Echo and the Bunnymen – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici https://www.carmillaonline.com/2021/10/17/estetiche-inquiete-joy-division-e-dintorni-contesto-e-radici/ Sun, 17 Oct 2021 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68686 di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più [...]]]> di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più spietato edificando un modello teso a rappresentarsi immodificabile, come Margaret Thatcher non manca di scandire ad ogni occasione: “There is no alternative”.

L’Inghilterra plasmata dalle politiche thatcheriane dei primi anni Ottanta è un Paese afflitto dalla disoccupazione e dalla disgregazione sociale che si abbattono sulla working class tradizionale, dall’individualismo, dall’odio, dal sessismo e dalla violenza che non sempre riescono a essere celati dietro allo scintillio delle prime avvisaglie di gentrificazione dei quartieri, agli status simbol esibiti da rampanti uomini e donne intenti a sgomitare con ogni mezzo necessario per conquistarsi “il successo”.

Le trasformazioni epocali inaugurate in apertura di quel decennio sono inevitabilmente accompagnate da una generale messa in discussione di identità che sembravano granitiche con cui, del tutto impreparati, si sono trovati a fare i conti individui sempre più atomizzati. Lo scrittore David Peace ha saputo far affiorare le macerie tra le immagini patinate di quel periodo tratteggiando nel ciclo di romanzi Red Riding Quartet il contesto in cui si danno alcuni crimini efferati tra miniere abbandonate, fabbriche chiuse o automatizzate, città in rovina e violente di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, oltre che individui e comunità dall’identità frantumata.

Gli anni Ottanta, in un modo o nell’altro, hanno plasmato l’immaginario contemporaneo tanto da fungere da serbatoio da cui si continua ad attingere, più o meno nostalgicamente, recuperando segni e testi culturali assecondando inclinazioni edonistiche o esistenziali. A questo secondo versante fa riferimento il volume curato da Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division (Rogas, 2021) che, analizzando in un percorso trasversale a più voci l’opera del gruppo di Salford, Greater Manchester, ricorrendo a un’ottica interdisciplinare, ricostruisce l’universo Joy Division indagato sia nel contesto in cui è nato che nel lascito da cui l’attualità continua ad attingere più o meno rispettando l’esperienza originaria. [A tale libro sarà dedicato un secondo scritto nei prossimi giorni su Carmilla]

Alfonso Amendola e Novella Troianiello muovono la loro indagine a partire dalla convinzione che un genere musicale non sia esclusivamente il prodotto di un determinato gruppo sociale ma che esso stesso contribuisca a generare delle identità sociali che concorrono a plasmare i confini e a mutare le forme culturali nel corso del tempo.

Se il punk può essere visto come una sorta di risposta rabbiosa e nichilista all’incertezza sociale e politica del periodo in cui esplode espressa dai rimasugli di comunità in disarmo soprattutto in ambito londinese, il post-punk si presenta come un fenomeno proprio di alcune città del Nord dell’Inghilterra caratterizzate dalla cupezza urbanistico-architettonica ereditata dagli anni Sessanta.

Città industriali in declino come Manchester, Liverpool e Sheffield che hanno conosciuto la violenza della rivoluzione industriale sembrano ormai capaci di offrire ai figli della working class e della piccola borghesia soltanto il senso di alienazione e di inquietudine della grigia periferia lontana dal punk della Capitale presto trasformatosi in patinato fenomeno di consumo. Nelle città industriali del Nord nasce dunque una

generazione post-punk che al nichilismo dell’annientamento del futuro e al fascino della moda irriverente [del punk londinese] rispondevano con l’inquietudine e l’incertezza del presente e con il racconto dell’apatia della periferia. Allo stesso modo dei Fall, anche i Joy Division, seppur con diversi riferimenti dichiarati, dipingevano attraverso la musica e la lirica un paesaggio industriale periferico che portava con sé solo immagini di fallimento, gelo, perdita del controllo, smarrimento (p. 32).

Se già il punk, operando una sorta di opera di bricolage, aveva saputo attingere da diversi stili e sottoculture britanniche del dopoguerra, il post-punk, sostengono Amendola e Troianiello, ha ulteriormente ampliato i confini allargandosi all’ambito europeo attingendo, ad esempio, dai suoni metallici dei tedeschi Kraftwerk e da esperienze alle prese con sonorità sintetizzate.

In una contesto urbano sempre più caratterizzato dal frantumarsi delle comunità sono spesso i mass media a proporre/costruire nuovi ambiti identitari.

In questo modo è possibile intendere l’immagine delle culture giovanili figlie della working class protagoniste del movimento sottoculturale del post-punk (così com’è stato per la corrente punk) come l’immagine coesa di una cultura della resistenza. Pertanto se il dolore, l’introspezione, il disagio post-industriale e l’assenza di bellezza così come la sua ricerca, l’uso di droghe, la disoccupazione e l’inesorabile declino di una nazione potente diventavano le colonne portanti del discorso sottoculturale del post-punk, l’estetica, i luoghi di consumo della musica e i luoghi di creazione di nuovi network dove esercitare pratiche condivise di ascolto e condivisione secondo rituali consolidati, rappresentavano il linguaggio necessario, coerente e coeso di un movimento che, partendo da un desiderio di costruzione alternativa al rock classico, ha finito per dar vita ad una nuova ondata di produzioni mainstream degli anni Ottanta (p. 30).

La scena discografica post-punk di Manchester si contraddistingue anche per un’eleganza e pulizia formale – sconosciute all’ambiente musicale londinese dell’epoca – che richiama palesemente le estetiche di alcune avanguardie europee primonovecentesche. Se a Manchester, al passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta, gruppi come Joy Division, A Certain Ratio, Durutti Column, The Fall, cresciuti attorno alla Factory Records, si mostrano più inclini a sonorità cupe, a Liverpool, altra città in declino alle prese con la disoccupazione, band che gravitano attorno all’Eric’s Club, come Echo and the Bunnymen, ricavano dall’angoscia, dalla solitudine e dal dolore atmosfere decisamente meno fosche.

Un caso un po’ diverso è rappresentato da Sheffield, uno dei centri nevralgici della rivoluzione industriale: nonostante nell’immediato gli effetti del thatcherismo si rivelino meno devastanti dal punto di vista occupazionale rispetto alle alte città del Nord, anche questa realtà non manca di pagare il suo tributo in termini culturali. Se nel cuore della lavorazione dell’acciaio e dell’orgoglio operaio il punk rimane un fenomeno sostanzialmente di superficie tra i figli della working class, maggior interesse viene invece da questi riservato all’universo delle sonorità sintetizzate. Il fenomeno post-punk di Sheffield ha nell’esperienza del laboratorio creativo Meatwhistle, da cui provengono gruppi come Music Vomit, un riferimento importante sebbene non l’unico, visto che anche per altre vie nascono band destinate alla notorietà (es. Cabaret Voltaire).

Dal racconto della periferia post-industriale al centro della cultura globale condivisa dai grandi pubblici, dai focal places, luoghi di costruzione di relazioni e rapporti, il post-punk nella sua veste eversiva eppure reificata perché inserita nei processi produttivi e distributivi, è un forte esempio di identità culturale che si muove continuamente dai bordi del racconto sovversivo verso il centro del consenso comune, creando nuove metafore, racconti e atmosfere (pp. 35-36).

Nel volume Daniele De Luca approfondisce il rapporto tra i Joy Division e l’area di Machester in cui crescono; una realtà urbana all’epoca in balia della disoccupazione e dal tessuto sociale lacerato in cui figli della classe operaia sembrano trovare per un istante nel punk, arrivato dall’odiata Capitale, un modo per rialzare la testa e dar voce alla rabbia accumulata in corpo.

Ma il punk era stata l’improvvisa scintilla per accendere un fuoco ancor più duraturo. Dopo la pubblicazione in puro stile do-it-yourself, nel gennaio 1977, di Spiral Scratch da parte dei Buzzcocks (con la produzione di Martin Hannett, il creatore indiscusso del suono dei Joy Division), la scena mancuniana stava per partorire qualcosa di nuovo. Nel 1978, il punk si stava trasformando nel post-punk: le idee scaturite dal punk venivano usate per creare un modo diverso di fare musica. Manchester diventerà leader della nuova scena. Il miracolo del riscatto era iniziato. I Magazine, i Warsaw (diventati ben presto Joy Division), i Fall, i A Certain Ratio inaugurarono la strada lastricata di sottile e prezioso alabastro della new wave (p. 43).

De Luca insiste su come il degrado urbano e lo sfilacciamento sociale di Manchester facciano parte della quotidianità dei Joy Division e di come questi ultimi derivino da un proficuo incontro tra ambiti sociali, luoghi e formazione culturale diversi da cui hanno saputo originare un sound capace di coniugare insicurezze, smarrimenti, energia repressa e, soprattutto, la sensazione della perdita che, insieme al senso di solitudine, pare davvero essere una delle caratteristiche che stanno alla base del gruppo e più in generale del post-punk nelle città dell’Inghilterra settentrionale.

Eugenio Capozzi pone l’accento su come l’esperienza post-punk nasca sull’onda delle grandi differenze che caratterizzano la generazione dei ventenni di fine anni Settanta da quella degli anni Sessanta. Se quest’ultima può dirsi caratterizzata da un’aspirazione a un «nuovo comunitarismo senza repressione, gerarchie, obblighi», la generazione del decennio successivo si contraddistingue per una rabbiosa e distruttiva assenza di progettualità attraversata da una visione del mondo decisamente soggettiva, quando non individualista.

Insomma, la controcultura/cultura hippie prima, il no future del punk dopo. La differenza tra l’atteggiamento assunto dalle punte più inquiete delle due “sub-generazioni” è quella tra utopia spericolata e disillusione; tra la fede misticheggiante in una sorta di ritorno all’innocenza neo-rousseauiano e la presa d’atto di una frammentazione “tribale” delle società occidentali su base “postmaterialista”, del dominio di una “cultura del narcisismo”. […] A partire dal punto di vista periferico della sua Manchester operaia, Ian Curtis appartiene in pieno alla seconda “subgenerazione” […] assimila, dunque, la rabbia nichilista del punk, ma nutrendola di un pessimismo filosofico dalle radici profonde, imperniato su una meditazione intorno al disorientamento dell’individuo rispetto a sistemi sociali, economici, culturali, istituzionali mossi da forze estranee, incomprensibili, crudeli (p. 47).

Se l’esordio dei Joy Division – con l’EP An ideal for living (1978) – sembra derivare da una necessità di estrinsecare una rivolta esistenziale ed etica attraversata da amarezza e disillusione – e quest’ultima rappresenta un’altra delle parole chiave dell’esperienza del gruppo –, con il primo album – Unknown pleasures (1979) – a emergere è soprattutto la solitudine dell’individuo e il senso di incomunicabilità che si manifestano in particolare attraverso «il rimpianto per una condizione ideale di armonia sentita come irrimediabilmente perduta e la domanda di affetto, solidarietà, comprensione» (pp. 48-49). Il senso di radicale distacco dal mondo diviene evidente, così come una certa indifferenza nei confronti della morte dal momento che ogni rapporto affettivo appare ormai come un semplice lontano ricordo. Ian Curtis, sostiene Capozzi, sembra per certi versi avviarsi ad abbandonare ogni impulso teso alla liberazione per trasformarsi in un “giovane vecchio”, intraprendendo un percorso personale che lo vede passare da una “rivoluzione senza utopia” a un “soggettivismo estremo” evitando di percorrere altre strade, all’epoca battute dai più, indirizzate invece verso derive edonistiche.

Nella sua improvvisa maturazione, o senescenza, si riflette in maniera deformata ma nel complesso fedele l’effimera fiammata della ribellione punk, la rapidissima involuzione dei baby boomers “maturi” dei medi anni Cinquanta da persone-massa della morente golden age, colpita dalla grande crisi economica degli anni Settanta, a ribelli iper-soggettivisti, privi di una piattaforma ideologica, fino a “soggetti smarriti” di una dinamica storica per loro ancora illeggibile ed incomprensibile: l’embrionale trasformazione dell’Occidente dagli Stati nazionali, dalla guerra fredda e dall’economia “mista” allo stato “liquido” della globalizzazione, la cui nascita sarebbe stata individuata almeno un decennio dopo (p. 50)

Il successivo album – Closer (1980) –, pubblicato dopo la morte di Curtis, appare a tutti gli effetti la resa definitiva di fronte alla sofferenza esistenziale dopo quella che può essere vista come l’ultima flebile e disperata richiesta di aiuto rivolta all’esterno espressa da Unknown pleasures. Quasi una “rinuncia per sfinimento”. Sarebbe però limitativo, suggerisce ancora Capozzi, limitare tutto alla sfera dei rapporti individuali; i testi di Closer evidenziano

la lancinante mancanza di una dimensione comunitaria. Una mancanza che si era già affacciata come nostalgia della gioventù e della “normalità” in Unknown pleasures, e qui si ripropone come una condanna, a cui Curtis fantastica ancora a momenti di poter sfuggire, ma senza crederci più [Non a caso] nel brano conclusivo, Decades, la rassegnazione all’estinzione viene raffigurata non come uno scacco individuale, ma collettivo, e addirittura generazionale […] Quella generazione dipinta spesso come fortunata, superficiale, votata al divertimento e al piacere, insofferente a ogni costrizione. E che invece, nella visione profetica costruita da Curtis sul ritmo di una sorta di reggae ibernato tra i ghiacci, è composta da individui precocemente invecchiati, curvi sotto un peso insopportabile, che nella loro breve vita hanno accumulato tutta la stanchezza e la disillusione di generazioni e generazioni precedenti […] Ha un significato storico inestimabile il fatto che l’ultima parola artistica di Curtis prima dell’atto finale di congedo, l’ultimo suo contatto con il mondo, sia un «noi». In Decades come in Love will tears us apart. Anche la fine dell’amore non è più per lui a questo punto un’esperienza puramente individuale, ma riguarda tutti coloro che condividono con lui l’aspirazione a ritrovarsi in una comunità ormai svanita (pp. 52 e 55).


Decades

Here are the young men, the weight on their shoulders,
Here are the young men, well where have they been?
We knocked on the doors of Hell’s darker chamber,
Pushed to the limit, we dragged ourselves in,
Watched from the wings as the scenes were replaying,
We saw ourselves now as we never had seen.
Portrayal of the trauma and degeneration,
The sorrows we suffered and never were free.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Weary inside, now our heart’s lost forever,
Can’t replace the fear, or the thrill of the chase,
Each ritual showed up the door for our wanderings,
Open then shut, then slammed in our face.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?


This video combines the 1980 studio version of this song with images from a live performance at the BBC Something Else Show in September 1979


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

 

 

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Hallelujah (Taranto new wave) https://www.carmillaonline.com/2014/01/09/hallelujah/ Thu, 09 Jan 2014 22:59:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11859 di Girolamo De Michele

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[Questo testo è stato pubblicato come “Pre-Fazione” al libro di Sergio Maglio Taranto new wave. Dalla byte generation al Great Complotto (Scorpione Editrice, Taranto 2013, pp. 204, € 16.00). Il libro è introdotto/concatenato dal video Taranto new wave].

Now I’ve heard there was a secret chord That David played, and it pleased the Lord But you don’t really care for music, do you? Leonard Cohen, Hallelujah

1. Spellbound

“You hear a laughter cracking through [...]]]> di Girolamo De Michele

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[Questo testo è stato pubblicato come “Pre-Fazione” al libro di Sergio Maglio Taranto new wave. Dalla byte generation al Great Complotto (Scorpione Editrice, Taranto 2013, pp. 204, € 16.00). Il libro è introdotto/concatenato dal video Taranto new wave].

Now I’ve heard there was a secret chord
That David played, and it pleased the Lord
But you don’t really care for music, do you?
Leonard Cohen, Hallelujah

1. Spellbound

“You hear a laughter cracking through the wall
It sends you spinning You have no choice”
(Siouxie and the Banshees, Spellbound)

Ma chi gliel’avrà fatta fare, a Sergio Maglio, di aprire il vaso di Pandora della memoria e far volare fuori quei pezzi di carta, quelle foto, quei versi, quelle memorie di una stagione all’inferno? Non è infilando nella piaga il dito intinto nella tintura di iodio che si fanno i libri di successo, oggi che Taranto è diventata una città della quale tutti hanno detto che… Non poteva anche lui fare un rassicurante copincolla di cose già scritte, invece di riavvolgere lo spaziotempo e farlo scorrere dal presente al passato? E soprattutto, non poteva evitare di mandarmi un anno fa questo manoscritto dentro il quale, come nella macchina scacchistica di Poe, si nascondeva il nano gobbo dei ricordi?
No: non poteva. Per dirla con García Márquez, fa’ che arriva sempre un guastafeste a ricordare ciò che tutti cercano di dimenticare. E a chiederti di scriverci sopra qualcosa, con il cuore in mano e la tastiera bagnata di sangue.
E come si fa a scrivere della New Wave ‘mbra le cozze, senza riaprire il quaderno della nostra Spoon River, senza ricordare i fratelli che non sono più fra noi – Giorgio caduto in un fosso, e Virus e Franco portati via dalla peste, e Peppe e Samuele e Laura morti in uno schianto, e… Rain on You, fratelli e sorelle: per voi ci sarà sempre Jeff Buckley – Maybe there’s a God above – a cantare un hallelujah.

La New Wave, dunque. Quella che nelle storie della musica, ordinate come i grani di un rosario, arriva dopo il punk, che arriva dopo il rock. Ma a Taranto, il punk non c’è stato. E, in fondo, neanche il rock. C’erano nicchie, amici che si riunivano nelle case attorno a un piatto che ruotava, sette devote a Canterbury e alla Corte del Re Cremisi, pacchi di dischi comprati per corrispondenza: ma a farla da padrone erano, fuori tempo massimo, ancora gli America e i Genesis. Solo una minoranza si nutriva dell’utopia di un mondo nuovo che avremmo costruito, di magnifiche sorti e progressive che anche il rock ci raccontava. C’è ancora tempo per il giorno, quando gli occhi si riempiono di pianto, cantavamo senza sapere che quel tempo era agli sgoccioli, e i giorni del pianto erano alle porte. A Taranto, come altrove.
La Brith Invasion, l’arrivo della New Wave, ha significato questo, in Italia come a Taranto: la presa di coscienza della fine del sogno di un assalto al cielo. Schiacciato in vicoli sempre più stretti, tra lo Stato che alzava il tiro e un’altra parte che alzava i muri usando il cemento fornito dallo Stato, il movimento che voleva tutto e subito aveva abdicato a un potere che aveva le mani pulite solo perché a sparare mandava i gendarmi, e a mettere le bombe i fascisti. Billy the Kid era stato ucciso, avevano vinto i Pat Garrett, i pentiti, quelli buoni a vuotare un sacco che non avevano mai riempito. Quelli bravi a spiegarci che il mondo non può essere cambiato, solo amministrato. Un mondo sul quale il punk insegnò a sputare, a noi che avevamo Anarchy in U.K. e My Generation scritte sul banco di scuola e facevamo incazzare la professoressa (e adesso che sui libri di storia quelle canzoni sono riportate tra i documenti, mi consenta, professoressa: avevamo ragione noi!).

A Taranto, in un’epoca nella quale le informazioni non circolavano più attraverso il circuito politico, ma attraverso quello musicale – continuazione della politica con altri mezzi – toccò alla new wave prendersi la responsabilità dell’unico gesto etico possibile davanti a questo mondo: vomitarci sopra.
Leggete i testi di Siouxie, dei Joy Division, dei primi Cure, dei Sound. Leggete i testi, i documenti, i poemi che troverete in questo libro. Provate a guardare una luna piena senza sentire Jan McCulloch cantare Killing Moon. Riascoltate le sonorità basse e cupe di quei dischi, di quei gruppi, e capirete.
Lo squallore delle periferie suburbane e delle città industriali; la precarietà come condizione permanente; la depressione e il panico come cifra sociale di una società irretita dalle passioni tristi. Il punk aveva gridato No Future – non preoccuparti del tuo futuro, tanto non ce l’hai! –, ma non aveva saputo (tranne qualche singolo caso: i Dead Kennedys di Jello Biafra) andare oltre l’espressione di superficie; la new wave articolava l’urlo strada per strada, quartiere per quartiere, scrostando dai muri ogni residua patina di ottimismo (che restava buono per i parrucchieri di Sheffield). Lo spazio metropolitano veniva compreso e rappresentato come una gigantesca, onnipresente fabbrica, le cui patologie invadevano come metastasi ogni angolo del sociale: e le tragedie personali di Ian Curtis e Adrian Borland ne divennero la rappresentazione più emblematica. Non è un caso che il gruppo forse più amato, a Taranto, sia stati The Sound, altrove misconosciuto e malcompreso, nella sua cupa grandezza: lo capì anche Adrian Borland, quando all’apertura di un concerto bolognese si trovò un manipolo di tarentini che attaccarono I can’t escape myself con mezza battuta d’anticipo: e concesse loro, stupito, l’intera prima strofa, prima di cominciare a cantare.
Fu una liberazione: perché neanche quel rock che a Taranto si ascoltava sì e no aveva detto con tanta chiarezza che questo mondo fa schifo. Cos’era, il mito della classe operaia che avrebbe liberato il mondo dallo sfruttamento, se non un nascosto elogio del progresso e dell’industria? Era una forma di asservimento del movimento operaio, di subordinazione ai movimenti del capitale, interiorizzati come necessità economica: fino alla conseguente distruzione di quel movimento operaio ufficiale che anche a Taranto era servito, nel ’77-’78, come cane da guardia del capitale. Forse per questo a Taranto “Rosso”, assieme a “Primo Maggio” l’unico giornale dentro il movimento (otre ca agitprop: da ‘u spedale vuè ‘cchianne ‘a salute?) capace di aprire gli occhi su quanta merda ci fosse nella condizione di assoggettamento alla catena di montaggio, non era arrivato.
E a Taranto la fabbrica significava Italsider e Cementir: Siderlandia.

2. I can’t escape myself1

“I’m sick and I’m tired of reasoning / just want to break out shake off this skin / I can’t escape myself”
(The Sound, I can’t escape myself)

ranxMa come si è arrivati a questa situazione? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro, perché Taranto non è descrivibile con le chiavi di lettura della mancata o incompiuta modernizzazione del meridione: mentre le realtà meridionali “saltano” direttamente dalla realtà urbano-rurale all’affermazione del terziario, Taranto rappresenta un caso da manuale di sussunzione della società all’interno della fabbrica. Lo si capisce focalizzando l’attenzione sul “metalmezzadro”, quella strana anomalia che Walter Tobagi colse in un’inchiesta su Taranto nel 1979: «il vero protagonista sommerso si chiama metalmezzadro. È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider grande due volte e mezzo la città. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra» (Walter Tobagi, Il «metalmezzadro» protagonista dell’economia sommersa al Sud, “Corriere della sera”, 15 ottobre 1979).
Nella stessa inchiesta, Tobagi coglieva «la “contraddizione” tra l’enorme concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno». Contraddizione esemplificata dalla vertenza dei lavoratori delle ditte appaltatrici, risolta con l’uso consociativo e assistenziale della cassa integrazione concordato coi sindacati: «l’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia. Le spiegazioni sono tante: mentre cresceva la fabbrica nuova, decadevano i cantieri navali e l’arsenale, che furono la prima base industriale della città».
Tobagi aveva già colto le linee essenziali del rapporto tra città e fabbrica: captazione della ricchezza sociale all’interno della fabbrica, con l’impoverimento delle altre risorse del territorio; mancata restituzione al territorio della ricchezza prodotta; attitudine consociativa dei sindacati — che si espresse in particolare nel fornire al PCI i servizi d’ordine utilizzati per spazzare via dalle piazze il movimento, indebolito dall’assenza di una componente studentesca (l’assenza di un’università costringeva all’emigrazione i diplomati che non entravano in fabbrica) e dalla moderazione del ceto operaio.
Aggiungiamo altri due elementi, interni allo sviluppo edilizio. La città diventa oggetto di un faraonico piano regolatore che trasforma in terreno edificabile l’intera area tarantina, dando l’avvio a una speculazione che si è concretizzata nella costruzione di falansteri e quartieri-ghetto, con la conseguente deportazione in orribili periferie (il cui governo, negli anni Ottanta, è stato garantito dai clan malavitosi locali) degli abitanti dei quartieri popolari lasciati in malora – prima tra tutti la Città Vecchia, e la creazione di un potente ceto di costruttori, intrecciato a filo doppio con la malavita locale. L’emblema dell’arroganza di questo ceto è il grattacielo costruito sul percorso del lungomare che, se avesse raggiunto il faro di San Vito abbracciando il Mar Grande di levante, sarebbe stato di straordinaria bellezza.
Accanto a questa speculazione “borghese”, una selvaggia speculazione “proletaria”, incarnata dall’operaio urbano che si costruiva, spesso con le proprie mani e in regime di abusivismo edilizio, la casa al mare, devastando un litorale tutto dune di sabbia e pinete marine: l’individualismo proprietario, inoculato dalla fabbrica nell’operaio-massa tarantino, si è concretizzato in uno scempio ambientale che ha cancellato la possibilità di sviluppare un’industria del turismo paragonabile a quella del “rinascimento del Salento”.
In questo modo si crea a Taranto una peculiare composizione di classe, senza soluzione di continuità: il metalmezzadro fa da giuntura tra il contadino e l’operaio; l’operaio metalmeccanico che allarga la fascia di reddito con gli straordinari assume lo stile di vita del piccolo borghese proprietario; la piccola borghesia commerciante avvicina il proprio stile alla borghesia parassitaria, quella che scimmiotta la borghesia settentrionale intravista nelle figure di dirigenza e controllo della fabbrica (ma isolata dal contesto urbano). Il collante di questo continuum sociale è la Fabbrica, il Moloch magnifico e progressivo che nessuno mette in discussione.
Negli anni Ottanta, la crisi della siderurgia apriva le porte all’unica alternativa sociale disponibile alla miseria: la produzione illegale di reddito e la formazione di una “seconda borghesia” malavitosa che si è aggiunta alla “prima”, colmandone il deficit di forza sociale dapprima attraverso un’accumulazione originaria di capitale derivante dal controllo e dall’espansione, in regime di monopolio, del mercato delle droghe leggere (spazzando via il freak che tornava dall’India o dal Marocco) e pesanti (diffondendo dapprima l’eroina, e poi la coca), e dell’imposizione di una governance criminale dopo una feroce guerra intestina; e poi attraverso il controllo degli appalti, dei sub-appalti e dell’edilizia, all’assorbimento all’interno della borghesia locale di soggetti provenienti dalla circolazione “legale” del capitale “illegale” (cioè dal riciclaggio del denaro “sporco” in attività formalmente “pulite”), sottoposta a quella particolare forma di controllo che è la governance del debito — dall’usura al gioco d’azzardo: non dimentichiamo che la Puglia è stata la porta d’ingresso di quella autentica peste dell’immaginario neo-borghese che è il burraco. Le giunte comunali Cito e Di Bello troveranno linfa e ragion d’essere in questo humus, mentre l’inquinamento del Mar Piccolo, determinato sia dagli scarichi della fabbrica che dalla dispersione di materiale inquinante durante le attività portuali, infligge un ulteriore colpo alla sopravvivenza dell’economia ittica e alla mitilicoltura.
È in questo contesto sociale che verrà fuori Giancarlo Cito, un ex mediocre picchiatore fascista (più fuggiasco che inseguitore) dalla reputazione esagerata a dismisura dalla chiacchiera indigena che favoleggia di piazze insanguinate, interno, come i processi hanno attestato, alla malavita locale: la cui figura resta enigmatica come la venuta degli Hyksos, se non si coglie la composizione delle forze sociali e degli interessi che lo hanno sorretto, e il suo legame col sistema-fabbrica al quale si dichiarava, falsamente, estraneo, e al quale è invece organico.
È questa la città sulla quale la new wave eserciterà una critica senza sconti.

3. Grinding Halt

“Everything’s coming to a Grinding Halt”
(The Cure, Grinding Halt)

A Taranto non era arrivato “Rosso”: ma arrivò la “Makina Metropolitana”.
E non arrivò dal nulla.
Lo_SassoL’anno chiave è il 1980. Racconta, questo libro, del concerto di Lou Reed ad Avellino, che testimoniava un’insaziata fame di musica: il sottoscritto calcolò con cura i tempi della preparazione per l’esame di maturità, per esserci. Altri tarentini fuorisede (oggi li si direbbe cervelli in fuga), in quegli stessi giorni, scoprivano i Clash in piazza Maggiore. Poi i flussi cominciarono a intrecciarsi: chi partiva si incrociava con chi tornava, e con chi faceva avanti e indietro, socializzando le esperienze di una scena musicale che finalmente si riapriva ai grandi concerti – i Devo, i Bauhaus, i Pere Ubu, di nuovo i Clash. Eccetera.
Da questi incroci germinarono il Voltage Control, i Panama Studios2, la Makina Metropolitana, la mostra Taranto-Berlino. Era nata una generazione che tradiva le proprie appartenenze: il figlio dell’avvocato non sognava di fare l’avvocato, il figlio dell’operaio non sognava l’Italsider, e tutti e due, invece di sognare, suonavano, e suonando compivano la mossa fondamentale di ogni azione politica: tracciavano una chiara distinzione tra il proprio campo e quello avverso.
Qualcuno diceva: utopie, frikkettonate. Come oggi, davanti alla rivolta contro la fabbrica della morte e all’utopia di una città liberata dall’Ilva: squadrismo teppistico, idee masticate male e aria consumata, detriti del passato e rabbia implosa nel presente. E la fabbrica buona, quella che non inquina e non uccide, lo Stato che promuove un sistema industriale rispettoso della salute e della vita e non del profitto, invece, cos’è? Realismo lirico? L’avete mai vista, una fabbrica, una classe politica, uno Stato come quello di cui favoleggiano i riformisti sempre bravi a fare la critica del presente, ma a condizione che non cambi quel presente di cui abbisognano per poter fare la loro critica?

È un caso che, come scrive Sergio Maglio, «la porta che si stava cominciando ad aprire verso il mondo giovanile venne dunque precipitosamente chiusa, soprattutto per una scelta compiuta dalle istituzioni» (p. 168)? Che si possa ricondurre tutto al «distacco generazionale con le giovani generazioni, che essi [i politici e intellettuali tarantini] percepivano come inquietanti, problematiche e notevolmente ispide nei rapporti. Questi non erano più i giovani contestatori degli anni ’60 e ’70, bensì qualcosa di diverso, più oscuri, sfuggenti, imprendibili, imprevedibili e non classificabili nelle consuete categorie» (p. 120)? Che tutto dipenda dal cataldismo e dell’insularità dei tarantini, come se il carattere fosse un destino e non, anch’esso, una costruzione sociale?
L’incontro-scontro che avvenne nel Caffè, in coda alla mostra Taranto-Berlino, tra una qualificata rappresentanza del ceto politico e intellettuale locale (compreso il futuro sindaco Battafarano) e questa strana bestia di cui qui si narra, dimostrò che non c’era reale possibilità di dialogo – se non nelle pieghe di quelle intelligenze culturali, che il PCI locale ha sempre sfruttato e spremuto senza alcuna riconoscenza, timoroso di chi è capace di pensare con la propria testa – con una classe politica che considerava la propria missione quella di fare da gendarme e custode allo status quo. E nell’ottusa arroganza con la quale, alla richiesta di un centro sociale per combattere la diffusione dell’eroina, il più illustre (per retaggio politico-familiare) di quei burocrati rispose che «per combattere l’eroina non servono i centri sociali, basta il napalm sulle piantagioni e sui coltivatori di oppio» contiene già in sé tutte le ragioni della caduta libera nella quale stava per avviarsi la sinistra ufficiale jonica. Era la vigilia dell’apertura del processo per gli arrestati del 7 aprile: a Taranto i Masanielli erano ben accetti se cantati, a tre secoli di distanza, dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, non se cercavano di sovvertire il presente.
«I giovani di Taranto – scrive nelle ultime pagine Sergio Maglio (pp. 170-171) – restarono così da soli a strusciarsi come sempre nella loro piazza, che però cominciò poco alla volta a mostrarsi sempre più rada e vuota, quasi avesse perso la vivacità speranzosa di un tempo. Restarono soli, quei ragazzi, senza i laboratori creativi che desideravano, senza i teatri ed i cinema che erano stati chiusi. Chi restò, poté vedere le menti migliori di quella generazione continuare a sconvolgersi il più possibile di canne, pere e sniffate senza speranza, assistendo da stanchi e spauriti spettatori alla spenta decadenza di una città che voleva diventare metropoli e che invece vedeva scappare la qualità della vita ed i suoi abitanti. Poté osservarli mentre guardavano muti lo spettacolo di una grande industria che si ristrutturava grazie ai tanti soldi pubblici per potersi graziosamente vendere, pochi anni dopo, a un boss privato per quattro soldi. […] E così, quella città priva di verde, di ossigeno, di speranza e di futuro – che era diventata il regno di grattini, scippatori, contrabbandieri e spacciatori – nel giro di pochi anni venne consegnata nelle mani del demagogo di AT6».

Rileggendo la mia storia in questo libro, ho capito, ancora una volta, che avevamo ragione noi. L’avevamo nel ’77, come nei primi anni ’80. Ma la ragione non basta averla: bisogna che te la diano. O che te la prendi, by any means necessary.
Oggi Taranto è, ancora una volta, davanti a un punto di svolta. La storia ha il vizio assurdo di ripetersi, se nessuno spezza le sue infami circolarità: ma può anche disegnare traiettorie sconosciute, se qualcuno ha la forza di tracciarle e percorrerle.
Questo libro è una scatola di attrezzi che vengono da un passato più attuale del presente in cui siamo impantanati: il valore di questi attrezzi dipenderà dall’uso che ne verrà fatto.
Nel frattempo, grazie a Sergio per averlo scritto, e a tutti quelli che ci sono dentro per esserci stati.

I did my best, it wasn’t much
I couldn’t feel, so I tried to touch
I’ve told the truth, I didn’t come to fool you
(Leonard Cohen, Hallelujah)


  1. Questo paragrafo è tratto da Taranto: la città che non vuole morire a norma di legge, pubblicato su carmilla il 10 ottobre 2012. 

  2. In questo video lo storico concerto dei Panama Studios del 5 agosto 1983. 

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