Eccezzziunale veramente – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Novissime) – 84 https://www.carmillaonline.com/2022/06/30/le-novissime-divine-divane-visioni-film-e-serie-recenti-viste-da-dziga-cacace/ Thu, 30 Jun 2022 20:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72420 di Dziga Cacace 

Zitto!  La smetta con quel mandolino altrimenti ci cacciano, sssh! (Filini a Fantozzi)

1936 – Una famiglia vincente – King Richard di Reinaldo Marcus Green, USA 2021 Filmone agiografico che racconta la storia del papà delle ubertenniste sorelle Williams, della sua caparbietà e infine del suo successo. Tutto sommato ben costruito e ritmato, è per forza di cose prevedibile, un po’ perché la realtà la conosciamo tutti, un po’ perché gli snodi sono quelli classici di ogni narrazione di questo tipo con i temi di caparbietà e successo che [...]]]> di Dziga Cacace 

Zitto!  La smetta con quel mandolino altrimenti ci cacciano, sssh! (Filini a Fantozzi)

1936 – Una famiglia vincente – King Richard di Reinaldo Marcus Green, USA 2021
Filmone agiografico che racconta la storia del papà delle ubertenniste sorelle Williams, della sua caparbietà e infine del suo successo. Tutto sommato ben costruito e ritmato, è per forza di cose prevedibile, un po’ perché la realtà la conosciamo tutti, un po’ perché gli snodi sono quelli classici di ogni narrazione di questo tipo con i temi di caparbietà e successo che tanto piacciono agli americani: la determinazione e il rigare dritto portano indubitabilmente all’affermazione del talento. Venus e Serena Williams sono state produttrici esecutive e sebbene non si tratti di un documentario la sensazione talvolta è quella. Alla fin fine non mi pare un gran film ma il pubblico, più della critica, ha apprezzato (io ovviamente mi metto nella categoria dei guitti). Salto in avanti di due settimane dalla mia visione in sala e Will Smith vince il premio Oscar come migliore attore per questa sua prestazione edificante, condendola con un ceffone – un dritto in top spin, per rimanere in ambito tennistico – al comico Chris Rock in risposta primordiale a una battuta infelice su sua moglie Jada Pinkett. Che dire? Ma niente, dài. (Cinema Orizzonte, Milano, 12/3/22)

1938 – I fichissimi di Carlo Vanzina, Italia 1981
Mi tolgo uno sfizio. Ci son critici che non han mai visto un film di Murnau e c’è il Cacace che mai ha visto I fichissimi, lo ammetto dolorosamente. E com’è? Una bella cacatina che però ha un sapore casereccio, di tempi semplici e si fa vedere con sapore archeologico. La storia è poco più di un canovaccio basato su Romeo e Giulietta, con la rivalità metropolitana tra milanesi e immigrati e di mezzo una ragazza, Giulietta, appunto, che s’innamora di Romeo, Jerry Calà, ed è sorella di Felice, Diego Abatantuono. Definire la comicità di grana grossa è quasi riduttivo: Calà si affida a iperboli linguistiche che forse per l’epoca erano innovative ma che non stupiscono mai granché. Abatantuono invece dà il meglio con la sua parlata da terrunciello che qualche risata la strappa, un delirio linguistico dove si mescolano alto e basso, citazioni colte e strafalcioni inimmaginabili che avrebbero trovato la consacrazione definitiva col successivo (quello sì un masterpiece) Eccezzziunale… veramente. Milano era un’altra città e questo è forse uno dei motivi più interessanti del film, come la rappresentazione di un’Italia scalcagnata prima della sbornia degli anni Ottanta, ancora povera, divisa esplicitamente in classi. Non che oggi ci sia una stratificazione diversa, ma è dissimulata da tutti mentre allora era esplicita e condivisa, dal basso quasi con orgoglio. Nella vicenda ci sono naturalmente i froci (il fratello di Abatantuono, definito “ibrido”), l’avvocato paralitico e strabico e le donne sono intese come prede (“gallinelle”) ma processare tempi e linguaggi diversi mi sembra un esercizio un po’ carognesco e molto ipocrita. E vabbeh. In un finale caotico si riesce a far decidere a Calà di disonorare Giulietta pur di poterla sposare: d’accordo che siamo nella farsaccia, ma nel 1981 si faceva ancora ricorso a questi escamotage pensando che fossero credibili? Mah! I fichissimi fa quasi tenerezza, con protagonisti che non sono comunque ricchi, belli o eroici ma che lottano contro una società di gente attempata, rivendicando il loro diritto alla felicità. Detta così sembra che si stia parlando di un’opera con un senso altissimo, ma poi l’impressione è che il film sia stato scritto e girato in due settimane e che certo cinema d’epoca anticipasse quella che poi sarebbe diventata la tivù (solo 2 anni dopo, il Drive In). Una comicità veloce e ricca di tormentoni, in qualche maniera antagonista di quella dei padri, più pomposa e, seppure tecnicamente inappuntabile, antica. Spulciando su Internet scopro che il film costò una miseria per arrivare poi a incassare una decina di miliardi di lire, preceduto nella classifica dei film della stagione da titoli come Innamorato pazzo, Il marchese del Grillo, Il tempo delle mele, Culo e camicia, I predatori dell’Arca perduta, Nessuno è perfetto, Eccezzziunale… veramente, Excalibur, Fracchia la belva umana. (Dvd, 16/3/22)

1939 – Succession Season 2 & 3 di Jesse Armstrong, USA 2019
A solo poco più di un mese dalla visione della prima stagione ci metto un po’ a ingranare perché c’è un intrico di nomi e mosse finanziarie e politiche che, in inglese stretto e stante il mio ottundimento, rende tutto difficoltoso. Ma Succession decolla ancora, talvolta sfiora il ridicolo quando scade nel grottesco, eppure regge e inanella scene eccezionali. Come quella del primogenito dei Roy, Connor, il megalomane che vuole diventare presidente degli Stati Uniti, che al funerale di uno zio molestatore legge un’eulologia imbarazzante scritta dalla fidanzata aspirante commediografa (ed ex escort). Poi c’è il più piccolo degli eredi, Roman, impotente, onanista e bipolare che rivela insospettabili capacità professionali dopo diversi disastri. E c’è anche la sorella Shiv, strategista politica rosa da gelosie e ambizioni, accompagnata al marito imbecille Tom, dall’eloquio ricercatissimo e succube di un rapporto insensato col cugino idiota Greg. Uno spasso dove emergono la figura gigantesca del capofamiglia Roy e del tormentatissimo figliol prodigo Kendall, schiavo di polveri e sensi di colpa. Insomma un bazar familiare impressionate e gustosissimo che prospera grazie ad attori eccezionali con in bocca dialoghi superbi, curati al dettaglio infinitesimale, tra interiezioni umorali e battute laceranti. Nell’ultima serie il gioco di alleanze e ricatti assume proporzioni inimmaginabili e si consuma l’ennesimo impensabile tradimento. Ma c’è ancora una quarta serie in arrivo e chissà chi la spunterà. (Sky, marzo 2022)

1940 – One Day One Day di Olmo Parenti & co., Italia 2021
Olmo Parenti e i suoi soci (Marco Zannoni, Matteo Keffer e Giacomo Ostini) non hanno neanche trent’anni e arrivano da studi diversi; hanno l’energia dell’età e le idee chiare su cosa raccontare e seguono uno dei principi cardine di Werner Herzog: prendi e vai, un film non è questione di tecnica o di attrezzature, ma di idee e volontà. E così, vivendo per un anno fianco a fianco dei braccianti extracomunitari di Borgo Mezzanone vicino a Foggia ci viene raccontata l’esistenza coraggiosa di chi ci porta in tavola la frutta e la verdura lavorando a salari da schiavitù. Una vita lontana dalla famiglia, col conforto delle telefonate a casa, della musica, della cura personale, ma dimenticati dallo Stato, senza documenti e diritti, abbandonati in una shanty town che fa notizia solo se scoppia un incendio o ci scappa il morto. Detta così – da me, male – potrebbe essere il consueto atto d’accusa, un film frignone e in qualche maniera deresponsabilizzante. Ma invece si vola alto perché il ritratto intimo dei protagonisti e la cinematografia, che sa essere lirica senza indugiare in un’estetica del disagio, rendono One Day One Day un documentario unico, entusiasmante, senza alcuna menata ideologica o dito puntato, senza strillate o piagnistei: vedi la vita di questa gente così com’è e ti rendi conto anche di tanta ipocrisia cinematografica che trasforma le disgrazie altrui in una sorta di giustificazione propria, come se potesse bastare la denuncia bella infiocchettata. Olmo & company – dopo essersi prodotti il film con pochissimi soldi e tanto lavoro – hanno cercato invano una distribuzione ma in questo paese a nessuno piace non lasciare il proprio timbro e con poco da guadagnarci: un film così è la dimostrazione plastica di come ci sia un blocco culturale e produttivo nei confronti di giovani pieni di energia che vogliono uscire dai percorsi soliti, dalle terrazze degli aperitivi, dalle cordate amicali che escludono tutti gli altri. E ci sono riusciti: visto che non si trovavano sbocchi hanno portato il film nelle scuole conoscendo un successo immediato (e non è un film facile all’inizio, per quanto alla fine immensamente soddisfacente) tanto che poi un distributore coraggioso s’è trovato e presto – si spera – One Day One Day lo vedrete su qualche piattaforma. Ma questi ragazzi hanno fatto tutto senza rivendicazioni, rimpianti o accuse: hanno semplicemente usato i social come sa fare chi ha la loro età e annunciato che il documentario era vietato ai maggiori di 18 anni, visto che i “grandi” non gli permettevano di avere una vita distributiva propria regolare. E io sono felice e son sicuro che arriveranno altri film perché qui, in One Day One Day, c’è la vita, magari misera ma dignitosa, e di opere così ne abbiamo tutti un gran bisogno. (Marzo 2022)
P.s.: Not everything is Black, primo documentario di Parenti, è su Amazon Prime: date un senso a quell’abbonamento e vedete come dalle semplici idee possano scaturire grandi film.

1941 – La persona peggiore del mondo di Joachim Trier, Norvegia 2021
A me per godere di un film certe volte basta un sorriso, un tocco delicato, una canzone che irrompe dalla colonna sonora. Questo film ha tante qualità, forse anche dei difetti, ma mi ha talmente conquistato il ritratto di Julie che non starò a sindacare. Julie (Renata Reinsve) è una magnifica ragazza irrisolta che – divisa tra due uomini – prova a capire cosa le riserverà la vita. Quale lavoro? Quale ruolo? Madre, compagna, amica? Una boccata d’aria per uscire dagli schemi americani o italiani: bello, coi tempi giusti, vitale, con idee di montaggio ed evasione fantastica inaspettate. E poi una buona fattura generale, con attori azzeccati e partecipi. Candidato agli Oscar stranieri 2022 (premio poi vinto da Drive My Car), mi è piaciuto, mi ha intenerito. (Sky, 2/4/22)

1942 – Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, Usa 2022
Dopo la pandemia e il blackout seguente non era ancora capitata l’occasione. Colgo la palla al balzo e costringo la famiglia tutta a un film assieme, finalmente in sala, senza considerare che le figlie sono cresciute, hanno sviluppato un gusto loro e andare al cinema col papà è un supplizio e non più il piacere d’una volta. Infatti si annoiano, abituati ad altri tempi e ritmi. Io invece il film l’ho trovato bello, affettuoso e positivo ma ammetto che avrei apprezzato ancora di più se Anderson avesse lavorato di forbici e sintesi, perché anche a me, alla fin fine, l’accumulo ha un po’ stancato. Ma detto questo ci sta pure che questo ritratto dell’adolescenza (o perlomeno della gioventù) sia così: una vita esagerata, senza rete, senza particolare razionalità ma anzi con un po’ di stupidera collettiva, però con entusiasmo, generosità e ingenuità e soprattutto senza paura, con nulla che possa fermare la corsa dei protagonisti, una corsa che alla fine, finalmente, li porterà a collidere. Negli USA di inizio anni Settanta, tra nuove mode e crisi del petrolio, il liceale Gary si innamora della venticinquenne Alana, senza preoccuparsi della differenza d’età. Gli attori sono bravi e con facce interessanti e tutta la ricostruzione d’epoca, la musica e la fotografia sono eccellenti e alcune scene rimangono impresse, magari quelle minimali dove c’è un’intuizione che – sbam! – ti restituisce quelle emozioni perse crescendo. Come quando Gary e Alana si sfiorano le dita distesi su un materasso ad acqua, galleggiando in una sorta di liquido amniotico. Nel film c’è un mondo di giovani, praticamente una banda, che è in perenne movimento, lavorativo, affettivo, economico, senza freni e senza paure. Ogni occasione va presa, divincolandosi e oltrepassando le convenzioni della generazione dei vecchi, con ritmi antichi, grotteschi o semplicemente passati. C’è qualcosa che ricorda il free cinema o Hal Ashby, quella magnifica onestà dell’essere ragazzi e di vivere in libertà e di questi tempi non è assolutamente poco. Sofia ed Elena sono uscite dal cinema abbastanza incazzate perché si fermano su particolari inessenziali ma mancano la big picture. Vabbeh, cresceranno. (Cinema Ducale, Milano, 3/4/22)

1945 – Anna di Niccolò Ammaniti, Italia 2021
Dopo un’epidemia globale che ha colpito solo gli adulti è rimasto un mondo di bambini abbandonati a loro stessi: Ammaniti coglie nel segno di nuovo, dopo Il miracolo, e costruisce un universo folle credibile, crudele, spietato, disturbante, coloratissimo e spesso poetico, convincente fin dai titoli di testa. E tutto in anticipo sulla pandemia reale scoppiata mentre si girava la serie. Riaffiorano certi temi e manie dello scrittore: gli animali, i rapporti di forza, il cibo confezionato, ma ha tutto un lirismo coerente e un impatto visivo clamoroso. Location siciliana inedita, lontana dal cartolinismo televisivo delle fiction italiane abituali, e cast azzeccato con bambini e adolescenti diretti benissimo. Che bello. (Sky, aprile 2022)

1946 – Jimmy Savile: A British Horror Story di Rowan Deacon, Gran Bretagna 2022
Jimmy Savile, personaggio onnipresente per oltre 40 anni sulla televisione britannica, era una star incontrastata e grottesca dedita alla beneficenza e anche a diversi vizi innominabili. Molti sospettavano, molti sapevano, moltissimi vivevano in trance seguendo le gesta di questo pagliaccio orrendo, pedofilo e stupratore e impunito fino alla morte. Confezione documentaria ricchissima e impeccabile, costruzione intrigante, forse finale un po’ troppo veloce, come se si avesse ancora pudore a far vedere l’inganno in cui è cascata una nazione intera che fa ancora fatica a riconoscere l’errore. Comunque bello e terrificante, montato bene e narrato con onestà, sbattendoci in faccia l’equivoco televisivo tra persona e personaggio. (Netflix, aprile 2022)

1397 – Ozark Season 4, part 2 di Bill Dubuque e Mark Williams, USA 2022
Poco da aggiungere rispetto a quanto scritto in precedenza (qui). Ozark è (stata) una serie con tutti i difetti e pregi (effimeri) della nuova serialità. L’ho subita e ora, all’ultima stagione, la vivo con sentimenti altalenanti. Se penso a Breaking Bad, là c’era una coralità coerente, un universo risolto, dove tutto quello che veniva toccato narrativamente aveva un suo senso nell’affresco generale. Sapevamo perché era lì, da dove arrivava, come sarebbe finita (c’era una finalità). Qui in Ozark invece sembra tutto casuale e in molti casi lo è: entrano ed escono personaggi secondo convenienza effettistica. Tutte le attività della famiglia Byrde (economiche, politiche, diplomatiche, affettive etc.) durano lo spazio di una breve costruzione fino al colpo di scena e al prossimo giro, dimenticando conseguenze e destini. Ogni serie insomma pare ripartire da capo, senza uno svolgimento complessivo coerente. Poi ovviamente lo svolgimento è divertente (diverte proprio, nel senso che ti fa spostare lo sguardo, ti inganna facendoti distrarre), gli attori sono molto bravi, la fotografia è interessante (luci fredde fino all’acidità, senza colori caldi). Ma io rimpiango – per dire – tutto l’affresco delle prime due stagioni del mondo southern, pian piano perso per quanto il sud sia ancora il luogo dove tutto si svolge. Quei riti, quella signorilità antica mescolata a una certa rozzezza, la fede, il white thrash, l’etica redneck… tutto smarrito nella virata verso Narcos. Tant’è la serie ha tenuto comunque bene ma, ripeto, l’impressione è che si sia alzata l’asticella sempre, sfiorando il ridicolo e giocando apertamente con l’implausibile, purché lo spettacolo reggesse. Così si fanno gli ascolti, certo, ma non la storia, eh no. Il rush finale è abbastanza emblematico e tutto sommato ben concertato seppure nella consueta economia che quando conviene fa saltare passaggi e sviluppi, rendendo all’improvviso semplice e immediato quello che pareva insormontabile (del resto basta dire: “risolto!” e nella finzione è… risolto!). Rimane aperta una possibilità di riapertura delle vicende future dei Byrde e in qualche maniera si chiude esplicitando quello che era intuibile sottotraccia fin dall’inizio ma si faceva fatica a dire: tutti i personaggi con una coscienza e una dirittura morale vengono fatti secchi e trionfano il male, il familismo amorale e le connivenze. Un sussulto finale che che non illumina retrospettivamente quanto visto finora ma dà un minimo di nobiltà a una serie che del cinismo era interprete in tutti i sensi. (Netflix, maggio 2022)

1398 – Tromperie – Inganno di Arnaud Desplechin, Francia 2021
Il film ce lo hanno caldamente consigliato i miei genitori e io mi fido di una presentazione di MyMovies che parla di “film che dovremmo pregare di vedere. Luminoso e galvanizzante”. E non mi sfiora l’idea di dare un’occhiatina, chessò, a Rotten Tomatoes dove un 40% di consenso avrebbe dovuto farmi venire qualche dubbio (non che il sito sia le Tavole della Legge, però un’ideuzza te la fai). Vedendo il film ho poi pensato a quando si diceva “tua suora” o “tua Prinz verde”, passandosi la sfiga. Chi vede ‘sto film si fa passare la scalogna consigliandolo a qualcuno, se no non si spiega, perché Tromperie è una fetecchia delle peggiori, le fetecchie presuntuose, supponenti, compiaciute, che puntano altissimo e crollano miseramente. E che ovviamente convogliano l’apprezzamento di tutto il carrozzone critico che – non bastassero i cineasti cani – sfoga la propria frustrazione sugli spettatori mettendoli in soggezione e mandandoli poi a vedere film come questi, supposte pellicole d’autore, in realtà solo dolorosissime supposte. Tromperie o Inganno tiene fede al suo titolo e trascina lo spettatore in un tour de force dialogico sfiancante e poco riuscito, senza fascino, senza particolari intuizioni. Inganna perché è come una raffica di sberle e tu rimani frastornato. La base drammaturgica è fornita da Philip Roth, dal suo romanzo Deception (che mi mancava e che da adesso mi mancherà per sempre), di cui l’autore è anche protagonista. Si racconta del suo rapporto con una amante inglese, relazione alla base a sua volta per il romanzo nel romanzo (o nel film), in una masturbazione intellettualoide esasperante, di quelle che ti esulcerano e ti spossano. Io ho capito che avevamo preso il pacco dopo neanche 30 secondi. E pacco di quelli super. Per cominciare Roth ha la faccia di Denis Podalydès, già protagonista del funesto Imprevisti digitali. Veste i panni di Roth (vero o finto non mi importa, diciamo i panni di uno scrittore intelligente e affascinante) ed è credibile nella parte quanto un Lino Banfi. Inoltre ha le mani più brutte del creato, con le dita tozze e le unghie da bambino, e visto in questi due ultimi film francesi per me adesso ha il rating più scarso di sempre. La donna inglese con cui si trastulla con arzigogoli mentali è Léa Seydoux, pure lei credibile come inglese quanto una ugandese a interpretare una lappone. E non aiutano a dar retta al rapporto tra i due i dialoghi spezzettati, con ciance che si vogliono filosofiche e cazzeggi con pretese di poesia e profondità, sicuramente sensati su carta ma qui disidratati e coreografati in una messa in scena che vorrebbe essere ardita ma risulta solo vuota, neanche fotografata particolarmente bene, e piagata o da montaggi in asse che fanno moderno o, quando si vuole andare sul classico, da campi e controcampi con spesso palesi deficit di continuità. Ora: il regista, con una decina di film all’attivo, sarà mica un cretino, no? Boh: io volevo scappare e in quasi 50 anni di cinema m’è successo forse due tre volte. Perché era evidente subito che non si sarebbe andato a parare da nessuna parte (e sì che la confusione tra autore e protagonista era un bel tema – e lo si affronta veramente negli ultimi 10 minuti – così come il tema dell’ebraismo, sfiorato neanche male, ma solo sfiorato. Come in generale tutto il dualismo pubblico/privato, reale/romanzesco). Per il resto si cincischia, invece, si fa della poesia da strapazzo, si giochicchia con i temi cari a Roth (ma Roth lo può fare, non tu che adatti Roth!) e il risultato è una ciofeca sciagurata anche perché pretenziosa oltre ogni dire, col regista che ti dà di gomito facendo dire alla Seydoux che anni prima aveva i capelli blu. Capito? Ti faccio l’occhiolino, ti compiaccio dicendoti che era lei ne La vie d’Adele. Unico sussulto quando sullo schermo irrompe Rebecca Marder che è Valentina Cervi 20 anni fa, incredibile, veramente identica. Però, ecco: è il sussulto che può avere un rimbambito come me ed evidentemente mio padre che sarà stato conquistato anche dalla generosa e inutile capezzolata della Seydoux a inizio film. Quanto sarà costato un film così? Qualche milioncino di sicuro e io mi chiedo: ma chi sgancia i soldi – produttori, consorzi, commissioni etc. – quando vede poi questa roba, rimane allo stesso posto? Non viene giubilato con peci e piume e magari anche nerbate con bambù fresco? Io mi chiedo come si faccia, veramente. Son troppo vecchio per tollerare ancora il cinema cagone da festival, compiaciuto e compiacente con i criticonzi che poi scrivono recensioni imbellettate. E mio padre me la pagherà cara. (Cinema Ariosto, Milano, 8/5/22)

1400 – La svolta di Riccardo Antonaroli, Italia 2002
Veloce, pulito, ben fotografato, ben recitato, con diverse ideuzze e una trama ben gestita. Un piccolo film con pochi difetti (il sonoro, forse… tra romanesco rubato e raccolta bassissima dopo un po’ abbiamo messo i sottotitoli) che ci ha fatto subito simpatia. Ludovico è un ragazzo irrisolto, solitario, inconcludente. Nella sua routine irrompe il criminale Jack, pieno di forza di vivere e in fuga: l’incontro porterà conseguenze imprevedibili (belle queste note di trama da quotidiano pigro). Thriller meticciato con la commedia all’italiana, ha un finale non consolatorio e tanti rimandi al cinema nostrano che fu (anche la commedia sexy!) ma in modo funzionale e ammiccante, senza compiacimenti e citazionismo autoreferenziale. Carino e riuscito. (Netflix, 21/5/22)

(Continua – 84)

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 06/07) – 61 https://www.carmillaonline.com/2014/07/03/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-61/ Thu, 03 Jul 2014 21:26:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15584 di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004 Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì. Venerdì arrivo presto [...]]]> di Dziga Cacace

Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!

ddv6101 Lost630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004
Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì.
Venerdì arrivo presto dall’ufficio, faccio una spesa blietzkrieg comprando cibi strategici e mi metto subito sotto, senza indugi, sono uno serio, io. Cioè vedo le prime quattro puntate del serial, sbafando patatine all’aceto e un caprice des dieux scartocciato e addentato come una banana. Sabato mi sveglio ad orario congruo e faccio il mio dovere professionale fino a tarda mattinata, quando ci stanno un kebab leggerissimo con Coca Cola e altre due puntate. Le vedo ruttando cipolla cruda. Riprendo a scrivere e a merenda gradisco ancora due episodi accompagnati da un Twix ciascheduno. Arrivo a sera stanco e un po’ appesantito, chissà perché, e allora ci sta una diavola presa sotto casa con litrozzo di Menabrea ghiacciata e come niente mi scoppio altre quattro puntate. Ormai ho preso il ritmo, sono a metà dell’opera (del cofanetto, intendo) e ho un’efficienza produttiva sudcoreana con rigore (e prevedibili punizioni, in caso di fallimento) nordcoreano. È già domenica e per pranzo concludo il mio lavoro, che non è neanche male. Santifico la festa e la libertà con Cipster, un intero salame di Piacenza ben stagionato che non mi preoccupo neanche di tagliare – tanto va via a morsi che è una meraviglia – e innaffiando il tutto con Lemonsoda a 4 gradi, uno dei piaceri della vita. Una festa a sorpresa per il mio colesterolo, ma chi ne gode di più sono i miei lobi cerebrali perché il fiero pasto viene consumato pazientemente mentre assumo dodici episodi di Lost, uno via l’altro, concedendomi giusto una pisciatina ogni tanto. E arrivato alla fine della maratona gastroseriale dichiaro convinto che probabilmente, ad oggi, questa è l’esperienza televisiva più clamorosa di ogni tempo. Fate questa semplice addizione: Robinson Crusoe + Cast Away + L’isola del dottor Moureau + Il signore delle mosche + il telefilm Le isole perdute + il videogame Monkey Island + la saga di Airport + L’isola del tesoro + il reality Survivors + l’estetica primi seventies e tutto l’immaginario pop che vi possa venire in mente. Ganci narrativi a profusione, apparato tecnico e artistico a livelli sublimi, attori azzeccati, dialoghi (in originale) perfetti: è impossibile mollarlo, è una droga potentissima, che il crack al confronto smetti quando vuoi. La storia la sapete e non ve la ripeto e l’intreccio è clamoroso. Ma la formula prevede anche flashback che illustrano il passato dei 14 protagonisti, formula quasi banale orchestrata magistralmente: ognuno ha un passato che nasconde qualcosa, tutti sono inspiegabilmente legati, anche senza saperlo. Alla fine ne viene fuori una macchina narrativa perfetta: si può fare di meglio, ma 24 episodi in 52 ore – dovendo lavorare – sono un mio personale piccolo record. Gli extra del cofanetto sono interessanti: i creatori di questa macchina da guerra sono tre trentenni adrenalinici, cazzoni e affilati come rasoi, capaci di mettere in piedi lo show – come lo chiamano loro – in pochi giorni, assoldando il cast mentre lo script era ancora in embrione. Oppure diciamo che la mitologia agiografica vuole così, ma non importa: la prima serie di Lost è un capolavoro, comunque vada a finire. (Dvd; 6, 7, 8/4/07)

ddv6102Douro632 – Compiacimento archeologico con Douro faina fluvial di Manoel De Oliveira, Portogallo 1931
Altra Vhs da estinguere, con una registrazione che mi aspetta da diversi anni: il primissimo film di De Oliveira, quando era appena ventitreenne. Il documentario è fortemente debitore del cinema sovietico ed è assimilabile alle tante “sinfonie urbane” di quegli anni. La vita sul fiume Douro, sotto il ponte Luiz I, dall’alba alla notte: grafismi, assonanze visive, dinamismi, nature morte, riflessi, ombre, particolari, montaggio analogico, primi piani, grandangolate. Ci rivedi dentro Ivens, Chomette, Ruttman, Clair (La Tour), Vertov, Vigo e molta avanguardia coeva: un film piccolo, bellissimo e montato da dio. Appagante il gusto per la bella immagine, pulita, pregnante. Non si è più abituati a questo nitore e la volgarità della tivù è nell’averci disabituato alla bellezza compositiva, all’inquadratura filmica come opera d’arte. Ecco. E De Oliveira l’anno prossimo compie cent’anni: ha cominciato col muto e il bianco e nero ed è ancora lì che gira e produce a tutto spiano. Magari chiava pure, non so. Pazzesco. (Vhs da RaiTre; 10/4/07)

ddv6103 JCS639 – Oddio, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, USA 1973
Nuova passione di Sofia duenne, che ne ha visto un pezzettino e non lo ha voluto mollare più. Ovviamente la visione è di pochi minuti per volta ed è rigidamente censurata quando le cose volgono al peggio per Nostro Signore Hippie. Il quesito che Sofia mi pone continuamente è perché litigano tutti (Gesù con Giuda, Giuda con gli apostoli, i farisei con Gesù etc.) e non s’immagina neanche lontanamente come finiscano malissimo tutte queste discussioni. Il film io lo ritrovo splendido e le ripetute visioni me ne fanno apprezzare ogni sfumatura. La musica, beh, è clamorosa, lo sappiamo già: prima di tutto, Jesus Christ Superstar è stato un disco strepitoso, realizzato perché in teatro nessuno si sentiva di produrre un’opera con protagonista Gesù. Se ti dicevano che l’ottica era quella di Giuda, poi… I due autori ventenni, Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, oggi baronetti, hanno poi fatto la storia del genere, ma all’epoca scommisero pesante. Girava una parola nuova, allora: “Superstar”. Decisero di fare i gggiovani e di usarla per un titolo che colpiva e per analogia costruirono un Gesù rockstar, con Giuda ideologo preoccupato dal troppo successo d’immagine che oscurava il messaggio. La storia acquisì anche sottotesti politici e, per me, una costante tensione omosessuale. Musicalmente siamo allo stato dell’arte del rock di quegli anni: influenzato dal pop, con reminiscenze di ragtime quando serve, perlopiù improntato da un rhythm and blues da infarto, non disdegnando tracce di psichedelia e hard (con la chitarra scatenata di Henry McCollough). Da contrapporre al Giuda discografico di Murray Head (quello di One Night In Bangkok!) serviva un Gesù potente e incazzoso, umano e non divino (stesse conclusioni di De André per il coevo La buona novella): l’ascolto delle urla barbariche di Child in Time sul non ancora pubblicato In Rock dei Deep Purple fece trovare l’uomo giusto, Ian Gillan. Maria Maddalena venne invece scovata per caso, mentre cantava in un club postribolare: era la Yvonne Elliman, che purtroppo dopo fu solo corista e amante di Clapton. Nell’ottobre 1970 uscì l’album doppio, da considerare assieme a Tommy capostipite di tutte le rock opera. Oggi siamo oltre le 20 milioni di copie vendute: avesse esordito come musical in un teatro di provincia non ne conosceremmo neppure l’esistenza. Invece il successo del disco fece fare due più due a qualche impresario che portò l’opera per 8 anni consecutivi nel West End londinese (record dell’epoca, oggi non so). Nel 1973 – sull’onda del successo ormai planetario – venne realizzato questo film meraviglioso che accentua gli anacronismi (e la stessa temperie hippie era già bella che passata) e leviga lo score musicale con l’orchestra, ma senza esagerare: infatti la chitarra continua a improvvisare a latere. Gillan, interpellato, non partecipò per impegni che dovete conoscere e nel cast subentrarono l’ottimo e strabico Ted Neeley e soprattutto il Giuda marxista che non dimenticheremo mai, Carl Anderson, morto tre anni fa, pace all’anima sua. In questo Jesus Christ Superstar sono eccezionali anche il montaggio, i costumi, la recitazione generale o le incredibili location on site, con il sole sempre basso (doveva fare un caldo dell’accidente, eh). Siccome sono prodotti del loro tempo – album doppio e film –, i critici li hanno sempre un po’ snobbati e li dimenticano ogni volta che bisogna fare una di quelle stupide classifiche che servono a riempire le riviste durante i mesi estivi. Ma sbagliano e le due opere meritano ancora oggi lo status di capolavoro assoluto. Oh, stiamo ben parlando di Dio, eh? (Dvd; maggio ’07)

ddv6104 Bova640 – Io, l’altro di uno inadeguato, Italia 2007
Devo confessare l’antefatto: nell’ultima puntata del programma tivù cui lavoro è stato ospite gradito Raoul Bova, un educatissimo gnoccolone – lo confermo per le lettrici femminili con la Bova alla bocca –, molto carino. E che a registrazione ultimata ci ha invitato tutti alla prima di un film che ha prodotto e interpretato, credendoci molto. Promettono tutti di venire ma al cinema mi presento solo io (redazione di paccari snob!) e siccome non ho faccia tosta abbastanza mi siedo in mezzo al pubblico plebeo e scoprirò solo dopo che avevo un posto riservato di fianco a Giorgio Armani. Pensa cosa s’è perso: un Cacace in camicia da boscaiolo e pantaloni cargo lerci, roba che ci tirava fuori due collezioni estate-inverno per l’uomo casual. Vabbeh: il film. Due pescatori, uno italiano, uno arabo, con lo stesso nome (Giuseppe e Youssef) lavorano assieme su un peschereccio, sinché non emergono dubbi e differenze e accuse. Va prevedibilmente a schifìo: il film ha sicuramente un intento meritorio ma il veleno del terrorismo raccontato da un regista con poche letture (il tunisino Mohsen Melliti) fa crollare le aspirazioni di un apologo teatrale molto scarno. I due attori (Bova e Giovanni Martorana) tengono in piedi il film nonostante lo script schematico, con passaggi di sceneggiatura che sfiorano il ridicolo e dialoghi maldestri a dir tanto. E qui la colpa è di sceneggiatori che per conto mio meriterebbero la radiazione dall’albo, se mai esiste, perché i buoni propositi non bastano. A fine proiezione esco dalla sala perplesso, pensando ai fatti miei, dimentico dell’atmosfera celebrativa e in cima alla scalinata che dà sull’esterno mi ritrovo all’improvviso abbracciato dal coraggioso Raoul Bova, accecato da un crepitare di flash che mi avranno sicuramente guadagnato una partecipazione involontaria a Sipario su Retequattro. Succede. A me. (Multisala Odeon, Milano; 14/5/07)

ddv6105 24641 – Lo stupefacente 24 – Season 1 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2001
Di questo seriale controverso e altamente addictive, che è il non plus ultra dell’adrenalina televisiva e che porta a un consumo compulsivo simile a quanto avviene con Lost, parlo più avanti. Qui rilevo solo l’incredibile finale del thriller spionistico, una cosa che mai potreste immaginare. Abbiate fede, procuratevelo, deliziatevene e andate all’incredibile, ricchissimo, innovativo e geniale parere d’autore (cioè il mio) che troverete alla rec. #655. (Dvd; maggio e giugno ’07)

ddv6106 Uccidete la democrazia642 – Lo spaventoso Uccidete la democrazia! di Ruben H. Oliva, Italia 2006
Documentario maldestro e, purtroppo, senza uno straccio di prova esibita, sulle elezioni politiche dell’anno scorso, quando nel corso di una giornata si passò da una vittoria schiacciante dell’armata Brancaleone di Prodi a una risicatissima maggioranza a notte fonda, pelo pelo, tanto che oggi ‘sto governo vivacchia sperando che la Levi Montalcini arrivi oltre i cento anni. A urne chiuse il nano gridò subito al broglio, e siccome “l’ho detto prima io” nessuno fece notare granché che il sospetto, al limite, era per chi aveva gestito informaticamente il voto, cioè il governo uscente. Vabbeh. Sennonché sulla vicenda è tornato quel drittone di D’Alema, parlandone en passant da Fabio Fazio, dicendo cose gravissime senza però andare fino in fondo alla faccenda (lui, Fazio, i giornalisti, tutti, CAZZO!), perché tanto siamo superiori o più semplicemente complici. Il documentario in questione affronta la vicenda ed è sgrammaticato, sceneggiato male, con escursioni narrative che confondono (Portella delle Ginestre, il cospiratore americano) e con parti ricostruite in fiction semplicemente agghiaccianti, da non poterci credere, al di là del bene e del male come recitazione e testo. Mi stupisce che nessuno si sia preso la briga di prendere una videocamera e un microfono per andare da D’Alema a fare la domanda che Fazio non ha fatto: “A Massimo bello, spiegami un po’ BENE cos’è successo… perché quando si stava mettendo veramente male hai mandato Minnitti al Viminale? Cos’ha fatto là?”. E poi, facendo la fatica di cambiare interlocutore: “Caro Minnitti, spiegaci perché arrivi tu e s’inverte la tendenza dei voti…”. E magari una domandina anche a Pisanu, via!, ministro responsabile dell’epoca. Perché il flusso anomalo di voti e l’anomalia statistica della scomparsa delle schede bianche (in tutte le regioni, con le stesse percentuali, mai successo in 50 anni di Repubblica), non sono una prova, però un bell’argomento sì. E invece rimane tutto lì, adombrato, guadagnando al film la facile accusa di complottismo. Peccato, ma proprio “no buono”, come diceva Andy Luotto. (Dvd; 21/5/07)

ddv6107 apocalypto645 – Corri! Arriva Apocalypto di Mel Gibson, USA 2006
Seratina genovese, con papà che sonnecchia mentre su Sky passa Ogni cosa è illuminata, film rischiosissimo, tratto da uno dei romanzi più belli letti di recente. A film finito (e direi riuscito) e papà a letto ito, rimango solo con un dvd che mi attira terribilmente. Qui ne hanno parlato tutti malissimo – lo so – perché Mel Gibson sta prepotentemente sulle palle ai nostri critici. Del resto è un fascistone. Ma oltremare il film è stato ben accolto. Io non ho visto Braveheart la Passione di Cristo per cui non ho preconcetti e se puttanata dev’essere, che puttanata sia: me lo vedo anche se è tardi perché di sonno non ne ho per niente, domani non lavoro e ho diritto ogni tanto anch’io, eccheccazzo, al diavolo l’ideologia. E poi per me Gibson rimane l’amabile tamarro con la testa gonfia di Arma letale, l’eroe post-atomico di Mad Max e il soldatino eroico de Gli anni spezzati, mio personale stracult. Gli perdono tante cose, insomma. E vengo premiato in toto perché Apocalypto è una sesquipedale e clamorosamente divertente stronzata, un videogioco indiavolato dove un povero maya della foresta dello Yucatan deve fuggire da rapitori carogne e sacerdoti amabili che ti estraggono il cuore senza anestesia. Non ho verificato l’attendibilità storica del prodottino, ma non m’importa per niente: il thriller azteco è ritmato, colorato ed efferato e va via che è una meraviglia. E poi – per fortuna, verrebbe da dire – arrivano i conquistadores che sbarcano a sinistra dello schermo, cioè percettivamente a ovest (come se arrivassero dall’oceano Pacifico, insomma): il ribaltamento di campo geografico mi manda in sbattimento psicomotorio, tipo pilota di jet che perde l’orizzonte, e mi consegna a un sonno inquieto. Apocalypto è come una parmigiana di melanzane bisunta: sai che non devi mangiarla, lo fai, ti strafoghi, ne godi. E poi hai gli incubi. (Dvd; 26/5/07)

ddv6108 HRCCacace a Mosca (con filmino ad hoc!)
Per la consueta settimana di festeggiamento annuale dei 138 Hard Rock Cafe sparsi nel mondo, me ne vò con Riccardo a Mosca, a riprendere il concerto del nostro amico Vic Vergeat.
L’arrivo nella capitale è incredibile: smog come a Mexico City e traffico come a Mumbay, con SUV giganteschi e Lada arrugginite fianco a fianco. I semafori sono a gusto della Polizia che può cambiare segnale all’improvviso, rendendo l’attraversamento pedonale divertente come una roulette russa. Il mio albergo è davanti al Ministero dell’Interno, un imponente palazzo staliniano che negli anni Cinquanta, se eri un Giovane Pioniere, doveva sembrarti un missile puntato verso il cosmo. O verso le tue terga se eri un dissidente. Dicono che l’albergo – molto frequentato da politici stranieri – sia controllato dai servizi segreti che l’hanno tutto cablato. Mah: non ci credo, non voglio intaccare il mio sincero fervore sovietico.
L’Hard Rock invece è davanti alla casa di Puskin, sul vecchio Arbat, il corso dove la gente fa le vasche come in tutto il mondo e dove puoi vedere splendide ragazze, militari sfaccendati, facce piatte di buriati e calmucchi, artisti fasulli che disegnano caricature invendibili e turisti che ci cascano. Aperto nel 2003, il locale presenta reliquie decisamente cafone come gli abiti di scena di Ozzy Osbourne e Paul Stanley dei Kiss, gli stivalazzi di quella gran signora di Lita Ford e anche la clamorosa chitarra dei Blue Öyster Cult, sagomata come il simbolo di Cronos. Il tocco indigeno è dato da qualche balalaika elettrica di artisti francamente ignoti a noi occidentali. E a tavola altro che bortsch e blinis: panini molto yankee e per i fanatici degli Aerosmith pure la “Quesadilla alla Joe Perry”, polletto con una salsina urticante con cui faccio merenda. E poi si può fumare che è un vantaggio niente male.
Dopo le prime prove acustiche e di regia torniamo in albergo a prepararci per la serata. Vic è inquieto e accusa curiosi fastidi alla schiena, sinché non scopre che è venuto in Russia con due scarpe diverse (!) che lo fanno zoppicare. Ci prepariamo ad uscire, vagamente storditi dalla conturbante frequentazione dell’albergo di donne single eleganti ed altere che intuisco potrebbero incenerirti la carta di credito. Ma io ho una faccia da deficit e non vengo considerato come possibile cliente. Ci succede di peggio: siamo nella hall con la band e, momento surreale come pochi, da una rumorosa delegazione di politici italiani si stacca l’ineffabile Giulio Tremonti – lui, giuro – che ci piomba addosso curioso. Vuol sapere chi siamo e che facciamo a Mosca e nella vita. Non a caso non si offre come commercialista a nessuno di noi. È lì con Bertinotti per non so quale incarico comunitario (Tremonti: “Una gvuan vottua di balle”) e quando sa del nostro concerto dell’indomani e dell’abilità di Vic esclama “Magavui mi imbuco!”. Fausto non ci degna che di un cenno e devo dire che tra il rotacismo dei due risulta più simpatico quello di destra, mannaggia.
Andiamo nel ristorante più quotato della capitale in questo momento, italiano. È tutto offerto dal fantastico organizzatore della trasferta Luca e siamo trattati come superstar, con cibi nostrani pregiati e freschissimi, come certe burratine che vengono fatte arrivare dalla Puglia con voli giornalieri. Fuori dal locale una teoria di Hummer corazzati tutti col motore acceso. Chiedo distrattamente il perché a chi sa di cose moscovite e la risposta mi lascia la burratina a metà gargarozzo: “Per scappare subito in caso di attentato”. Comincio a osservare allarmato la clientela e ai miei occhi diventano tutti mafiosi ceceni, trafficanti georgiani, industriali del gas e generici tagliagole. Si finisce con classici brindisi e abbracci lacrimosi con sconosciuti e seppur barcollanti guadagniamo di nuovo l’albergo. Ric dorme 9 ore consecutive, senza pipì; io sono svegliato dagli SMS di sua moglie e tormentato da un’aria condizionata siberiana inarrestabile.
Il giovedì mattina è dedicato a un ovvio pellegrinaggio alla piazza Rossa. Vic compra delle scarpe nuove ai magazzini GUM, io mi faccio turlupinare acquistando alcune memorabilia sovietiche palesemente false, Ric riprende tutto, anche quando una guardia ci invita ad abbassare le telecamere, non capiamo se volendo una mancetta o cosa. La piazza è grossa ma non come credevo e San Basilio è proprio piccina, un labirinto espressionista. Pranziamo all’Hard Rock Cafe e poi dedichiamo il pomeriggio a prove estenuanti, fino all’ennesimo frugale spuntino e al concerto vero e proprio, davanti a una cinquantina di persone.
ddv6109 MoscaDopo l’esibizione ceniamo per l’ennesima volta nel locale, un po’ appesantiti, francamente, e nell’euforia post partum Vic ci racconta convinto della storia dell’uomo bicazzo, cui Ric e io non crediamo assolutamente. Complice la birra prima e le vodke dopo chiedo curioso di come siano posizionati i peni e ipotizzo rapporti a “presa elettrica” con la famosa donna con due buchi del culo. Ric ha un attacco di risa isterico e in albergo deve prendere il Ventolin perché ha ancora l’affanno asmatico un’ora dopo. Però poi scopriamo che la difallia esiste eccome (sui due buchi del culo non ho investigato).
Il venerdì siamo ancora storditi da alcolici, fumo e rivelazioni morfologiche, ma ci concediamo una visita più accurata del centro di Mosca, ritornando infine sulla piazza Rossa e visitando l’emozionante monumento dei caduti della seconda guerra mondiale. Ci sono segni dell’impero sovietico un po’ ovunque, non nascosti, neanche esaltati, ma presenti. Come il paragone quasi orgoglioso tra Putin e Lenin. Poi è già ora di ritorno a casa e dopo due ore in coda fino all’aeroporto Sheremetyevo, con un tempismo da film thrilling saliamo a bordo. Mosca addio. Come diceva Abatantuono nell’immortale Eccezzziunale veramente: “Che popolo, lo slafo!”. Ah: poi al concerto Tremonti ha dato buca. (Live 13, 14, 15/6/07)

655 – 24 – Season 2 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2002
Se arrivate dalla recensione #641 vi ho fregati: per i miei pensierini su questa serie magistrale vi tocca aspettare la #688 perché, lo confesso, ciurlo nel manico anche nella #672. (Dvd; agosto ‘07)

ddv6110 History Of Violence660 – Non ho capito benissimo A History Of Violence di David Cronenberg, USA 2005
Mah! Adesso: non è che se un film lo firma Cronenberg, debba per forza essere un colpo di genio… io son rimasto freddo, confesso, mentre tutto il mondo ha gridato al miracolo. L’unica cosa che mi ha colpito è quando a metà pellicola c’è l’idea clamorosa della lite che finisce in trombata: Viggo Mortensen e Maria Bello litigano furiosamente, si menano di brutto e poi – dopo un’occhiata elettrica – scopano come cani per le scale di casa. Detto questo, mi pare un film algido, in qualche maniera irrisolto, che parte bene per poi andare totalmente sopra le righe nella seconda parte. Ma non sembra averlo notato nessuno. Boh, sbaglierò io! Ed ero pure di buon umore: l’oracolo immerso nella pipì ha confermato, l’anno prossimo ripartono le notti magiche perché arriva un altro figlio, oh yeah! (Dvd; 25/9/07)

(Continua – 61)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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