Edizioni Adelphi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:00:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Varlan Šalamov: una voce dalla Kolyma https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/la-voce-di-un-fantasma-della-kolyma/ Wed, 20 Nov 2024 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85321 di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, [...]]]> di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, per altri, per condannare in blocco l’esperienza sovietica nel suo insieme, dalla Rivoluzione di Ottobre almeno fino agli anni successivi alla morte di Stalin, invece che di una delle voci più significative e potenti dell’intera letteratura del ‘900.

Quella prima pubblicazione italiana, ovvero Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti ed edita da Savelli, con una traduzione condotta sul testo russo dallo stesso curatore, avvenne senza il consenso dell’autore, anticipando una pratica editoriale per cui in Occidente le novelle di Šalamov sarebbero state pubblicate in prima battuta senza la conoscenza o il consenso dell’autore che, per questo motivo, mostrò sempre un particolare risentimento, poiché dallo sfruttamento editoriale occidentale della sua opera più importante Šalamov non avrebbe mai guadagnato un solo rublo. Cosa che, tra le molte altre, lo avrebbe costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita in precarie condizioni economiche, in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili situata a Mosca.

Nato a Vologda nel 1907 e scomparso a Mosca nel 1982, Varlan Šalamov è stato uno scrittore, poeta e giornalista d’età sovietica. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag nel corso dei più di vent’anni che trascorse nel bacino della Kolyma che prende il nome dall’omonimo fiume artico della Russia siberiana nordorientale che sfocia nel Mare della Siberia Orientale), dopo aver percorso 2.129 chilometri.

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde ed inospitali della Siberia, caratterizzata dal permafrost e da un clima estremo, dove si raggiungono temperature minime fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta, motivo per cui il fiume è ghiacciato per la maggior parte dell’anno Negli anni dello stalinismo tale regione costituiva la sede di alcuni dei più importanti e conosciuti campi di lavoro forzato, essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto oro), nei quali, secondo le cifre riportate da diversi storici, dagli anni Trenta fino ai primi Cinquanta morirono circa tre milioni di deportati.

Di questo autentico inferno in terra, già utilizzato dal regime zarista, ma in seguito allargato e reso più efficiente da quello staliniano, esistono numerose testimonianze, a partire dalla Memoria della casa dei morti di Fëdor Dostoevskij1 fino alla dettagliata descrizione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, certamente quest’ultimo tra i più importanti testimoni dell’esperienza concentrazionaria siberiana.

Ma tra l’ultimo e Šalamov intercorrono svariati gradi di diversità, sia sul piano politico che letterario. Infatti il secondo, figlio di un prete ortodosso, dopo tre anni trascorsi nello studio del diritto sovietico presso l’Università Statale di Mosca, fu arrestato il 19 febbraio del 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, nella zona degli Urali, per essersi unito ad un gruppo trotzkista. L’accusa era quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui venivano sollevate critiche all’operato di Stalin, oltre a quella di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con lo slogan Abbasso Stalin!2. E precipitando così in un sistema carcerario spietato tanto con i condannati quanto con i loro momentanei aguzzini.

D’estate si lavorava dieci ore al giorno, senza festivi, con una sola turnazione, come dicevano lì: una giornata di riposo ogni dieci giorni. In ottobre le ore diventavano otto, in dicembre sei, in gennaio quattro. In febbraio la curva di rialzava: prima sei, poi otto, e poi di nuovo dieci ore.
“In un giorno la Kolyma estrae tanto di quell’oro che ci si potrebbe sfamare il mondo per ventiquattro ore” scrisse Berzin sulla Pravda nel 1936 per le celebrazioni dei tre anni della sua impresa, quando i primi seicento chilometri della celebre “rotabile” della Kolyma erano già stati costruiti.
Nel 1937, in veste di ordinaria integrazione, alla Kolyma vennero mandati i trockisti, come li chiamavano allora. Tra i quali figuravano molti conoscenti di Berzin. Erano arrivati con delle strane istruzioni: “da utilizzare solo per lavori fisici pesanti”, vietare la corrispondenza, riferire mensilmente sulla loro condotta.
Berzin e Filippov fecero rapporto: quel contingente non era adatto alle condizioni dell’Estremo Nord, glieli avevano mandati senza la documentazione medica necessaria, nei convogli c’erano molti vecchi e malati, il novante per cento dei nuovi detenuti aveva svolto solo lavoro intellettuale, ed era del tuto antieconomico utilizzarli nell’Estremo Nord.
Berzin venne convocato a Mosca con un telegramma e arrestato direttamente sul treno. E ora aspettava la morte dentro una cella3.

Rilasciato nel 1931, dopo che nel 1936 aveva visto la luce il suo primo racconto, Le tre morti del Dottor Austino, fu nuovamente arrestato il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, dove ne 1943 gli venne inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”.

Durante la prigionia lavorò prima nelle miniere d’oro, poi in quelle di carbone. Durante tale periodo Šalamov si ammalò di tifo e più volte fu posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga. A differenza di Solženicyn, però, negli scritti di Šalamov non si avverte mai l’afflato religioso e nazionalistico del primo, mentre invece, anche nei momenti più bui narrati nei suoi racconti della Kolyma, si avverte una certa dose di ironia che spesso riesce a far sorridere il lettore, tipica espressione della letteratura russa, da Puškin a Gogol’ fino ad altri scrittore russi e sovietici del XIX e del XX secolo.

Per riscoprire o scoprire per la prima volta le doti e le capacità di questo grande e perseguitato scrittore, si rivela dunque veramente utile e ricca di spunti la raccolta di testi appena pubblicata dalle edizioni Adelphi, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, che si inserisce nella pubblicazione dei suoi scritti, editi e non in Italia, che la casa editrice del fu Roberto Calasso porta meritoriamente avanti da anni4. Il testo raccoglie scritti prodotti fra gli anni Cinquanta e Settanta ed è apparso per la prima volta nel 2004.

Testi che, oltre che all’esperienza della Kolyma che rimane centrale nella vita e nell’opera di Šalamov, ci riportano anche alla Vologda della sua infanzia, dove si manifestarono precocemente sia l’amore per la poesia che l’insaziabile sete di libri; ma anche alla rigogliosa scena letteraria sovietica degli anni Venti, dove brillavano le stelle di Šklovskij, Majakovskij, Mandel’štam e Bulgakov. Uno straordinario e quasi unico ambiente letterario e artistico messo in moto dalla Rivoluzione, ma presto destinato a scomparire, «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato». Mentre in chiusura ci riporta al tempo della sua riabilitazione ufficiale e dell’amicizia con Pasternak.

Ho molti dubbi, troppi. E’ una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio racconto? […] A chi servirà da esempio? Educherà qualcuno a non cedere al male e a fare il bene? Sarà o non sarà un’affermazione del bene, del bene sempre e comunque, dato che è nel valore etico dell’arte che vedo l’unico suo vero criterio… E poi perché io? Non sono né Amundsen né Peery… La mia esperienza è condivisa da milioni di persone. E non c’è dubbio che fra quei milioni c’è gente con una vista più acuta della mia, con una passione più forte, una memoria migliore e un talento più grande del mio5.

È un interrogativo doloroso quello che Varlan Šalamov si pone nello scritto degli anni Settanta qui riportato. Pagine in cui Šalamov non si limita a mettere a nudo se stesso, ma rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e tutte le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a “relitti umani”. Condizione cui, nel 1946, lo stesso era stao ridotto. Una violenza, quella di ridurre un detenuto allo stremo, per cui esisteva anche un termine gergale russo dochodjaga, “giunto in fondo”. Una condizione cui il detenuto giungeva dopo essere stato picchiato da tutta la scorta. «Diventi un dochodjaga e tocchi il fondo quando ti indebolisci del tutto a causa della mansione troppo gravosa, senza dormire a sufficienza, un lavoro di manovalanza a cinquanta gradi sotto zero» come avrebbe ricordato ancora l’autore russo in altre sue memorie.

La sua vita sarebbe stata salvata da un medico anche lui prigioniero, Andrej Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riuscì a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo, dove iniziò a lavorare stabilmente come infermiere, un po’ come il protagonista di Il primo cerchio di Solženicyn. Questa nuova sistemazione gli consentì di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Esperienza e dubbi che lo accomunano ad un altro celebre sopravvissuto e “salvato”, Primo Levi, e che dimostrano come tutti i parallelismi tra gulag sovietico e lager nazisti siano pienamente giustificati. Anche se Levi, al momento della pubblicazione dei primi racconti di Šalamov in Italia, non seppe riconoscerne la comune volontà di «catturare briciole di verità, per quanto squallide siano» e, nel commentare il capolavoro, non riuscì ad andare oltre una “commozione e simpatia” per le pagine dello scrittore russo. Forse ancora parzialmente abbagliato dal “mito politico” della presunta “unicità” della Shoa e di un male considerato “assoluto” da chi si ostinava e si ostina a negare gli orrori del gulag e della repressione staliniana, ovvero di quel “male” di cui parlava l’autore russo nei suoi racconti.

Šalamov, rilasciato nel 1951, avrebbe continuato a lavorare e scrivere nello stesso ospedale, finché, nel 1952, dopo aver spedito alcune sue poesie a Boris Pasternak, avrebbe avuto modo di tornare a Mosca e di conoscere e frequentare, dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la sua personale riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1956, altri importanti scrittori come Solženicyn e Nadežda Mandel’štam, oltre che lo stesso Pasternak.

Purtroppo il metodo dell’eliminazione dei famigliari e dell’isolamento anche morale dei condannati, tipico dello stalinismo e delle sue crudeli e ferree logiche, avrebbe fatto sì che, al termine della prigionia, l’autore scoprisse che la sua famiglia non esisteva più e che la figlia, ormai adulta, rifiutava di riconoscerlo. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, erano talmente peggiorate da far sì che, ormai invalido, gli fosse assegnata una pensione. Soltanto nel 1978, a Londra, sarebbe stata stampata la prima edizione integrale in russo dei suoi racconti, mentre nel 1987, cinque anni dopo la sua morte, l’opera vide la luce anche in Unione Sovietica.

Ci sarebbero ancora tantissime riflessioni e osservazioni da fare, sia sullo scrittore che sui testi appena pubblicati da Adelphi, ma una cosa che vale la pena qui di sottolineare ancora è la vicinanza “morale” tra il testimone della Kolyma e un altro grande scrittore russo caduto in disgrazia durante lo stalinismo e il periodo successivo spacciato per “destalinizzazione”: Vasilij Semënovič Grossman6.

Accomunati entrambi dalle medesima volontà di rintracciare le radici del Bene e del Male in una umanità segnata dall’esperienza dei due più oscuri abissi del ‘900: i lager nazisti e il gulag sovietico. Così, chi qui scrive preferisce lasciare ai lettori la scoperta e l’interpretazione di un libro di cui raccomanda l’imprescindibile lettura, non soltanto per il suo valore letterario, ma anche ai fini della comprensione dei drammi e delle tragedie del XX secolo e della svolta controrivoluzionaria messa in atto dal regime sovietico a partire dalla fine degli anni Venti.


  1. In proposito si veda qui  

  2. Si veda: P. Broué, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, A.C. Editoriale Coop, Milano 2026.  

  3. V. Šalamov, Berzin. Schema di romanzo saggio, p. 327 ora in V. Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 317-329.  

  4. Si vedano, per l’appunto: I racconti della Kolyma [ed. parziale], traduzione di Marco Binni, Collana Biblioteca n.298, Adelphi, Milano, 1995, e successivamente Collana gli Adelphi n.153, Adelphi, Milano, 1999; La quarta Vologda, a cura di Anna Raffetto, Collana Biblioteca n.412, Adelphi, Milano, 2001 e Višera. Antiromanzo, trad. di Claudia Zonghetti, Collana Biblioteca n.560, Adelphi, Milano, 2010,  

  5. V. Šalamov, La Kolyma, p. 163 ora in V. Šalamov, op. cit. pp. 163-305.  

  6. Le cui opere principali sono tutte disponibili nel catalogo Adelphi (tra parentesi l’anno della prima pubblicazione degli stessi nel catalogo della casa editrice milanese). I romanzi: Vita e destino (2008), Tutto scorre (1987), Stalingrado (2022), Il popolo è immortale (2024). Le raccolte di articoli, saggi e racconti: Ucraina senza ebrei (2023), Uno scrittore in guerra (2015), Il bene sia con voi! (2011), La cagnetta (2013) L’inferno di Treblinka (2010).  

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Un dramma senza passione https://www.carmillaonline.com/2024/02/21/un-dramma-senza-passione/ Wed, 21 Feb 2024 21:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81044 di Sandro Moiso

Georges Simenon, La prigione, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 170, 18 euro

« Se vuole sapere se vado a letto con altre donne oltre a mia moglie, le rispondo subito di sì… E non una sola, ma decine… Ogni volta che se ne presenta l’occasione e che ne vale la pena… ». (G. Simenon – La prigione)

Pierre Assouline, uno dei maggiori biografi di Georges Simenon, ha affermato che non c’era assolutamente da fidarsi in tutto ciò che l’autore belga diceva di sé pubblicamente, nelle interviste oppure nelle sue due opere dichiaratamente autobiografiche: Pedigree e Memorie intime. [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, La prigione, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 170, 18 euro

« Se vuole sapere se vado a letto con altre donne oltre a mia moglie, le rispondo subito di sì… E non una sola, ma decine… Ogni volta che se ne presenta l’occasione e che ne vale la pena… ». (G. Simenon – La prigione)

Pierre Assouline, uno dei maggiori biografi di Georges Simenon, ha affermato che non c’era assolutamente da fidarsi in tutto ciò che l’autore belga diceva di sé pubblicamente, nelle interviste oppure nelle sue due opere dichiaratamente autobiografiche: Pedigree e Memorie intime. Così, anche se talvolta l’esercizio di individuare nelle opere letterarie i caratteri autobiografici dei loro autori può risultare sterile e ozioso, chi scrive è piuttosto convinto che gran parte dei romanzi di Simenon, soprattutto quelli considerati “duri”, contengano ampi stralci della vita interiore e delle riflessioni su ciò che si potrebbe definire, rubando la definizione a Cesare Pavese, il suo personale “mestiere di vivere”.

Soprattutto in questo ultimo romanzo, pubblicato da Adelphi nella riedizione integrale delle opere dell’autore, in cui è possibile rintracciare svariati elementi che si possono ritrovare in altre opere e che se, da un lato, rinviano ad altre trame e quindi alla sua abilità di mestierante della scrittura nel rimescolare elementi già dati, dall’altro, rimandano anche a quella che sempre di più pare aver costituito una lunga “confessione in pubblico”.

Scritto nel 1967 e pubblicato per la prima volta nel 1968, La prison (il titolo originale francese) ci consegna ancora una volta il ritratto di un uomo, Alain Poitaud, che nella vita sembra avere raggiunto tutti gli obiettivi di una soddisfatta e cinica esistenza borghese: ricchezza, donne, celebrità, Direttore di un settimanale a larghissima tiratura e diffusione, “Toi”, tutto giocato sui sentimenti e sulla pubblicazione di foto di nudi femminili in cui le donne, soprattutto, possano riconoscersi, vede il suo mondo crollare nel momento in cui la moglie Jacqueline, giornalista freelance nota a tutti come Micetta per via del soprannome che lui le aveva dato in passato, uccide con un colpo di pistola la propria sorella Adrienne, di tre anni più giovane.

All’improvviso si chiese se era proprio lui quello seduto là dentro a rispondere umilmente a domande assurde. Era Alain Poitaud, che diamine! Tutta Parigi lo conosceva. Era il direttore di una delle riviste più lette in Francia e stava per lanciarne un’altra. Inoltre, da sei mesi a quella parte produceva dischi di cui parlavano ogni giorno alla radio.
Non solo non faceva mai anticamera, ma dava del tu ad almeno quattro ministri ed era spesso a cena a casa loro, quando non erano loro a scomodarsi per andare a pranzo da lui in campagna1.

In uno scenario suddiviso tra corridoi di prigione, uffici di ispettori e commissari di polizia, bar più o meno eleganti o comuni, la sede di un giornale e case tutte di lusso si sviluppa nell’arco di pochissimi giorni la vicenda narrata nel romanzo che, più che narrare i fatti che hanno portato all’omicidio, si incentra sull’autentico rovesciamento di prospettiva di vita che avviene per il marito dell’assassina.

Quanti mesi, quanti anni ci vogliono perché un bambino diventi un ragazzo, e un ragazzo un uomo? Quando si può affermare che la transizione è avvenuta?
Non esiste, come per la fine degli studi, una proclamazione solenne, una cerimonia ufficiale, un diploma.
Alain Poitaud, a trentadue anni, impiegò poche ore, forse pochi minuti, per cessare di essere l’uomo che era stato fino a quel momento e diventare un altro2.

Convinto dalla propria celebrità e cinismo di avere la capacità di saper affrontare qualsiasi aspetto della vita mondana, Alain scopre tutta lo solitudine che lo attanaglia una volta che si trova davanti a qualcosa di inaspettato, di inaudito. Inaspettato e inaudito perché, per cause di forza maggiore, non è la sua persona ad essere messa al centro dell’attenzione giudiziaria e mediatica, ma la sua compagna e la sorella di questa, sua amante per anni.
Due persone, Micetta e Adrienne, che sembrano, a ben vedere, essere entrate nella sua vita più in virtù del caso che per una ben precisa scelta o per un atto, non solo momentaneo, d’amore o innamoramento.

« Adrienne la amava? ».
« Forse. Due ore fa probabilmente le avrei risposto di sì. Adesso, non mi azzarderei… ». Niente era più come prima da quando l’ispettore timido e garbato lo aveva seguito nell’atrio del suo palazzo e gli aveva chiesto il permesso di salire con lui.
« Credo che tutte le sorelle… Magari non proprio tutte, ma molte… Potrei citare diversi casi tra i miei conoscenti… ». « Dunque la vostra relazione è durata circa sette anni ».
« Non era una relazione… Come posso spiegarle… Non ci sono mai state grandi dichiarazioni tra noi due… Io continuavo ad amare Micetta, che ho sposato pochi mesi dopo… ».
« Perché? ».
« Perché l’ho sposata?… Ma… ».
Già, perché? La verità era che la sera in cui le aveva parlato di matrimonio era sbronzo,

Adrienne non l’aveva mai amato e lui se ne infischiava. Forse nemmeno Micetta lo aveva mai amato.
E poi, che cosa significava quella parola? Di amore, lui ne vendeva un milione di copie tutte le settimane. Di amore e di sesso. Era la stessa cosa3.

Donne, in fondo come tutte le altre che il giovane editore si è portato a letto. Come la ballerina dai capelli rossi con cui si risveglia a letto già la mattina successiva al ricevimento della notizia dell’atto omicida della moglie oppure Mina, la giovane donna di servizio appena assunta dopo che la precedente aveva lasciato il servizio in casa dopo aver appreso la notizia.
Come le infinite altre di cui ha parlato con l’ispettore durante l’interrogatorio.

Donne e alcol, tanto quanto le donne frequentate se non di più, con cui ha sempre nascosto i suoi angoli più bui a se stesso. Quegli angoli mai illuminati da un rapporto di amicizia o di altro tipo, ma comunque profondo e sincero.

Se almeno avesse avuto un vero amico…
Conosceva un sacco di gente, quelli che lavoravano con lui alla redazione della rivista, attori, registi, cantanti, senza contare i baristi e i camerieri.
« Senti, cocco… ».
Chiamava « cocco », o « cocca », tutti quanti. Anche Adrienne. Dal giorno in cui l’aveva conosciuta. Non era stato lui a fare il primo passo. La trovava troppo posata, troppo scialba per i suoi gusti.

[…] Non gli piaceva sentirsi solo. E non per bisogno di scambiare idee, e nemmeno per bisogno d’affetto.
Per bisogno di cosa, allora? Di una presenza, insomma, una presenza qualsiasi. I vecchi solitari hanno un cane, un gatto, un canarino. Altri si accontentano di un pesce rosso.
Non aveva mai considerato Micetta alla stregua di un pesce rosso ma, ora che rivedeva il passato con uno sguardo nuovo, si rendeva conto che per lui era stata soprattutto una presenza. Nei bar, nei ristoranti, in macchina. A destra, a pochi centimetri dal suo gomito.
Di mattina e nel pomeriggio aspettava la sua telefonata e si indispettiva quando lui tardava a chiamarlo. Quante volte in sette anni avevano avuto una conversazione vera e propria?4.

Le risposte della moglie, davanti al giudice istruttore, rispecchiano lo stesso distacco del marito e la sua personale lontananza da qualsiasi sentimentalismo.

« Amava suo marito| ».
« Suppongo di sì ». […]
« Si pente del suo gesto? ».
« Non lo so ».
« Lo rifarebbe? ».
« Dipende ».
« Da cosa ».
« Poco importa »5.

Un dramma della noia e di un’insoddisfazione che non possono essere riparate da nessun tipo di successo economico o riconoscimento pubblico. Un dramma senza passione che ci precipita, ancora una volta, nell’inferno personale di Georges Simenon.


  1. G. Simenon, La prigione, Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 17.  

  2. G. Simenon, op. cit., p. 9  

  3. Ibidem, pp 22-23 e 117.  

  4. Ivi, p. 34 e pp. 117-118.  

  5. Ivi, pp. 74-75.  

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C’era una volta l’America di Georges Simenon https://www.carmillaonline.com/2023/12/20/cera-una-volta-lamerica-di-simenon/ Wed, 20 Dec 2023 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80422 di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’America in automobile, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 187, 16 euro

Perché partire? Non lo so. Per dove? Lo ignoro. C’è da credere che il mio destino sia di andare sempre in cerca di qualcosa. Ma di che cosa? (Georges Simenon – Memorie intime)

Nell’ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, dopo essere sostanzialmente fuggito dalla Francia, dove pesavano su di lui le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione dovute al contratto firmato, fin dal 1941, con la Continental Films, società a capitale tedesco diretta dal produttore Alfred Greven, che durante [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’America in automobile, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 187, 16 euro

Perché partire? Non lo so. Per dove? Lo ignoro. C’è da credere che il mio destino sia di andare sempre in cerca di qualcosa. Ma di che cosa? (Georges Simenon – Memorie intime)

Nell’ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, dopo essere sostanzialmente fuggito dalla Francia, dove pesavano su di lui le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione dovute al contratto firmato, fin dal 1941, con la Continental Films, società a capitale tedesco diretta dal produttore Alfred Greven, che durante l’occupazione aveva realizzato e distribuito nove film tratti dai suoi romanzi.

Con la moglie Tigy e il figlio Marc, per conoscere meglio il paese dove pensa di iniziare una nuova vita, parte al volante di una Chevrolet per un viaggio di migliaia di chilometri, che dal Maine lo porterà sino a Sarasota, sul Golfo del Messico. Ad attirarlo, come sempre, sono la gente e «i piccoli particolari della quotidianità ».

Così, colui che aveva sempre captato, ovunque nel mondo, un disperato e insoddisfatto bisogno di dignità, finirà per essere conquistato dalla «forte tensione verso l’allegria e la gioia di vivere» che sprigionano le semplici ed essenziali case americane, dalla cordialità che regola i rapporti di lavoro, dalla fiducia in sé stessi che le scuole sanno inculcare negli studenti, dalla squisita cortesia degli abitanti del Sud e scoprirà che proprio nella sua nuova patria, vige «un tipo di vita che … tiene conto più di qualsiasi altro della dignità dell’uomo».

Detto ciò si potrebbe affermare che lo sguardo di Simenon, di solito sempre così attento al dissidio permanente tra realtà vissuta e immagine che della stessa vorrebbe dare il perbenismo borghese, si sia appannato di fronte all’American Way of Life. Uno sguardo in cui difficilmente entrano le differenze sociali legate alla linea del colore e altre disparità economiche e politiche della Land of the Free.

Anzi, all’interno del reportage appena pubblicato da Adelphi nel volume 797 della «Piccola Biblioteca», l’autore sembra decisamente propendere per l’opposto, ad esempio là dove afferma che le casette degli afro-americani, da lui osservate in qualche sobborgo del Sud, susciterebbero l’invidia di qualsiasi operaio francese. Ma per comprendere queste “sviste”, queste “anomalie” nel discorso di Simenon sulla realtà in cui stava cercando di inserirsi occorre, come è sempre doveroso, contestualizzarlo.

Nel 2020, sempre per le edizioni Adelphi e nella stessa collana con il numero 758, era uscita una raccolta di reportage dello stesso Simenon che raccontavano i viaggi dello stesso in un’Europa già cupa e in cui si respirava già aria di guerra sia a centro che nelle periferie orientali1. Un’Europa per certi versi somigliante, soprattutto nei fattori politici di divisione che correvano lungo le sue frontiere, in particolare a Est e Nord-est, a quella odierna. Un’Europa caratterizzata dai piccoli egoismi nazionalistici e da una miseria crescente tra le classi medie e meno abbienti.

E’ un quadro triste e meschino quello che viene dipinto in quelle pagine, in particolar modo nel reportage che ha ispirato il titolo del volumetto2. Meschineria che attraversa sia la mente degli abitanti delle regioni visitate che quella dei governi locali oppure delle potenze europee maggiori. Una meschinità senza altra visione che quella del revanscismo nazionalista, di tutti contro tutti e di ogni singolo paese rispetto a quello più vicino, che oltre a preparare il terreno per il futuro macello imperialista scatenatosi a partire dal 1939, in qualche modo spiega la visone dell’unità “politica” europea che, nel confino di Ventotene, avrebbero avuto Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni nel 1941 come proposta per un “manifesto un’Europa libera e unita”. Poi tradita nella sua concreta realizzazione dalla scelta di unificare l’Europa più dal punto di vista finanziario che politico.

Ma anche l’esplorazione della novella patria del socialismo in un solo paese3, vista attraverso le difficoltà burocratiche opposte ad ogni passo dello scrittore, o di qualsiasi altro visitatore nella terra dei soviet già stalinizzata, oppure l’ossessione governativa per il controllo e della lunga mano della Ghepeù o, ancora, della miseria diffusa e visibilissima non aiuta Simenon a dipingere un quadro meno fosco o più speranzoso per il futuro dell’Europa o del mondo. Quadro che non viene affatto migliorato dalla visita che lo scrittore compie a Prinkipo, isola del Mar di Marmara nelle vicinanze di Istanbul o Costantinopoli, per intervistare un isolato e, tutto sommato, aristocratico Trockij, già esiliato dal paese che aveva contribuito a “rivoluzionare” soltanto qualche anno prima4.

Tra questi “tristi” viaggi e il dossier americano scorrono una dozzina d’anni quasi tutti, però, segnati, prima, dalla guerra civile in Spagna e successivamente dalla vera e propria guerra mondiale, in cui la Francia, per non parlar del Belgio di cui Simenon era originario, perde del tutto la sua centralità e miserabile grandeur; ed ecco allora delinearsi come sia stato possibile che, così come fu per molti nel secondo dopoguerra occidentale, che anche per un occhio fino come quello dell’implacabile osservatore del male di vivere delle classi borghesi e piccolo borghesi, gli Stati Uniti, al colmo della loro potenza post-bellica, potessero illudere il visitatore di essere arrivato in una specie di nuovo e più felice mondo, apparentemente molto diverso dal quadro di rovine economiche, politiche, morali e sociali che caratterizzavano l’Europa del secondo dopoguerra5. Però la ragione non risiede soltanto in questo. Infatti, come scrive Ena Marchi nel saggio in coda al reportage simenoniano:

Sono anni che l’America attrae Simenon; e già prima dello scoppio del conflitto era stato tentato di trasferirvisi. Sicché, all’arrivo a New York, il 5 ottobre 1945, dopo dodici giorni di navigazione, prova, così racconta nelle Memorie intime, «una soddisfazione profonda …come quando alla fine si arriva a casa e ci si rilassa con voluttà. E anche una sorta di allegria»: allo stesso modo in cui, ventitré anni prima, era sbarcato alla Gare du Nord deciso a conquistare Parigi, infatti, lo scrittore intende non soltanto iniziare una nuova vita, ma soprattutto ingaggiare, lancia in resta, la sua «battaglia americana». E questo significa, tanto per cominciare: acquisire, grazie ai romanzi e al cinema, quella notorietà che oltreoceano ancora gli sfugge – e, ancor più importante: guadagnare un sacco di soldi6.

Simenon rimarrà negli States per dieci anni e non conseguirà tutti i risultati sperati, soprattutto con Hollywood, ma tra le cause dei suoi diversi spostamenti da una parte del continente, prima del definitivo ritorno in Europa, ci sarà soprattutto l’intima irrequietezza che l’ha accompagnato per tutta la vita. Come ci ricorda ancora l’autrice della postfazione, attraverso le parole dello stesso Simenon.

«Ho passato la vita a viaggiare, a traslocare, a cambiare contesto, abitudini (tranne quelle che hanno a che fare con il mio lavoro). Eppure non esco volentieri dal mio guscio». Era così a Lakeville, a Carmel, a Tucson, in Florida. «Mi scavo una tana, mi ci sistemo con i miei e non ho nessuna voglia di uscirne fino al giorno in cui, senza sapere perché, non mi sento più a casa e riparto con tutta la mia famiglia per ricominciare altrove». Ma qual è la ragione di questa irrequietezza, di questo bisogno di cambiare aria?| «Il fatto che il reale non dura a lungo, per esempio? Intendo dire il tempo nel quale consideri come reali, importanti, personali, certe pareti, certi mobili, il colore delle tende, la strada che va in città… Sì, dev’essere qualcosa del genere, dal momento che ogni volta che trasloco mi libero del mobilio e della maggior parte degli oggetti per ripartire praticamente da zero. Ricominciare ogni volta la vita da zero!»7.

In realtà c’è in quell’irrequietezza l’inconsapevole coscienza del fatto che non esiste davvero un luogo o un paese “ideale” in cui vivere tutta una vita. Lo si avverte già nel primo (1946) e più lungo dei tre reportage americani contenuti nell’America in automobile, che proprio da quello prende il titolo. Quando l’autore giudica sinteticamente la capitale di quello che dovrebbe essere il nuovo paese in cui vivere per il resto della vita.

Tutto è così armonioso, così ricco, così signorile da darvi l’impressione che ogni mattina qualcuno passi l’aspirapolvere nell’intera città. Stesso discorso per gli abitanti. Non sono uomini come voi e me. Né gli americani né gli stranieri che risiedono lì. Sono tutti funzionari. Ahimè, a loro probabilmente non piacerà questa parola! Diciamo che sono i nuovi re, la nuova aristocrazia, quella delle persone che occupano un posto più o meno rilevante in una delegazione o in un office. Gli uni sollecitano risorse da distribuire in patria, gli altri distribuiscono risorse o valutano se farlo, ma in fondo è lo stesso. Sono persone che vivono in un mondo a parte, che si ritrovano nelle stesse ambasciate, agli stessi ricevimenti, negli stessi ristoranti, insieme alle mogli, e che poi di notte riappaiono nei night dei dintorni in compagnia delle dattilografe. [In] questa piccola società in cui ognuno dirige qualcosa e in cui i problemi umani vengono considerati solo dal punto di vista delle statistiche […] avrete l’impressione di leggere la Vita segreta della Corte di Francia. Washington è una grande capitale e al tempo stesso una cittadina di provincia in cui si sa tutto di tutti. Anzi, non è neanche una città: è la Corte. Una Corte democratica, il cui onnipotente presidente abita in una casa bianca non molto più grande delle altre, con intorno un parco circondato da inferriate. Ma pur sempre una Corte, dove il nuovo cappello della moglie dell’ambasciatore tal dei tali diventa il centro della conversazione e dove ogni occasione è buona per ostentare i propri gioielli. L’aspetto esteriore? Ricorda un po’ certi angoli di Neuilly. È bella e noiosa da morire (« barbosa al massimo », come dice la mia segretaria canadese). È l’unico posto negli Stati Uniti in cui si trovano ancora uomini che paiono figurini e riescono, non si sa come, a restare impeccabili dalla mattina alla sera8.

La noia, come sempre, sembra costituire alla fine il minimo comune denominatore delle partenze improvvise, degli amori fugaci, dei tradimenti coniugali e delle mai soddisfatte esigenze sessuali e affettive di Simenon. Anche in America, dove giungerà quando i rapporti tra lui e la prima moglie Tigy sono ormai ridotti alla pacifica convivenza, anche se rimangono uniti per amore del figlio, e dove Simenon, cercando una nuova segretaria, conosce Denyse Ouimet, che diverrà la sua seconda moglie e la madre di altri tre figli.

Una storia che verrà raccontata dallo stesso Simenon in quella che sembra costituire la sua ultima opera e, allo stesso tempo, la sua personalissima autobiografia “adulta”, scritta a Losanna tra il febbraio e il novembre del 1980 e pubblicata nell’ottobre dell’anno successivo: Memorie intime9. Memorie in cui l’esperienza americana occupa 400 pagine sulle 1030 dedicate all’intera vita dell’autore, dal suo trasferimento da Liegi a Parigi, intorno agli anni Venti del XX secolo fino al suicidio della figlia Marie-Jo, avvenuto il 19 maggio 1978.

Scritto apparentemente per commemorare la figlia, in realtà costituisce un tentativo di Simenon per placare il dolore e i sensi di colpa e in questo modo dà vita, rivolgendosi direttamente al primo figlio Marc preso a testimone, a una sorta di grande affresco, in appendice al quale l’autore ha voluto aggiungere tutti gli scritti della figlia suicida, come omaggio alla stessa. Vittima prima e addolorata dell’irrequietezza paterna.

Da quella irrequietezza e da quella esperienza in America nasceranno alcuni dei romanzi più conosciuti di Simenon come La morte di Belle, Il ranch della giumenta perduta, Luci nella notte, Il fondo della bottiglia, L’orologiaio di Everton, Maigret va dal coroner e l’ambientazione della seconda parte di Delitto impunito. Tutti segnati, come sempre dal male di vivere e infinitamente distanti da quella “innocente” visione del nuovo mondo e della sua vitalità che sembrano caratterizzare gran parte del reportage appena pubblicato in Italia.

Viaggio che lo aveva condotto prima in Florida e in Texas, poi successivamente in California e infine nel Connecticut, dove a Lakeville avrebbe trascorso gli ultimi anni prima di ripartire definitivamente per l’Europa il 19 marzo 1955. Durante queste diverse tappe erano nati i figli, John e Marie-Jo. di Simenon e Denyse Ouimet, della quale parla, nelle Memorie intime, senza mai pronunciare il suo vero nome, in sostituzione del quale utilizza l’iniziale D.

Pierre Assouline, uno dei suoi maggior biografi, ha affermato:

Separare l’uomo Georges dallo scrittore Simenon sarebbe assurdo almeno quanto cercare di separare il contenuto dalla forma: sarebbe altrettanto assurdo non considerare i testi di Simenon come documenti di riferimento, col pretesto che la sua opera, poiché presumibilmente immune al Tempo e alla Storia, sia altrettanto refrattaria alla biografia. L’intero vissuto di Simenon riaffiora nei suoi lavori, per quanto trasfigurato e trasposto. Senza il dono inspiegabile dell’assimilazione, l’alchimista Simenon non avrebbe potuto trasformare il piombo della vita di Georges nell’oro della finzione letteraria10.

E su questa base è possibile concludere che L’America in automobile, diventa un viatico straordinario per comprendere le delusioni successive dell’autore, l’amarezza e l’irrequietezza che ne accompagnarono la vita e la scrittura fino a quel colpo di pistola al cuore con cui la figlia Marie-Jo avrebbe posto fine alla propria vita, a soli venticinque anni, nel 1978.

«Save me Daddy – I’m dying – I’m nothing more, I don’t see my place – I’m lost in the space, the silence of death. Forget my tears but please, believe in my smile, when I was your little girl, many years ago. Be happy for me – Remember my Love, even if it was crazy. That’s for what I’ve lived and for what I die now» (Marie-Jo Simenon, 1978)


  1. Si tratta di Georges Simenon, Europa 33, dove 33 sta per 1933  

  2. G. Simenon, Europa 33 ora in G. Simenon, op. cit, pp, 11-126.  

  3. G. Simenon, Popoli che hanno fame (1934) in G. Simenon op.cit., pp 188-370.  

  4. G. Simenon, Una visita a Trockij (1933) in op.cit., pp. 163-187.  

  5. In merito alla miseria e alla devastazione, anche morale, che caratterizzarono l’Europa dopo la seconda guerra mondiale può essere utile la lettura di K. Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, Editori Laterza, Roma-Bari 2013 oppure, per l’Italia meridionale, N. Lewis, Napoli ‘44, Edizioni Adelphi, 1993 o, ancora, in forma romanzata, C. Malaparte, La pelle (prima edizione 1949) , Adelphi 2010.  

  6. E. Marchi, Il viaggiatore incantato in G. Simenon, L’America in automobile, cit,, p. 153.  

  7. E. Marchi, op.cit., pp. 154-155  

  8. G. Simenon, L’America in automobile, cit., pp. 84-85.  

  9. G. Simenon, Memorie intime. Seguite dal “Libro di Marie-Jo”, Adelphi Edizioni, Milano 2003  

  10. P. Assouline, Georges Simenon. Una biografia, Casa editrice Odoya, Bologna 2014, p. 11.  

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Simenon: la maschera e il vuoto https://www.carmillaonline.com/2023/03/08/la-maschera-del-vuoto/ Wed, 08 Mar 2023 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76239 di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare per generi e sottogeneri, è stato ricordato e/o celebrato soltanto per i 75 romanzi e i 28 racconti (scritti e pubblicati tra il 1931 e il 1972) che vedono come protagonista il celebre commissario Jules Maigret.

In realtà Simenon, autore tra i più prolifici, ha scritto, spesso utilizzando numerosi e svariati pseudonimi per poter pubblicare in contemporanea presso differenti editori, centinaia di romanzi e racconti che fuoriescono dal ciclo del commissario francese. Romanzi che spaziano tra storie d’ambiente piccolo borghese, se non proletario, e altre ambientate tra la ricca borghesia, sia della ville lumière che della provincia profonda della Francia del XX secolo. Con qualche deviazione spaziale verso il Belgio, in cui Simenon era nato, e altre parti del mondo.

Storie che, come vedremo anche a proposito del romanzo qui recensito, sono ascrivibili nella maggioranza dei casi al noir più classico, senza per forza con ciò voler definire un genere specifico di appartenenza. Piuttosto l’uso del termine serve, in questo caso, a delineare un ambiente psicologico e morale, prima ancora che sociale.

Tanto si è dibattuto nel corso degli ultimi decenni sulla sostituzione del romanzo realistico e sociale avvenuta per mezzo dei romanzi noir, ma anche se ciò è sicuramente vero, è vero altrettanto che non per questo i romanzi dall’anima nera debbano per forza descrivere ambienti sociali degradati economicamente (le periferie delle metropoli o la Marsiglia di Jean-Claude Izzo ad esempio) o le perverse trame del potere politico ed economico (come avviene nei romanzi di Dominique Manotti o Massimo Carlotto) oppure, ancora, gli ambienti e gli affari della “mala” (descritti puntualmente da André Héléna, Léo Malet o Auguste Le Breton).

Simenon ci guida a comprendere che il male del noir pur essendo, come del resto tutto, un prodotto sociale, può annidarsi ovunque. Come capita in questo romanzo, pubblicato originariamente nel 1960, che narra le vicende e l’inverno dello scontento di Jean Chabot: ginecologo di fama, comproprietario di una clinica per puerpere benestanti e responsabile della Maternità di Port-Royal, un appartamento di dodici stanze al Bois de Boulogne, una moglie, tre figli e una segretaria-amante, Viviane, che si è assunta il compito di «evitargli ogni minima seccatura».

Eppure, eppure…
Lo scontento e l’amarezza sono filtrati nella sua vita. Un goccio alla volta oppure per vaste crepe che sono andate aprendosi sempre più nel suo animo, soprattutto dopo l’aver appreso della morte per suicidio di una giovanissima inserviente della clinica, “l’orsacchiotto” del titolo, di cui lui aveva approfittato sessualmente diverse volte durante i lunghi turni di notte nella stessa, tra l’urgenza di un parto e quello successivo.

Ma non è un rimestamento morale legato al senso di colpa quello che accompagnerà il protagonista fino alle ultime, drammatiche pagine delle vicende narrate. No, sarebbe troppo semplice, soprattutto per un autore come Simenon, attento osservatore dei vizi privati e pubblici, altrui e propri.
Al massimo la scomparsa della giovane affogatasi nella Senna, dopo aver saputo di essere incinta e dopo esser stata cacciata dalla stessa clinica rimanendo senza lavoro, può costituire per Chabot una lieve riverniciatura di moralità e un blando senso di colpa destinati a mascherare il ben più profondo malessere che si annida nell’animo di un uomo che pur si è autenticamente fatto da sé.

E non costituisce un vero problema nemmeno l’enigmatica figura di un giovane, probabilmente coetaneo, fratello o amante, della giovane suicida, che perseguita il professore lasciando sul parabrezza della sua automobile dei biglietti sgrammaticati su cui sono scritte, solo e sempre, tre parole: «Io ti uciderò».
No, la vendetta dal basso non può preoccupare e non può spaventare un uomo che si sente morto da tempo. In cui anche i rapporti sessuali sono vissuti come compulsivi, destinati soltanto a riempire un vuoto esistenziale incolmabile.

Aveva preso dei farmaci. Li aveva provati tutti. Aveva persino cercato di distrarsi facendo sesso in modo compulsivo, e per un certo periodo non aveva fatto che andare a donne, approfittando di infermiere compiacenti, e due o tre volte di pazienti che si offrivano, il che gli aveva complicato l’esistenza. Questo era durato fino a Viviane e ogni tanto, se andava in crisi, ci ricascava1.

Vi è indubbiamente molto dell’autore, come per ogni scrittore che meriti davvero questo appellativo, nella figura di Chabot e, forse, proprio per questo Simenon riesce a portarci al cuore di ogni scontento, di ogni male, alla causa ultima di ogni azione registrata in un noir. Il vuoto dell’alienazione che scorre sul fondo della psiche, in maniera conscia o non conscia non importa ai fini dell’analisi ultima, di ogni individuo, maschio o femmina che sia. Insomma, parafrasando insieme Hannah Arendt e Raoul Vaneigem, “la quotidianità e la banalità del male”.

Alienazione che è sicuramente sociale e che è più profonda di qualsiasi semplice causa economica o politica. Nelle pagine dell’autore belga, così come in tutto questo romanzo, la separazione dell’individuo da se stesso e dalla sua vita, o da quella che egli riterrebbe dover esser tale, è totale.
Ed è totale proprio perché il protagonista, ma insieme a lui qualsiasi altro membro, grande o piccolo, del milieu cui appartiene, tutto sommato non sa con sicurezza cosa sia la sua “vera” vita e, soprattutto, cosa davvero vorrebbe al posto di ciò che già ha, o non ha.

Chabot stava dunque fingendo? Il proprio viso lo affascinava. Continuando a guardarsi, levò il bicchiere e lo vuotò d’un fiato, con una smorfia sulle labbra.
Poi, tanto per vedere, per rendersi conto, lentamente tirò fuori di tasca la pistola, più lentamente ancora ne portò la canna alla tempia, l’appoggiò come si appoggia la lingua su un dente che duole.
Evitò di toccare il grilletto. Non aveva intenzione di sparare. Voleva solo fare una prova e, adesso che aveva fatto il gesto, credeva di sapere. Meglio non continuare, non indugiare lì nello studio; l’immagine successiva era il «dopo», con il suo corpo sul pavimento.
Rimise l’arma in tasca, la bottiglia nell’armadio e andò a prendere cappello e cappotto nel guardaroba. In boulevard de Courcelles non si cenava prima delle nove. Per il caffè, non occorreva arrivare prima delle dieci2.

Come teorizzava Anton Čechov a proposito del teatro, se un’arma compare nel corso delle vicende prima o poi sparerà e starà soltanto al lettore scoprire dove, quando e contro chi o cosa.
E’ «l’uomo nudo» quello di cui ci parla Simenon nei suoi romanzi. Nudo davanti a se stesso, prima di tutto, poiché, pirandellianamente, tutto sommato la società gli fornisce un’abbondanza di maschere dietro cui nascondere l’alienazione che lo pervade completamente.

Funziona la scrittura di Simenon, sia sul piano narrativo, secca e spogliata di qualsiasi banalità o parola non necessaria, ma soprattutto come “guida” al noir, di cui rivela implacabilmente come il male, che può nascondersi in ognuno e in ogni vicenda umana, non ha bisogno di complicate trame e complotti per esplodere e manifestarsi. E neppure ha bisogno di esser compreso attraverso descrizioni minuziose di ambienti degradati che finiscono col giustificarne le azioni e le esplosioni.

No, per Simenon basta la vita di ogni giorno.
E questa è la sua lezione più importante, dai romanzi di Maigret a tutti gli altri.
Compreso, naturalmente, quest’ultimo.


  1. G. Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, p. 83  

  2. G. Simenon, op. cit., p. 85  

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