinaia di chilometri.

La classe operaia, così, comprende di non essere un insieme di individui casualmente piombati in una particolare situazione, ma di essere parte di un tutto che condivide la medesima condizione e sta condividendo le stesse esperienze. Attraverso la circolarità delle lotte non vi è solo la socializzazione di queste ma lo scambio delle esperienze. Da ogni contesa si può apprendere un modus operandi e la sua eventuale generalizzazione. Infine, ma certamente non per ultimo, queste esperienze diventano oggetto di discussione per tutti i militanti che si pongono sul terreno della conflittualità operaia. La classe operaia, quella vera e non la sua icona propria delle varie ortodossie comuniste, diventa il costante punto di riferimento di tutto il dibattito politico del movimento. Va detto chiaramente: senza tutto questo impegno le lotte operaie ben difficilmente sarebbero state in grado di avere quel ruolo centrale che tutta la società italiana gli ha riconosciuto e “La classe” rappresenta un passaggio essenziale di tutto questo, così come, ed è quanto si proverà ad argomentare nelle pagine seguenti, avrà l’indubbio merito di portare nel dibattito operaio l’insieme di tensioni politiche, culturali ed esistenziali che il ’68 aveva fatto albeggiare. In questo modo la lotta concreta dell’officina può coniugarsi con le astrazioni che agitano il mondo emancipando la fabbrica dai suoi angusti perimetri e la classe operaia dal suo isolamento.

Mao e il maoismo sono sicuramente una di queste astrazioni. L’interesse de “La classe” per la Cina e per la Rivoluzione culturale che la sta attraversando non è cosa secondaria. Prima di parlare del maoismo che trova un certo spazio nel giornale necessita una premessa al fine di emancipare sin da subito “La classe” da quell’insieme di gruppi e gruppuscoli, per non dire della quantità di neopartiti comunisti marxisti–leninisti, formatisi sulla scia del maoismo i quali se meritano una nota storica, questa è una nota tutta perimetrata nell’ambito del folclore e del ridicolo. Il Mao che sta dentro “La classe” è un eretico, forse ancor più di Lenin e comunque un Mao che non ha nulla di quell’esotico e/o terzomondismo che caratterizza le diverse organizzazioni maoiste.

In prima istanza il Mao che interessa a “La classe” è quello che si contrappone radicalmente al socialimperialismo sovietico. Qui l’interesse è duplice: da una parte significa identificare sul piano internazionale un polo innovativo finalizzato allo sviluppo del movimento rivoluzionario internazionale, anche dentro le metropoli imperialiste e focalizza lo sguardo proprio su ciò che accade nelle metropoli imperialiste. Mentre il socialimperialismo è artefice non secondario del mantenimento dello status quo post bellico, la Cina maoista è fondamentalmente propensa a far saltare il banco della spartizione del mondo in precise e delimitate sfere di influenza allo stesso tempo, così come il socialimperialismo è tutto dentro i Palazzi, la Cina si mostra come un valente interlocutore della o delle Strade quindi, il rapporto con il maoismo, può essere giocato tutto contro il riformismo il quale si identifica appieno nel blocco socialimperialista e delle relazioni politiche ufficiali delle quali ha fatto il suo solo orizzonte.

Ciò era stato quanto mai evidente nel corso del ’68 quando, proprio Mao e la rivoluzione cinese, erano diventati uno dei punti di riferimento centrali di quel movimento che aveva sconvolto gli equilibri di tutti i sistemi politici1. Mao e il maoismo sono l’elemento di rottura internazionale che affascina gran parte della gioventù rivoluzionaria e in ciò un ruolo non secondario lo gioca il fattivo appoggio che la rivoluzione cinese sta offrendo al popolo vietnamita in guerra con l’imperialismo americano ma anche il rapporto che il maoismo costruisce con realtà come le Black Panther e i vari movimenti di resistenza sviluppatisi dentro le metropoli imperialiste. Mao, in un mondo che sembra immutabile, è il vento dell’est che ritorna a dire: “Bisogna sognare!” e lo fa ponendo nuovamente al centro del suo agire quella marxiana violenza, ostetrica della storia, messa al bando dal movimento operaio ufficiale.

Sulla scia di ciò “La classe” trova nel maoismo uno strumento di battaglia politica contro il riformismo e con ciò Mao è portato, così come è stato fatto con Lenin, dentro la fabbrica tanto che si potrebbe dire da Lenin in Inghilterra a Mao a Mirafiori. Di ciò si ha una corposa dimostrazione attraverso le scritte, già ricordate, fatte dagli operai legati a “La classe” in fabbrica: “Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina!” è esattamente questo il maoismo privo di fronzoli e folclore immesso nella metropoli imperialista. È il Mao stratega militare2 che viene ripreso e modellato dentro la fabbrica prima e, almeno per la componente che darà vita a Lotta Continua, nella metropoli poi, così come il principio della guerra di lunga durata diventa il punto di riferimento costante di tutto ciò che ruota nella e intorno a “La classe”.

Questo apre su un altro tema centrale, tanto della teoria politica maoista quanto, come si è provato ad argomentare in precedenza, negli orizzonti de “La classe”, ovvero la questione della violenza. Mentre il riformismo, attraverso l’assunzione della guerra di posizione come solo e unico orizzonte politico, ha espunto la questione politico–militare, Mao, con il suo: “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”, aveva riportato, e lo aveva fatto come leader di una delle più grandi potenze del mondo, la questione della violenza al centro dell’agenda politica dei movimenti comunisti e lo aveva fatto declinandola interamente sulle masse. Non la guerra degli apparati cara al socialimperialismo, ma la guerra di popolo, la guerra delle masse e la sua organizzazione. Abbiamo detto che il principio maoista della guerra di lunga durata3 è assunto per intero da “La classe” il che comporta tutta una serie di ricadute che, dalla teoria maoista, possono ricevere non secondarie indicazioni. Lo studio degli “Scritti militari” di Mao diventano un passaggio centrale per tutta una generazione di avanguardie operaie e militanti comunisti che, proprio su questo terreno, si erano mostrati completamente vergini.

Attraverso gli scritti militari di Mao è possibile cogliere la questione dell’edificazione del dualismo di potere che, secondo i militanti de “La classe”, sarà la caratteristica del processo rivoluzionario dentro le metropoli imperialiste. Ciò che la lotta di fabbrica ha fatto albeggiare è un conflitto che non si risolverà in una battaglia ma che per forza di cose si protrarrà nel tempo, un conflitto che, pur con tutte le tare del caso, assumerà contorni simili alla guerra rivoluzionaria in Cina ossia una guerra fatta di avanzate e ritirate, di zone liberate e instaurazione del potere rosso, ma anche di ripiegamenti repentini sotto l’incalzare della contro offensiva padronale e statuale.

Qui vi è un salto politico radicale rispetto all’operaismo che ha preceduto questa nuova stagione della lotta operaia. Il vecchio operaismo non era stato certamente parsimonioso nel decretare il potere operaio ma era un potere che, a conti fatti, non trovava mai una qualche forma. Nel vecchio operaismo il potere operaio non trovava mai un momento di cristallizzazione politico–organizzativa ma si dava soltanto come elemento di una conflittualità permanente capace di definire rapporti di forza e di potere continuamente in trasformazione senza che, il potere operaio, trovasse degli istituti politici stabili in grado di esercitarsi sino in fondo. Per il vecchio operaismo il potere operaio è ciò che sta nella sua potenza, una potenza che non ha necessità e bisogno di trovare una sua concretezza stabilmente organizzata. Da questa impasse “La classe” si emancipa sin da subito e l’incontro con il maoismo, in ciò, gioca un ruolo per nulla secondario. Vale la pena di sottolineare, infatti, come proprio nell’assunzione del maoismo come possibile referente teorico–politico la questione dello stato venga assunta per intero e, con ciò, la rottura con tutte le ambiguità proprie dell’operaismo delle origini si consumi appieno. Anche se solo abbozzata la necessità di offrire uno sbocco organizzativo politico–militare alla lotta operaia è ormai un bisogno reale. Da qui non si torna indietro e gli anni immediatamente a ridosso di questa stagione daranno, di tutto ciò, più che una conferma. Mentre i gruppi e partitini maoisti si caratterizzeranno per la loro dimensione da operetta finendo con l’esaurirsi in un mare di ridicolo, il maoismo che fuoriesce da “La classe” sarà all’origine delle più significative pratiche rivoluzionarie dei primi anni settanta.

Un ulteriore aspetto che lega “La classe” al maoismo è l’inchiesta. Anche in questo caso l’immediata vena polemica con il riformismo è tanto evidente quanto immediata. La famosa asserzione di Mao: “Solo chi fa inchiesta ha diritto parola”4, suona come miele alle orecchie de “La classe” che proprio sulla centralità dell’inchiesta operaia aveva declinato la sua linea di condotta. Mentre per il riformismo a contare sono solo gli equilibri politici e il punto di vista delle masse è del tutto inessenziale tanto che, per lo più, si mostra del tutto incapace di leggere e comprendere le trasformazioni intervenute all’interno della composizione di classe, mentre Mao pone al centro dell’attività del partito il lavoro di inchiesta e quindi la soggettività delle masse al centro dell’iniziativa di partito.

In ciò non vi è solo un aspetto metodologico ma il completo recupero della dialettica marxiana. Lo stile di lavoro basato sull’inchiesta recupera interamente la triade marxiana prassi/teoria/prassi e, con questa, rimette in sella tutte le argomentazioni di Lenin intorno a Hegel presenti nei “Quaderni filosofici”5, ma con ciò, e non è cosa di poco conto, vi è la completa presa di distanza dalla svolta impressa al marxismo dal Diamat6 e il recupero integrale del rapporto dialettico tra classe e partito. Ma questa lettura di Mao che cosa è se non il pieno recupero di quella attualità della rivoluzione che il ’68 aveva fatto albeggiare in occidente? Anche su ciò almeno due tratti del maoismo si mostrano particolarmente affini a ciò che “La classe” ha appreso dalle lotte operaie le quali con il ’68 hanno non poco a che fare.

Il secondo aspetto del maoismo che cattura l’attenzione de “La classe” è quel fenomeno in atto in Cina, fortemente voluto da Mao, che ha preso il nome di Rivoluzione culturale la quale non poche aspettative ha creato dentro tutto quel mondo comunista che ha rotto con il movimento operaio ufficiale. Sparare sul quartier generale è l’incipit attraverso il quale la Rivoluzione culturale si è presentata. Questo, in prima istanza, significa ridare la parola alle masse ponendo tra parentesi fino ad azzerarlo il potere che una casta di burocrati di partito sta esercitando, ma questo significa anche cogliere nella fase attuale della rivoluzione cinese quell’antiautoritarismo così presente nelle istanze più radicali del ’68 e che adesso rivive, e per di più in maniera amplificata, dentro le lotte operaie. Se c’è qualcosa che padroni e riformisti lamentano è proprio la messa in mora dell’autorità da parte degli operai. La non governamentalità della fabbrica trova origine proprio nel rifiuto del principio di autorità e la rivoluzione culturale sembra sintetizzare proprio questo. Dando l’indicazione di sparare sul quartier generale Mao rimette al centro l’azione dal basso, il potere delle masse e la necessità di esautorare ogni forma di autorità burocratica ma, in questo, c’è anche molto di più. In ciò vi è il completo recupero dell’insegnamento leniniano per il quale la legittimità del partito è tale solo se espressione e sintesi della soggettività di classe, solo come passaggio intermedio della dialettica marxiana prassi/teoria/prassi. A fronte di un potere burocratico che azzera i poli della prassi per assolutizzare la sintesi teorica (che si incarna nell’apparato) Mao rimette in campo Lenin. Se necessario, se il partito diventa un corpo burocratico estraneo alle masse, il partito va azzerato e l’organizzazione ricostruita ex novo a partire da quelle che sono le istanze delle masse, bisogna, cioè, sparare sul quartier generale, ma non è forse questa la linea di condotta proprio de “La classe”? Molto sinteticamente questo il maoismo con il quale “La classe” si contamina. Ma non è solo Mao l’orizzonte astratto che occupa le pagine del giornale poiché a farsi prepotentemente strada è il rapporto razza/classe e le coeve forme di colonialismo interno che fanno da sfondo al ciclo di accumulazione capitalista.

( 6continua)


  1. Tra l’immensa pubblicistica si può vedere, P. Ortoleva, I movimenti del sessantotto in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988.  

  2. Al proposito si veda, Mao Tse Tung, Scritti militari, Edizioni Oriente, Milano 1966.  

  3. Cfr. Mao Tse Tung, Scritti militari, cit.  

  4. Mao Tse Tung, Chi non fa inchiesta non ha diritto di parola, in Id. Opere volume 3, Edizioni Rapporti Sociali, Milano 1991.  

  5. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, P. Greco, Milano 2021.  

  6. Con Diamat si intende la rivisitazione teorica compiuta da Stalin nei confronti del materialismo storico, una rivisitazione dove veniva del tutto espunta la dialettica e, ancor più, ogni possibile legame di Marx con Hegel. Il Diamat si ascrive così a pieno titolo in quel materialismo rozzo e meccanicista il quale, non per caso, finì con lo sposarsi velocemente con il positivismo e lo scientismo. J. Stalin, Materialismo dialettico e materialismo storico, in Id. Questioni del leninismo, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948.  

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