Ellen Meiksins Wood – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La silenziosa coazione verso il baratro https://www.carmillaonline.com/2023/06/21/la-silenziosa-coazione-verso-il-baratro/ Wed, 21 Jun 2023 04:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77383 di Fabio Ciabatti

Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, pp. 511, € 8,36 (edizione cartacea p. 340, € 24,29) 

Il modo più comune per spiegare la riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche fa riferimento al potere delle classi dominanti di fare leva sulla forza e sull’ideologia. L’importanza di queste dinamiche non sarà certo negata da chi scrive su una rivista che parla di immaginario e che da tempo insiste sulla deriva bellica del nostro presente. Se però vogliamo dare una spiegazione [...]]]> di Fabio Ciabatti

Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, pp. 511, € 8,36 (edizione cartacea p. 340, € 24,29) 

Il modo più comune per spiegare la riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche fa riferimento al potere delle classi dominanti di fare leva sulla forza e sull’ideologia. L’importanza di queste dinamiche non sarà certo negata da chi scrive su una rivista che parla di immaginario e che da tempo insiste sulla deriva bellica del nostro presente. Se però vogliamo dare una spiegazione storicamente determinata di queste due dimensioni del dominio, esse devono essere messe in relazione con i fondamenti materiali del nostro mondo e dunque con un altro tipo di potere che Marx definisce la “silenziosa coazione dei rapporti economici”, vale a dire con il potere economico del capitale. Quest’ultimo, contrariamente a quanto accade con la forza e l’ideologia, si rivolge ai soggetti solo indirettamente, riconfiguarndo in continuazione le condizioni materiali,  le attività e i processi necessari per la loro riproduzione sociale e per assicurare la continuazione dell’esistenza della vita collettiva.
Potrebbe sembrare fuori luogo fermare l’attenzione su questo aspetto in un momento storico caratterizzato dall’esplosione della violenza statale nella sua forma più estrema, la guerra, e dall’assordante volume della fanfara ideologica connessa alle vicende belliche. Ma ci troveremmo a questo punto se il sistema capitalistico non fosse in grado di esercitare un potere astratto, impersonale, semiautomatico che spinge i soggetti, anche al di là delle loro convinzioni, a mantenere immutati i comportamenti quotidiani legati alla loro riproduzione materiale nonostante questi ci stiano portando con ogni evidenza sull’orlo del baratro? 

E’ allora utile segnalare il libro Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, scritto dal filosofo comunista Søren Mau, curatore della rivista Historical materialism. Nel pensiero mainstream, sostiene l’autore, la sfera economica è considerata aliena da ogni forma di dominazione perché equiparata al mercato che, a sua volta, sarebbe caratterizzato dall’uguaglianza, in qualità di possessori di merci, degli attori coinvolti, tutti quanti liberi allo stesso modo di scegliere con chi scambiare le proprie merci o anche di sottrarsi a qualsiasi forma di scambio. Il primo passo per demistificare questa concezione è quello di abbandonare l’idea che la sfera economica sia caratterizzata da una razionalità metastorica e considerarla, insieme a Marx, in tutto e per tutto sociale, vale a dire intrinsecamente storica. A tal fine occorre però rigettare anche ogni forma di determinismo tecnologico, cioè ogni idea di progresso storico determinato dal crescente sviluppo delle forze produttive, tipica del marxismo ortodosso.
Tuttavia, precisa Mau, “i concetti che si riferiscono a forme sociali storicamente specifiche portano sempre con sé certe assunzioni sull’ontologia del sociale”,1 su ciò che non è storicamente specifico. Per questo, secondo Mau, la critica marxiana si basa, contrariamente a quello che pensava Althusser, su una determinata concezione della natura umana sebbene, da un certo punto in poi, il rivoluzionario tedesco abbandoni l’idea di un’essenza umana concepibile nei termini di un umanesimo romantico, come sosteneva lo stesso Althusser. Gli esseri umani incominciano a distinguersi dalle altre specie animali quando iniziano a produrre i loro mezzi di sussistenza grazie alla loro organizzazione corporea che gli consente di utilizzare strumenti extracorporei. Strumenti da cui dipendono in modo essenziale perché senza di essi sarebbero null’altro che corpi disarmati. Lo sviluppo intellettuale della nostra specie fa parte dello stesso percorso evolutivo che porta alla produzione di utensili perché la complessità di quest’ultima richiede certe capacità mentali, compresa quella di comunicare informazioni articolate senza la quale l’essere umano non potrebbe caratterizzarsi come l’animale sociale per eccellenza. Queste determinazioni rendono la nostra specie capace di produrre la storia perché le modalità del rapporto con la natura sono estremamente elastiche, biologicamente sottodeterminate.
In breve, gli strumenti umani sono allo stesso tempo parte del nostro corpo e separati da esso e per questo i momenti costitutivi del metabolismo umano possono essere temporaneamente separati. Questo aspetto, sostiene Mau, è fondamentale per capire cosa sia il potere economico del capitale perché i mezzi di riproduzione dell’essere umano possono essere appropriati da un determinato gruppo che può quindi esercitare una mediazione essenziale per la riproduzione di altri gruppi. Se aggiungiamo la capacità delle comunità umane di produrre un surplus rispetto alle necessità strettamente fisiche vediamo sorgere la possibilità (non la necessità) dello sfruttamento di un gruppo sociale su un altro. Queste possibilità sono realizzate al massimo grado dall’attuale modo di produzione perché “separare per riconnettere, rompere per riassemblare, atomizzare per integrare” è forse “la più fondamentale dinamica della ristrutturazione materiale della riproduzione sociale messa in moto dal capitale”.2 

Secondo Mau, c’è una duplice separazione costitutiva dei rapporti di produzione capitalistici che riguarda l’aspetto oggettivo e quello sociale delle condizioni di produzione. Di conseguenza abbiamo due distinte ma strettamente interrelate forme di dominio. Seguendo Robert Brenner, esse riguardano due tipi di relazioni: quelle verticali tra produttori immediati e sfruttatori e quelle orizzontali che mettono in rapporto gli sfruttatori tra loro, da una parte, e produttori immediati gli uni con gli altri, dall’altra.
Marx, nel Capitale, inizia con l’analisi delle relazioni orizzontali tra distinte unità di produzione. Il fatto che esse siano separate, non coordinate a priori, dà luogo ad un’unità contraddittoria della riproduzione complessiva: il lavoro è privato, ma al tempo stesso deve risultare sociale perché i prodotti del lavoro devono avere quantità e qualità tali da assicurare la riproduzione della società. Attraverso la teoria del valore, Marx dimostra come il capitalismo dia luogo a una peculiare forma di “socializzazione retroattiva” (come la definisce Michael Heinrich) che assoggetta tutti quanti, indipendentemente dal loro status di classe, al potere impersonale del “valore che si valorizza”. La circolazione delle merci e del denaro (che, con il procedere dell’analisi marxiana, assume la forma più concreta della concorrenza) genera standard obbligatori (relativi a produttività, tecniche, forme organizzative ecc.) che tutti i produttori devono soddisfare se vogliono sopravvivere. La relazione esterna tra distinte unità di produzione, però, presuppone sin dall’inizio una certa organizzazione interna di queste stesse unità, cioè la separazione tra produttori immediati e mezzi di produzione e la produzione di plusvalore sulla base dello sfruttamento del lavoro salariato. In estrema sintesi, il valore presuppone le classi e “I proletari sono soggetti ai capitalisti per mezzo di un meccanismo di dominazione che simultaneamente assoggetta tutti quanti agli imperativi del capitale”.3
Il dominio di classe proprio del capitalismo, precisa Mau, non è definito prioritariamente dallo sfruttamento, ma dalla relazione tra chi controlla le condizioni della riproduzione e chi ne è escluso. L’insieme delle persone che il capitale ha bisogno di sfruttare è solo un sottoinsieme di quelle che dipendono dal mercato per la loro riproduzione. Il proletario non è definito dalle condizioni di lavoro, ma dalla radicale separazione tra la vita e le sue condizioni. Uno status che Marx definisce anche come “povertà assoluta”, cioè povertà intesa non come penuria, ma come totale esclusione dalla ricchezza oggettiva; come “mera possibilità” che necessita della mediazione del capitale per tradursi in attualità. Per questo il potere del capitale ha una natura trascendentale, nel senso kantiano del termine, piuttosto che trascendente, come accadeva per il signore feudale che si collegava dall’esterno alla produzione senza intervenire direttamente nel processo produttivo. In questa luce possiamo comprendere anche la nascita della biopolitica di cui ci parla Foucault, cioè il potere dello stato non di decretare la morte dei suoi sudditi (propria del potere sovrano), ma di occuparsi positivamente della gestione, del controllo e della regolazione della vita della popolazione. Con la radicale separazione della vita dalle sue condizioni, con l’indifferenza dell’accumulazione monetaria nei confronti dei bisogni umani, il capitalismo “introduce un tipo di insicurezza storicamente unico al livello più fondamentale della riproduzione sociale e per questa ragione  lo stato deve assumere il compito di la vita della popolazione”.4

La gestione della vita lavorativa, prosegue Mau, è invece presa direttamente in carico dal capitale che ristruttura continuamente gli aspetti sociali e materiali del processo produttivo, anche i più minuti, esercitando una vera e propria microfisica del potere, per utilizzare ancora i termini foucaultiani. Stiamo parlando di ciò che Marx chiama la sussunzione reale del lavoro mettendo in evidenza lo sviluppo di una nuova sfera del potere, accanto a quella propriamente politica, derivante dalla privatizzazione della regolazione sociale dell’attività economica, fenomeno specifico del capitalismo, come ha evidenziato Ellen Meiksins Wood. Due sono le principali cause della sussunzione reale che corrispondono ai due tipi fondamentali di separazione già menzionati: data la loro separazione dai mezzi di produzione, i lavoratori esercitano una resistenza nel processo lavorativo che deve essere piegata con la continua introduzione di nuove tecnologie, forme di sorveglianza, divisioni del lavoro ecc.; in conseguenza della separazione delle unità produttive la pressione della concorrenza forza i singoli capitalisti a raggiungere determinati standard di produttività. In altri termini “la sussunzione reale  non è solo una questione di efficienza tecnica; è una tecnica di potere, un meccanismo per la riproduzione delle relazioni di produzione capitalistiche”.5
Un potere che viene esercitato in forma dispotica anche se si tratta di un dispotismo di natura essenzialmente diversa rispetto a quello espresso, per esempio, dal signore feudale. Il singolo proletario non appartiene infatti al singolo capitalista, ma alla classe capitalistica complessiva perché, a differenza del servo della gleba, può liberarsi dal giogo di un padrone ma poi, se vuole sopravvivere, deve vendersi a un altro e sottomettersi alla sua autorità, data la sua separazione dai mezzi di riproduzione. L’autorità del singolo capitalista, dunque, non deriva da un’investitura personale di tipo politico, militare o religioso che lega a sé il singolo lavoratore, ma dal suo essere “personificazione” delle condizioni del lavoro di fronte al lavoro, cioè del capitale in quanto tale. È l’incarnazione di una razionalità economica che non avrebbe modo di affermarsi se il singolo capitale non fosse assoggettato esso stesso alla logica del valore che si valorizza.
Questa razionalità mostra però tutti i suoi limiti per il fatto che il capitalismo è intrinsecamente soggetto a crisi ricorrenti mostrando con chiarezza il carattere impersonale, astratto del potere del capitale. Nel corso della crisi non esiste un centro da cui si irradi il potere e per questo la società perde il controllo sulla sua riproduzione complessiva, mostrando nel modo più evidente l’incompatibilità tra le convulsioni dell’accumulazione e il bisogno di una vita sicura e stabile, in particolare dei proletari. Nessuna sorpresa, dunque, se la crisi porta con sé conflitti e disordini sociali. Ma, al tempo stesso, la sua tendenza immanente è quella di mettere in moto potenti dinamiche che, se non contrastate, finiscono per restaurare e espandere il potere del capitale. La distruzione del capitale in eccesso e la centralizzazione delle forze produttive, la crescita della disoccupazione e la svalorizzazione della forza lavoro pongono le basi per una ripartenza dell’accumulazione. Anche in questo modo si conferma una delle caratteristiche principali del potere capitalistico, la sua circolarità. Il fatto, cioè, che “una delle fonti del potere del capitale è l’esercizio stesso di questo potere”6 perché esso tende a riprodurre i suoi stessi presupposti in modo semiautomatico e su scala allargata. 

Per questo si può dire che oramai difficile trovare sulla terra qualcosa che non sia in qualche modo condizionato dal potere del capitale anche se ciò non significa che il capitale stesso abbia preso il controllo di tutte le dimensioni della vita sociale. Finché non interferiscono con il suo vero scopo, la produzione di plusvalore, non ha motivo di eliminare o cambiare norme, pratiche, ideologie, processi naturali, stili di vita ecc. Differenze di genere, “razza”, religione, nazionalità ecc. possono essere per di più funzionali al divide et impera del capitale nei confronti del proletariato, anche se la scelta su quali fratture puntare dipende dalle condizioni contingenti in cui si trova ad operare (fatto salvo che un’eccessiva divisione può essere disfunzionale impedendo la necessaria collaborazione tra lavoratori). L’universalizzazione del lavoro astratto, tipico del capitalismo, non coincide con la scomparsa delle specificità dei differenti lavori concreti e dei loro esecutori, ma con la loro manipolazione e/o subordinazione al processo di valorizzazione. Se, per esempio, è vero che la sussunzione reale porta con sé la tendenza alla dequalificazione del lavoro (oltre che alla sua specializzazione e alla separazione tra esecuzione e ideazione), è altrettanto vero che il capitale non ha la necessità di eliminare il lavoro qualificato in sé e per sé, ma solo quello che può essere monopolizzato dai lavoratori e dunque utilizzato per contrastare il potere imprenditoriale.
La sussunzione reale non è dunque onnipervasiva per quanto essa possa arrivare a toccare ambiti differenti dal processo lavorativo in senso stretto, come accade con la natura. Uno degli aspetti più interessanti in questo ambito riguarda l’agricoltura, fino a metà 900 sostanzialmente refrattaria alla sussunzione reale nei confronti del capitale in quanto la produzione intensiva tendeva a minare la fertilità della terra. Questa situazione cambia come risultato di tre processi strettamente interrelati: primo, l’introduzione di un insieme di cambiamenti tecnologici legati alla meccanizzazione, ai fertilizzanti chimici, alla manipolazione biotecnologica; secondo, la ristrutturazione organizzativa legata alla nuova divisione del lavoro che porta alla crescita della specializzazione e delle monoculture; terzo, la mediazione sempre più pervasiva delle forze di mercato dovuta alla cosiddetta rivoluzione verde postbellica, alla rivoluzione logistica e ai programmi di aggiustamento strutturale degli anni Ottanta. Quello che era un sistema sostanzialmente chiuso in cui le fattorie producevano i propri mezzi di produzione diventa un ramo dell’industria dipendente dagli input che devono essere comprati sul mercato. Aumenta così la produttività, ma al tempo stesso crescono i disastri ecologici, nonché l’impoverimento e la proletarizzazione di ampie masse di contadini soprattutto nel Sud Globale. L’ultimo gradino di questo processo è raggiunto dalla manipolazione biogenetica con la produzione di piante completamente sterili dal momento che “la biotecnologia mira a inscrivere la logica della valorizzazione nel codice genetico del seme, al punto che la pianta non può crescere senza la mediazione del capitale“.7
Questo è forse il caso più estremo che mostra come, una volta affermatasi, “la sussunzione reale rende più difficile dissolvere la morsa del capitale”.8 Un altro esempio è rappresentato dalla rivoluzione logistica che ha incrementato a livello planetario l’integrazione geografica dei network produttivi. Allo stato attuale la rottura con il capitalismo dovrebbe avvenire su una scala spaziale sufficientemente ampia da evitare l’interruzione delle catene produttive essenziali per la riproduzione di una società post-capitalistica.

Alla fine di questo lungo resoconto possiamo andare al di là del testo di Søren Mau tornando al nostro punto di partenza, la guerra. Come abbiamo visto il potere del capitale non si esercita solo sui proletari, ma anche sui singoli capitalisti. Questi ultimi sono letteralmente costretti a perseguire il profitto con crescente rapacità nell’ambito di un processo storico caratterizzato, secondo Marx, da crescenti difficoltà per la riproduzione allargata del capitale. La rapacità del capitale è, inoltre, sempre più difficile da contrastare, data la presa vieppiù intensa della sussunzione reale sul processo riproduttivo della società. Quando le leggi astratte del modo di produzione capitalistico possono esplicarsi senza particolari impedimenti determinati dalla congiuntura spazio-temporale in cui opera, la coazione esercitata dalle dinamiche economiche è quella prevalente nel consolidare il potere del capitale, almeno all’interno delle nazioni imperialiste. È questo tutto sommato il livello su cui si attesta il libro di Mau. Anche in tempi di crisi generalizzata della valorizzazione, possiamo aggiungere da parte nostra, le medesime dinamiche economiche spingono gli individui a proseguire sempre nello stesso modo le attività necessarie per assicurare la continuazione della loro esistenza, ma questo non è più sufficiente ad assicurare la riproduzione ordinaria né dei singoli né del sistema complessivamente inteso. È vietato cambiare strada anche se ci porta a sbattere contro un muro! Il capitale, incapace di superare con le buone i propri limiti intrinseci, deve cercare di abbatterli con un uso sempre più generalizzato della forza, violenza bellica compresa.
Per questo l’opposizione alla guerra non può essere delegata a un pur rispettabile pacifismo. Contrastare la guerra significa opporsi al potere del capitale, smantellando sin dalle sue radici la silenziosa coazione a ripetere determinata dai rapporti economici che ci sta portando sull’orlo di una nuova guerra mondiale. Un precipizio, è necessario sottolineare, sempre più vicino anche a causa dello stato di catalessi del sentire comune occidentale che, sebbene appaia al momento poco propenso a farsi sedurre dagli ardori bellici, rimane dominato dalla rassegnazione. Per questo, per contrastare la muta costrizione dei rapporti di produzione è necessario fare appello alla rumorosa liberazione di un immaginario collettivo in grado di oltrepassare le colonne d’Ercole del realismo capitalista.


  1. Søren Mau, Mute compulsion. A marxist theory of the economic power of capital, Verso Book, London 2023, edizione kindle, p. 88. 

  2. Ivi, p. 269. 

  3. Ivi, p. 231. 

  4. Ivi, p.161. 

  5. Ivi, p. 258. 

  6. Ivi, p. 264. 

  7. Ivi, p.288. 

  8. Ivi, p. 314. 

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La crisi di governo come spettacolo https://www.carmillaonline.com/2021/02/24/la-crisi-di-governo-come-spettacolo/ Tue, 23 Feb 2021 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64999 di Fabio Ciabatti

La triste commedia messa in scena dalla classe politica durante l’ultima crisi di governo è stata unanimemente e fortemente condannata dai media main stream. Siamo di fronte a una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si lamentano commentatori di ogni risma, e i partiti sono capaci soltanto di fare giochi di palazzo dimenticandosi dell’interesse generale. Vergogna! Alla gogna! Eppure la maniacalità con cui viene seguito ogni sussurro proveniente dalle stanze e dai corridoi del “palazzo” suscita molti dubbi sul significato reale dell’indignazione sbandierata da giornalisti e opinionisti. Se del [...]]]> di Fabio Ciabatti

La triste commedia messa in scena dalla classe politica durante l’ultima crisi di governo è stata unanimemente e fortemente condannata dai media main stream. Siamo di fronte a una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si lamentano commentatori di ogni risma, e i partiti sono capaci soltanto di fare giochi di palazzo dimenticandosi dell’interesse generale. Vergogna! Alla gogna! Eppure la maniacalità con cui viene seguito ogni sussurro proveniente dalle stanze e dai corridoi del “palazzo” suscita molti dubbi sul significato reale dell’indignazione sbandierata da giornalisti e opinionisti. Se del solito teatrino della politica si tratta, perché puntare ossessivamente i riflettori su questi attori di serie B? In realtà quello che è andato in scena con la complicità di giornali, televisioni e media digitali non è tanto una rappresentazione teatrale di pessima fattura quanto un vero e proprio spettacolo, nel senso che a questo termine attribuiva Debord.
“Lo spettacolo – sostiene il padre del situazionismo – riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato”.1 Per quel che qui ci interessa possiamo sostenere che lo spettacolo della crisi di governo ha riunificato, a suo modo, la sfera politica e quella economica; la prima intesa come l’istanza che si presume possa garantire l’interesse generale e la coesione complessiva di una società,  la seconda come l’ambito in cui i singoli capitali organizzano la produzione finalizzata al perseguimento del profitto. 

A questo proposito chiediamo un po’ di pazienza perché vorremmo ribadire, come si sarebbe detto un tempo, alcune banalità di base.  E ci piace farlo, a mo’ di omaggio, attraverso un testo di qualche anno fa di Ellen Meiksins Wood, importante esponente del marxismo politico, scomparsa nel gennaio di cinque anni fa.2 Ebbene, secondo l’autrice il sistema capitalistico è caratterizzato da una separazione senza precedenti della sfera economica da quella politica. Lo stato rimane essenzialmente separato dall’economia anche quando interviene in essa. In altri termini il capitalismo è caratterizzato da una divisione del lavoro in cui i due momenti dello sfruttamento capitalistico – l’appropriazione e la coercizione – sono separati: il primo viene assegnato a una classe privata appropriatrice, i capitalisti,  il secondo a una istituzione pubblica specializzata nella coercizione, lo stato.  Quest’ultimo, da una parte, ha il monopolio della forza coercitiva; dall’altra, attraverso questa forza, sostiene un potere economico “privato”, la proprietà capitalistica che è investita dell’autorità di organizzare la produzione. Un’autorità probabilmente senza precedenti storici nel suo grado di controllo sull’attività produttiva e sugli esseri umani impegnati in essa.
Ciò significa che l’appropriazione del surplus avviene nella sfera economica con mezzi economici. Data la separazione dei produttori diretti dalle condizioni di lavoro, la pressione diretta extraeconomica, l’aperta coercizione, per principio, non sono necessarie per costringere i lavoratori a cedere al capitale il loro pluslavoro, cioè il tempo di lavoro eccedente rispetto alla produzione dei beni necessari alla loro riproduzione. A tal fine è sufficiente il bisogno economico che si esplica nell’ambito dello scambio di merci, basato sulla relazione contrattuale tra “liberi” produttori. Le società precapitalistiche, invece, sono caratterizzate da mezzi extra-economici di estrazione del surplus: coercizione politica, legale, militare, vincoli e doveri consuetudinari, obbligazioni religiose, deliberazioni comunitarie regolano il trasferimento del pluslavoro ai signori privati o allo stato attraverso corvée, rendita, tasse ecc.
Il processo attraverso cui si afferma l’autorità della proprietà privata, unendo il potere dell’appropriazione con l’autorità di organizzare la produzione nella mani di un proprietario privato per il suo beneficio, può essere visto come la privatizzazione del potere politico, cioè l’assunzione da parte di un proprietario privato di funzioni che erano originariamente appannaggio di un’autorità pubblica o comunitaria. Allo stesso tempo, questo potere non porta più con sé l’obbligo di adempiere a funzioni pubbliche, sociali. In ogni caso la separazione tra economia e politica svaluta la sfera politica e di conseguenza il significato della cittadinanza che perciò può essere estesa, tendenzialmente, senza limitazioni. La cittadinanza si fa formale non potendo investire una vasta area delle nostre vite quotidiane: i luoghi di lavoro, la distribuzione del lavoro e delle risorse ecc.
Non vorremmo essere fraintesi. Meiksins Wood non vuole affermare una rigida separazione concettuale tra economico e politico, cosa che avrebbe la conseguenza di svuotare il capitalismo del suo contenuto sociale e politico. Sostiene invece che i rapporti di produzione devono essere presentati nel loro aspetto politico, come rapporti di dominazione, diritti di proprietà, potere di governare e organizzare la produzione e l’appropriazione e perciò come terreno di lotta. In questo senso le relazioni politiche e giuridiche non sono riflessi secondari o meri supporti esterni, ma  parti costituenti dei rapporti di produzione. Economico e politico vanno dunque intesi come momenti la cui unità interna si muove attraverso opposizioni esterne. Da ciò deriva una conseguenza: come sostiene Marx, “Se il farsi esteriormente indipendenti dei due momenti, che internamente non sono indipendenti perché si integrano reciprocamente, prosegue fino ad un certo punto, l’unità si fa valere con la violenza, attraverso una crisi”.3 E con ciò torniamo all’attualità. 

Quella cui stiamo assistendo in Italia, e non solo, è una crisi di sistema, già da tempo in incubazione ma accelerata dalle conseguenze della pandemia, mascherata da crisi politica. L’ossessiva attenzione nei confronti dei rumor di palazzo sono funzionali a un processo di villanizzazione della classe politica, cioè alla creazione del villain della storia, del cattivo colpevole di tutti i mali sofferti da una nazione che altrimenti sarebbe in grado di reagire all’attacco del virus e, come la Roma di Nerone/Petrolini, rinascere “più bella e più superba che pria”. Risulta allora chiaro che la separazione tra sfera economica e sfera politica, per quanto possa sembrare a prima vista una debolezza del sistema perché limita la concentrazione del potere, risulta in realtà un suo punto di forza in quanto consente di affrontare le sue crisi senza investire direttamente i suoi fondamenti, i rapporti sociali di produzione capitalistici. La politica diviene il perfetto capro espiatorio. A essa, infatti, viene attribuito il compito di risolvere i problemi socio-economici, ma al contempo ha limitate capacità di intervento in questi campi, fermi restando il potere di appropriazione del surplus e l’autorità di organizzazione della produzione nella mani dei singoli capitali.
Non è un caso, sostiene ancora  Meiksins Wood, che le moderne rivoluzioni si siano verificate laddove il modo di produzione capitalistico era meno sviluppato e coesisteva con più antiche forme di produzione, in particolare la produzione contadina. In questi casi, infatti, la coercizione extraeconomica esercitava un ruolo maggiore nell’organizzazione della produzione e nell’estrazione di pluslavoro e lo stato agiva non soltanto in appoggio alle classi proprietarie ma, similmente allo stato precapitalistico, anche come diretto appropriatore. In breve dove il conflitto economico e quello politico apparivano immediatamente come inseparabili e lo stato rappresentava un nemico di classe più visibile e centralizzato. Di contro, nei paesi a capitalismo sviluppato la lotta di classe, che nella storia ha sempre riguardato il potere sul pluslavoro, tende a convogliarsi nel luogo della produzione perché è lì che si concentra e si esercita questo potere. In altri termini la lotta di classe da politica diventa economica, trasformandosi tendenzialmente in qualcosa di locale e particolaristico. Una lotta che riguarda i termini e le condizioni di lavoro che, per quanto feroce possa essere, non mette direttamente in questione il rapporto tra capitale e lavoro, almeno finché non esce dalle mura dei luoghi di lavoro. 

A maggior ragione, come già accennato, il conflitto tra i diversi attori nella sfera politica, non potendo oltrepassare il suo limitato ambito di competenza, non è in grado di prendere di petto il tema del rapporto tra capitale e lavoro. Ma, a differenza del conflitto che si dà sul luogo della produzione, è in grado, per così dire, di sublimarlo. Proprio per questo nella sfera politica si può dare una ricomposizione spettacolare tra economico e politico. Una ricomposizione di cui abbiamo un esempio nell’esito dell’ultima crisi di governo. Non c’è nulla di più spettacolare, infatti, di un salvatore della patria cui vengono attribuiti connotati spudoratamente eroici: “Super Mario” Draghi, appunto. Un individuo straordinario che ha già mostrato le sue eccezionali capacità decisionali quando, come ci viene ripetutamente ricordato, affermò in pubblico che per salvare l’euro avrebbe fatto  “whatever it takes”. Frase che si concludeva così: “And believe me, it will be enough”. Una dichiarazione che starebbe bene in bocca anche al più coatto dei cowboy hollywoodiani.
Draghi è con ogni evidenza un esponente di spicco dell’élite economico-finanziario europea chiamato a rimediare al fallimento della politica nazionale. Non è perciò esagerato parlare di un commissariamento dell’Italia da parte del capitale finanziario continentale sotto lo sguardo attento dei poteri atlantici. Però, a ben vedere, c’è qualcosa di più da dire. La questione ripetutamente sollevata sulla natura tecnica o politica del suo governo, per quanto stucchevole, indica in modo confuso una difficoltà reale che affiora dalla profondità della crisi socio-economica in corso: è proprio l’andamento dell’economia, così come governato dal capitale, a costituire un problema. In altri termini, sebbene in modo tutt’altro che trasparente, affiora la necessità di scelte, propriamente politiche, che modifichino questo andamento interferendo con il governo capitalistico della produzione. Questo, per meglio dire, è il fantasma che va esorcizzato.

Prendiamo il caso della campagna vaccinale, uno dei compiti prioritari cui si dovrebbe dedicare il nuovo governo. E’ chiaro che le decisioni sovrane delle case farmaceutiche, basate ovviamente sulla ricerca del massimo profitto, sono un ostacolo fondamentale per una efficiente programmazione della campagna di immunizzazione di massa. Il potere e gli enormi profitti delle grandi imprese farmaceutiche sono normalmente giustificati dal loro ingente investimento nella creazione di nuovi farmaci. Ma le cose non stanno così. Con riferimento agli Stati Uniti, Marianna Mazzuccato rilevava qualche anno fa come tra il 1994 e il 2003 siano stati gli Istituti Nazionali di Sanità finanziati dal governo americano a condurre le ricerche che hanno portato a tre quarti dei nuovi farmaci (le cosiddette nuove entità molecolari), mentre le case farmaceutiche si limitavano ad investire prevalentemente sulle varianti meno rischiose (in termini di profitti attesi) dei farmaci già esistenti.4 Con la crisi pandemica l’impegno pubblico sarà con ogni probabilità ancora più significativo. Soltanto il governo statunitense, nell’ambito dell’Operazione Warp Speed, avrebbe inizialmente stanziato 9 miliardi di dollari per finanziare lo sviluppo e la produzione dei vaccini. Ma non è tutto. La scelta dei vaccini come arma principale, se non unica, per sconfiggere la pandemia non è un’opzione obbligata come dimostrano le efficienti strategie di contenimento messe in atto principalmente dai paesi asiatici (per non parlare di Cuba). Si tratta in realtà di una scelta dettata dagli interessi di Big Pharma che in tutto l’Occidente ha trasformato la medicina in senso ospedale-centrico e farmaco-centrico, trascurando prevenzione e medicina territoriale.5
E si tratta anche di una scelta che consente di alimentare una perniciosa illusione a beneficio del potere capitalistico complessivamente inteso: si può contrastare l’epidemia proseguendo nel nostro stile di vita quasi come se nulla fosse.
Business as usual. Avremmo a che fare, in altri termini, con un’opzione che, per sconfiggere la pandemia, non necessiterebbe, nel breve periodo, di adottare provvedimenti coercitivi sul governo capitalistico dell’economia evitando la limitazione del movimento di merci e persone (leggi lockdown) e, nel medio-lungo periodo, di ripensare un modello di sviluppo che stravolgendo gli ecosistemi planetari favorisce la possibilità del salto di specie dei virus.
Insomma proprio quando appare che alla politica venga richiesto uno sforzo straordinario per modificare il corso degli eventi nella realtà accade che le vengono negati gli strumenti per agire. Solo lo spettacolare intervento di un eroe ci può aiutare in un compito così disperato e al tempo stesso così importante. Vediamo dunque che tutto si raddoppia e si capovolge. La sfera economica invade quella politica, ma è la politica che deve apparire in grado come non mai di governare l’economia: la prassi sociale, direbbe Debord, si è scissa in realtà e immagine. In altri termini la politica può riprendere il comando solo negando se stessa. L’appoggio praticamente unanime al governo Draghi nega infatti uno degli elementi essenziali che si suppone debba caratterizzare la sfera politica moderna: quel politeismo dei valori che implica la possibilità di effettuare scelte diverse, o anche divergenti, nel governare il bene comune. 

E allora di fronte al fantastico mondo di Super Mario chiudiamo ribadendo di nuovo alcune banalità di base, utilizzando le parole di Meiksins Wood: “le battaglie puramente ‘politiche’ sul potere di governare e dirigere, rimangono incompiute finché non  coinvolgono oltre alle istituzioni dello stato anche il potere politico che è stato privatizzato e trasferito nella sfera economica. In questo senso, è proprio la differenziazione dell’economico e del politico nel capitalismo – la simbiotica divisione del lavoro tra stato e classe – ciò che rende propriamente essenziale l’unità delle lotte politiche ed economiche e che deve rendere sinonimi socialismo e democrazia”.6


  1. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, 2004, p. 62. 

  2. Cfr. Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism, Cambridge Universiy Press 1995. 

  3. Karl Marx,  Il capitale I, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 146.  

  4. Cfr. Marianna Mazzuccato, Lo stato innovatore, Laterza 2014. 

  5. Cfr. Alberto Burgio, “Dopo un anno di pandemia: ostaggi di Big Pharma?” in Oltre il capitale, anno III n. 5, gennaio 2015. 

  6. Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism, cit. p. 48, traduzione mia. 

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