Edgar Allan Poe – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Su “Locus desperatus” di Michele Mari https://www.carmillaonline.com/2024/06/24/su-locus-desperatus-di-michele-mari/ Mon, 24 Jun 2024 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83144 di Carlo Lauro

Michele Mari, Locus desperatus, Einaudi, Torino 2024, pp.131, € 18.

Immaginare qualcuno cui inopinatamente venga ingiunto da strani figuri l’abbandono della propria casa con i libri e gli oggetti amatissimi di un’intera vita. Il malcapitato, stando a tale minaccia, dovrebbe a sua volta occupare la casa di un altro sfrattato (si delinea una tragica transitività) pur continuando a pensare a distanza alle proprie cose perché esse rimangano “tranquille ed uguali a se stesse”. La tenzone, soffertissima, affinché questo subentro non avvenga e il proprietario rimanga nel suo Nautilus è l’intreccio che rapisce il lettore di Locus Desperatus, ultimo [...]]]> di Carlo Lauro

Michele Mari, Locus desperatus, Einaudi, Torino 2024, pp.131, € 18.

Immaginare qualcuno cui inopinatamente venga ingiunto da strani figuri l’abbandono della propria casa con i libri e gli oggetti amatissimi di un’intera vita. Il malcapitato, stando a tale minaccia, dovrebbe a sua volta occupare la casa di un altro sfrattato (si delinea una tragica transitività) pur continuando a pensare a distanza alle proprie cose perché esse rimangano “tranquille ed uguali a se stesse”. La tenzone, soffertissima, affinché questo subentro non avvenga e il proprietario rimanga nel suo Nautilus è l’intreccio che rapisce il lettore di Locus Desperatus, ultimo lavoro di Michele Mari in cui finzione e ossessioni autobiografiche si fondono in un unico misterico crogiolo.

Gli oggetti di Mari li si era ammirati nelle immagini di Asterusher (2015) e molti li si ritrova adesso (ma come esseri senzienti e ansiosi) in Locus Desperatus (le targhette numeriche dei minatori, la radice di mandragola, l’omino Michelin, etc.). Sono oggetti che risalgono all’infanzia remota (soldatini, l’orsino di migliaia di notti) o reperiti negli anni con spirito collezionistico non meno incantato di quello di Walter Benjamin: cose avulse da un valore commerciale, che recuperano la loro bellezza dalla raggiunta defunzionalità e secretano un loro vissuto. Talvolta apotropaiche, scaramantiche, sempre tendenti a una loro speciale unicità. “Io avevo dato senso e vita alle cose, scegliendole, collezionandole, amandole (…) e loro mi avevano restituito tutto contribuendo alla mia identità e alla mia biografia” afferma l’anonimo protagonista in prima persona (che sarebbe lui, Mari, se si desse retta alle semplificazioni di Sainte-Beuve; ma, quanto ai libri, è anche una reincarnazione del Kien di Auto da fé). E così si rivolge alle cose ben più confidenzialmente di quanto non faccia con i propri simili, avvertendo tutti i loro disagi all’eventualità dello sfratto (la fuga delle targhette pari, le craquelures del vaso di Limoges, gli arretramenti di alcune brossure settecentesche). I libri sono, va da sé, la gran parte di questo tesoro, essendo stati e restando “come un ponte di zattere lungo tutta la vita” (citazione da Rondini sul filo) e, con essi i cosiddetti giornalini. E’ l’infanzia sempre rimpianta ad amalgamare i valori in sequenze quali “Tacito Proust Guicciardini Soldino Geppetto Eta Beta” (in Tu, sanguinosa infanzia).

Disperato è il luogo in cui si prospetta uno sparigliamento, anche provvisorio, di tanto patrimonio. Una delle prime autodifese del protagonista sarà quello di dividere parte dei propri feticci tra l’appartamento sottostante affittato all’uopo (reso comunicante da una botola) e la casa di campagna (già in Di bestia in bestia, primo libro di Mari, lo smembramento di una biblioteca veniva stigmatizzato come “la cosa più disumana e crudele che si ripeta sulla terra”).

Ma in Locus Desperatus la dispersione, ordita dagli equivoci pretendenti alla tana-museo (e quindi aspiranti all’anima stessa di colui che in essa ha trasfuso la propria personalità) conosce forme di sottile e perfida deterrenza: parole, frasi e poi intere pagine di decine e decine di classici vengono cancellate dal lavorìo paziente e spietato di ragnetti, tarli, scolopendre. L’infallibile memoria del protagonista accusa falle improvvise su testi letti, riletti, amati, divenuti consustanziali: le letture di un misterioso visitatore notturno gli hanno come “sottratto” dalla mente le trame di 84 testi dal Werther a Lo straniero, passando per Cuore di tenebra (ricorre il “demone tassonomico” di Mari: 84 romanzi, 158 targhette cm. 2.8 x 1.8, 590 carte da gioco…). Sin dalle prime pagine del romanzo, con il rinvenimento quotidiano di sinistre piccole croci segnate col gesso sulla porta di casa, si percepisce un malaise che diviene crescente man mano che il narratore, in cerca lumi, incontra una galleria di criptici e come sfuggenti personaggi: in primis l’ hoffmanesco Asfragisto (uno di “quelli” che pretende il subentro), poi Procopio (un ex-latinista sfrattato anch’egli e ora in miseria), indi un raffinato filologo in cui riaffiorano inspiegabili competenze di idraulica e una vecchia compagna di classe S*** ritrovata dopo anni “insufflata” come “il maiale dei Pink Floyd”. Da questi contatti, tra dettagli e reticenze, il Nostro evincerà che la realtà pullula di subentranti e subentrati, di ladri di identità, di simulacri. E’ l’epifania del glorioso topos letterario del “doppio”, il Doppelgänger (da sempre caro all’Autore) ma qui nella variante estensiva e più conturbante degli ultracorpi (Jack Finney e Don Siegel sono citati). Due diversi incontri con ex-compagni di liceo (nel primo nessuno dei quali a lui riconoscibile, nel secondo sì) apre addirittura il dubbio sulla propria univoca identità: che anche lui anche sia un subentrante di qualcun altro? Che gli stessi oggetti, malgrado tenaci ricordi, li avesse messi insieme un ignoto predecessore, poi vittima del subentro? E la memoria di due raccapriccianti episodi d’infanzia gli conferma di aver avuto, oltre alla propria, un’altra madre, una madre- ultracorpo. Ad aiutarlo in una di queste ricostruzioni è Sileno, deuteragonista del romanzo, prototipo di tante fedeltà gregarie (Sancho Panza, Venerdì, Secundra Dass), “polimero antropomorfo” disceso da resine purissime poi divenute morchia (sembra uscire dalla matita di un Magnus).

Sponda positiva e concreta in un mondo di umani evanescenti e inaffidabili, l’”uomo morchia”, colto e buon selvaggio insieme, sarà prezioso sia per la stretta di mano resinosa e divinatoria che legge passato e destini di uomini e cose, sia per le strategie difensive che porteranno alla fine, pur senza particolare felicità (impensabile in Mari), a una sorta di liberazione dall’incubo.

Ma quanto contano davvero le cose? Tutto, quasi. Quando, in un momento di grave distretta e quasi di “guerra civile” domestica, il volume dei Canti di Maldoror, a nome degli altri libri, proporrà al narratore come minor male il sacrificio delle cose, la reazione è un urlo (“Mai! Non mi libererò di nessun oggetto, nemmeno il più vile!”). Così come -è l’affezione che omnia vincit- l’”ultimo vecchio tascabile Gherardo Casini o Dell’Albero, Corbaccio, Sonzogno” non vale meno ai suoi occhi di ben più preziose prime edizioni. Da qui gli struggimenti e l’incredulità allorché dovrà constatare la non ricambiata fedeltà da parte di alcuni oggetti (le targhette pari, la calamita, la manina di ottone) che, avvertito il timore di sfratto, vorrebbero optare (sia viltà, voglia di cambiamento o seduzioni fallaci) per un apostatico abbandono della tana-museo.

Locus desperatus, nelle sue poco più di cento pagine, è un distillato, una mise en abyme dell’intera opera di Mari e dei suoi archetipi. E’ il libro che da’ il soffio vitale ai silenti oggetti di Asterusher e che rafforza se possibile il centripeto autoritratto di Leggenda privata (“la mia vera forza, la tristezza, inattingibile ai nesci ma anche ai più consci”; “una vita in difesa, sempre, lo era stata”). Riprende le atmosfere di sospensione e maleficio che pendevano sulle magioni dei primi romanzi (Di bestia in bestia, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti ma anche sulla nave fantasmatica de La Stiva e l’abisso). La storia dell’antica compagna di studi S***, sorta di filo nero che attraversa il romanzo (dall’enfiagione all’urna urlante passando per lo “scheletro panneggiato di pelle”; la sua fine di pittrice, con quello scambio di vita e morte, ricorda il Ritratto ovale di Poe) starebbe bene in Fantasmagonia. E il proprio fortissimo imprinting cresciuto e radicatosi “nell’attaccamento all’antico, nel culto del prima, nel rimpianto perpetuo, nel rifiuto di ogni ammodernamento” non si profilava già in Euridice aveva un cane (tra i più perfetti racconti di Mari) con l’ossessivo confronto tra la casa familiare dell’immaginaria Scalna (ossia Nasca) nobilitata dai segni del tempo, dalla struttura alle suppellettili, e quella dei chiassosi vicini ammiccante alle giovanilistiche mode del neo-consumismo?

Delle ossessioni non ci si libera, lo straordinario è come in Mari si strutturino in intrecci sempre originali. Quest’ultimo romanzo non è soltanto l’atto d’amore per le proprie cose, è il libro, tra l’inquietante e il grottesco, della temuta perdita di centro, delle deduzioni che non si fanno mai certezze, della memoria periclitante, dei libri che si cancellano, delle foto che si sfocano, di abnormi escamotages medianici per diradare le nebbie (il colostro di S***, la mano resinosa di Sileno) o spacciare i nemici (alcune efficaci macumbe).

Un tale armamentario allucinatorio, onirico e fantastico ha sullo sfondo le ascendenze di maestri dannati come Hoffmann e Mathurin, Potocki e Poe, Meyrinck e Lovecraft; di quel Kubin, creatore di incubi specialmente grafici, si cita un passo tratto da L’altra parte (sulla divisione sacrificale delle cose: potrebbe fare da esergo alla storia).
Peraltro la sapienza ventriloqua di Mari ha sempre cullato al suo interno (da Leopardi a Dickens) ben altra pluralità di voci, più o meno evidenti (non ultimo quel dono metamorfico che dal proprio tragico sa secernere la comicità più immediata e profonda: Gadda, Proust). La sua prosa anche qui è mimetica, duttile ad ogni minuzia descrittiva, ad ogni indugio sulla materia sublime o repellente che sia. In essa si forgiano locuzioni e termini aulici dal potere straniante, i mumble mumble delle strisce e i puntini celiniani: tutti strumenti potentemente espressivi e tra loro come cementati, grazie ai quali pulsioni, viscere, fragilità fanno muro al mondo; la stessa acribìa nelle tassonomie, catalogazioni ed etimologie (si veda la dissezione del nome Obelix) conferma un lucido furor di ordine e il rifiuto di quanto somigli ad approssimazione e impermanenza.

Accanto ai tanti titoli letterari citati (da biblioteca borgesiana) si troveranno in Locus Desperatus riferimenti cinefili, sia capolavori che b-movie. E una qual certa metabolizzazione del cinema noir e d’azione caratterizza almeno due vivide “sequenze”, pur restando anch’esse iper-letterarie: quella con la visione simultanea del protagonista e del suo “secondo io” nei rispettivi appartamenti; e poi quel count down pieno di suspense, da gran finale, che è la difesa dell’appartamento-fortino, con gli oggetti più fedeli, scaramantici e acuminati, militarmente schierati a salvaguardia della tana-museo.

“Dunque era finita. O forse no” conclude l’Autore “Ma adesso le mie cose sapevano di avere in me un generale capace di guidarle, e io sapevo che mi avrebbero seguito per tutte le strade del mondo, fra le cose del mondo, fra gli umani e non umani del mondo, fra tutte le croci del mondo fino alla fine del nostro piccolissimo mondo”.
Ci si chiede da quale cielo delle Muse sia discesa, oggi, un’invenzione tanto inquietante e perfetta.

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Eminenti ecologie. Ambiente e Bellezza in età vittoriana tra idillio e apocalisse https://www.carmillaonline.com/2023/09/02/eminenti-ecologie-ambiente-e-bellezza-in-eta-vittoriana-tra-idillio-e-apocalisse/ Sat, 02 Sep 2023 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78745 di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per [...]]]> di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.

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Troia brucia dopo una guerra senza fine https://www.carmillaonline.com/2023/03/30/troia-brucia-dopo-una-guerra-senza-fine/ Thu, 30 Mar 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76699 di Paolo Lago

Alberto Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 280, euro 26,00.

La caduta di una città, assediata dai nemici durante una guerra, è uno dei drammi più grandi della storia, che si ripete sempre. Alberto Camerotto, nel suo saggio Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, incentrato sul racconto della caduta di Troia, inizia dalle immagini di un grande vaso proveniente dall’isola di Mykonos e databile tra il 675 e il 670 a.C. Le immagini – osserva lo studioso – mostrano bene gli orrori della [...]]]> di Paolo Lago

Alberto Camerotto, Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 280, euro 26,00.

La caduta di una città, assediata dai nemici durante una guerra, è uno dei drammi più grandi della storia, che si ripete sempre. Alberto Camerotto, nel suo saggio Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, incentrato sul racconto della caduta di Troia, inizia dalle immagini di un grande vaso proveniente dall’isola di Mykonos e databile tra il 675 e il 670 a.C. Le immagini – osserva lo studioso – mostrano bene gli orrori della guerra, quando non c’è più rispetto né degli dei né degli uomini: violenza cieca perpetrata ai danni di donne e bambini inermi. La persis, cioè la caduta e la presa di una città, nella fattispecie Troia, non è fatta di gesta epiche e valorose, di scontri in battaglia, di duelli ma di soprusi e violenze esercitate nei confronti di esseri umani indifesi. Come scrive Camerotto, “il racconto dell’Ilioupersis è testimonianza di ciò che è la guerra, non delle glorie, non delle prodezze memorabili degli eroi. Sono glorie maledette, lo sappiamo bene. Allora raccontare la persis è la disperazione che sta nei grandi occhi delle donne, delle Troiane, nei loro gesti, nelle emozioni tremende, nelle grida e nei pianti delle loro voci”. È un po’ come la guerra ‘al grado zero’: contiene tutti i suoi orrori, i genocidi, i massacri della popolazione inerme. E se il racconto della persis di una città è un motivo diffuso presso diverse culture antiche del Mediterraneo, dalla Mesopotamia all’Egitto, le violenze perpetrate dai soldati nei confronti di una popolazione ‘nemica’ assediata e vinta riecheggiano in ogni tempo, fino alla modernità e alla contemporaneità. Quelle stesse violenze, oggi, non sono più raccontate dai dipinti su un vaso ma dai media che, quasi in tempo reale e in modo brutale, ci propongono immagini di genocidi e massacri, dal Ruanda all’Ucraina.

Alberto Camerotto riesce a spiegare i temi portanti del racconto della caduta di Troia, un autonomo blocco narrativo epico, in modo semplice ma non banale. Il suo saggio è strutturato come una grande narrazione in cui – a fianco di frequenti citazioni dagli autori analizzati (soprattutto Omero, Virgilio, Petronio, Quinto Smirneo e Trifiodoro), in greco e in latino, seguite dalla traduzione, e di un apparato di rigorose note di carattere filologico che dispiegano un’ampia bibliografia sull’argomento – incontriamo uno stile diretto e, per l’appunto, narrativo, caratterizzato da un periodare breve, con frequente punteggiatura, capace di creare nella mente del lettore immagini forti ed efficaci che lo accompagnano nel susseguirsi del racconto. L’analisi dello studioso si incentra quindi su “quattro motivi che fanno da punto di riferimento o da nuclei tematici della narrazione, attorno ai quali si aggregano gli altri motivi: la guerra infinita, l’inganno del cavallo di legno, la festa della liberazione, la persis della città”.

Lo scontro fra Greci e Troiani si trasforma in una guerra senza fine: anche su quella di Troia, all’inizio, aleggia l’illusione di una guerra lampo. E, come molte guerre che, anche nella contemporaneità, si sono protratte per lungo tempo, anch’essa inizia come una grande spedizione della ‘guerra giusta’ per vendicare il rapimento di Elena. La narrazione epica dell’Iliade inizia dall’ira di Achille, al nono anno di scontri, quando ormai la “guerra infinita” è diventata il paradigma e il segno dell’identità, e “nella celebrazione se ne dimentica il significato reale, si dimenticano i morti e le sofferenze, quelle più semplici, quotidiane, tremende, proprio mentre ne costruiamo la memoria”. Ecco che gli anni devono essere dieci, un numero dal valore simbolico. I morti si aggiungono ai morti perché “quando si comincia una guerra non si può più tornare indietro”. Lo stesso potrebbe valere anche ai giorni nostri, in cui gli apparati bellici sono al servizio del capitale e dei suoi interessi: quelle stesse esigenze di carattere economico e strategico si trasformano in valori assoluti, in idee che non è possibile mettere in discussione, dall’una e dall’altra parte, come nel conflitto in Ucraina. Nel racconto della persis di Troia, sia in quello omerico che in quelli di Quinto Smirneo e Trifiodoro, entrambi del III secolo d.C., emerge anche la progressiva consunzione della macchina bellica, come se su tutto cadesse un velo di angosciosa stanchezza e l’intero apparato si stesse lentamente sgretolando. E tale consunzione sembra gravare più sugli oggetti che sulle persone: le navi, le corazze, le frecce, i dardi, gli scudi, gli elmi, gradatamente si trasformano, per utilizzare un’espressione di Francesco Orlando, in “oggetti desueti”, vecchi, consumati dal tempo. In questo caso, sembra che sia la stessa dimensione bellica a consumare, a divorare: è essa stessa divenuta desueta, vecchia, antiquata, imbambolata nella sua assurdità.

Nel racconto della caduta di Troia c’è un oggetto che spicca sopra tutti gli altri: è il gigantesco cavallo di legno che serve per la conquista e che costituisce il secondo nucleo tematico analizzato dall’autore. Il cavallo è altissimo, grande come un monte; il suo ideatore è Odisseo, mentre il costruttore è Epeo. Il cavallo rappresenta il trionfo del dolos, dell’inganno, l’unico modo per concludere una guerra di dieci anni. Esso, nei racconti di Virgilio e di Trifiodoro, assume anche connotazioni mostruose perché produce, appunto, un ‘parto’ mostruoso, i guerrieri che escono dal suo ventre: “c’è qualcosa di inquietante, è l’immagine spaventosa della vita che genera la guerra e la morte. Sono le contaminazioni che annunziano la persis”.

D’altra parte, contaminazioni inquietanti sono presenti anche nella descrizione della festa della città. I Troiani, infatti, introducono il cavallo in città convinti che si tratti di un dono dei Greci in occasione della fine della guerra e preparano una grande festa per accoglierlo. Gli avvertimenti di Laocoonte e Cassandra non vengono ascoltati e gli strepiti della festa si diffondono dappertutto travolgendo agni freno, ogni allarme, ogni resistenza. Nel momento in cui i guerrieri achei escono dal ventre del cavallo e cominciano ad uccidere i cittadini inermi, i cibi, il vino, le armi e il sangue, le grida di festa e quelle di dolore si mescolano in una inquietante antitesi: “Si muore come i maiali sacrificati nel banchetto infinito di un ricco signore, nella festa più grande” e “il vino rimasto nelle coppe si confonde col sangue”. La categoria della guerra si mescola con quella della festa: gli stessi oggetti (le tavole, i tizzoni dei bracieri, gli spiedi delle carni) che prima erano serviti per banchettare si trasformano in armi. Nella festa fa irruzione la morte: sembra di trovarsi di fronte al “vicinato” festa-carnevale-morte che Michail Bachtin intravede nel racconto di Edgar Allan Poe La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death), nel momento in cui la stessa “Morte Rossa”, la terribile pestilenza, sterminando tutti i partecipanti di una festa in maschera, riesce a penetrare nel castello dove un gruppo di giovani nobili si era rifugiato illudendosi di sfuggire all’epidemia.

L’ultimo motivo su cui si concentra l’attenzione dello studioso è il momento della caduta vera e propria di Troia che, è vero, “è solo una notte. Ma è qualcosa di più terrificante di dieci anni di guerra. Sono necessarie altre categorie per interpretare ciò che avviene. È un altro racconto”. È un momento in cui “ogni figura diventa un simbolo dell’immaginario della persis. Si ripete sempre, a ogni nuovo racconto”. Ogni individuo diventa una metonimia della sanguinosa caduta della città: ad esempio, Deifobo sta per i difensori, Priamo per la città e per i vecchi, Astianatte per la sorte dei bambini, Cassandra per il destino delle donne. Sono nomi famosi ai quali il nostro immaginario può associare i genocidi di esseri indifesi di ogni tempo: Astianatte, il figlio di Ettore scagliato giù dalle mura di Troia da Neottolemo su consiglio di Odisseo (il quale, adesso, appare come un efferato criminale di guerra e non come l’eroe errante perseguitato dagli dei consegnatoci dall’Odissea), diventa l’emblema dei bambini vittime delle guerre; Cassandra, la figlia di Priamo, profetessa condannata a non essere creduta, delle donne vittime di stupri e violenze. Troia è caduta, la sua persis sanguinosa è stata consegnata all’eternità dal canto epico; ma, possiamo chiederci, quante altre Troie oggi stanno bruciando e bruceranno? Quanti altri crimini efferati stanno continuando in svariate parti del mondo? Tante, purtroppo, sono le guerre che ancora si combattono – e tante sono quelle lontane dai riflettori dei media – non volute né dal fato e neppure dagli dei, ma dalla spietata logica del capitale che non guarda in faccia a niente e a nessuno.

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Nel 1899 naviga un piroscafo lisergico e mostruoso https://www.carmillaonline.com/2023/02/21/nel-1899-naviga-un-piroscafo-lisergico-e-mostruoso/ Tue, 21 Feb 2023 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76222 di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e [...]]]> di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e il progresso si celano il buio e l’orrore. Ecco che, proprio in quegli ultimi lembi di Ottocento, nel 1897 vede la luce “Dracula” di Bram Stoker, in cui il mostruoso vampiro proveniente dai desolati confini dell’“impero” si reca a Londra, nel cuore economico di quello stesso “impero”. Ecco che, spesso, dietro ai viaggi dall’Inghilterra verso Oriente narrati da Joseph Conrad come, ad esempio, in “Il negro del «Narciso»” – romanzo uscito sempre nel 1897 – si celano la malattia e l’orrore.

Questa dicotomia e questa dialettica sono assai presenti anche nella serie TV Netflix, 1899 (2022, otto episodi di un’unica stagione) di Baran Bo Odar e Jantje Friese. L’azione narrativa si svolge su un piroscafo in viaggio tra l’Europa e l’America sul quale i passeggeri, com’era uso all’epoca, sono rigorosamente divisi in classi. Ci sono i ricchi di prima classe e i poveri di terza, prevalentemente migranti. Il piroscafo, emblema del progresso e della velocità del nuovo secolo che sta per arrivare, fin dalle prime puntate, possiede una marcata connotazione mostruosa: oscuro, gigantesco, con enormi fumaioli dai quali esce perennemente fumo nero proveniente dal suo ventre infernale, la sala macchine, dove i fuochisti sono costretti a lavorare in condizioni ai limiti dell’umano. La nave porta un alone di mostruosità anche nel suo stesso nome, “Kerberos”, che rimanda al guardiano infernale presente nella mitologia antica e nell’Inferno dantesco, un mostruoso cane a tre teste. Se nelle prime puntate la narrazione sembra poggiare su un impianto – se così si può dire – ‘tradizionale’, successivamente subentrano degli spunti narrativi che la trasformano in qualcosa che mai ci saremmo aspettati. Senza spoilerare troppo, si potrebbe affermare che 1899 possiede due film in uno: il primo, prevalentemente di carattere storico, horror e thriller; il secondo di carattere fantascientifico. Gli spazi della nave si configurano come un labirinto dalle connotazioni quasi kafkiane: se all’inizio si potrebbe pensare di trovarci sulla nave di Amerika (postumo, 1927) di Franz Kafka, dove il giovane Karl Rossmann non riesce più a ritrovare la via giusta, successivamente quel labirinto kafkiano si trasforma in un universo virtuale in cui i ‘pixel’ iniziano a spostarsi e a decostruirsi distruggendo passaggi o creandone di nuovi.

Perché – e mi si perdonerà questo spoiler, ma è funzionale a quanto voglio dire – nella seconda parte della narrazione i personaggi, lentamente, capiranno di trovarsi in un mondo virtuale. Se, come scrive Franco Moretti, due ‘classici’ del terrore come Frankenstein di Mary Shelley e Dracula, “sono romanzi in cui la realtà funziona spesso secondo le leggi che governano i sogni”1 sembra che in molto cinema e in molti prodotti per la televisione contemporanei, al sogno, si sostituisca la realtà virtuale a partire, diciamo, da Matrix (The Matrix, 1999) di Lana e Lilly Wachowski. Un altro film incentrato sulle doppie realtà, una virtuale e una reale e sulla necessità di ‘svegliarsi’, da parte dei personaggi, per vedere il mondo reale, è anche l’oscuro e intrigante Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, del 1999 come Matrix) di Josef Rusnak. E allora, in molto cinema contemporaneo – parafrasando Moretti – la realtà funziona secondo le leggi che governano i mondi virtuali creati da fantomatici ‘manovratori’, spesso in intricati giochi di scatole cinesi per cui non si capisce fino in fondo quale sia la ‘vera’ realtà. A monte dell’idea degli universi virtuali creati per mezzo di un computer c’è un archetipo classico come il mito della caverna di Platone che, nella serie TV, viene anche direttamente citato.

Ecco che la nave di 1899, da buona eterotopia (secondo Foucault, infatti, la nave è “l’eterotopia per eccellenza”, cioè lo spazio altro per eccellenza)2 può sovrapporre, in un unico luogo reale, spazi che sono anche molto diversi tra loro3. Attraverso misteriosi passaggi dimensionali, i personaggi si ritrovano in luoghi svariati e, comunque, estremamente diversi dallo spazio navigante circondato dall’Oceano: lande ghiacciate, paesaggi montani desolati oppure luoghi legati al loro doloroso passato. D’altra parte, nella serie, incontriamo una presenza iperbolica e francamente eccessiva di questi passaggi dimensionali i quali, talvolta, conducono anche a sviluppi non sempre comprensibili della trama. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che gli autori di 1899 sono anche quelli di Dark (2017-2020, 3 stagioni per 26 episodi), una serie TV incentrata sui viaggi nel tempo che avvengono, appunto, mediante un apposito varco dimensionale localizzato nella misteriosa cittadina tedesca di Winden.

Fra i luoghi che incontriamo una volta imboccate le porte dimensionali, particolarmente interessante è la clinica psichiatrica del padre della protagonista, la dottoressa Maura Franklin, che è anche il proprietario della compagnia di navigazione alla quale appartiene il “Kerberos”. Dietro i muri della clinica, i personaggi scoprono le nere e tetre fiancate della nave: quest’ultima appare perciò strettamente associata all’universo della follia. Allora, non si può non pensare nuovamente a Foucault e alla sua Storia della follia nell’età classica, nel momento in cui lo studioso descrive l’usanza rinascimentale – che molta fortuna avrà nell’arte letteraria e figurativa – tedesca (come gli autori della serie TV) della “nave dei folli”: affidare i folli alla massa oscura dell’acqua4. Tra l’altro, sempre secondo Foucault, la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”5. Chi altri sono quei personaggi intrappolati sul “Kerberos”, in mezzo all’Oceano, se non dei ‘folli’ alla deriva dal mondo roccioso della ragione? Tra l’altro, il racconto mette in gioco anche il tema del doppio: il “Kerberos”, infatti, si imbatterà in un suo inquietante doppio andato alla deriva, il “Prometheus” sul quale, in una lisergica esplosione musicale di White Rabbit dei Jefferson Airplane (e la colonna sonora è indubbiamente un punto a favore di 1899), verrà ritrovato un bambino misterioso in possesso di una piccola scatola a forma di piramide.

Inutile dire che, anche nel mondo virtuale del piroscafo “Kerberos”, domina la logica spietata del Capitale. I passeggeri di terza classe appaiono come i prigionieri dei più bassi interstizi della nave, solo un gradino più alto della manovalanza maledetta e condannata dei fuochisti. Intrappolati nei loro alloggiamenti separati dal resto della nave da un cancello chiuso a chiave, se solo osano avventurarsi negli eleganti saloni della prima classe, vengono ricacciati dentro il loro inferno in malo modo. Ognuno, sulla nave, sembra condannato a rivestire il suo ruolo in una specie di eterno presente, quello forgiato dalle logiche capitalistiche. D’altra parte, gli stessi ricchi di prima classe, colpiti da una misteriosa epidemia di trance, quasi come zombie si dirigeranno in fila indiana fino sul ponte della nave per poi gettarsi in mare e, come zombie, macchine asservite al Capitale, sono tratteggiati anche i già nominati fuochisti, costretti a gettare incessantemente il carbone nelle caldaie per far correre la nave mostruosa verso un progresso che assomiglia sempre di più ad una prigione. Perché vie d’uscita non ce ne saranno, né nuove sponde e neppure nuovi futuri (e non svelerò davvero l’esplosivo finale): il piroscafo, come un inquieto “Olandese volante” della Rivoluzione industriale, come il vascello dannato del Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe, è solo una truce macchina nomadica lanciata verso gli inferni del mondo irreale nel quale ci stiamo perdendo.


  1. F. Moretti, Dialettica della paura, in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, febbraio 1978, p. 97. 

  2. cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine, 2001, p. 31. 

  3. cfr. ivi, p. 27 

  4. cfr. Id., Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1978, p. 26. 

  5. Id., L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74. 

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Ritrarre “Il ritratto ovale” https://www.carmillaonline.com/2022/04/30/ritrarre-il-ritratto-ovale/ Sat, 30 Apr 2022 20:59:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71727 di Chiara Meistro

(È uscito da poco in libreria “Edgar Allan Poe – Il palazzo infestato” di Franco Pezzini con l’iconografa Chiara Meistro, vol. 2 di una trilogia Tutto Poe per i tipi Odoya, 2022: un esame panoramico commentato dell’itinerario d’autore dell’Americano Maledetto nella seconda fase della sua produzione, quella dei grandi racconti fantastici. Il contributo che segue, a firma di Meistro, costituisce la prima parte, più generale, del saggio a sua firma pubblicato in calce al volume: “Ritrarre ‘Il ritratto ovale’. Cornici, scheletri e cadaveri tra le illustrazioni del racconto di Edgar [...]]]> di Chiara Meistro

(È uscito da poco in libreria “Edgar Allan Poe – Il palazzo infestato” di Franco Pezzini con l’iconografa Chiara Meistro, vol. 2 di una trilogia Tutto Poe per i tipi Odoya, 2022: un esame panoramico commentato dell’itinerario d’autore dell’Americano Maledetto nella seconda fase della sua produzione, quella dei grandi racconti fantastici. Il contributo che segue, a firma di Meistro, costituisce la prima parte, più generale, del saggio a sua firma pubblicato in calce al volume: “Ritrarre ‘Il ritratto ovale’. Cornici, scheletri e cadaveri tra le illustrazioni del racconto di Edgar Allan Poe”).

1. Una narrazione artistica

“Il ritratto ovale” è un racconto che gioca a più livelli sull’esperienza visiva attraverso la dimensione e l’espressività pittorica. Lo si riscontra nell’andamento stesso della trama, che si articola in due parti essenziali, corrispondenti rispettivamente al momento della ricezione e a quello della produzione del quadro fatale. Il primo è vissuto in presa diretta dal protagonista narrante che, attraverso la sua prospettiva di fruitore, ne delinea le caratteristiche estetiche, mentre il secondo viene tramandato da una testimonianza scritta che fa luce sulla figura del pittore e sul suo processo creativo.

Anche l’ambientazione è costellata di accurati rimandi artistici; l’incipit si apre con la presentazione di un castello da revival gotico, per poi offrire una minuziosa descrizione degli arredi interni. Nello specifico, l’attenzione viene presto convogliata sulla camera da letto nella torretta fuori mano dove il protagonista e il suo domestico decidono di alloggiare. Tra gli addobbi preziosi seppur usurati dal tempo, spiccano arazzi, trofei e panoplie perfettamente in linea con l’atmosfera di un antico maniero. Vi si affiancano però, a creare un significativo contrasto cronologico, «un’infinità di originalissimi quadri moderni dalle ricche cornici dorate di stile arabesco», tra cui affiorerà infine il ritratto ovale, inizialmente rimasto in ombra in una nicchia.

Poe tratteggia insomma un contesto di indubbia forza immaginifica, dove questioni di gusto si fondono con le dinamiche narrative, e su cui vale la pena soffermarsi più nel dettaglio.

1.1. Storie di arredi per la mezzanotte

A proposito della stanza in cui giace il protagonista, è interessante partire dalle valide riflessioni che Michele Stanco ha condotto nell’articolo “Teorie estetiche ‘narrate’: «The oval portrait» di Edgar Allan Poe” (a cui si rimanda altresì per un’analisi più approfondita della sopraccitata suddivisione tematica del testo). Come si evince dal titolo, lo studioso ha esaminato le «tesi poesche sull’arte» svolte in forma narrativa nel racconto, per poi rintracciarne le corrispondenze intertestuali nei suoi scritti teorici. In particolare, ha messo in relazione gli interni del castello con i contenuti del breve saggio “The Philosophy of Furniture” – già affrontato nel presente volume (cfr. cap. 4.5) –, dove Poe illustra il suo ideale di arredamento. Emergono così alcune analogie dense di significato, soprattutto se si considera la descrizione della «piccola camera, per nulla pretenziosa, nelle cui decorazioni non è possibile trovare alcun difetto», a cui fa da riscontro la scelta da parte del protagonista di insediarsi in «una delle camere più piccole e meno sontuosamente addobbate».

Ma ancor più affascinante è la presenza di uno specchio quasi circolare, appeso in modo tale che nessuno possa esservi riflesso se si trova seduto in uno dei posti normalmente disponibili all’interno della stanza vagheggiata nel saggio. Un’ubicazione singolare, studiata con una certa meticolosità, e da cui Stanco ha dedotto che lo specchio sia seminascosto, proprio come il ritratto ovale (con cui condivide anche una forma simile). Non solo: per le loro caratteristiche intrinseche, i due oggetti sono equiparabili a livello semantico. Infatti, «l’ambiguità dello specchio, che manifesta la fisicità del corpo pur negandola in quanto ‘riflesso’» è del tutto affine a quella insita nel dipinto: la sua verosimiglianza è tale da poterlo scambiare per una fanciulla in carne e ossa, ma questa prima impressione viene rapidamente contraddetta non appena si scorge il disegno compositivo e la tecnica pittorica, nonché la cornice. Quell’espressione perfettamente conforme alla vita stessa («absolute life-likeliness of expression»), che non incarna soltanto la peculiarità estetica più marcata del ritratto ovale, ma si ricollega altresì alla sua luttuosa genesi, viene in effetti affermata e, al contempo, negata.

Un altro rimando incontrovertibile si ritrova infine nella presenza di tre o quattro ritratti femminili di una bellezza eterea realizzati alla maniera di Sully: si tratta infatti della medesima notazione stilistica attribuita al dipinto del racconto.

A questo punto, occorre ricordare che del saggio di Poe sull’arredamento esistono due versioni; la prima è apparsa sul numero di maggio 1840 del Burton’s Gentleman’s Magazine, mentre la seconda, pubblicata sul Broadway Journal del 3 maggio 1845, è stata modificata in più punti, a cominciare dal titolo stesso, divenuto “House Furniture”. Proprio in virtù dei confronti con “Il ritratto ovale”, che Stanco ha avanzato senza fare distinzioni tra i due pezzi, chi scrive ha ritenuto opportuno verificare quali argomenti sono stati trattati in modo differente, a maggior ragione se si considera la pubblicazione sul Graham’s Magazine nell’aprile 1842 di una prima stesura del racconto, intitolata “Life in Death”. Al suo interno, erano già contenute le descrizioni ambientali e artistiche utili ai fini dei paragoni con il saggio sull’arredamento, e queste parti sono rimaste invariate nella versione definitiva, presentata sul Broadway Journal il 26 aprile 1845 (per una collazione approfondita, si rimanda nel volume al cap. 9.1).

In “House Furniture”, il passaggio che mette in risalto le dimensioni ridotte della stanza e la perfezione delle sue decorazioni interne non ha subito variazioni, mentre ben diversa è la situazione per gli altri due esempi sopraccitati. Infatti, in “The Philosophy of Furniture”, viene specificato che non è visibile nessuno specchio; inoltre, manca qualsiasi riferimento alle teste dipinte secondo lo stile di Sully. Pertanto, gli elementi che hanno maggiore attinenza con il ritratto ovale sono stati aggiunti dopo la pubblicazione di “Life in Death”.

Da questi dati fortemente eloquenti, che ampliano la visione generale sugli ambienti analizzati, si può dedurre che i parallelismi e le influenze tra lo scritto teorico e quello narrativo sono vicendevoli: la camera ideale agli occhi di Poe è stata arricchita di alcuni dettagli mirati che l’hanno resa sempre più vicina a quella del castello; d’altra parte, quest’ultima ne rispecchia a sua volta la tipologia architettonica e d’arredo. Uno spazio immaginario arriva così a lambire progressivamente, fin quasi a sovrapporvisi, uno spazio che può avere invece una sua collocazione nella realtà (si pensi alla ricostruzione della stanza sulla base del saggio all’Edgar Allan Poe National Historic Site di Philadelphia). Anzi, è proprio il gusto estetico dell’autore, quando sfocia nel contesto narrativo, a renderlo straordinariamente tangibile.

Alle varie affinità, si aggiunge infine una specifica atmosfera: come rimarca Stanco, sia il proprietario della camera ideale sia il protagonista del racconto vengono descritti mentre versano in uno «stato di torpore» a ridosso della mezzanotte. Nella fattispecie, si può parlare per entrambi di dormiveglia, presumibilmente onirico in un caso, disturbato da una certa sovreccitazione dei sensi nell’altro. Infatti, il primo si è assopito su un divano, mentre il secondo giace a letto, indebolito e delirante per le ferite (in “Life in Death”, la sua lucidità viene compromessa ancor di più dall’utilizzo di una dose non ben regolata di oppio nel tentativo di calmare la febbre).

Una condizione psicofisica alterata si rivelerà perfetta per la piena fruizione del ritratto ovale, di cui altrimenti non sarebbe forse stato possibile cogliere in modo così vivido la sconvolgente somiglianza con una persona viva. Eppure, sembrerebbe che la tipologia stessa della stanza vi giochi un qualche ruolo, quasi fosse stata creata appositamente per accogliere, e fors’anche per stimolare, particolari stati della coscienza, meglio ancora se accompagnati dai rintocchi della mezzanotte.

1.2. Una quadreria a tinte scure

Già in “The Philosophy of Furniture” diversi quadri vanno a coprire buona parte della tappezzeria argentea; si tratta principalmente di paesaggi di grande formato, con riferimento specifico a The Lake of the Dismal Swamp di John Gadsby Chapman (1808-1889). Una prima versione di questo soggetto è stata dipinta su un paracamino (1825, Richmond, Virginia Museum of History and Culture), appartenuto alla zia dell’artista, Mrs. A. Newton di Richmond. Secondo quanto riportato da Barbara Cantalupo in Poe and The Visual Arts, lo scrittore potrebbe aver visto direttamente l’opera in casa sua. Di certo più accessibile è l’incisione che ne ha ricavato James Smillie (1807-1885), pubblicata su varie riviste; si pensi soltanto al frontespizio del numero di maggio 1839 del Knickerbocker, di cui Poe era un assiduo lettore. Della veduta del lago, Chapman ha poi realizzato una versione a olio, esposta durante la mostra del 1836 alla National Academy of Design di New York. All’epoca, il quadro era già stato acquistato da George Bancroft, che Poe ha conosciuto tramite l’editore Thomas Willis White, ma il fatto che questi gliel’abbia mostrato rimane una mera congettura.

In ogni caso, la citazione puntuale all’interno del saggio sull’arredamento fa presupporre che Poe, perlomeno grazie alla diffusione dell’incisione, avesse ben in mente l’opera. Ne deve aver apprezzato lo scorcio malinconico, coi tronchi spezzati che affiorano dal pelo dell’acqua e la cornice di fogliame pendulo. Si può dire lo stesso dei colori, se ha effettivamente avuto modo di vedere il paracamino o il dipinto a olio: per quanto sullo sfondo si apra una zona illuminata, che coglie forse il momento dell’albeggiare, con nuvole rosa che solcano il cielo e tenui riflessi di un pallido arancio che si propagano sulla superficie lacustre, a predominare sono le tonalità smorzate della vegetazione, tra l’ocra rossastra e il verde sottobosco, e in primo piano spicca la parte in ombra del lago, intrisa di un grigio denso, omogeneo, quasi tattile. Si riscontra quindi una chiara corrispondenza con le indicazioni coloristiche presenti in entrambe le versioni del saggio, dove viene specificato che i toni di ciascun dipinto devono essere caldi, ma scuri, senza effetti scintillanti. Inoltre, non è forse un caso che al 1827 risalga una lirica giovanile di Poe, intitolata proprio “Il lago”: questo, descritto come solitario e oscuro, partecipa inevitabilmente della medesima atmosfera della veduta di Chapman.

Meno preciso è il riferimento alle «fairy grottoes» di Clarkson Frederick Stanfield (1793-1867), pittore inglese famoso soprattutto per quadri di marine. Nei suoi paesaggi, si scorgono spesso imponenti speroni rocciosi, ma la citazione è troppo generica per risalire a un’opera specifica. Tuttavia, a livello di suggestione, non si può non rimanere colpiti da un dipinto come Mountainous landscape with a hunter and travellers, presentato all‘asta presso Bruun Rasmussen a Copenhagen nel 2012. Per la gamma cromatica delle rupi erbose e per la struttura compositiva, il quadro è avvicinabile a quello di Chapman. Inoltre, tra le rocce in primo piano si scorge una piccola cavità, da considerarsi perlomeno come una vaga allusione alle grotte del saggio. Tuttavia, l‘elemento più affascinante è dato dal cielo fortemente atmosferico, oscurato da una coltre di caligine ferrigna, ad eccezione di uno squarcio arcuato, dove appare invece di un azzurro limpido, facendo così risaltare le abbacinanti vette innevate (e forse Poe avrebbe perdonato questo scintillio che di norma non è ammesso per i quadri della sua stanza ideale).

A simili scenari naturali si aggiungono in “House Furniture”, come già detto, alcuni ritratti femminili secondo lo stile dello statunitense Thomas Sully (1783-1872), di cui Poe, stando alle osservazioni di Cantalupo, predilige in particolar modo il taglio romantico. Occorre inoltre ricordare il legame d’amicizia tra lo scrittore e il nipote di Sully, Robert, anch’egli pittore, dal momento che una sua opera sarebbe stata una fonte d’ispirazione proprio per il ritratto ovale (cfr. cap. 9.1).

Nel racconto, non si fa alcuna menzione ai soggetti dei quadri del castello; tuttavia, considerate le tangenze fin qui rilevate con il saggio sull’arredamento, si può vagheggiare che anche in questo caso si tratti di paesaggi malinconici, dalle tonalità brumose, e di delicati ritratti velati di romanticismo. Questi fungono da adeguata cornice per il dipinto fatale che, metaforicamente parlando, è a sua volta a tinte scure.

Quel che è certo è il loro numero impressionante: fin da subito viene infatti messa in evidenza una vera e propria profusione di dipinti, a cui è stato dedicato tutto lo spazio possibile, lasciando trapelare un indizio lampante della loro importanza per chi ha vissuto nell’edificio prima del recente abbandono, tanto da suggerire un intento collezionistico. In termini di sguardo, è un primo impatto potente; le parole di Poe delineano un affastellamento fitto e soffocante di tele, in grado di suscitare una vertigine da horror vacui. Non vi è angolo o nicchia in cui non ne siano state collocate; anzi, le si può immaginare quasi sovrapposte l’una sull’altra per meglio adattarsi alla bizzarra architettura degli ambienti del castello.

Un simile sfoggio di opere non può non ricordare gli allestimenti da quadreria, che a partire dal Seicento caratterizzano le raccolte d’arte nobiliari o di ricchi esponenti della borghesia: i dipinti venivano infatti accostati senza soluzione di continuità, rivestendo intere pareti fino ad arrivare al soffitto. Di questa consuetudine espositiva rimangono numerose testimonianze visive grazie ai pittori dell’epoca: basti pensare alle serie di allegorie dei cinque sensi, dove tra gli elementi che simboleggiano la vista compaiono in bella mostra proprio le quadrerie. Tra gli esempi più significativi, si segnala l’Allegoria della vista e dell’olfatto, commissionata a Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625) e portata a termine con la collaborazione di altri maestri della città di Anversa (1618-1620, Madrid, Museo del Prado). Sullo sfondo, si apre una galleria gremita di opere d’arte; sulla sinistra, sopra una fila di sculture, i quadri appesi si susseguono fino a toccare il cornicione della volta. Nella sala in primo piano, l’esposizione è ancor più fitta; le tele sono addirittura accatastate sul pavimento e le cornici dei dipinti appesi alle pareti sono accostate in modo millimetrico. Quest’opera voleva essere una rappresentazione idealizzata delle collezioni dell’arciduca d’Austria Alberto VII d’Asburgo e della moglie Isabella Clara Eugenia, di cui sono riconoscibili i ritratti sull’estrema destra, in un quadretto appoggiato su un tavolo. D’altra parte, è facile trovare dipinti che rappresentano quadrerie private realmente esistite. Ne è un esempio l’opera del fiammingo Frans Francken II (1581-1642), Le Cabinet d’amateur de Sébastien Leerse, che raffigura il mercante di Anversa nella sua galleria d’arte personale (1628-1629, Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten). Questa è decisamente meno fastosa della precedente; tuttavia, è interessante per il dettaglio di alcuni dipinti dalla cornice rotonda che si sovrappongono sugli angoli delle opere adiacenti di formato rettangolare.

Osservando i quadri citati, è facile lasciarsi trasportare dall’immaginazione e pensare di catapultare in simili scene gli stessi personaggi del racconto: quando s’insediano nella torretta isolata – forse la stessa in cui è stato realizzato il ritratto ovale – si trovano in effetti circondati da una grandiosa quadreria.

1.3. Il racconto del catalogo

La centralità dei dipinti nelle dinamiche de “Il ritratto ovale” viene ulteriormente convalidata dal ritrovamento del volumetto a loro dedicato, che ne fornisce un’analisi critica e la descrizione. Stando a tali indicazioni sul suo contenuto, lo si può considerare a tutti gli effetti un catalogo della quadreria, che va a integrare l’osservazione diretta delle opere. Al bombardamento visivo dato dall’allestimento si aggiunge quindi un rafforzativo scritto: fra tutti gli oggetti d’arte e di pregio presenti nel castello, soltanto la collezione pittorica è apparsa meritevole di attenzione e di studio, con conseguente necessità di documentarne le peculiarità estetiche e di preservarne le memorie collegate.

In realtà, ai fini narrativi, per il ritratto ovale si ricorre a un espediente ecfrastico per cui gli aspetti stilistici e iconografici, invece di comparire sulla pagina scritta, vengono anticipati – come già accennato – attraverso gli occhi del protagonista. Quanto riportato dal volumetto assume invece i contorni di una biografia romanzata, con cui entrano in scena il pittore e la sua sposa, destinata a diventare il soggetto del dipinto.

In ogni caso, è proprio su questa alternanza tra contemplazione e lettura che si sviluppa l’andamento della trama, dando vita a un gioco di rimandi dove la parola diventa immagine e viceversa. Non a caso, per leggere la storia del ritratto ovale, il narrante rimette il candelabro nella posizione iniziale, relegando di nuovo nell’ombra il quadro appena scoperto. All’osservazione si sostituisce così la parola scritta, che risulta determinante per far conoscere nuovi aspetti e sfumature dell’arte figurativa presente nel castello. Infatti, per quanto dominante e onnipresente, il suo ruolo non si esaurisce nel mero collezionismo.

Il volumetto mette subito in evidenza la dedizione morbosa del pittore nei confronti del suo lavoro, e quest’informazione potrebbe condurre a un’ulteriore caratterizzazione della quadreria del castello, soprattutto se la si associa a una precisa indicazione esplicitata nell’incipit del racconto. I dipinti vengono infatti definiti moderni, e questa distinzione cronologica rispetto agli altri arredi artistici del castello non può non avere una qualche rilevanza. È infatti plausibile che si tratti di opere pressoché contemporanee rispetto al tempo narrativo. In più, se si considera che l’abbandono del castello appare improvviso e recente, è lecito supporre che i quadri appesi nella torretta facciano parte della produzione del pittore. In quest’ottica, il volumetto si configurerebbe come un suo catalogo ragionato.

Dalla biografia dell’artista emerge infine un altro dato fondamentale: il suo amore per l’Arte è tale da arrivare a personificarla, rendendola a tutti gli effetti una vera e propria rivale per la moglie.

1.4. Arte vampira

Proseguendo nella lettura del volumetto, diventa chiaro che l’Arte ricopre il ruolo di antagonista nelle dinamiche di coppia tra il pittore e la sua sposa. Infatti, si rivelerà un’avversaria in amore ingombrante e spietata, che priva la fanciulla di una serena e appassionata vita coniugale e che infine contribuisce ad ucciderla. La sua vittoria è definitivamente sancita nel momento in cui, attraverso la realizzazione del ritratto da parte del pittore, l’essenza vitale della giovane viene assorbita all’interno della stessa tela dipinta, e quindi in uno spazio e medium della sua dimensione.

In questo tipo di processo, si possono rilevare evidenti somiglianze con il modus operandi delle figure vampiriche. Come osserva James Twitchell in un articolo sull’argomento, il fatto che la prima versione del racconto si intitolasse “Life in Death” pare già di per sé un riferimento alla mitologia del vampiro, proprio per l’assonanza con «the living dead». Tra l’altro, ciò che rende più atroce il destino di un vampiro è l’essere destinato a predare le persone che più amava prima della trasformazione.

Già in altri racconti di Poe si trovano trasferimenti vampireschi di energia, o ritorni di donne diversamente vive: si pensi a “Berenice”, “Morella”, “Ligeia” e anche a “Il crollo di casa Usher”. Nel caso de “Il ritratto ovale”, la componente vampirica trova però un ulteriore sviluppo, poiché coinvolge sia il pittore che la sua Arte, oltre allo stesso atto di creazione pittorica. In questo senso, non si può non concordare con Twitchell quando afferma che in questo racconto Poe ha creato la variante più sofisticata sul tema del vampiro.

Anche Michiel J. O. Verheij ritorna sulla questione in un suo articolo, soffermandosi però più in profondità sulle conseguenze mortifere del ritratto. Come già sottolineato, la versione dipinta della fanciulla diventa una rivale di quella in carne e ossa, e mentre l’artista lavora per creare un’immagine che abbia una perfetta e assoluta rassomiglianza con la moglie, la compagna reale se ne discosta sempre di più, poiché sfiorisce progressivamente durante le fasi di realizzazione del ritratto. Quando questo giunge al termine, la modella è ormai spirata; si può quindi affermare che la donna sia stata letteralmente «painted to death», ovvero dipinta a morte. Infatti, il quadro rispecchia l’originale, ma al tempo stesso lo rimpiazza. Il paradosso sta proprio nel fatto che, nell’uccidere la moglie, il pittore abbia creato qualcosa di simile a una nuova vita. Inoltre, nel momento stesso in cui la fanciulla muore, ottiene comunque l’immortalità attraverso il ritratto. Si è tentati di notarvi un altro collegamento con il mito vampirico, questa volta in relazione alla trasformazione della vittima vampirizzata; qui il vampiro è fatto di pittura e tela, ed è questa la forma che assume a sua volta la fanciulla. Il racconto di Poe presuppone quindi un’ambigua e complessa relazione tra le dimensioni dell’arte, della vita e della morte, e tutti questi opposti sono uniti nell’atto della creazione pittorica. In particolare, si torna sul concetto di vampirismo soprattutto nel passaggio in cui il pittore sottrae il colore dalle gote della fanciulla per trasporlo sulla tela, evocando una sorta di trasfusione che ben esprime l’idea di un trasferimento nel quadro dell’energia vitale. In tal modo, il ritratto risulta quasi letteralmente dipinto col sangue della donna.

In ogni caso, al di là delle metafore vampiresche, si può dire che la fanciulla cade vittima di una «death by representation», ovvero di una morte per rappresentazione.

Il pittore ha sempre amato l’Arte più della moglie; non a caso, durante la creazione del ritratto, ha occhi solo per quest’ultimo, mentre non si accorge del peggioramento delle condizioni fisiche della compagna. Quindi la fanciulla ha due rivali, il marito e la propria immagine nel ritratto, che va a sostituirla derubandole la vita. Ma i due rivali, in fondo, sono due facce della stessa medaglia, sono uno e lo stesso: l’uomo incarna l’azione del dipinto e viceversa. D’altra parte, il ritratto rappresenta sia la prima che la seconda moglie del pittore, già sposato con l’Arte ben prima di legarsi alla fanciulla. In qualche modo, attraverso quest’opera, l’uomo ha voluto unirle, fallendo però nell’intento, poiché la moglie reale muore. Di conseguenza, l’Arte, in quanto prima sposa del pittore, riprenderebbe il suo posto, come accade in “Ligeia”.

Il risultato è un’inversione del famoso mito di Pigmalione, a sua volta legato al concetto di mimesi e alla relazione tra immagine e originale. Infatti, nel racconto di Poe, non è un’opera d’arte inanimata a diventare una giovane in carne e ossa, bensì l’opposto: una fanciulla vivente involve in uno statico ritratto. Si riconferma così la vittoria dell’Arte sulla sposa del pittore, in un passaggio da organico a inorganico dove la paradossale vitalità di quest’ultimo rimanda di nuovo a “Il crollo di casa Usher”, a dimostrazione di una robusta coerenza tematica di questa fase della produzione di Poe.

 

2. Illustrando “Il ritratto ovale”

Fin qui, operando una sorta di zoom, si è offerta una panoramica che, partendo dal set della camera da letto del castello, si è poi focalizzata sulla quadreria, fino ad arrivare al ritratto ovale e alle sue caratteristiche intrinseche. In questo modo, si è cercato di raccogliere la molteplicità di suggestioni artistiche su cui si basa la narrazione, ancor più apprezzabile poiché nello spazio di poche pagine ne offre una varietà davvero ricca. Poe ha mostrato un’abilità magistrale nel dipingere con le parole ambientazioni, atmosfere e opere d’arte; per tal motivo, questo è forse il racconto più emblematico del suo rapporto con la pittura.

Si può ora passare dalla parola all’immagine, affrontando una carrellata di illustrazioni ispirate a “Il ritratto ovale”, scelte sulla base di un’indiscutibile rilevanza da un punto di vista iconografico. Verranno prese in esame sia quelle realizzate in anni più vicini alla pubblicazione del racconto, sia quelle di età più recente, se non addirittura odierna, con qualche incursione anche nelle versioni a fumetti. La disamina, tuttavia, non seguirà un criterio cronologico, ma proporrà un percorso tematico in relazione all’analisi dei momenti cruciali nello sviluppo della trama. Si partirà quindi dall’arrivo del protagonista al castello, per poi passare alle fasi di realizzazione del ritratto, fino ad arrivare alle rappresentazioni, decisamente più numerose, della morte della fanciulla. Nello specifico, è stato bello constatare come Poe sia un classico senza tempo che ancora ispira i contemporanei, ed è stato altrettanto stimolante individuare gli accorgimenti a cui sono ricorsi gli artisti per riproporre i punti di svolta del racconto in modo innovativo, a volte discostandosi anche di molto dal testo scritto, ma onorando comunque l’opera di partenza.

 

(Il saggio prosegue con l’esame tipologico delle tavole secondo quest’indice:

2.1. Incorniciare la cornice narrativa

2.2. Sguardi sul ritratto ovale

2.3. Cornici mortifere

2.4. Dipinta a morte

2.5. Ritratto di cadavere

2.5.1. Come la bella addormentata

2.5.2. Corpi prosciugati e scarnificati

2.6. Metamorfosi del ritratto ovale )

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Un’Odissea post-apocalittica https://www.carmillaonline.com/2021/12/16/unodissea-post-apocalittica/ Thu, 16 Dec 2021 22:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69662 di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi [...]]]> di Paolo Lago

Gianluca Di Dio, La Sublime Costruzione, Voland, Roma, 2021, pp. 209, € 16,00.

Secondo lo studioso omerico Alain Ballabriga, i viaggi di Odisseo si sarebbero spinti ben più a est e ben più a nord di quanto comunemente si creda: ad esempio, l’isola di Circe, Aiaie, secondo questa teoria, sarebbe localizzata in un remoto nord-est, quello della Colchide (l’odierna Crimea). Qui, l’eroe vi sarebbe giunto dopo essersi perduto nel Mediterraneo e poi, proprio nel Mediterraneo sarebbe ritornato una volta accomiatatosi da Circe. Sono comunque svariate le teorie sui presunti luoghi reali identificabili nel viaggio dell’eroe. D’altronde, si è sospettato anche che l’autore dell’Odissea si sia avvalso di un modulo narrativo e cosmologico assai diffuso nel Mediterraneo antico e definito dagli studiosi come «viaggio cosmico», in cui l’eroe di turno è chiamato a dimostrare le sue doti superumane percorrendo i territori più estremi e pericolosi dell’universo1.

Un’allusione al viaggio di Odisseo, ‘riambientato’ in un oscuro nord devastato da una catastrofica guerra, è stata attuata recentemente da Gianluca Di Dio col suo romanzo La Sublime Costruzione. L’allusione è una delle pratiche letterarie che, secondo Gérard Genette, rientrano all’interno della definizione di intertestualità perché essa si configura come «un enunciato la cui piena intelligenza presuppone la percezione di un rapporto con un altro enunciato al quale rinvia necessariamente l’una o l’altra delle sue inflessioni, altrimenti inaccettabile»2. Il viaggio di Odisseo diviene una sorta di macrotema al quale vengono attuate diverse allusioni che prendono corpo sotto le vesti di cinque tappe in cui incorrono i protagonisti del romanzo. Come accennato, nel futuro imprecisato narrato nel libro c’è stata una guerra catastrofica e il protagonista, Andrej Nikto, insieme all’amico Årvo Kettula, dalla sua devastata cittadina intraprende un lungo viaggio nella notte nordica a bordo di una gigantesca corriera bianca che conduce le persone verso una specie di fantomatico cantiere, dove si sta costruendo la «Sublime Costruzione» nel quale tutti potranno trovare un lavoro adatto a loro. Del resto, come avverte l’autore sotto la voce dell’io narrante Andrej, si tratta di una storia «simbolica, farneticante, totalmente esagerata». La ripresa del viaggio odisseico assume perciò tonalità simboliche che vanno a rappresentare «una storia comune, che non si distingue tra passato e futuro, una storia che ogni volta si distrugge per poi riaccadere di nuovo».

Il viaggio di Odisseo si trasforma nella peregrinazione post-apocalittica di Andrej e compagni, rappresentati quasi come dei migranti in fuga dal loro paese devastato dalla povertà e dalla guerra, nonché segnato da catastrofi ambientali provocate dalla stessa guerra. Come ci ricorda Marco Malvestio, sono due i modi con cui la fantascienza racconta le possibili catastrofi del futuro: distopia e romanzo post-apocalittico. Se la distopia evidenzia l’eccessivo sviluppo di alcuni tratti negativi di una società (come la sorveglianza di massa o l’inquinamento), il romanzo post-apocalittico «rappresenta la sopravvivenza di individui e/o società umane dopo un evento catastrofico»3. Rifacendosi al critico Heather J. Hicks, Malvestio nota come i tropi narrativi, in questo tipo di romanzi, siano più o meno sempre gli stessi: bande di sopravvissuti che si trovano a percorrere ambienti urbani distrutti circondati da campagne abbandonate mentre tutto intorno si trova una società regredita e imbarbarita, caratterizzata da una violenza estrema4. Lo stesso sfondo narrativo lo ritroviamo, ad esempio, in altri recenti romanzi italiani. Possiamo ricordare Sirene (2007), di Laura Pugno, che racconta un futuro in cui la società degli umani è costretta a vivere al buio e in città subacquee; Bambini bonsai (2007), di Paolo Zanotti, dove però la dimensione di abbrutimento e violenza è rivestita di toni fiabeschi; Qualcosa, là fuori (2016), di Bruno Arpaia, che racconta la migrazione del protagonista, fra violenze e sopraffazioni, in fuga da un’Italia devastata dall’inaridimento del suolo dovuto al cambiamento climatico; Pietra nera (2019), di Alessandro Bertante, in cui il protagonista deve compiere un viaggio dalle tonalità iniziatiche attraverso una Milano imbarbarita e una pianura padana disseminata di bande violente; Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende  (2020), del collettivo Moira Dal Sito, raccolta di racconti a cura di Wu Ming 1 che mostrano una comunità palafitticola nella bassa ferrarese del futuro, ormai inondata dall’acqua, in cui dominano barbarie e violenze ma anche una solida organizzazione comunitaria.

Nel caso de La Sublime Costruzione l’impianto post-apocalittico della narrazione, in virtù dell’allusione a un ipotesto come l’Odissea, subisce un travestimento dai tratti quasi epicizzanti, allontanati in una lontana e irraggiungibile dimensione epica. Rispetto alle altre narrazioni che seguono questi tropi narrativi, quella allestita da Di Dio possiede una marcata impronta onirica e visionaria. Tutto avviene come in un grande sogno all’interno di una notte polare e ghiacciata. La meta finale, quella «Sublime Costruzione» il cui cantiere può offrire lavoro a tutti, assume importanti tratti utopistici. Dopo l’apocalisse, perciò, c’è ancora spazio per l’utopia: un luogo dove finalmente si può ricostruire una vita all’insegna della normalità. Del resto, la presenza di questo cantiere che offre lavoro a tutti, nella città del protagonista, viene pubblicizzata con manifesti e volantini lanciati dai camion di passaggio. La dimensione utopistica di questo luogo potrebbe far pensare al «Teatro naturale di Oklahoma», sulla cui immagine si chiude il romanzo incompiuto e postumo di Franz Kafka, Amerika (1927). Come il cantiere, anche il «Teatro naturale di Oklahoma», un’enorme organizzazione con musicanti, attori, trombettieri, impiegati d’ogni sorta e che può offrire lavoro a tutti assume connotazioni utopistiche in quanto potrebbe rappresentare, per molti immigrati come il protagonista del romanzo, Karl, la realizzazione utopica di libertà all’interno del nuovo mondo americano.

I capitoli relativi alle cinque tappe che rimandano ai momenti narrativi dell’Odissea recano in esergo delle citazioni dal poema con il luogo testuale al quale si riferiscono. Nel capitolo quinto, intitolato Le pescatrici, si allude agli incanti delle sirene, presenti nel canto XII del poema; nel capitolo sesto, I sonnivori, il riferimento è all’episodio odisseico dei Lotofagi, nel cui paese voleva rimanere chi assaggiava il frutto del Loto; il capitolo settimo, I due colossi, riecheggia invece la sosta di Odisseo e compagni presso l’isola dei Ciclopi e l’incontro con Polifemo; il capitolo ottavo, La corruttrice prodiga, il più lungo e articolato, allude all’episodio di Circe; il capitolo nono, infine, riecheggia i momenti del poema in cui Odisseo incontra le anime dei morti nel paese dei Cimmerii.

Non è mia intenzione, qui, rivelare più di tanto sulla trama del romanzo e su come si configurano le trasposizioni in chiave post-apocalittica dei menzionati episodi omerici. Questo toccherà al lettore scoprirlo. Mi interessa, invece, analizzare la struttura del viaggio messo in scena dall’autore, all’interno del quale le tappe di matrice odisseica sono ben funzionali e opportunamente inserite. Lo spostamento, che costituisce il nucleo principale della narrazione, si configura come una vera e propria immersione amniotica in un mondo onirico, cadenzato appunto dal sogno e dal sonno. Non a caso, la gigantesca corriera bianca è un enorme contenitore di sonno e di sogno, dal momento che si configura come un grande dormitorio nel quale i «reclutati» per il lavoro al cantiere trascorrono il tempo sdraiati su una branda. La corriera avanza nella notte gelida e innevata come un vero e proprio essere mostruoso destinato a percorrere inenarrabili distanze disseminate di soste nel silenzio notturno dove, in lande devastate dalla catastrofe, possono celarsi i rischi più inaspettati. Allora, oltre che con il viaggio di Odisseo, si potrebbero scorgere delle consonanze anche con il viaggio di ritorno degli argonauti, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, nei momenti in cui il viaggio degli eroi si dirama su percorsi incerti e sconosciuti, quando «neppure sapevano / se navigavano sopra le acque / o nel regno dei morti» (IV, 1698-1699).

Il paesaggio è caratterizzato da esterni ed interni spogli e abbandonati, lande desolate o colline innevate disseminate di povere abitazioni, mentre le figure umane sembrano i simulacri di un’esistenza ormai incancrenita in un’abitudine all’orrore. Gli uomini e le donne che si trovano sulla corriera sono una sorta di automi che si muovono spinti più dal caso che dalla necessità di sopravvivenza, pronti a rivoltarsi gli uni contro gli altri per qualsiasi futile motivo. Per certi aspetti, la corriera assomiglia al treno che corre incessantemente nel mondo ghiacciato e devastato messo in scena dal film Snowpiercer (2013) di Bong Joon-ho: in esso l’umanità superstite è costretta a vivere secondo una rigida divisione in classi sociali ma dai vagoni dei più poveri partirà ben presto una inarrestabile rivolta. Sulla corriera de La Sublime Costruzione non ci sono poveri e ricchi o, meglio, i viaggiatori sono tutti dei poveri migranti che cercano una qualche possibilità di sopravvivenza dignitosa presso la «Sublime Costruzione». Nella motrice, invece, alloggiano i «reclutatori» (nonché dei «valletti» destinati alle mansioni pratiche), coloro che, per mezzo di un pervasivo controllo, sanno tutto sulla vita e le attitudini dei reclutati. Né mancheranno, come già accennato, delle vere e proprie lotte tra poveri, risse scatenatesi nei dormitori per i più futili motivi.

Il viaggio post-apocalittico affrontato dai personaggi del romanzo si srotola in un paesaggio onirico e lunare, devastato e ghiacciato, abbrutito nella sua totale disumanizzazione, simile a quello attraversato dall’uomo e dal bambino protagonisti de La strada (The Road, 2006) di Cormac McCarthy. Se quest’ultimo romanzo si riallaccia alla tradizione americana del ‘viaggio di formazione’ sulla strada (basti pensare a London e a Kerouac), in esso, come scrive Giuseppe Panella, «il mito sembra arrivato al capolinea e si congiunge con una visione devastata e livida di un mondo ormai giunto alla sua conclusione ‘innaturale’ per effetto di una non ben identificata e descritta epidemia inarrestabile»5. Il colore predominante nel paesaggio del romanzo di Gianluca Di Dio è il bianco: bianchi sono i campi e le strade innevate, bianca è la mostruosa corriera, «tutta completamente bianca». Nella parte finale della narrazione, dopo le innumerevoli peripezie, i protagonisti aspettano un’altra corriera ed essa si distingue da lontano proprio per il suo biancore quasi accecante: «Dal fondo del pendio sorse un rantolo felpato, e intravedemmo una chiazza di bianco luminosa scivolare sulla coltre, cancellata a tratti dai vortici dei fiocchi». Del resto, il Bianco – nota ancora Panella – «può essere ben più allucinante e devastante dell’emergenza della Nerezza»6, basti pensare all’orrorifico bianco accecante con cui si chiude la Storia di Gordon Pym (The Narrative of A. Gordon Pym of Nantucket, 1837) di Edgar Allan Poe.

Nonostante la narrazione de La Sublime Costruzione rappresenti un viaggio simbolico e onirico, in esso è comunque presente la dimensione del corpo e del basso corporeo, in tutti i suoi aspetti, dalla rappresentazione del corpo degradato, piagato dagli stenti e dalla fatica fino all’evocazione della sfera sessuale e alla pressoché costante presenza del cibo e dei suoi scarti. I personaggi, infatti, durante le soste, si ritrovano spesso intorno a fuochi sui quali stanno cuocendo pezzi di carne sanguinolenta e la divorano facendola a brandelli in modo selvaggio. Anche se i corpi, come afferma Andrej Nikto, sono «incarcerati come fossili nel sedimento incoerente del pensiero», essi non perdono mai la loro preponderante dimensione fisica: copulano, si cibano in modo rozzo e disordinato, si colpiscono, si feriscono, sanguinano, sono sottoposti a sforzi fisici enormi. È il corpo a conferire una nota di colore ‘vivo’, quasi ‘carnevalesco’, all’interno dell’indistinto, glaciale sfondo bianco che avvolge la narrazione.

Del resto, il corpo è probabilmente l’unica ricchezza che questi migranti post-apocalittici possiedono come, d’altronde, i reali migranti contemporanei al confine fra Bielorussia e Polonia, imprigionati in un’apocalisse che sta avvenendo sotto i nostri occhi, rimbalzata ogni dove sui media, e di fronte alla quale siamo miseramente impotenti. Corpi di uomini, donne e bambini attanagliati dal freddo glaciale, in un altro apocalittico nord, costretti a viaggi inenarrabili, bloccati, esclusi, indesiderati, fra le macerie della catastrofe capitalistica. Ma la narrazione de La Sublime Costruzione si chiude con un accento di speranza, nell’immagine di una nuova creatura venuta al mondo, anche se si tratta di un mondo post-apocalittico: «fino all’ultimo dovremo apparecchiarci a un interminabile cammino di speranze. In questo viaggio astruso e senza ritorno, forse mostruoso, ma che immancabilmente dischiuderà la vita e la sua immancabile bellezza».

Che alla fine del viaggio ci sia, se non un’Itaca da raggiungere, almeno uno spazio di nuova vita e di nuova resistenza.


  1. Cfr. M. Bettini, C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino, 2010, p. 58. 

  2. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. it. Einaudi, Torino, 1997, p. 4. 

  3. M. Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, Nottetempo, Milano, 2021, p. 20. 

  4. Cfr. ivi, pp. 20-21. 

  5. G. Panella, Il disastro prossimo venturo. Distopia, apocalisse, fantascienza: tra Saramago e Ballard passando per Cormac McCarthy, in N. Turi (a cura di), Ecosistemi letterari. Luoghi e paesaggi nella finzione novecentesca, Firenze University Press, Firenze, 2016, p. 231. 

  6. Ivi, p. 228. 

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Al bar Pilade, fra bombe e complotti https://www.carmillaonline.com/2021/07/04/al-bar-pilade-fra-bombe-e-complotti/ Sun, 04 Jul 2021 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67001 di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano [...]]]> di Paolo Lago

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma, 2021, pp. 591, € 20,00.

Il bar Pilade di Milano compare nelle prime pagine del Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco: è qui che l’io narrante Casaubon, giovane studente di storia, all’inizio degli anni Settanta, conosce Iacopo Belbo, impiegato alla casa editrice Garamond. A Belbo e a Diotallevi, un altro funzionario della Garamond, Casaubon successivamente racconta la storia dei Templari, su cui si sta laureando. I due si incontrano al «banco di zinco» del bar nel «periodo in cui tutti si davano del tu, gli studenti ai professori e i professori agli studenti. Non parliamo della popolazione di Pilade: “Pagami da bere”, diceva lo studente con l’eschimo al caporedattore del grande quotidiano. Sembrava di essere a Pietroburgo ai tempi del giovane Sklovskij. Tutti Majakovskij e nessun Zivago»1.

L’ambientazione di quello stesso bar Pilade del Pendolo compare nella seconda parte del saggio di Wu Ming 1, La Q di Qomplotto, uscito recentemente per Alegre, intitolata QAnon: filamenti di genoma transatlantico, collected from good authorities. Ho definito come “saggio” l’ultima opera di Wu Ming 1 ma probabilmente devo correggermi: si tratta, infatti, di un UNO, cioè – parafrasando l’acronimo UFO, “Unidentified Flying Object” – di un “Unidentified Narrative Object”, cioè un oggetto narrativo non identificato. L’espressione è stata coniata dallo stesso Wu Ming 1 in un intervento comparso su “Carmilla” nel settembre del 2008 (New Italian Epic 2.0): «gli UNO sono esperimenti dall’esito incerto, malriusciti perché troppo tendenti all’informe, all’indeterminato, al sospeso. Non sono più romanzi, non sono già qualcos’altro». Si tratta in sostanza di una forma ibrida, sorta sulla scia di quella linea multiforme e menippea messa in evidenza da Michail Bachtin soprattutto nel suo saggio su Dostoevskij. Del resto, nella letteratura è già possibile individuare una forma a metà tra romanzo e saggio, il cosiddetto “metaromanzo”, cioè un romanzo che riflette su stesso e sulle sue forme, individuabile già a partire da La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo (The Life and Opinions of Tristram Shandy Gentleman, 1759-1767) di Laurence Sterne fino a Petrolio (1992) di Pier Paolo Pasolini.

Però, gli UNO si pongono anche al di là del metaromanzo: sono, come accennato, forme ibride, composte da reportage giornalistici, stralci narrativi, poesie, prose poetiche, il tutto combinato insieme per mezzo di svariati stili secondo la tecnica del pastiche. Insomma, il bar Pilade è l’ambientazione dell’ultima parte di La Q di Qomplotto il quale, per il solo fatto di riallacciarsi ad una precedente opera come Il pendolo di Foucault assume delle caratteristiche peculiari. L’autore (che si trasforma in personaggio e narratore) fa un sogno («Fu quella notte che feci il sogno»: così si conclude la prima parte del libro, quasi in una citazione dell’incipit del romanzo di Eco, «Fu allora che vidi il pendolo») e si trova proiettato in una dimensione a metà fra gli anni Settanta e il gennaio 2021 («Un 2021 parallelo, dove i bar erano aperti e nessuno portava la mascherina», QdQ, p. 395). È qui che, novello Casaubon, l’autore-personaggio racconta a Belbo e Diotallevi, gli editori del Pendolo, storie di complotti italiani, poi messi a nudo. L’andamento saggistico del libro, prevalente nella prima parte, assume perciò un aspetto narrativo: il saggio si trasforma in romanzo pur non perdendo il suo aspetto saggistico, il quale viene adesso intervallato da piccole scenette che avvengono all’interno del bar dove, ad ascoltare la storia, si trovano anche alcune giovani studentesse. Mentre l’autore racconta, preso dal suo narrativo impeto onirico, alcune esplosioni fanno tremare i tavolini e il bancone del bar, perché – come afferma Belbo – «sono anni di bombe, quelli che viviamo» (QdQ, p. 533).

L’operazione realizzata da Wu Ming 1 a partire dal romanzo di Eco rientra all’interno delle pratiche ipertestuali analizzate da Gérard Genette in Palinsesti (uno studio sulla «letteratura al secondo grado»), e potrebbe essere definita come una «amplificazione» del Pendolo di Foucault, cioè una vera e propria espansione narrativa. Lo scrittore, infatti, aggiunge delle situazioni narrative non presenti nell’opera originaria creando anche un nuovo personaggio, Valentina Belbo, la giovane cugina di Iacopo. Del resto, La Q di Qomplotto è costruita come un’opera intertestuale e incline al pastiche (inteso come pratica ‘imitativa’), un mastodontico contenitore che include innumerevoli riferimenti alla cultura, alla società e alla politica. La parte finale della prima parte, a partire dal capitolo 22, significativamente intitolato La virulenza illustrata, è scritta con uno stile che rimanda esplicitamente a Nanni Balestrini (lo stesso titolo del capitolo è ricalcato su quello del romanzo di Balestrini, La violenza illustrata, del 1976): la narrazione si velocizza in uno stile rapido e dal taglio giornalistico mentre scompare praticamente del tutto la punteggiatura. Ma è indubbiamente Il pendolo di Foucault «il libro delle metastasi» (così è intitolato il capitolo 4), un’opera che Wu Ming 1 ha tenuto costantemente presente nella stesura del suo lavoro:

Il pendolo di Foucault era tante cose: un romanzo di formazione (e deformazione), un’enciclopedia esoterica impazzita, una testimonianza sull’industria culturale italiana nel passaggio tra anni Settanta e Ottanta, e soprattutto una riflessione sulle fantasie di complotto: come nascevano, come si sviluppavano, come parlarne. Riflessione molto più comprensibile trent’anni dopo, nel passaggio tra gli anni Dieci e Venti del nuovo secolo. Eco aveva raccontato – senza mai voler essere “futuribile” – il mondo in cui mi trovavo ora, mentre facevo inchiesta su QAnon e dintorni (QdQ, p. 70).

A partire dal romanzo di Eco l’autore arriva fino a «QAnon e dintorni» per dimostrare come «le fantasie di complotto difendono il sistema». Sotto il nome di QAnon si indica una teoria del complotto di estrema destra, sorta negli Stati Uniti, secondo la quale esisterebbe una sorta di deep state che trama contro l’ex presidente Donald Trump per scardinare l’ordine mondiale, colluso con reti di pedofilia e misteriose pratiche ebraiche. Secondo Wu Ming 1, le principali definizioni da applicare a QAnon sono cinque:

1. un gioco di realtà alternativa divenuto mostruoso;
2. un modello di business;
3. una setta che praticava forme di condizionamento mentale;
4. un movimento reazionario di massa che cercava di entrare nelle istituzioni;
5. una rete terroristica in potenza (QdQ, p. 21).

La teoria del complotto difende il sistema perché quest’ultimo viene additato come la vittima di un ipotetico e inesistente deep state: «Nella propaganda di QAnon il potere occulto era la megalobby satanista e pedofila che controllava il deep state, e il contropotere rivoluzionario era la Casa bianca di Trump. Nella propaganda nazista, che forniva il precedente più ovvio, il potere occulto era l’internazionale giudaica e il contropotere rivoluzionario era il regime di Hitler» (QdQ, p. 52). Infatti, «chi credeva a fantasie di complotto tendeva ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche» (QdQ, p. 163). E la violenza è una delle pratiche adottate per difendere il sistema: l’autore passa in rassegna gli omicidi targati QAnon nonché il tentativo di strage messo in atto da Maddison, un giovane della North Carolina che, nel dicembre del 2016, armato, si era recato a Washington D.C. per punire i perversi pedofili del Comet Ping Pong, un locale nei cui sotterranei, secondo la vulgata complottista, sarebbe stato schiavizzato e violentato un numero indefinibile di bambini.

L’autore, in modo abile, pone sotto la sua lente diverse narrazioni di complotto che si sono instillate nelle menti delle persone, a partire dalla caccia alle streghe di Salem fino alla teoria della sostituzione etnica e ai Protocolli dei Savi di Sion, passando attraverso le idee che consideravano l’allunaggio una messa in scena o quelle sulla ipotetica morte di Paul McCartney nonché sui retroscena esoterici delle canzoni dei Beatles. Il suo intento – ben riuscito e ben calibrato – è quello di un debunking, cioè di uno smascheramento delle fake news e delle narrazioni tossiche. Per arrivare, dagli Stati Uniti, fino in Italia. E allora, una serie di capitoli intitolati In viro veritas? analizza in modo sottile la narrazione virocentrica che si è sviluppata nel nostro paese a partire dall’emergenza Covid, nel marzo 2020. Una narrazione dominante che ha attraversato e continua ad attraversare le coscienze degli individui: come lo stesso collettivo Wu Ming (a cui appartiene l’autore di La Q di Qomplotto) ha evidenziato in una serie di lucidi articoli apparsi sul blog «Giap» nel periodo dell’emergenza (fra i pochi che, in quello stesso periodo, valeva la pena leggere), invece di dare la colpa dell’insorgenza del virus a un sistema capitalistico malato che commercia carne su larga scala, deforesta, crea ovunque industrie tossiche, si tendeva, appunto «ad accusare piccoli gruppi di cattivi anziché cercare cause sistemiche». Ecco allora la famigerata colpevolizzazione del cittadino, rilevata in modo lucido anche dal sociologo Andrea Miconi nel suo saggio Epidemie e controllo sociale (qui la recensione su “Carmilla”): la colpevolizzazione di chi esce senza motivo, dei runner, di chi non porta la mascherina all’aperto e via di seguito. Una narrazione dominante scaturita dall’emergenza pandemica perché, come nota Wu Ming 1 per mezzo di una efficace metafora, quella stessa emergenza «esasperava tutte le tendenze che andavo descrivendo, stagliandole contro una luce violentissima, una lampada da terzo grado puntata in faccia al mondo» (QdQ, p. 301).

Infine, nella già citata seconda parte del suo saggio che, sub specie narrationis, si ambienta al bar Pilade, lo scrittore analizza i «filamenti di genoma transatlantico di QAnon», dalla caccia alle streghe al «revival di Satana», attraversando e scandagliando gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Fino agli anni Novanta, per rivolgere la sua attenzione ancora all’Italia e al caso “Bambini di Satana”, quando nel 1996 viene arrestato a Bologna Marco Dimitri insieme ad altri esponenti dell’associazione «Bambini di Satana». Un’associazione culturale vicina alla sinistra antagonista che – è bene precisarlo – non ha niente a che fare col Maligno o l’Anticristo: «Per “satanismo”, Dimitri e soci non intendono una versione capovolta del cristianesimo ma una miscela di neopaganesimo, panteismo, libertinismo, anarchismo… I numi tutelari vanno da Aleister Crowley ad Arthur Rimbaud» (QdQ, pp. 515-516). Le accuse nei loro confronti sono svariate «e cambieranno di continuo, in un proliferare di fattispecie di reato: violenza sui minori, violazione di sepolcro, profanazione di cadavere…» (QdQ, p. 515). Stupri, rapimenti, bambini infilati nelle tombe, messe nere nei cimiteri della Bassa ma nessuno che si sia mai accorto di nulla. Nessuno si è mai accorto di nulla semplicemente perché non c’è stato niente di tutto questo, come non esisteva nessun sotterraneo al Comet Ping Pong. Lo stesso autore, insieme ad altri del collettivo Wu Ming, allora Luther Blisset Project, ha svolto all’epoca una controinchiesta per smascherare questa ridda di accuse, montate da diversi quotidiani e soprattutto da Il Resto del Carlino. La controinchiesta di Luther Blisset, come molte delle sue iniziative, ha una sottile origine letteraria, modellata sull’inchiesta realizzata dall’investigatore Dupin in Il mistero di Marie Rogêt di Edgar Allan Poe: nel racconto, Poe riflette su come la cronaca ha raccontato l’omicidio di Marie Cecilia Rogers, avvenuto a New York nel 1841, ricostruendo le incongruenze, giustapponendole e facendole giocare l’una contro l’altra. Così, «a partire dal settembre del 1996, semplicemente facendo le pulci al Carlino, esponiamo le aporie del teorema giudiziario, critichiamo la linea della procura e mostriamo le dinamiche della mostrificazione a mezzo stampa» (QdQ, p. 531). Alla fine, anche grazie a questa controinchiesta, le coscienze si smuovono, si creano delle brecce nella narrazione dominante e alla fine Dimitri (che si era fatto 400 giorni di carcere, molti dei quali in isolamento) e gli altri vengono assolti. Si è creata una breccia nel «satanic panic», in quel credere ciecamente nell’esistenza di una setta di satanisti pedofili che gode di protezione in alto e di cui fanno parte anche uomini di potere, già preesistente in Europa e in Italia prima di QAnon. Perché, come leggiamo in un articolo a firma Wu Ming uscito su «Giap», dal titolo Sulla morte di Marco Dimitri (13 febbraio 1963-13 febbraio 2021), «non sono “americanate”. Quella merda l’abbiamo inventata noi». E a Marco Dimitri (scomparso nel febbraio di quest’anno), che si era avvicinato al Luther Blisset Project e alla Wu Ming Foundation, è affettuosamente dedicato La Q di Qomplotto.

Ma non è finita qui: le ultime pagine del libro ci narrano, nell’ormai silenzioso e notturno bar Pilade, altre vicende di «satanic panic» nella bassa padana, accuse di pedofilia e presunto satanismo in quella che sembra ormai diventata – come suonava il titolo di una canzone dei CCCP – una vera e propria «Emilia paranoica». Ma la penna, la voce e la narrazione dell’autore continuano instancabili in una lucida opera di debunking, di smascheramento, nella volontà e convinzione di proferire una verità critica, quasi come un antico parresiastes. Infatti, come afferma Michel Foucault, la funzione della parresia (dire la verità a costo di un rischio) nella Grecia antica «non è di dimostrare la verità a qualcun altro, ma quella di esercitare una critica»2. Ed è una vera e propria critica in nome della lucidità di pensiero quella portata avanti dallo scrittore in tutte le cinquecentonovantuno pagine del suo libro, per smascherare paure e superstizioni, quelle narrazioni dominanti che si fanno largo fra bombe e complotti, per «creare un immaginario liberatorio e alternativo contro un immaginario tossico»3, fino agli ultimi lembi narrativi che si srotolano in quell’onirico e stupendo bar notturno.


  1. U. Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano, 1994, p. 71 

  2. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 2005, p. 8 

  3. Come si è efficacemente espresso Alberto Prunetti in occasione di una recente presentazione del libro alla “Corte dei Miracoli” a Siena, insieme all’autore. 

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Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

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Un palcoscenico per l’Americano Maledetto (II) https://www.carmillaonline.com/2019/10/03/un-palcoscenico-per-lamericano-maledetto-ii/ Thu, 03 Oct 2019 21:18:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55110 di Franco Pezzini   

[Il 7 ottobre si commemora il 170° anno dalla morte di Edgar Allan Poe, 1849: questa la seconda puntata di un esame panoramico sulla sua opera. Nella prima, cui si rinvia, si esaminavano tra l’altro le prime fasi della produzione di Poe, cioè 1. delle sperimentazioni (dall’inizio fino a Ligeia) e 2. dei grandi affreschi fantastici.

Il 4 ottobre riprende a Torino anche il corso libero e gratuito Tutto Poe alla Libera Università dell’Immaginario, con la quarta stagione sugli ultimi anni dell’autore americano.

Qui a lato un [...]]]> di Franco Pezzini   

[Il 7 ottobre si commemora il 170° anno dalla morte di Edgar Allan Poe, 1849: questa la seconda puntata di un esame panoramico sulla sua opera. Nella prima, cui si rinvia, si esaminavano tra l’altro le prime fasi della produzione di Poe, cioè 1. delle sperimentazioni (dall’inizio fino a Ligeia) e 2. dei grandi affreschi fantastici.

Il 4 ottobre riprende a Torino anche il corso libero e gratuito Tutto Poe alla Libera Università dell’Immaginario, con la quarta stagione sugli ultimi anni dell’autore americano.

Qui a lato un ritratto di Poe di Elisa Lo Presti, Red Right Hand workshop, 2017, coll. priv.]

 

3. Dopo The Pit and the Pendulum, 1842-43 si apre una terza fase, che arriva fino alla morte di Poe: una stagione produttiva che presenta caratteri abbastanza diversi – pur senza cesure assolute – e che potremmo definire dei capolavori del delirio. Il fantastico non viene abbandonato ma incanalato in specifici filoni oppure ricondotto a un tipo visionario di linguaggio più che di contenuto: le storie parlano ora di sperimentazioni mesmeriche, di ossessioni criminali, di pulsioni misteriose della realtà-uomo. Se un po’ sempre i personaggi di Poe hanno flirtato con lo squilibrio e con il delirio, ora questo aspetto è posto in primo piano. Emblematico un testo come The System of Doctor Tarr and Professor Fether, dove folli e sani di mente si sono scambiati i ruoli.

In chiave protothriller, questa è la stagione dei racconti sul genio della perversione (The Tell-Tale Heart, The Black Cat, The Imp of the Perverse) e sul nesso tra delitto & vendetta (The Cask of Amontillado, Hop-Frog). Continua anche la produzione poliziesca già avviata con un secondo sequel alle avventure di Dupin, The Purloined Letter, e un racconto che salda beffardamente gioco macabro e indagine di giustizia, Thou Art the Man; mentre il tema delle cifrature da sciogliere raggiunge la sua più trionfale espressione in chiave narrativa con The Gold-Bug. Per Poe, che conduce una sua guerra personale contro i romanticismi d’accatto, il richiamarsi ai fasti dell’intelletto e all’orgoglio della razionalità ha però anche sempre una dimensione di spettacolo: emblematico è l’istrionismo di Dupin nello snocciolare la ricostruzione della verità e le meraviglie del raziocinio.

Quale che sia il sapore del testo, il cadavere ne è spesso il focus: ora un cadavere in qualche modo “attivo” (Thou Art the Man, Some Words with a Mummy, The Facts in the Case of M. Valdemar), ora passivo ma dotato di un peso fatale (The Oblong Box), ora un cadavere – potremmo dire – solo virtuale (il tema del sepolto vivo, già documentato nel primo periodo con Loss of Breath e Berenice e nel secondo con House of Usher, torna ora in The Premature Burial).

Il fantastico è del resto ricondotto al nesso tra fisicità e mente, come nei racconti mesmerici (A Tale of the Ragged Mountains, Mesmeric Revelation, The Facts in the Case of M. Valdemar), che mostrano l’interesse almeno narrativo di Poe per filoni di speculazione in senso lato esoterici. Mentre il tema della donna che torna è elaborato ancora più alla lontana nel citato The Oblong Box e nel celeberrimo poema narrativo The Raven.

In vari casi, a essere pervertita, spingendo a una percezione falsata della realtà, è la visione oppure la conoscenza. Poe è sempre stato affascinato dal tema dello scarto tra realtà autentica e solo immaginata, scarto motivato da cause diverse (truffa, inganno per beffa, imperfetta percezione, svista…): e ciò emerge ora in una serie di racconti dal sapore comico o almeno ironico. Diddling riguarda appunto il tema della truffa, The Spectacles evoca i rischi di corteggiare una donna senza occhiali se non si vede bene, The Sphinx (che pur ripropone il tema dell’epidemia) spalanca visioni da incubo che si riveleranno alla fine tutt’altro. Sul tema dello scarto beffardo dalla conoscenza di un’epoca sono poi gli unici racconti esoticheggianti di questa fase, The Thousand-and-Second Tale of Scheherazade e Some Words with a Mummy. In chiave di beffa “scientifica” con toni da commedia troviamo poi Von Kempelen and His Discovery.

Va detto che, per quanto non manchino racconti umoristici piuttosto surreali (The Angel of the Odd, The Literary Life of Thingum Bob, Esq., X-ing a Paragrab e altri dei racconti già citati) l’autore ha in genere abbandonato le tipologie burattinesche dei periodi precedenti.

Per contro, rilevante è lo spazio offerto alla dimensione scientifica: abbandonate anche le saghe esplorative di terra e di mare, ad affascinare è ancora il cielo – sia pure in chiave di sberleffo – con The Balloon-Hoax e Mellonta tauta. E in quel testo particolarissimo che è Eureka: A Prose Poem, Poe sviluppa in chiave cosmologica spunti solo accennati nei periodi precedenti. Non manca un ultimo dialogo filosofico tra spiriti disincarnati, The Power of Words, che discute il tema della creazione dell’universo.

Anche il tema della bellezza è affrontato piuttosto in chiave filosofica o almeno riflessiva (The Domain of Arnheim, Landor’s Cottage, l’articolo Morning on the Wissahiccon).

Se poi Poe ha per tutta la vita riflettuto sulla scrittura, e osservazioni interessanti emergono nei testi più vari (si pensi a How to Write a Blackwood Article, beffardo ma rivelativo di meccanismi “a effetto” usati dallo stesso autore), di particolare rilievo sono in questo periodo The Rationale of Verse, The Poetic Principle e soprattutto quell’opera-chiave che è The Philosophy of Composition.

Resta misteriosissimo The Light-House, lasciato incompleto e di cui è impossibile capire come (e se) l’autore prevedesse di continuarlo. Ma più in generale, è impossibile immaginare dove Poe si sarebbe spinto con la sua fantasia se la salute l’avesse assistito. Personalmente tendo a credere che avrebbe fatto tesoro in chiave fantastica e magari di beffa del boom crescente dello spiritualismo, preludendo forse al tipo di storie poi prodotte da un altro americano dark, Ambrose Bierce (1842-1914?).

 

3. Ossessioni e strutture narrative

Quanto detto costituisce naturalmente solo un abbozzo di panoramica e in nessun modo può intendersi quale griglia analitica: i fili che collegano i singoli testi sono infiniti, e il singolo tema può passare dall’avventura al macabro alla commedia lieve in successive declinazioni. Non è insomma particolarmente utile “classificare” i racconti – le connessioni tra gruppi restano troppo strette, le partizioni troppo ampie – quanto piuttosto rimarcare richiami ricorrenti o grumi di suggestioni. Proprio la lettura in ordine cronologico permette di rilevare più agevolmente tali nessi: e il lettore attento può cogliere affinità tra racconti di tipo diverso.

Qualunque scrittore presenta temi forti, che tornano con frequenza significativa: in questo senso Poe non è certo il solo a rivisitare gli stessi motivi e provocazioni declinandoli in versioni svariate. Una certa maschera della vulgata, quella dell’Americano Maledetto vittima di demoni interiori e di vizi degradanti, conduce a considerare alcuni di questi soggetti continuamente richiamati come vere e proprie ossessioni: si pensi alla donna che torna o al seppellimento da vivo. È naturalmente possibile che dimensioni ossessive possano individuarsi, ma occorre sempre una certa cautela nell’interpretare testi letterari costruiti in realtà con lucida consapevolezza.

Certo, il discorso della donna che muore e che spesso torna (ma potremmo dire che torna sempre, sul piano letterario), e la stessa natura insistitamente passiva di buona parte delle figure femminili potrebbero collegarsi a un quadro di fantasmi interiori segnato dalla troppo precoce perdita della madre: qualcosa che conduce da un lato all’angelizzazione (le figure femminili di Poe non mostrano mai connotazioni erotiche) e dall’altro all’affiorare di tendenze sadiche/punitive verso la donna che lo abbandona. Anche se poi è vero che non si tratta di un mero teatro interiore, da esaurire a colpi di psicanalisi. È un dato di fatto, realistico e storico, che i suoi testi fotografino un mondo durissimo, quello americano ottocentesco, dove soggetti fragili come le dame soavi di racconti e poesie soccombono più facilmente e precocemente, falciate dalla consunzione. E d’altro canto si tratta anche (Poe stesso lo ammetterà) di figure del pathos letterario, di topoi del patetico che gli permettono di veicolare lucidamente una serie di effetti narrativi e di temi cari – identità & individuazione, eccetera.

Si pensi anche, per esempio, al tema del grande fuoco che emerge con maggiore o minor enfasi lungo tutto l’arco della sua produzione (idealmente dal primo racconto Metzengerstein del 1932 a uno degli ultimi, Hop-Frog del 1949). Un’immagine che certo potrebbe legarsi con potenza di simbolo al già citato rogo del teatro di Richmond associato – sia pure indirettamente – alla morte della madre, e dunque evocare qualcosa di più profondo di una mera invenzione narrativa ad effetto. Anche se (di nuovo) va detto che negli Stati Uniti del tempo, dove moltissimo è costruito in legno, quella degli incendi devastatori risulta una dimensione ben più quotidiana di quanto noi possiamo percepire… E così via.

Allo stesso modo, il suo istrionismo – palese nei modi teatrali delle voci narranti, ma in fondo anche nei toni di altri tipi di testi – potrebbe rivelare tratti isterici; e almeno sembra di ravvisarvi un desiderio spasmodico dell’attenzione altrui. Forse di essere amato? Ma se è vero che su Poe abbiamo una ricchissima documentazione, a indagini puntuali sulla sua interiorità osta il mistero riguardante alcune dimensioni fondamentali, in particolare i rapporti concreti con figure basilari della sua vita: si pensi solo alla relazione misteriosa e molto discussa tra Edgar e sua moglie Virginia Eliza Clemm (1822-1847), sua cugina prima, sposata tredicenne quando Edgar ha già ventisette anni. Cosciente su quanto i testi di Poe abbiano rappresentato un intrigante terreno d’indagine sia per riflessioni psicanalitiche serie – a partire in fondo da quelle datate ma affascinanti di Marie Bonaparte – sia per intere palestre di psicologismi da rotocalco, lascio volontariamente questo fronte a lettori con competenze specifiche.

Dove invece ci si può muovere in modo un po’ più agevole è sul piano delle strutture narrative: ed è forse possibile distinguere tre tipologie.

a) Anzitutto, a fronte del panorama generale dell’opera di Poe, non sembra scorretto parlare di vere e proprie strutture mitiche e di mitopoiesi nell’indicare quelle costellazioni forti – pensiamo appunto alla donna che torna, al Doppio, al palazzo in rovina, al Grande Contagio, al seppellimento da vivi, alla reincarnazione, ai misteri mesmerici – che Poe consegna come un lascito perenne all’immaginario. Interessante è vedere per esempio l’uso che ne farà il cinema, con caratteri che richiamano proprio alla plasticità del mito. Lo stesso tema vampirico, in Poe sviluppato in forme liberissime dai tradizionali canoni del gotico, emerge come chiave mitica generale: le giovani morte de The Oval Portrait e The Oblong Box subiscono o esercitano vampirismi passivi piuttosto simili a quello delle non-morte Berenice, Ligeia, Morella e una sorta di vampirismo – come detto – è anche quello di The Man of the Crowd.

Tali strutture si agganciano e si innervano una con l’altra. Si pensi alle dinamiche tra personaggi, come nel continuo riproporre tre figure-base: anzitutto la donna del rimpianto/ritorno, sorella di sangue o di adozione, unita in sponsali castissimi e privi di eros; e due figure maschili, a loro volta in rapporto di doppio/rifrazione – come eminentemente espresso in William Wilson, dove la scissione si consuma a partire da una scuola labirintica a immagine di una tortuosa interiorità affondata nell’infanzia. Ma si pensi anche a The Man of the Crowd con il rapporto tra narrante e inseguito, entrambi alla deriva della propria eccitazione; o a The Tell-Tale Heart, dove all’occhio velato della vittima corrisponde la lanterna cieca dell’assassino, e i rispettivi battiti cardiaci si echeggiano l’un l’altro. Emblematico è poi The Sphinx, sorta di Decameron liofilizzato in una novella, dove sullo sfondo dell’epidemia a New York i due uomini che dividono il rifugio sono a ben vedere due volti dello stesso Poe – e se a narrare è quello più tormentato, la chiave beffarda e la dissoluzione dell’incubo sono fornite dall’altro, il razionalista. Anche in The Gold-Bug, il Legrand sospettato di sragione dall’amico narratore, e in effetti invaso da una qualche febbre interiore, è in realtà il fine analista: e su questa linea troviamo in Dupin il protomodello dell’investigatore seriale bizzarro, avo di infiniti cultori di cocaina e orchidee alle prese con una “spalla”, suo doppio opaco. Se poi le figure-base appaiono solitamente a due a due, in un caso eclatante, The Fall of the House of Usher, le troviamo in scena tutte e tre: e come al ritmo di quei carillon con figurine che la rotazione tende a fondere e confondere – magari in uno dei tanti orologi dei racconti di Poe –, ecco che in fondo riecheggiano sempre lo stesso dramma.

b) Altri temi ritornano invece in forme più frantumate, e possiamo parlare semplicemente di topoi. Pensiamo a tutti i racconti giocati sul tema dell’imperfetta percezione della realtà, ma in realtà per motivi diversi, dalla truffa alla svista all’equivoco alla sostituzione alla superstizione: casi troppo vari per permettere di ricondurli a un’unica struttura mitica, anche se si colgono forti affinità. Ma pensiamo anche, in termini più contenuti, a certe singole provocazioni tematiche. La scimmia può essere proiezione umana in chiave di teatrale orrore: si pensi alla Rue Morgue col suo finto uomo e a Hop-Frog coi suoi finti oranghi, quasi scaturiti da un incubo di Dupin. Il tema dell’idillio appartato svela ora natura d’incanto ora dimensioni asfittiche. Mentre un’intera serie di testi evoca la costellazione tempo/orologi/pendolo conducendo in direzioni piuttosto varie.

Un discorso a parte può valere poi sul tema ricorrente delle confessioni di omicidi, alcuni impuniti (The Cask of Amontillado, Hop-Frog) e altri smascherati e in attesa della morte (The Black Cat, The Imp of the Perverse, Thou Art the Man): un itinerario che sembra rigirare come un guanto le diffusissime gazzette popolari d’epoca, concentrate sul dato molto esteriore della truculenza dei crimini. Mentre è dai bassifondi dell’anima che, interpellando filosofi e frenologi ma non fermandosi ai loro assunti, Poe offre i suoi reportage: e se a volte il movente è la vendetta (circonfusa magari di mitologica potenza ma insieme – ecco il giornalista – raccordata al meschino orizzonte delle infezioni dello spirito), a trascinare sono altrove altre cause. Tra le quali quel citato genio della perversione che induce al precipizio interiore, facendo compiere il male per la coscienza che è tale, e per contro inseguendo i rei a vomitare confessioni non volute. Certo in questi abissi c’è l’America puritana, che irrompe inesorabile attraverso le violazioni delle sue leggi morali; ma la denuncia prefreudiana di una vertigine di colpa connessa a qualche forma di degradata ribellione alla legge dei Patriarchi, e tale da mischiare cause ed effetti in un’unica tortura dell’anima, scardina nell’onirico le tradizionali categorie di peccato e gli stessi timori di un inferno oltremondano. Basta in fondo, sembra dire Poe, quello che abbiamo dentro.

E connessioni e continui ritorni investono i personaggi. Molti dei quali conoscono stati di coscienza alterati, eccitazioni più o meno morbose, derive dei nervi o vere patologie mentali: condizioni frutto di peculiarità ereditarie (il legato familiare di sensibilità e fantasia febbrile che torna in parecchi racconti), contingenze metaboliche (l’eccitazione da convalescenza del narratore di The Man of the Crowd) o speciali situazioni emotive (L’ombra), ma altrove causate o almeno agevolate dal ricorso a oppio o sostanze eccitanti. Come l’abuso di tè verde (ben prima di Le Fanu: The Oblong Box); e soprattutto di quel vino che porta alla degradazione (The Black Cat), permette la vendetta (The Cask of Amontillado) o la suscita (Hop-Frog), oppure conduce alla nemesi (Thou Art the Man). Con l’esito più eclatante in King Pest, trasfigurazione alcoolica, grottesca e onirica, dell’incalzare di un Contagio assurto a topos e categoria interiore: dove il narratore è fin dall’inizio partecipe della deformazione visiva che l’etile reca ai protagonisti, descritti in termini non meno paradossali dei mascheroni della corte di Re Peste.

Ma il reticolo di connessioni è strettissimo: e rammentando Hop-Frog, è curioso notare che in Thou Art the Man, tra i presunti mittenti della fatale cassa di vino c’è un Frogs, e che il cadavere accusatore “salta” (to hop) fuori inatteso. Tutto un tessuto insomma di connessioni talora evidenti, ma altrove più sotterranee e giocate in chiave di sghemba allusione.

c) Però c’è un’altra tipologia che mi pare interessante, quella che potremmo chiamare delle forme. Alcune strutture visive, vorrei dire geometriche, evocate nei racconti tendono infatti a proporsi in declinazioni diverse di testo in testo. Per esempio la cassa è una struttura chiusa dal contenuto misterioso che può anche essere un corpo: appare in opere diverse, ha una funzione molto materiale e di servizio, difficile parlare di un topos, eppure la sua forma squadrata torna di frequente. Ma c’è un altro caso, anche più eclatante: la costellazione pozzi/fori circolari/gorghi i cui esempi emergono in testi importanti a suggerire i temi dell’abisso, del vortice, della voragine agli estremi polari del mondo… e così via.

 

4. Tra cortine e sipario

Si è citato il gotico, ed è affascinante notare come Poi lo reinventi radicalmente in un mix originalissimo con il fantastico grottesco alla Hoffmann, con il lascito degli autori neri americani (Brockden Brown, certo Washington Irving) e gli sviluppi neri del romanticismo coevo inglese (Bulwer-Lytton). Finisce così col porsi quale essenziale trait d’union tra l’epoca del primo gotico (quello che corre da The Castle of Otranto di Horace Walpole, 1764, a Melmoth the Wanderer di Charles Maturin, 1820 e alla versione definitiva del Frankenstein di Mary Shelley, 1831: Metzengerstein è del 1832) e la seconda ondata del genere. Cioè l’ondata che parte a metà anni Quaranta, e riceverà spinta da vari fattori, dal successo inglese dei penny dreadful grazie alle nuove rotative a vapore, al botto della nascita dello spiritismo “classico” col caso americanissimo delle sorelle Fox, 1848 (poco più di un anno prima della morte di Poe), a vari altri: e proprio la produzione del Nostro avrà un peso determinante nell’innescarla.

Tuttavia, come detto, soffermarsi troppo sul taglio al nero avalla l’equivoco di esaurirvi un autore ben più ricco. Se è vero che i suoi racconti macabri ne restituiscono la voce più nota e amata dal pubblico, e insieme forse più rispondente a certe crisi interiori, il rischio è di confondere Poe coi suoi personaggi: di dimenticare cioè lo scarto lucidamente corteggiato da uno scrittore smaliziatissimo tra vita interiore e produzione letteraria. Emblematico è il saggio The Philosophy of Composition sulla genesi di The Raven: opera che certo denuncia per l’ennesima volta un rimpianto-vampiro dalle emersioni perturbanti e psichicamente devastatrici, ma anche l’uso che egli sa trarne razionalmente, inseguendo i lettori nelle loro emozioni e malinconie.

Significativo del resto il richiamo alla cifra del grottesco e arabesco da Poe stesso richiamata nel noto titolo della prima raccolta: quel lavoro di cesello da artista controllatissimo, profondamente letterario, che non si esaurisce nel travaso di angosce, e insieme un senso di spiazzamento che corteggia insieme macabro e ironia. A rammentare tra l’altro come pochi altri autori “neri” offrano un corpo tanto significativo di racconti ironici, sarcastici o decisamente comici – a volte macabri, a volte no.

Figlio di attori (è questa la fantasia ereditaria indicata in varie opere come matrice di irrequieta e febbrile visionarietà?), Poe offre nei racconti ideali monologhi teatrali: e se l’attenzione che il cinema gli tributerà guarda ovviamente, in prima battuta, al contenuto fantastico e nero, è pur vero che sceneggiature in sé non troppo fedeli possono ricondurre alla fonte attraverso lo stile d’interpretazione – capace di proclamare le ragioni della Notte con l’elegante teatralità dei soliloqui di Poe. Le cupe cortine dei suoi letti a baldacchino tirate a svelare epifanie della morte, le tappezzerie illusionisticamente arabescate mosse da fremiti spettrali e gli arazzi da cui si staccano figure allarmanti svelano tutti, in qualche modo, i caratteri del sipario. E insomma la contestazione da “puristi” sul frequente, presunto tradimento di Poe su grande schermo – si pensi alle libere versioni di Roger Corman con l’immenso Vincent Price – può essere confutata alla luce di questa vocazione degli scritti virtualmente teatrale, spesso istrionica, gigionesca, tale da far riconoscere a certe pellicole popolari una maliziosa fedeltà allo spirito se non alla lettera di Poe.

Certo, la scrittura può essere quella con cui l’invitato di The Fall of the House of Usher tenta vanamente d’intrattenere l’ospite Roderick nella notte della tragedia: un placebo – ci provoca Poe – non molto diverso dagli oppiacei o dall’etile. In The Oval Portrait l’arte svela addirittura una dimensione vampirizzante. La scrittura può essere tante cose, e nelle pagine di Poe troviamo libere fantasie e polemiche puntuali, provocazioni e pose, ansie di gloria letteraria e genuini rovelli interiori – e poco importa che siano portati in scena dall’attore Edgar che cambia continuamente maschera e non ci permette realmente di vederlo dietro. Da qualche parte di queste confessioni avvertiamo una verità profonda, legata a un vissuto pesante e agli abissi di un inconscio con cui certe epopee di nicchie sotterranee e sepolti vivi potrebbero avere a che fare: qualcosa che ci sfida a capire ma cogliamo solo e sempre in modo incompleto, venato di dubbi. Come i suoi successori (si pensi a Lovecraft, cui viene spesso paragonato) e predecessori nel linguaggio fantastico, Poe non può essere confinato nel caso clinico, nel limbo di uno strano e neppure nelle logiche di immediata appetibilità dell’odierno pubblico pop – non sempre intenzionato a lasciarsi sfidare dalla complessità. Se l’uomo è un libro maledetto che non si lascia leggere, la condivisione donata di sofferenze e glorie attraverso il tempo ha piuttosto il nome di letteratura.

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Un palcoscenico per l’Americano Maledetto (I) https://www.carmillaonline.com/2019/09/28/un-palcoscenico-per-lamericano-maledetto-i/ Sat, 28 Sep 2019 21:16:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55016 di Franco Pezzini   

[La presente relazione è stata presentata sabato 28 settembre al convegno Incubi, crimini e antiche paure. Il mondo di Edgar Allan Poe (1809-1849) organizzato a Torino da Rue Morgue, neonato Centro Studi su arte e criminologia, per il 170° anno dalla morte dello scrittore americano.]

1. Premessa. Rileggere Poe

Tutti conoscono Edgar Allan Poe (1809-1849). E non solo in questa sede: l’Americano Maledetto – come qualcuno lo chiamerà con un’enfasi teatrale che non gli sarebbe spiaciuta – ha cambiato il nostro modo di sognare. Primo tra i [...]]]> di Franco Pezzini   

[La presente relazione è stata presentata sabato 28 settembre al convegno Incubi, crimini e antiche paure. Il mondo di Edgar Allan Poe (1809-1849) organizzato a Torino da Rue Morgue, neonato Centro Studi su arte e criminologia, per il 170° anno dalla morte dello scrittore americano.]

1. Premessa. Rileggere Poe

Tutti conoscono Edgar Allan Poe (1809-1849). E non solo in questa sede: l’Americano Maledetto – come qualcuno lo chiamerà con un’enfasi teatrale che non gli sarebbe spiaciuta – ha cambiato il nostro modo di sognare. Primo tra i gotici – o più o meno tali – ad aprirsi la strada persino tra le letture scolastiche della sospettosissima Italia (hai visto mai che gli autori gotici portino i ragazzi sulla brutta strada), Poe è un evergreen editoriale, continuamente ristampato. E, badiamo bene, non è banale che continui senza interruzioni a essere proposto ai lettori italiani – e in sostanza a vendere: possiamo persino prenderlo come un segno di speranza. La scrittura elegante di un autore (non dimentichiamolo) della prima metà dell’Ottocento non è avvertita come pregiudizialmente ostica, e permette per esempio l’adozione in scuole di vario livello tra i testi consigliati; le domande sulla Vita e le conturbanti epifanie della Morte presenti nelle sue pagine costringono a meditare sull’intensa verità interiore della letteratura (cosiddetta) fantastica; le sue intuizioni sull’inconscio e su un genio della perversione che interpella insieme san Paolo e Freud incalzano il lettore nelle più scomode zone d’ombra. Pare sia addirittura, tra gli scrittori moderni, quello più frequentemente illustrato. Insomma una celebrità. Eppure…

Eppure questa conoscenza sfuma nel luogo comune. Le raccolte di suoi testi sono in genere miscellanee non strutturate in ordine cronologico, ma con racconti dispersi in un unico minestrone secondo il gusto del curatore del momento: quasi impossibile per il lettore cogliere il senso di un’evoluzione nella scelta dei soggetti e nello stile, le fasi tematiche (pur senza pretese d’individuarvi rigide cesure), magari i percorsi carsici dello stesso tema tra novelle serissime o invece buffe, e per tutte le tinte intermedie. Le sue donne spettrali e il suo orizzonte dolente vengono spesso semplicisticamente ricondotti a struggimenti per la morte di tisi della moglie bambina, idea che un semplice controllo delle date basterebbe a confutare. La pubblicazione dei suoi racconti su riviste ha comportato una loro – a volte significativa – trasformazione dalle prime edizioni a quella “definitiva” che leggiamo noi, con connotati cangianti che talora ne vedono mutare addirittura il senso di fondo: e questo in genere resta ignoto al lettore.

Sì, è considerato un classico, viene tanto pubblicato ma in genere senza contestualizzare il suo mondo (la società americana cui il giornalista Poe rivolge graffianti osservazioni, la dimensione metropolitana in ridefinizione, l’orizzonte di una nazione che sta spregiudicatamente costruendo il proprio impero): e il lettore medio nostrano, che conosce poco di quell’America pure tanto presente sullo sfondo, non coglie i richiami. I testi vengono poi presentati in troppi casi con note insufficienti o nulle, rendendo incomprensibile la maggior parte di ammiccamenti e sottotesti (spesso riferiti ad autori al tempo di moda ma oggi e tanto più da noi ignorati, oppure all’attualità minuta del suo tempo), e a volte risulta criptico il significato stesso delle storie. Col risultato d’insistere sulla musicalità di Poe: vero, ma quella musica supporta significati precisi, e non si esaurisce nella bellezza dell’arabesco cui pure lui tanto tiene.

E ancora: un certo tipo di caricatura appioppatagli insiste sul Poe alcolista, magari drogato, magari dedito compulsivamente al gioco, le cui opere sarebbero frutto diretto delle sue infinite trasgressioni. Questa è un’altra delle sgangherate fantasie su di lui, in parte già circolante per i livorosi commenti di alcuni contemporanei. A periodi Poe è stato effettivamente vittima dell’alcool – etilismo e consunzione sono del resto i due grandi e diffusissimi mali dell’America dell’Ottocento – ma non è questa una situazione continuativa che l’abbia afflitto negli anni; non risulta aver fatto uso di droghe, salvo le dosi d’oppio contenute in farmaci d’epoca; non era, a dispetto di quanto ogni tanto si senta dire, un cultore dell’assenzio; e le esperienze di gioco d’azzardo, se ci sono state, si sono esaurite tra le ragazzate degli anni universitari. Molto di tutto questo si trova invece nei suoi personaggi, che troppo spesso vengono confusi con lui. Quanto ai suoi testi formalmente levigatissimi, non si tratta di opere compatibili con la perdita di controllo tipica dell’assunzione di alcolici o droghe, e presuppongono un’attività letteraria rigorosamente sobria. Non dimentichiamo mai, piuttosto, la sua teatralità – istrionismo, gigioneria – che lo fa giocare con certe maschere: ma in modo lucido, consapevole. Sfuggente, certo: basta leggere il suo epistolario e ci rendiamo conto della quantità di menzogne o piuttosto fantasie da autofiction che imbandisce agli interlocutori. Un ignoto a se stesso che ha comunque estrema consapevolezza del suo ruolo autorale e del tipo di controllo richiesto dalla buona letteratura.

La stessa nomea di scrittore dannato, maestro del macabro e del mistero lo confina a monumento e padre remoto dei generi “a effetto” ancora vivissimi oggi – in particolare horror, fantascienza e poliziesco: ma l’immagine pur fondamentale del Poe maestro d’orrori deve fare i conti col fatto che una parte molto importante della sua produzione è in realtà di carattere ironico, satirico o decisamente comico.

Si direbbe persino che non possano sorgere novità su di lui, tanto la critica ha lavorato sui suoi testi quando ancora eredi e predecessori “neri”, gotici e affini, restavano fuori dalle accademie. Una presunzione di conoscenza che invece continua a confrontarsi con sorprese: per esempio gli studi qualche anno fa dello scrittore nostrano Gianfranco Manfredi su giornali statunitensi dell’Ottocento evidenziano quanto nell’immaginario locale la consunzione, diffusissima e letale – una costellazione vaga e ampia di malattie polmonari, dalla TBC alle affezioni dei lavoratori dei mulini –, nutrisse una mitologia del vampiro. Qualcosa che permette di interpretare Ligeia & sorelle (compresa la dentata Berenice) come assai più radicate nel filone dei succhia-vita di quanto in genere si sia concesso. Per non parlare di quel vampirismo che in The Man of the Crowd, sorta di Ebreo Errante della modernità urbana, ha ormai valore metaforico di un’osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa.

Insomma, studiare Poe ci provoca a scoprire che si tratta di un bacino di fantasie assai meno scontate di quanto spesso si consideri: e iniziative di rilettura della sua opera permettono veri e propri colpi di scena. Di qui anche l’importanza di un lavoro sul tessuto dei testi come via via prodotti negli anni – a cogliere fili che si dipanano tra un titolo e l’altro – e via via oltretutto trasformati nel tempo, soprattutto quelli della prima produzione: basti dire che il primo racconto di Poe, Metzengerstein, nato con abbondanti dosi d’ironia macabra e di paradosso fiabesco, diventerà, di taglio in taglio, un racconto nero in perfetto stile gotico.

2. Stagioni, variabili e costanti

Si è accennato al problema della difficoltà per i lettori delle raccolte circolanti – in sé anche ottime, la mia non è una polemica – di sfuggire a un pregiudizio fondamentale, che cioè Poe abbia per tutta la vita battuto un po’ sempre gli stessi pochi temi. Chi invece si sforzi di seguire un ordine cronologico dei testi si accorge di un’evoluzione della sua opera, in rapporto sia ai suoi interessi artistici e speculativi sia – non dimentichiamo questo aspetto – alla pragmatiche possibilità di collocazione editoriale. Qualcosa che conduce a riconoscere varie fasi creative, certo non chiuse e prive di rigide cesure (i temi transitano spesso da una fase all’altra, ma magari con equilibri interni sensibilmente mutati); e tuttavia connotate da un diverso sapore generale. In questi termini forzatamente elastici la produzione di Poe può ripartirsi – alla grossa – in tre grandi stagioni.

1. C’è anzitutto una stagione che potremmo chiamare delle sperimentazioni, e che corre dalle prime prove poetiche (1824) e narrative (appunto Metzengerstein, 1832) a Ligeia, il primo dei capolavori riconosciuti (1838). Una fase cioè in cui il giovane autore sta cercando di trovare espressioni congrue al suo lussureggiante mondo interiore, a partire dal suo primo amore, la poesia; e dove però si trova indotto a misurarsi con forme via via diverse di scrittura – dai racconti al suo unico romanzo compiuto Gordon Pym (1837-38), dalla saggistica a tagli diversi di articoli e recensioni –, in parte proprio per star dietro alle proprie fantasie e in parte per motivi pragmatici, economici di collocabilità dei pezzi. Certo continua a produrre poesia, una forma di scrittura che frequenterà tutta la vita, sia con testi nuovi, sia tornando indefinitamente a modificare i vecchi. E certo riconosce una propria vocazione idealmente teatrale: è figlio d’attori, ha il teatro nel sangue e una certa teatralità nel rapportarsi al mondo; così tenta anche un’opera teatrale che però non lo convince e abbandona, il Politian (1835-1836). Ma abbastanza presto deve rendersi conto che entrambe, la cifra poetica e quella teatrale, possono trovare trasfusioni artisticamente adeguate e pragmaticamente vendibili nella prosa breve: quella in fondo che lo renderà più famoso.

Così da un lato, sull’onda delle fantasie visionarie, esoticheggianti e oniriche presenti nella sua produzione lirica (per due esempi emblematici della primissima produzione, si pensi solo a Tamerlane o Al Aaraaf) vediamo apparire in prose brevi una serie di racconti su fantastici scorci esotici, incredibili città di mondi remoti, orienti favolosi e ambigui (A Tale of Jerusalem, Shadow—A Parable, Four Beasts in One—The Homo-Cameleopard, Silence—A Fable). Dall’altro vediamo trasferire in forma di racconti tutto un teatro di febbrili monologhi dove sembra di vedere Poe gigioneggiare su un palcoscenico.

Questo secondo aspetto è particolarmente evidente nei testi sulle donne che tornano, caratteristici di questa prima stagione (Berenice, Morella e appunto Ligeia): un tema che incalza Poe un po’ per tutta la vita, ma in seguito declinerà quale elemento di contesti più complessi mentre qui emerge per così dire puro, in primissimo piano. Si è visto in questi racconti il contributo di Poe al nascere della ghost story e può essere senz’altro corretto: ma la natura di queste ritornanti va rettamente intesa, e in primo piano spicca anzitutto l’interesse per i doppi e le ossessioni e crisi legate all’identità. Ciò che non stupisce, visto che il tema identitario – sia nell’accezione individuale (personale, psicologica) che collettiva (sociale, politica) – è uno dei più forti e connotanti del fantastico moderno, e corre nella tradizione gotica fin dai suoi esordi: e del resto in questa fase Poe pratica con larghezza le forme del gotico.

Ma pensiamo a un altro topos gotico, la casa-palazzo che crolla o comunque va in desolazione, e che lo accompagnerà anche nelle fasi successive. Che possiamo idealmente scomporre in due costituenti, la casa-palazzo (enorme, labirintica erede dei castelli gotici) e il grande incendio, legati a stretto filo alla mitologia personale del bambino e poi uomo Edgar: la prima nella memoria della grande magione Moldavia – si noti il nome evocante fantastiche Europe orientali – del patrigno John Allan archetipo del tiranno; e il secondo dell’apocalittico rogo del 26 dicembre 1811 al teatro di Richmond associato alla memoria della morte (poco prima, 8 dicembre) di sua madre. Il fatto che il primo racconto, appunto Metzengerstein con il crollo del palazzo in fiamme, già metta in scena tale combinazione può dir qualcosa della loro forza immaginale.

Ma Poe inizia a rileggere in questa fase anche altri temi romantici neri – dal suicidio degli amanti (The Assignation) alla contrattazione col diavolo, reinventato in chiave ironica (The Duc de L’Omelette, Loss of Breath, The Bargain Lost/Bon-Bon) – o comunque macabri/grotteschi come l’esordio del motivo dell’uomo che perde pezzi in chiave burattinesca (ancora Loss of Breath): questi motivi emergeranno ancora per qualche tempo nella seconda stagione per poi sparire. Appare già anche, non casualmente date la contingenza della grande epidemia colerica, il tema del contagio (King Pest, Shadow—A Parable).

D’altra parte, come detto, Poe attraversa disinvoltamente ogni barriera dei generi letterari che compilatori successivi hanno cercato di recintare. Così se in questa prima fase troviamo per esempio le prime prove di una satira di costume ancora surrealmente burattinesca (Lionizing, Mystification), eccolo dare voce ad altri due filoni eccellenti. Cioè da un lato le grandi storie di mare – spesso estreme, tra oceani onirici e terre cave, suggestioni simboliche e misticheggianti (MS. Found in a Bottle, appunto il Gordon Pym) – che guardano insieme ai filoni avventuroso, dei drammi di navigazione e dei viaggi d’esplorazione. E dall’altro inizia a profilarsi una protofantascienza dai connotati satirici – come spesso nei prodromi del filone, tra Sette e Ottocento –, ma non priva di genuine provocazioni scientifiche sul tema del volo mirabolante (The Unparalleled Adventure of One Hans Pfaall).

Un discorso a parte potrebbe riguardare un testo particolare come l’articolo Maelzel’s Chess Player, dove lo sforzo di decostruire un meccanismo da spettacolo – il famoso Turco giocatore di scacchi portato in giro dall’impresario Johann Nepomuk Mälzel – prefigura già in fondo i meccanismi del poliziesco.

2. Come detto, non è tanto un discorso di cesure tematiche quanto di tipo d’approccio e status autoriale quello che permette di individuare dopo Ligeia una seconda stagione, indicativamente fino a The Pit and the Pendulum, 1842-43: è l’epoca – potremmo così chiamarla – dei grandi affreschi fantastici. Poe si è ormai affermato, sa come muoversi ed è interessante vedere che i testi cambiano assai meno dalla prima all’ultima redazione. E dove cambiano, talora è anche nel continuo dialogo tra poesia e prosa: nei racconti inserisce componimenti lirici tematicamente adeguati (per esempio The Conqueror Worm, 1843, in Ligeia) o invece li scorpora dal testo (Inno, sfilato nel 1840 da Morella).

I singoli temi gotici (la casa-palazzo che va in desolazione, l’identità e il doppio, l’epidemia) vengono ampliati in grandi affreschi, articolando maggiormente le trame e le costruzioni d’ambiente: si pensi a The Fall of the House of Usher, William Wilson, The Masque of the Red Death, ma anche a The Man of the Crowd e The Pit and the Pendulum. Il tema della donna che torna, in particolare, trova ora riproposizioni in storie che ampliano la visuale (appunto The Fall of the House of Usher) o viene radicalmente reinventato (Eleonora, The Oval Portrait), forse anche in rapporto con l’inizio nel 1842 della malattia della moglie.

Certo Poe continua a sperimentare (lo farà, del resto, tutta la vita) ma su una base ormai sicura quanto a tecnica e apprezzamento dei lettori. Proprio dalla fusione tra elementi del gotico e storie di ragionamento/indagine/deduzione (basti citare lo Zadig di Voltaire) costruisce ora per esempio qualcosa di radicalmente nuovo, dando origine al romanzo poliziesco con The Murders in the Rue Morgue; e una novità è anche di attribuire a quel testo un sequel nel senso moderno, The Mystery of Marie Rogêt – nasce insomma il detective seriale. Alla categoria degli enigmi da risolvere si può peraltro accorpare anche l’articolo A Few Words on Secret Writing sul tema della crittografia, che darà frutti narrativi più avanti.

Sempre mixando suggestioni macabre e speculazione filosofica vara poi una piccola serie di dialoghi tra soggetti defunti che ragionano sulle misteriose realtà oltremondane e sulla distruzione del pianeta per il passaggio di una cometa, quasi in termini di fantascienza apocalittica (The Conversation of Eiros and Charmion, The Colloquy of Monos and Una). Per contro va chiudendo in questi anni il tema delle avventure di mare (sia pure con un gioiello come A Descent into the Maelström) e di terra (l’avvio di The Journal of Julius Rodman, nuovo romanzo lasciato però incompleto).

Torna anche il tema del diavolo, sempre in chiave grottesca alla Hoffmann (The Devil in the Belfry e Never Bet the Devil Your Head). Del resto i racconti in chiave di satira di costume mostrano ancora in genere caratteri burattineschi (How to Write a Blackwood Article, The Business Man, A Predicament, The Man That Was Used Up, Why the Little Frenchman Wears His Hand in a Sling); con la curiosa eccezione di Three Sundays in a Week che già preannuncia i testi più tardi di pura commedia e mostra il caso eccezionale di un’eroina femminile non passiva, e che vince grazie a competenze scientifiche. Ma spesso la satira, il grottesco, la comicità, appaiono connotati da elementi macabri: trova massimo sviluppo in questo periodo il citato tema dell’uomo – o della donna – che perde pezzi, cioè la testa o altro (A Predicament, The Man That Was Used Up, Never Bet the Devil Your Head).

Abbandonati in generale gli esotismi della prima stagione, i testi estetizzanti acquisiscono risonanze filosofiche di più ampio respiro (The Island of the Fay, The Landscape Garden) o sviluppano riflessioni sul richiamo al Bello anche nella vita corrente (l’articolo The Philosophy of Furniture).

(1 – continua)

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