Elias Canetti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Strategie di sparizione contro il potere https://www.carmillaonline.com/2024/07/09/strategie-di-sparizione-contro-il-potere/ Tue, 09 Jul 2024 20:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83402 di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Il diario delle mie sparizioni, Besa Muci, Nardò, 2024, pp.120, euro 14,00.

Deleuze e Guattari analizzano l’opera di Kafka come una  “deterritorializzazione” continua, strategicamente attraversata da un percorso di linee di fuga dirette verso dinamiche di assenza e di sottrazione. Una di queste strategie, per i due studiosi, è il “divenire animale”, come succede al protagonista di La metamorfosi (cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 56): “Noi diciamo che per Kafka l’essenza animale è la via d’uscita, la linea di fuga, anche senza spostarsi [...]]]> di Paolo Lago

Daniele Comberiati, Il diario delle mie sparizioni, Besa Muci, Nardò, 2024, pp.120, euro 14,00.

Deleuze e Guattari analizzano l’opera di Kafka come una  “deterritorializzazione” continua, strategicamente attraversata da un percorso di linee di fuga dirette verso dinamiche di assenza e di sottrazione. Una di queste strategie, per i due studiosi, è il “divenire animale”, come succede al protagonista di La metamorfosi (cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 56): “Noi diciamo che per Kafka l’essenza animale è la via d’uscita, la linea di fuga, anche senza spostarsi dalla stanza, anche restando nella gabbia”. Linee di fuga, percorsi strategici di sottrazione a una ‘maggioranza’, vie d’uscita per sfuggire al controllo inesauribile di un oscuro potere sono assai presenti anche nella raccolta di racconti di Daniele Comberiati, Il diario delle mie sparizioni, recentemente pubblicata da Besa Muci, che si configura davvero come un piccolo gioiello di narrativa weird contemporanea. Le strategie di sottrazione al potere, nei racconti di Comberiati, non vengono però attuate mediante il “divenire animale”, come nell’opera di Kafka, ma attraverso veri e propri percorsi di “sparizione”, di assenza, di divenire minore e minoritario semplicemente sparendo.

Lo sfondo delle storie narrate è sempre costituito da una società greve e oppressiva, che spia e controlla, che incasella le esistenze degli individui in percorsi obbligati. Nel racconto che apre la raccolta, Sessantacinque anni, viene messa in scena una società del futuro in cui il capitalismo è caduto (nel 2035 che è già, sembra, un lontano passato nel momento della narrazione) e in cui vige un oscuro potere che – per risolvere il problema della sovrappopolazione e per garantire, apparentemente, una vita migliore – impone di non vivere oltre i sessantacinque anni d’età. In un universo distopico che ricorda quello allestito da Elias Canetti nel suo testo teatrale Vite a scadenza, in cui gli esseri umani hanno già impresso fin dalla nascita, in una capsula, il numero di anni che sono tenuti a vivere, c’è un personaggio che si ribella, il padre del cinico Emiliano, spinto unicamente dall’istinto vitale a vivere e sopravvivere:

Quante cazzate… sembra che la Los Angeles ricca e alternativa di inizio ventunesimo secolo – un frullato di finte filosofie orientali, biologico e prezzi esorbitanti e crudele gerarchia sociale – sia il modello che ha vinto. Per questo, però, dobbiamo essere pochi o, almeno, troppi. Per questo, a sessantacinque anni, andiamo tutti al Dépanneur. Per rigenerare il corpo sociale e collettivo di cui tutt* facciamo parte”. Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo. Io voglio vivere, e non m’importa come né a discapito di chi. Voglio ancora l’illusione di quando si viveva senza pensare alla morte. Come se non esistesse (p. 14).

Il personaggio ribelle, braccato dalla polizia segreta, il Sigurimi, si allontana dalla società rifugiandosi in una fantomatica comunità di ribelli chiamata “Veneranda” (che può ricordare la comunità segreta degli “uomini-libro” in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e nel film di Truffaut tratto dal romanzo) che si trova nel parco cittadino, dove si nascondono coloro che, raggiunti i sessantacinque anni, non hanno alcuna intenzione di morire. È con una fuga, con una sparizione, con un’assenza che il personaggio si allontana dalla crudele e greve realtà in cui persino i suoi familiari più stretti (il figlio e i nipoti) non intendono trasgredire le ciniche e disumane leggi dello stato.

Il tema dell’assenza e della sparizione è presente anche nel successivo racconto, 1993, in cui una comunità in Italia, vicino Roma, vive ed è autorganizzata secondo lo stile di vita, appunto, del 1993. Il protagonista, che vi si reca per intervistare il fondatore, cerca di scoprire i motivi di questa scelta: chissà – pensa – forse i membri della comunità volevano ricominciare da un anno simbolo in cui si poteva ancora svoltare per non incorrere in successivi errori. Non si può non ricordare infatti che, emblematicamente, il 1993 rappresenta l’ultimo anno prima della vittoria politica di Berlusconi che formerà il suo primo governo proprio nel 1994. Però, probabilmente, avrebbero dovuto scegliere un anno prima del 1980, data che simbolicamente segna l’avvento del disimpegno, dell’edonismo, della “Milano da bere”, in cui il berlusconismo (pur non essendo ancora palesemente legato alla politica) si insinuava in modo strisciante nelle coscienze degli individui. Infatti, nel 1993, come si evince anche dal racconto, è già assai presente una cultura edonistica all’insegna dell’individualismo che si intravede soprattutto nell’avvento di una grossa catena di noleggio di home video, la Blockbuster, presente anche nell’immagine di copertina del libro. Una grande catena, imposta dai meccanismi del capitale, deputata alla distribuzione di un piccolo cinema domestico, antenato delle piattaforme digitali di oggi, che ha contribuito a spopolare i cinema e a costringere gli individui nella solitudine dei propri salotti.

In Il luogo da cui tutte tornano, la sparizione è quella di diverse donne musulmane velate, che avviene a Montpellier: un avvenimento che insospettisce gli inquirenti che non esitano a tacciare le donne come “terroriste”. Si tratta di un racconto scopertamente autobiografico in quanto l’io narrante, italiano, insegna all’università (come l’autore, che è docente di letteratura e cultura italiana all’università di Montpellier) e osserva con crescente interesse e stupore gli avvenimenti relativi alle misteriose sparizioni. Nel racconto, la sparizione è anche quella che investe la donna nell’universo culturale islamico, costretta a portare il velo, diventando quasi invisibile all’interno della società, completamente sottoposta all’autorità maschile. D’altra parte, è la stessa comunità islamica a ‘sparire’ per lo sguardo occidentale, pronto ad egemonizzare e colonizzare qualsiasi altra cultura: soltanto perché portano il velo e, a un certo punto, scompaiono, le donne musulmane sono trattate come “terroriste”.

Sono invece gli asini a sparire, e a rimanere sottoterra, in Gli asini dell’Hospitalet, in cui si racconta di come la città di Barcellona, in una crisi mondiale, sia l’unica a mantenere una qualità della vita elevata grazie alla scoperta di un particolare fungo che cresce nei suoi sotterranei. Per poter estrarre il fungo sono necessari degli asini catalani, della grandezza giusta per potersi infilare nei tunnel, sui quali viene caricato il fungo per essere portato in superficie. In una società individualista, fondata su un cinico meccanismo di autosufficienza, gli asini vengono sfruttati e picchiati fino a quando… decidono di sparire. Come gli sfondi sociali presenti negli altri racconti, anche questo appare intriso di spietato individualismo e menefreghismo: “Mangiavamo carne, pesce, pasta e pane a base di fungo, ma i supermercati erano tornati a riempirsi e noi non avevamo risentito dei prezzi folli dell’inflazione mondiale. Che si uccidessero pure fra russi e ucraini, che si sciogliessero i Poli, che le estati non finissero mai per il riscaldamento climatico! Tanto noi avevamo il fungo” (pp. 72-73). L’esaltazione delle spietate libertà individuali viene messa in crisi dalla fuga verso una ‘tana’ sotterranea degli animali che, sfruttati fino alla morte, dovrebbero garantire la sopravvivenza di quelle stesse libertà. Gli asini tornano animali tout court e si ribellano, si sottraggono alla vista, entrano nelle tane kafkiane precluse agli inconsapevoli individui. Oltretutto, non ci sono solo gli asini nelle “fungaie” ma anche altri ‘invisibili’, che quotidianamente ‘spariscono’ in esse, e cioè i lavoratori che estraggono i funghi, la cui aspettativa di vita è di un terzo più bassa rispetto a coloro che lavorano in superficie: “I fungaroli, come si chiamano ormai, sono i minatori del ventunesimo secolo: senza di loro si blocca l’economia, ma vivono sottoterra, invisibili e nel mondo ‘normale’ non valgono niente” (p. 73).

L’ultimo racconto, Il diario delle mie sparizioni, è quello che conferisce il titolo alla raccolta e che appare come un vero suggello della stessa. Il personaggio io narrante, scrivendo il suo diario, dà il via libera alle sue “stranezze” raccontando le sue misteriose sparizioni che avvengono spesso durante il sonno. Naturalmente, fin da ragazzo, non è mai riuscito ad avere una vita normale, sempre soggetto a sparire per alcuni giorni, senza peraltro poterlo prevedere, come un vampiro che durante il giorno è costretto a sparire (tra l’altro vengono in mente i personaggi di Intervista col vampiro di Neil Jordan – tratto da un romanzo di Anne Rice – o di Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch). La scrittura diaristica appare come una rivincita nei confronti di un universo sociale che lo ha sempre considerato un po’ strano, emarginato e non integrato. Per opporsi a una società che gli chiude la porta in faccia, il personaggio scompare e ritorna, come ritornano alla fine della storia le donne musulmane in Il luogo da cui tutte tornano. Il personaggio, sparendo e anche scrivendo (una scrittura diaristica che diventa vampiresca e notturna, come la scrittura delle lettere di Kafka secondo Deleuze e Guattari), sviluppa la sua “legittima stranezza”, secondo quanto afferma il poeta surrealista René Char citato da Michel Foucault nella sua Storia della follia. Una “legittima stranezza” che si oppone alla rigida normalità su cui è impostato il vivere comune, una linea di fuga curva e serpentina che si scontra con la geometria dei percorsi obbligati. Sparizione è ribellione: viene allora in mente la silenziosa ribellione di Julian, in Porcile di Pasolini, che letteralmente sparirà divorato dai maiali. Perché il lato oscuro dell’esistenza è quello più interessante ma è anche quello che mai potrà essere raccontato. Nei vuoti della parola e dell’esistenza si insinuano magistralmente le narrazioni di Il diario delle mie sparizioni. Restano solo i segni, le allusioni, i non detti, le vie di fuga, le assenze e le sparizioni che si oppongono a qualsiasi forma di autorità e di potere.

]]>
Al ladro! Anarchismo e filosofia di Catherine Malabou https://www.carmillaonline.com/2024/04/08/81947/ Mon, 08 Apr 2024 18:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81947 Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la [...]]]> Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la negazione, di ogni autorità, potere, dominio (su differenze e analogie tra questi concetti è ancora dirimente il saggio di Amedeo Bertolo, pubblicato nel 1983 e disponibile in “Anarchici e orgogliosi di esserlo”, Elèuthera: “Il dominio è possesso privilegiato del potere. I detentori del dominio si riservano il controllo del processo di produzione di socialità, espropriandone gli altri”). Ora, si può deridere questa idea come sogno utopico, chi invece vuole ragionare in maniera non banale, senza ripetere gli errori del passato, è obbligato a prenderla in considerazione.

Come fa questo libro che inizia con una definizione precisa dei termini “anarchia” e “anarchismo” e della loro storia, e una panoramica delle questioni politiche contemporanee che rendono necessario un ripensamento di questi termini e del loro potenziale emancipatorio. Malabou presenta la riflessione di alcuni filosofi proprio sulla questione del potere. “La mia analisi del dominio si concentra su sei pensatori cruciali per la filosofia contemporanea che hanno posto l’anarchia al centro della loro riflessione smarcandosi però dal suo esito, l’anarchismo politico. Ed è questo che accomuna l’anarchismo ontologico di Schürmann, la responsabilità anarchica di Lévinas, la decostruzione di Derrida, l’anarcheologia di Foucault, il potere destituente di Agamben e l’uguaglianza radicale di Rancière: l’aver attribuito all’anarchia filosofica un valore determinante, senza tuttavia giungere a destituire una volta per tutte il principio archico”, scrive l’autrice.

Malabou si chiede perché alcuni dei filosofi radicali del Novecento abbiano sviluppato concezioni forti di anarchia stando ben attenti a non dichiararsi anarchici, “rubando” – da qui il titolo – suggestioni e stimoli, spesso senza dichiararlo esplicitamente, al movimento ribelle nato tra la rivoluzione francese e i movimenti socialisti e di classe dell’Ottocento. Sembra quasi che l’anarchismo sia qualcosa di inconfessabile, qualcosa da occultare anche quando gli si ruba l’essenziale: la critica del dominio e della logica di governo. Questa dissociazione viene analizzata assieme alla rimozione di quello che è il nocciolo duro dell’anarchismo: la praticabilità politica dell’assenza di governo. Sebbene questi filosofi abbiano tutti concorso a smantellare il principio archico (il principio del dominio), nondimeno hanno costruito il loro discorso, nascondendo lo scippo da cui deriva e rifiutandone gli esiti.

Destituzione del paradigma archico, sì, decostruzione del dominio, sì, ma effettiva possibilità che gli uomini possano vivere senza essere governati né governare, no. Ma è appunto qui che il paradigma archico si riattiva, in questa incapacità di abbandonare l’ambito del governabile e di accedere invece allo spazio del non-governabile, ovvero del radicalmente altro, del radicalmente estraneo al rapporto comando/obbedienza.

Come ha tentato di fare l’anarchismo storico. Sostenere che l’anarchismo possa continuare a essere un movimento in continua trasformazione, che sappia trasformarsi e includere nuovi e vivaci contributi è probabilmente una – seppur ammirabile – scontata dichiarazione di volontà. Anche André Breton, che qualche stimolo all’anarchismo classico lo aveva offerto, sosteneva che il “suo” surrealismo sarebbe stato capace di inglobare in sé ogni movimento più emancipatore, ma poi non seppe vedere, anzi contrastò, la novità del situazionismo. Insomma, facile a dirsi, meno a farsi.

Il surrealismo è morto come movimento. Come sono morti tutti i movimenti, anche per l’anarchismo sarà così, infatti solo una convinzione religiosa (o identitaria, come direbbe Laplantine) potrebbe pensare il contrario. E anarchia e religione non sono mai andati molto d’accordo, si sa. L’importante è quello che lasciano in eredità per le lotte, quello che germoglierà dalle loro provocazioni a pensare e ad agire.

Si può notare in questo volume l’assenza di altri filosofi o pensatori che hanno sviluppato parte delle proprie teorie da intuizioni anarchiche. Ricordiamo almeno Paul K. Feyerabend, che in Contro il metodo coniò il concetto di anarchismo epistemologico (“giocare la partita della Ragione allo scopo di minare l’autorità della Ragione”, senza alcun metodo precostituito), o Elias Canetti, che in Massa e potere sviluppa una critica incessante al concetto di comando (“chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la sua spina”). Si potrebbe andare avanti fino ad arrivare almeno a Dominio e sottomissione di Remo Bodei, singolare panoramica a partire dalla tradizione antica della schiavitù, che arriva al preoccupante uso dell’intelligenza artificiale. E – a proposito di “non detti” – come dimenticare altri classici del Novecento che si sostanziano di intuizioni anarchiche, dalla nozione di totalitarismo di Hannah Arendt, alla messa in discussione del principio identitario di Judith Butler e Francois Laplantine, all’immanenza an-archica del Mille piani di Deleuze e Guattari. Contributi a cui i movimenti libertari e antagonisti non possono rinunciare. Invece, nel saggio della filosofa allieva di Derrida, la mancanza di riferimenti al pensiero di Noam Chomsky è certo conseguenza della sua impostazione decostruttivista, ma rivela anche una difficoltà di confronto fra pensieri contemporanei.

Ma torniamo al testo di Malbou. Definendo il “paradigma archico”, il libro cerca di contribuire a un anarchismo che presupponga una rinnovata interrogazione del suo significato originario – l’assenza di governo – alla luce di letture dei filosofi che analizza. Il caos non è necessariamente dove ci si aspetta che sia. Il buon senso statale e il perbenismo vorrebbero che l’anarchia fosse sinonimo di disordine e l’anarchismo un’ideologia che nel peggiore dei casi è sinonimo di terrorismo e nel migliore di un dolce sogno a occhi aperti. Seguendo l’esempio dei pensatori anarchici, Malabou sostiene invece che il caos è inscritto nel potere statale. Lo abbiamo visto negli ultimi anni con la gestione della crisi sanitaria legata alla pandemia e con lo stato di degrado del sistema sanitario pubblico. Questo collasso è in gran parte il risultato dello smantellamento dello stato sociale sulla scia del neoliberismo, che ora è diventato ultraliberismo, ma anche del fatto che le organizzazioni gerarchiche esautorano la base della società, rendendola così permanentemente fragile.

Malabou si interroga anche su una coesistenza, fonte di confusione, tra quello che chiama anarchismo di fatto, che mira a eliminare lo Stato in una prospettiva individualista e privatistica, sinonimo di deregolamentazione estrema (uberizzazione) e capitalismo libertario, e quello che definisce anarchismo di coscienza, che percepisce attraverso esperimenti di auto-organizzazione come gli Zad (zone da difendere) o il movimento dei Gilet Gialli. Qui la nozione di classe, pur da ripensare e ridefinire, viste le mutazioni sociali ed economiche, è necessaria per chiarire ogni possibilità di confusione tra l’anarcocapitalismo e le tendenze libertarie dei movimenti di protesta degli ultimi anni. “L’ibrida combinazione di violenza governativa e illimitata uberizzazione della vita” appare sempre più egemonica. E, ovunque, le strutture di dominio, plurali e multiformi, sembrano irrigidirsi ancora di più.

“Paradigma archico” è dunque il nome di una “struttura che, agli albori della tradizione di pensiero occidentale, lega insieme sovranità statale e governo”. Non può esistere uno Stato senza governo, né un sovrano che si sottragga alla logica principale del governo: quella del comando e dell’obbedienza. È la logica di un certo modo di agire e di intendere l’azione, una logica egemonica che affonda le sue radici nel pensiero greco, in particolare aristotelico. All’origine della filosofia politica, come della stessa storia dello Stato, il comando riesce a fondare la sua logica solo se viene preso per un inizio: per l’origine vera e affermata, la prima, che a sua volta permette di giustificare la sua eminenza gerarchica. Come se ci fossero sempre stati ordini ed esecutori obbedienti. È stato Aristotele”, ci ricorda Malabou, attingendo alle analisi di Schürmann, che “fondando in un’unità indissolubile i due significati di inizio e di comando”, il concetto di archè, parola greca che significa “principio”, ha avviato il pensiero in tutte le sue dimensioni – logiche, ontologiche e politiche – sulla strada da cui non riusciamo ancora a districarci. Malabou: “l’anarchia perseguita l’archè non appena emerge, come la sua mancanza di necessità”. L’anarchia è l’assenza di principio, l’impossibile unione di principio e comando. L’ordine pratico, politico, statale è solo contingente: il paradigma archico è contingente, soggetto a un inizio storico che non può essere giustificato. Ha potuto aver inizio solo dominando e solo allora è stato in grado, con il pretesto di governare, di trasformare gli esseri non governabili in soggetti governabili.

Il non-governabile è diverso dal governo. Non è la sua inversione, il suo riflesso negativo. Non può essere amministrato, controllato o governato. L’anarchia, l’ingovernabile, assume spesso il volto della vita, ad esempio della vita animale: non si governa un animale, lo si domina. Allo stesso modo, il filosofo cinico, dice Malabou, attingendo alla potente interpretazione dell’ultima opera di Foucault, “è quell’uomo che non è disobbediente: ha ‘qualcosa in lui [che] è assolutamente estraneo all’ordine gerarchico’. E quel ‘qualcosa’ è la vita. Niente di meno della vita”.

Dovremmo dire che l’anarchia, e quindi l’ingovernabile, è la vita? Non esattamente: è ciò che, nella vita, testimonia un’alterità originale e irriducibile al paradigma archico. L’errore dell’anarchismo storico è quindi quello di aver fatto dell’anarchia un principio. Se l’anarchia non è un principio, è un punto di esteriorità, di alterità: il supporto da cui è concepibile un fuori, che sfugge alla circolarità infinita del governabile e dell’ingovernabile. È la Terra, o la vita, alla luce delle attuali questioni ecologiche: non possiamo governare la Terra, né la vita animale, né la vita vegetale. In questo senso, Malabou sostiene che “l’anarchismo deve costantemente testimoniare la sua realtà. Deve accettare che la sua dimensione incredibile – per la coscienza comune come per la coscienza filosofica – non potrà mai essere dissipata dal fatto, dall’attualità degli avvenimenti”. Un’idea inesauribile.

La società anarchica, che deve costantemente reinventarsi per sfuggire alla sclerosi, sembra impensabile, irrappresentabile. Ma, soprattutto, rimane l’oggetto di una preoccupazione viscerale, “l’identità dell’anarchismo e l’esperienza traumatica”, riassume Malabou. Rinunciare al governo significa accettare senza garanzie la “plasticità dell’essere anarchico” e l’imprevedibilità della vita, che duemila anni di pensiero politico hanno ribadito come necessaria per arginare la marea di impulsi morbosi e distruttivi. Nessun filosofo ha preso sul serio la possibilità che la vita senza governo possa svolgersi non come auto-annullamento ma come spontaneo “mutuo soccorso”, per citare Kropotkin. Ci vuole coraggio per fare il passo in più che Malabou ci invita a fare: il passo verso una società fondata sul “rifiuto di qualsiasi ordine” – che, forse, sta già bussando alla porta.

Dopo la lettura del libro, per iniziare un dibattito, si potrebbe rilanciare con un aspetto che
Malabou volutamente non prende in considerazione: la prassi, l’azione. L’anarchismo
infatti non è solo analisi e riflessione sui sistemi di dominanza, ma ribellione ad essi. Anzi
è proprio il confronto tra pensiero e azione che può dare nuovi frutti concettuali e nuove
pratiche di lotta.

]]>
Secondo vademecum per scrittori professionisti https://www.carmillaonline.com/2016/10/25/secondo-vademecum-scrittori-professionisti/ Mon, 24 Oct 2016 22:03:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34090 di Jack Baldrus

L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, di Elias Canetti, Guanda 2015, pp 168 € 14

kafka“Ci si ribella sempre” L’usciere, Il processo di Franz Kafka

(Qui il primo vademecum) E’ possibile, per l’iscrizione alla congregazione degli scrittori professionisti, scegliere come materia d’esame un altro scrittore immortale, di pari importanza e statura, oltre a Marcel Proust. Questo autore non può essere che Franz Kafka. Per quanto diversi, come tematiche e stile, hanno in comune più di quanto sembri. Esistono altri immortali nella storia della letteratura. Certamente si potrebbero [...]]]> di Jack Baldrus

L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, di Elias Canetti, Guanda 2015, pp 168 € 14

kafka“Ci si ribella sempre”
L’usciere, Il processo di Franz Kafka

(Qui il primo vademecum) E’ possibile, per l’iscrizione alla congregazione degli scrittori professionisti, scegliere come materia d’esame un altro scrittore immortale, di pari importanza e statura, oltre a Marcel Proust. Questo autore non può essere che Franz Kafka. Per quanto diversi, come tematiche e stile, hanno in comune più di quanto sembri. Esistono altri immortali nella storia della letteratura. Certamente si potrebbero studiare le opere di Flaubert, di Tolstoj, di Dostoevskj, ma Proust-Kafka sono i più conformi all’enunciato di base della Congregazione: scrivi per te stesso, non per il pubblico, non per i critici, non per gli editori. E’ in te stesso che devi cercare la verità. Quando riuscirai – se riuscirai – in questo progetto, allora la tua opera potrà essere comunicata, e quindi pubblicata.

Marcel Proust e Franz Kafka sembrano la personificazione di questa sorta di statuto. Il primo non era affatto estraneo all’ambiente editoriale, scriveva sui giornali, pubblicava saggi e prefazioni, aveva già pubblicato due romanzi. Ma tutto era collegato alla Recherche, forse erano versioni primordiali della stessa, o studi propedeutici. E il primo volume era così in controtendenza che fu rifiutato, tanto che fu costretto a pubblicarlo a proprie spese. Poi si rinchiuse nella sua stanza di malato e scrisse, scrisse, senza pensare ad altro che al suo scritto. Al suo grande, unico romanzo. Il romanzo di una vita. Forse della vita.
Il secondo invece era pervaso da un’urgenza che lo spingeva a scrivere con una sorta di precisione animalesca, spesso non terminava le opere e prima di morire chiese addirittura all’amico Max Brod di bruciare i manoscritti. Entrambi avevano i testi che dovevano uscire, come le sculture di Michelangelo, per il quale le figure erano già nel blocco di marmo, lui doveva solo liberarle dalle scorie.

Proprio come nel caso di Proust, un libro utile per una introduzione a Kafka può essere questo saggio di un altro grande scrittore, Elias Canetti, che ha indagato con pazienza e tenacia nella sterminata corrispondenza di Franz Kafka, un grafomane come Proust. In particolare ha analizzato le lettere a Felice Bauer, traendone interessanti e arditi collegamenti con la sua opera. E con la sua vita, perché c’è un altro aspetto importante che unisce i due scrittori: l’intreccio strettissimo tra letteratura e vita. Non si tratta di utilizzare il cosiddetto metodo Sainte-Beuve, del quale lo stesso Marcel Proust era un fiero avversario. Non si vuole frugare tra gli effetti privati di un autore, scandagliare le amicizie, gli interessi, gli amori, per “capire” meglio la sua opera. Non si è alla ricerca delle contraddizioni, per sostenere una critica. Il fatto è che i due, come hanno sostenuto Gilles Deleuze e Felix Guattari in un leggendario pamphlet su Kafka, sono macchine di scrittura totali, assolute, perfette, per le quali la letteratura è parte stessa della vita, e viceversa. Kafka addirittura dice: “Io sono letteratura”. Sembra che i sentimenti, le emozioni, vengano trattate chimicamente, raffinate, filtrate, per trasferirle nei testi, spesso assemblate con altre emozioni. Il che è quanto sono chiamati a fare gli scrittori iscritti alla Comi. E quale procedimento più adatto dello studio dei maestri?

Elias Canetti ha messo in contatto certe lettere, le ha “estratte” dalle vicende esistenziali che le hanno generate, e ha scoperto rapporti interessanti coi testi di Kafka. Lo statuto del celibe, per esempio, ha sicuramente fornito una sorta di plot operativo a Deleuze e Guattari per il già citato saggio, quando lo definiscono “rivoluzionario”. Forse lo pensava anche Kafka. Infatti quando, per qualche tempo, si sentì minacciato dal fidanzamento cui sarebbe seguito il matrimonio, sprofondò in una crisi psicologica gravissima. Utile per noi lettori, va detto cinicamente, perché sancì la genesi di uno dei più grandi capolavori della storia. Anzi, due. Ma procediamo con ordine.

kafka_felice_bauerKafka incontra Felice Bauer a casa dell’amico Max Brod, il 13 agosto 1912. Ha già fatto dei viaggi mentali importanti su una bella ragazza di Weimar, la figlia del custode della casa di Goethe, anche se, si rende conto, le è “indifferente come una pentola” (lettera a Max Brod). Però ha scattato delle foto di quel viaggio, che mostra a Felice la sera del 13. Le foto sono degli elementi importanti nell’immaginario di Kafka. Le troviamo qua e là nel Processo, nel Castello, spesso con particolari del soggetto che, secondo Deleuze, sono sempre esemplari: il mento abbassato significa sconfitta, sottomissione, il mento alzato fierezza, coraggio. Rimane colpito da quella ragazza. Appena si siede a tavola e le lancia un’occhiata ha già “un giudizio incrollabile”. Lei guardava attentamente le foto e non alzava lo sguardo se non quando lui le forniva una spiegazione oppure le passava un’altra foto. Ogni gesto, ogni minima sfumatura dei gesti e degli sguardi di Felice vengono accuratamente notati, archiviati in quella mente velocissima, nitida, in un certo senso feroce. Una mente rapida quanto il suo possessore era lento, insicuro, debole. Ed è ciò che cerca nella ragazza: la velocità, la concretezza, lui che si sente inabile a qualsiasi cosa Cerca la decisione, lui che è continuamente tormentato da dubbi centripedi che lo bloccano anche nelle scelte minimali. Si vedono poco, anche perché lei vive a Berlino. Eppure questa situazione sembra ideale per lui, perché gli interessano soprattutto le parole, la comunicazione, i racconti di lei, come un vampiro che succhia il sangue a distanza. E qui Elias Canetti, come un investigatore dell’immaginario, scava nei testi, nelle date, trova contatti invisibili. Per esempio, due notti dopo averle scritto stende La condanna, in una sola notte. Poi, nel giro di due mesi scrive cinque capitoli di America e infine, dopo otto settimane, nelle quali le scrive ogni notte, sgorga di getto, come da una sorgente, il capolavoro: La Metamorfosi, così definita da Canetti: “Non esiste nulla che possa superare in validità La Metamorfosi, una delle poche grandi e perfette creazioni di questo secolo”. E anche del prossimo, diciamo noi, e di quello dopo, e dopo ancora.

Abbiamo quindi un Kafka in grande attività creativa, impegnato in un furore letterario che gli permette di realizzare i suoi testi già perfetti (correggeva pochissimo, a differenza di Proust), attingendo dalla corrispondenza con Felice, o meglio, dalle emozioni e dai pensieri che quelle lettere gli evocavano. E dalle sofferenze, dalle paure, dalle minacce che sentiva quando la sua libertà di celibe rivoluzionario (secondo Deleuze) sembrava compromessa.

E qui arriviamo alla storia più “forte”, che lo ha coinvolto fino al delirio, fino alla malattia, e gli ha permesso di donarci l’altro grande capolavoro: il fidanzamento. Felice è decisa ad arrivarci, e lo stesso Kafka, in una fase iniziale, ne sembra convinto. Ma qualcosa di contrario si agita in lui: deve scrivere, è questa la sua vita. E’ la sua missione. Come potrebbe farlo con una donna accanto? Cosa potrebbe offrirle? Inoltre lei si rende conto di che mostro vorrebbe fidanzare, e poi sposare? Canetti individua le lettere più emblematiche, nelle quali Kafka non fa che denigrare se stesso: non lo vedi come sono introverso, taciturno, freddo, insensibile, egoista? Non vedi come sono magro? (“Sono l’uomo più magro che io conosca”, le scrive il 1° novembre 1912). Sono lettere piene di lamenti, di autoaccuse, di minacce: sta’ lontana da me, io ti trascinerei all’inferno. Perché io sono letteratura, e null’altro. La desidera, la cerca, ha bisogno di lei, ma fa di tutto per farla fuggire.

Eppure, il momento (tragico), arriva. Non esiste pietà. Non esiste deroga. Felice non si scoraggia (non è questo che Kafka cercava, la concretezza, la tenacia?). Tanto più che invia una cara amica a Praga, Grete, per una missione diplomatica pro-fidanzamento. Il risultato sarà duplice: Kafka ha una storia anche con lei (si tratta sempre di incontri brevi e isolati, i rapporti sono soprattutto epistolari), e inizia una corrispondenza parallela, esaminata da Canetti, nella quale sembra cercare un’alleata contro il fidanzamento. Ma tutto si complica, si confonde, i sentimenti si mescolano, si contraddicono.

kafka_canettiE infine arriva. Spietato, orribile. Kafka non è spaventato, è terrorizzato. Eppure è lui stesso ad averlo chiamato in causa. Deve essere solo, perché la sua unica missione è scrivere, ma ha anche paura della solitudine. Secondo Canetti Kafka non ama Felice, ma cerca la sua energia, la sua decisione. Cerca la sua forza, lui che si crede l’uomo più debole del mondo. Così, dopo un lungo silenzio, nel quale Felice, probabilmente esasperata dai suoi lamenti e dal suo comportamento passivo durante i rarissimi incontri, smette di scrivergli, il 16/3/1913 le invia una lunga lettera che contiene la proposta di matrimonio. “E’ la più strana proposta di matrimonio che vi sia” scrive Canetti. “Vi accumula le difficoltà, dice sul proprio conto innumerevoli cose che rendono impossibile una comune vita matrimoniale. Nelle lettere che fanno seguito a questa aggiunge altre difficoltà”. Scrive Kafka: “Ho una paura folle del nostro avvenire e dell’infelicità che può derivare, a causa del mio carattere e per mia colpa, dalla nostra convivenza, infelicità che prima di tutto e per intero dovrà colpire te.” Insomma, lamenti e autodenigrazione a parte, sembra che per un attimo, solo un attimo, il celibe rivoluzionario soccomba sotto il peso del proprio ruolo e cerchi un minimo di stabilità, di comunanza con una donna. Il fidanzamento-horror avviene a Berlino a casa di Felice il primo giugno 1914. “Legato come un delinquente. Se con catene vere mi avessero messo in un angolo con davanti i gendarmi e mi avessero lasciato a guardare soltanto così, non sarebbe stato peggio.” Va anche, in compagnia di Felice, a scegliere i mobili, ed è come salire sul patibolo. “Mobili pesanti che una volta collocati non era forse neanche possibile rimuovere. Un monumento alla vita impiegatizia di Praga.”

Ma dura poco. Dopo un tormento che probabilmente per noi non è possibile immaginare in quanto a intensità, il 12 luglio rompe gli indugi, butta all’aria il tavolo. Rompe il fidanzamento e si sottopone al tremendo processo, in un albergo di Berlino, dove di fronte al tribunale (la famiglia di Felice schierata), subisce la condanna. Viene ridotto in poltiglia, si sente morire, smembrare, schiacciare. Non dice una parola, sta con lo sguardo basso, le braccia a penzoloni, mentre vengono pronunciate le arringhe e la sentenza. E’ il condannato. A vita. Il tribunale che incombe, che incomberà sempre. Ma non tace per paura. Non per viltà né debolezza. Tace perché non riconosce il tribunale che lo giudica. Il celibe rivoluzionario, il debole guerriero della letteratura è in realtà coraggioso, incrollabile. Non riconosce il Potere.

E qui inizia la parte più interessante dello straordinario libro di Elias Canetti. Indagando, interpretando, collega gli eventi del fidanzamento e del processo berlinese con la nascita del capolavoro assoluto di Kafka, forse il più grande romanzo mai scritto: Il processo. Da pag. 89 in poi scopre come il fidanzamento transita nel primo capitolo, e il processo con la condanna nell’ultimo. Trova segni, personaggi, i particolari di cui Kafka era un attentissimo osservatore. Inizia la stesura del Processo in Agosto, neanche un mese dopo il processo berlinese. Lo porta avanti con una tenacia a una genialità che fanno dell’uomo più magro e più debole del mondo lo scrittore più potente e originale della storia. Antilirismo puro. La lingua “maggiore” minata dall’interno, disseccata. La vita trasformata in pura energia creativa, gioiosa e dirompente. Le ferite e il tormento personale collettivizzati, universalizzati. E’ il romanzo totale.

]]>
Rete libera, democratica, gratuita, trasparente e imparziale? No! https://www.carmillaonline.com/2014/12/04/rete-libera-democratica-gratuita-trasparente-imparziale/ Thu, 04 Dec 2014 03:00:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19174 di Francesco De Collibus

rete_libera_democratica_falso-copIppolita, La Rete è libera e democratica? Falso!, Laterza, Bari 2014, pp.110, € 9,00

Quando i posteri tracceranno la storia della cultura umana a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo, dovranno fare i conti con un meteorite talmente grande e devastante che non sapranno neppure stabilire se ci abbia colpito oppure semplicemente inghiottito: la Rete. Mai nella nostra storia tutto è cambiato così vertiginosamente e irreversibilmente. L’accelerazione è stata tale che non ci siamo ancora accorti in pieno della sua portata: non è stata solo un’accelerazione dell’oggetto, quanto del [...]]]> di Francesco De Collibus

rete_libera_democratica_falso-copIppolita, La Rete è libera e democratica? Falso!, Laterza, Bari 2014, pp.110, € 9,00

Quando i posteri tracceranno la storia della cultura umana a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo, dovranno fare i conti con un meteorite talmente grande e devastante che non sapranno neppure stabilire se ci abbia colpito oppure semplicemente inghiottito: la Rete.
Mai nella nostra storia tutto è cambiato così vertiginosamente e irreversibilmente. L’accelerazione è stata tale che non ci siamo ancora accorti in pieno della sua portata: non è stata solo un’accelerazione dell’oggetto, quanto del soggetto conoscente e della sua capacità cognitiva (mutata fino alla fisicità stessa del cervello, come ipotizza Nicholas Carr nel suo The Shallows). Le conseguenze di questa accelerazione sono talmente oscure che, nel buio che ci avvolge, risulta provvidenziale qualsiasi cerino.
E particolarmente illuminante è la fiaccola della riflessione portata avanti dall’identità plurale chiamata Ippolita, un gruppo di ricerca che agisce in rete dal 2005 e che rifiuta il posizionamento classico dell’autore individuale per approdare a una riflessione collettiva. Il loro nuovo libro è uscito per i tipi della Laterza nella collana “Falso”, un’iniziativa editoriale che sin dal titolo si propone popperianamente di smentire, falsificare e decostruire.

La coerenza è virtù ammirevole negli individui, figuriamoci nei collettivi, e a Ippolita va riconosciuto il merito di diffondere con coerenza da oltre dieci anni del salubre scetticismo contro i miti fondanti di questo nostro evo tecnologico. La tecnocrazia digitale, Google, Facebook: una sequenza necessaria di bersagli in Open non è free (2005), poi Luci e ombre di Google (2009) e infine Nell’acquario di Facebook (2012). La critica di Ippolita – che nasce nell’humus della scena hacker italiana, quindi con atteggiamento tutt’altro che tecnofobico – sovrasta intellettualmente sia il luddismo qualunquista degli ultimi anni che l’attuale moda del pessimismo di ritorno sui social.
Quest’ultima si configura come un’istintiva, ragionevole allergia alla “colonna di destra di repubblica.it”, con i cani che suonano Beethoven a colpi di stomaco e i fantomatici #popolidellarete ansiosi di schierarsi sulle posizioni dell’editore in cambio di qualche minuto in homepage. Una salutare repulsione per chi invoca fondi per la ricerca scientifica a colpi di secchiate d’acqua gelida sul pube, per quelle distese caprine di piedi su spiagge assolate, per quelli frasi di Wilde ricondivise milioni di volte ma che mai e poi mai il povero Oscar si sarebbe sognato di pronunciare.

Duole ammetterlo: la Rete è un posto terribilmente meno interessante da quando ci sono finiti dentro tutti. Non troverete questo scetticismo di pancia in Ippolita, ma uno scetticismo autentico, epistemologico. Nel labirinto della Rete, Ippolita insegue l’umano. Mentre la maggioranza dei libri sull’argomento, persino quelli più interessanti, condividono una impostazione giornalistica e sociale, l’indagine di Ippolita predilige l’argomento strettamente filosofico. Canetti e Wittgenstein sono spesso citati, Mozorov, Castells e McAfee mai.
L’analisi di Ippolita si basa su tre argomenti: ontologico, epistemologico e storico-geopolitico. La forma particolare di questa collana di pamphlet Laterza, con una tesi precisa da smontare in un numero ridotto di pagine, si presta particolarmente alle argomentazioni del collettivo, che risultano precise al limite della stilettata.
L’unica obiezione che si può muovere a Ippolita è a volte l’assenza di discernimento tra i papisti e il Papa. Faccio un esempio: sono certo che nessuno dentro Google, e probabilmente nessuno al di fuori di Wired, abbia mai fatto dell’algorimo di Google un idolo religioso. Google è piena, in proporzioni variabili a seconda delle country, di über-nerd e azzimati markettari, non certo di metafisici.
L’unica correttezza che l’algoritmo può garantire è quella su input e output, l’unico modo in cui un algoritmo può essere migliore di un altro che risolve lo stesso problema è sui tempi di esecuzioni, (O(n), O(log n), etc.) e sull’occupazione di memoria. Ma correttezza non è “verità” (non in senso metafisico), e migliore non vuole dire “buono” (non in senso morale). L’essenza della realtà è un concetto decisamente poco interessante per un informatico, che al più si preoccupa di modellizzarla in maniera funzionale. Il Page Rank è una buona approssimazione della realtà, per lo stato attuale della tecnologia, e probabilmente la gente non si rivolge a Google per avere la risposta ultima sul senso della vita, ma solo per trovare una pagina di previsioni del tempo attendibili che non venda Cialis.
Se confondiamo la propaganda delle corporate identity (asserzione del marketing, disciplina del tutto priva di statuto epistemologico) con una affermazione ontologica, vuol dire che stiamo riconoscendo al marketing una dignità ben superiore ai suoi meriti, e questo è un errore che Ippolita si guarda bene dal commettere.

Un altro esempio: in quasi tutte le analisi si tace sul fatto che le piattaforme social sono state create con l’obiettivo del profitto, non con l’idea di creare un contesto democratico globale di dibattito interculturale.
Sostenere, quindi, che le esperienze degli utenti, estremamente soggettive ed eterogenee fra loro, siano “essenzialmente” libere e democratiche, costituisce un’ulteriore fallacia ontologica che presuppone che gli strumenti forniti gratuitamente agli utenti dagli intermediari digitali siano “per natura” liberi e democratici.
Parlare di democrazia digitale senza parlare delle strutture della disuguaglianza digitale e sociale dimostra quanto poco i rivoluzionari del doppio click abbiano compreso.
Il libro colpisce in pieno lo zeitgeist riassumibile nel sillogismo:
a) La Rete è Google.
b) Google è libero e democratico.
ergo
c) La Rete è libera e democratica.
Anche se forse, al nome di Google, andrebbe sostituito quello dell’imprenditoria digitale espressa dalla Silicon Valley. Google non è poi molto diversa da numerose altre espressioni del capitalismo californiano: ha solo avuto più soldi, più tempismo e forse sviluppatori più competenti.
In questo libro si registra un’evidente preponderanza della pars destruens sulla construens. Grazie alla coerenza che proviene dalla militanza, Ippolita individua con precisione le sagome degli idoli da demolire. Ma fortunatamente per noi, nella Rete c’è molto di buono che merita di essere salvato. Capire cosa salvare è il miglior antidoto contro qualsiasi futura tentazione grillina o tecnoutopica, ed è l’auspicio che posso fare per le future riflessioni di Ippolita.

]]>