Ebert – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guerra e rivoluzione nell’immaginario cinematografico contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2022/11/12/rivoluzione-e-controrivoluzione-nellimmaginario-tedesco-contemporaneo-note-a-proposito-di-un-recente-film/ Sat, 12 Nov 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74704 di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto [...]]]> di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto in 44 lingue. Mentre per il cinema ha visto realizzate tre versioni, uscite grosso modo a quarant’anni di distanza l’una dall’altra: «All’ovest niente di nuovo» (All Quiet on the Western Front) diretto da Lewis Milestone (1930); «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (All Quiet on the Western Front), film TV diretto da Delbert Mann (1979) e, per finire, «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (Im Westen nichts Neues) diretto da Edward Berger (2022) e attualmente disponibile su Netflix.

Ed è proprio su quest’ultimo che vale la pena di tornare a riflettere, dopo la recensione già pubblicata su Carmilla domenica 6 novembre. Unico dei tre ad essere di produzione tedesca, mentre i primi due erano di produzione americana e anglo-americana, porta con sé alcuni elementi di indubbio valore, insieme ad altri che ne limitano l’efficacia, indirizzandone i contenuti più su problematiche di battaglia politica interne alla Germania attuale che alla sottolineatura dell’originario antimilitarismo voluto da Remarque nel suo libro. Vediamo ora perché.

Il romanzo descriveva l’inumanità della guerra in ogni suo aspetto, attraverso la prospettiva di un soldato diciannovenne, Paul Bäumer e si basava, almeno in parte sull’esperienza di guerra dell’autore che, dopo il compimento dei 18 anni, fu chiamato alle armi nell’Esercito imperiale tedesco con la sua classe di leva, nel novembre 1916, ed inquadrato inizialmente nel 78º Reggimento di fanteria.

Nel giugno 1917 fu assegnato al 15º Reggimento di fanteria della riserva e inviato nelle trincee delle Fiandre Occidentali. Il 31 luglio 1917 rimase ferito abbastanza gravemente e dopo essere stato dimesso il 31 ottobre 1918, venne infine congedato il 5 gennaio 1919.
Nella sua opera più famosa, Im Westen nichts Neues, con un linguaggio semplice e toccante descrisse in modo realistico la vita durante la guerra. Nel 1933 i nazisti bruciarono e misero al bando le opere di Remarque, mentre la propaganda di regime faceva circolare la voce che discendesse da ebrei francesi e che il suo cognome fosse Kramer, cioè il suo vero nome al contrario.

Il film di Edward Berger rispetta in parte la trama del romanzo e, va detto subito, è certamente uno dei film più realistici, insieme a Uomini contro di Francesco Rosi (1970) e Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014), a sua volta tratto da un racconto di Federico De Roberto (La paura) del 1921, sulle condizioni in cui si svolse la guerra di trincea che caratterizzò il primo conflitto mondiale, soprattutto sui fronti europei.

Un film che gronda letteralmente sangue, fango, violenza, paura, fame, orrore e merda. Sia fisica, quest’ultima, che ideologica. Ma che non sa sottrarsi alla vita politica della Germania odierna. E alle sue menzogne. Così, mentre la parte realistica patisce a tratti un eccesso di effetti drammatici che allontanano la narrazione da quella più stringata e per questo più efficace del libro, quella storico-politica, ben poco presente nell’opera di Remarque, avanza giustificazioni sul comportamento della socialdemocrazia tedesca che possono forse far piacere all’attuale cancelliere Olaf Scholz, ma che sicuramente non rispettano gli eventi accaduti in Germani sul finire di quel conflitto. E anche al suo inizio, che segnò la catastrofe della Seconda Internazionale con il tradimento degli ideali internazionalisti e antimilitaristi che avrebbero dovuto caratterizzare il movimento operaio e i partiti socialisti.

Il troppo umanitarismo, soprattutto mostrato nella figura del ministro che firma l’armistizio con gli alleati, nasconde e ignora gli eventi, prossimi all’esplosione rivoluzionaria, che spinsero nel 1918 il governo tedesco (e probabilmente anche quelli alleati) a cercare una rapida, anche se costosa, soluzione del conflitto. Dimostrando così come nell’immaginario collettivo odierno, pilotato dagli interessi nazionali e dall’ordine costituito, ogni riferimento alla rivoluzione o all’azione dal basso in direzione di un governo dei consigli costituisca il vero, inviolabile tabù.

Come ha scritto lo storico Fritz Fischer, a proposito di quegli eventi:

Con la richiesta di inoltrare immediatamente domanda di armistizio, presentata dal Comando supremo dell’esercito al governo del Reich, la Germania doveva rinunciare alla lotta; non si poteva più parlare seriamente di mire belliche tedesche. La Germania ormai poteva considerarsi fortunata se fosse riuscita a salvare ancora almeno la sua posizione di grande potenz europea e semplicemente cavarsela liscia dall’inevitabile sconfitta […] Come via d’uscita [il ministro degli esteri Paul von Hintze il 29 settembre 1918] fissò la «fusione di tutte le energie della nazione per la battaglia difensiva finale» per mezzo della dittatura o della democratizzazione, della «rivoluzione dall’alto». Il Kaiser e i generali rifiutarono la «dittatura» – per poterla realizzare era necessaria la vittoria – e si dichiararono favorevoli a «incanalare» la democratizzazione secondo laproposta di Hintze. Questa mobilitazione delle ultime forze doveva servire a estorcere un armistizio ed una pace fondati sulle proposte del presidente americano Wilson […] Il Kaiser, il Comando supremo, il governo del Reich erano d’accordo sia con la «rivoluzione dall’alto», sia con i principi di Wilson.[…]
Da questo momento tutti gli sforzi tedeschi per la pace si concentrarono sugli Stati Uniti d’America. In conformità con gli accordi del 29 settembre, il nuovo governo tedesco presieduto dal principe Max del Baden pregò pertanto il presidente Wilson nelle prime de note del 3 ottobre 1918 «di prendere l’iniziativa per stabilire la pace» e per addivenire a un armistizio immediato, dichiarando la volontà della Germania di accettare una pace fondata sui 14 punti1.
Contemporaneamente procedeva la «democratizzazione». Ma nella Germania imperiale la vittoria delle istituzioni parlamentari e democratiche [era] il frutto di una premeditata «rivoluzione dall’alto», per prevenire la «rivoluzione dal basso» e porsi al tempo stesso in una posizione il più possibile favorevole ai fini delle trattative con le potenze vincitrici […] Per la prima volta nella storia tedesca l’ingresso nel governo di capi partito della fama di Erzberger [leader della sinistra del partito cattolico] e Scheidemann [principale esponente parlamentare della Socialdemocrazia tedesca] conferì al gabinetto carattere parlamentare. Il Reichstag sanzionò molto più tardi, il 27 ottobre, con l’approvazione accordata alle leggi di modifica costituzionale presentate dal governo, dietro pressioni di Wilson, la nuova evoluzione che doveva rendere il parlamento titolare della sovranità. Comunque, troppo tardi per arrestare la rivoluzione, che arrivò ancora a scoppiare per via degli indugi nelle trattative d’armistizio e del timore che la guerra avesse a continuare.
Al tempo stesso, la vittoria sulla rivoluzione conseguita grazie all’alleanza tra il capo della socialdemocrazia maggioritaria Ebert e Hindenburg, che era rimasto alla testa dell’esercito dopo l’abdicazione di Guglielmo II, doveva costituire agli occhi delle potenze occidentali la migliore raccomanzazione della giovane repubblica, che sperava di veder mitigare le condizioni di pace per via della sua qualifica di antesignana della lotta contro il bolscevismo. In effetti gli alleati, proprio per via della funzione stabilizzatrice che il governo Ebert- Noske esercitava nel cuore dell’Europa2, permisero con le loro condizioni di armistizio che la Germania continuasse a tenere le sue truppe all’Est contro la rivoluzione rossa, fino a quando non fossero sostituite da forze alleate3.

Certo, anche nel testo di Remarque mancano queste riflessioni ma, in compenso, in maniera asciutta ed efficace, i veri mostri si dimostrano essere quelli del nazionalismo o della disciplina militare prussiana, e sono mostrati nella figura del docente liceale che convince gli studenti ad arruolarsi e negli ufficiali rigidi esecutori degli ordini. E ciò basta a delineare il clima in cui Paul, Albert, Haie, Müller e Kat recitano gli ultimi imponderabili atti delle loro esistenze, prima studentesche o proletarie. Mentre uno solo sarà destinato a salvarsi, Tjaden.

Ed è proprio il finale del libro a mostrare tutta la distanza, tra il film di oggi e la scrittura di allora, nel descrivere la morte, un mese prima della fine della guerra, di Paul che ha narrato le vicende in prima persona fino a poche righe prima.

Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla sul terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così 4.

Ma se le differenze a livello di narrazione e drammatizzazione possono essere pienamente comprensibili e spesso condivisibili, soprattutto quando il film mette particolarmente in risalto la miseria della vita dei soldati nelle retrovie e al fronte, in special modo la fame5 e il desiderio di una donna, niente affatto comprensibile e ancor meno condivisibile è la scelta di “esaltare” la figura dei rappresentanti del nascente governo parlamentare e dei socialdemocratici.

Sia per la funzione avuta da questi ultimi, soprattutto all’inizio della guerra, nel votare i crediti governativi in appoggio al nazionalismo tedesco, sia per la funzione autenticamente controrivoluzionaria svolta da quel governo al momento della sua nascita, con la decapitazione del movimento spartachista anche per mezzo dei Freikorps6, l’instaurazione di una politica volta allo stesso tempo a garantire, per la borghesia tedesca, una “pacifica” transizione dall’Impero alla repubblica parlamentare e la sostituzione delle istanze di classe, avanzate dai consigli degli operai, dei soldati e dei marinai che si andavano formando nelle settimane a cavallo della fine della guerra, con le richieste di stabilità e continuità avanzate dalla borghesia industriale, dal comando dell’esercito e dai rappresentanti degli junker e della aristocrazia terriera e militare.

Come il nascente nazismo abbia poi ripagato i rappresentati di quell’esperienza governativa è stata la storia degli anni successivi, fino dall’elezione a cancelliere di Hitler nel 1933, a dimostrarlo. Quello che infastidisce, perciò, ancor di più nel film è il maldestro tentativo di separare con una improbabile linea netta le responsabilità politiche, militari e, perché no, morali della socialdemocrazia tedesca da quelle dell’esercito e dei governi precedenti, creando una figura di riferimento “ideale” dal punto di vista del “male” nella figura del generale che invia a poche ore dalla fine della guerra i propri soldati al massacro, In un’azione insensata, così come si vorrebbe sostenere da sempre che il nazismo non affondasse le sue radici nel nazionalismo, negli interessi economici e militari della borghesia e dell’aristocrazia tedesca, ma soltanto in una distorta e malata concezione del mondo.

Ecco allora che anche i soldati devono essere dipinti come pecoroni, ancor più che pecore, disposti ad obbedire a qualsiasi ordine, anche il più assurdo. Dimenticando, però, che proprio nei giorni finali del conflitto, durante i quali si svolge la maggior parte degli avvenimenti della seconda parte del film, i soldati e i marinai stavano insorgendo, ribellandosi proprio contro quegli ordini, quei generali e quello Stato che la socialdemocrazia fu chiamata a difendere, giuste le considerazioni svolte prima da Fischer. Ancor più, e soprattutto, dopo l’abdicazione del Kaiser e la proclamazione della Repubblica il 9 novembre 1918.

Proiettato sul momento attuale, quel fraintendimento non appare affatto casuale o non voluto. Da una parte la socialdemocrazia odierna, guidata da Olaf Scholz, dall’altra i cattivi dell’AFL, in mezzo la Germania con tutte le sue difficoltà (economiche, energetiche, militari…) che, per senso del dovere e della patria i socialdemocratici di oggi, come quelli di ieri, devono affrontare e risolvere. A costo di far precipitare ancora una volta il paese in una guerra (se a fianco della Nato o meno è ancora da decidere) indiscutibilmente “mondiale” oltre che europea.

Ecco perché allora l’opera di Berger appare non solo ambigua, ma anche servile nei confronti di interessi che sono ancora gli stessi di quelli che contribuirono a scatenare il primo e, anche, il secondo conflitto mondiale. Autentiche lacrime di coccodrillo che coprono, cercando di annebbiare lo sguardo dello spettatore, quell’atto di eroismo collettivo che andò dalle prime rivolte dei soldati e dei marinai del novembre 1918, che costrinsero governo e comandi militari ad accelerare i tempi dell’armistizio, all’insurrezione di Berlino tra il 5 e il 12 gennaio 19197. Unico, autentico barbaglio di luce in un tempo che oggi, per opportunismo intellettuale o per semplice ignoranza della Storia, si vorrebbe rappresentare soltanto come nero e oscuro.


  1. Si veda qui per i 14 punti di Wilson – NdR.  

  2. Reprimendo l’insurrezione spartachista del gennaio 1919 e ordinando l’eliminazione fisica, poi avvenuta in quei giorni, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht- NdR.  

  3. F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1965, pp. 813-815  

  4. E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Oscar Mondadori, novembre 1965, p. 237  

  5. Ad esempio, nel romanzo di Remarque, Kat muore per una scheggia di shrapnel nel cervello invece che per aver rubato delle uova in una cascina.  

  6. Corpi franchi o milizie volontarie irregolari in cui erano arruolati ex- militari e combattenti dall’indirizzo decisamente anti-bolscevico e nazionalista  

  7. Per il susseguirsi degli eventi rivoluzionari in Germania fino al 1923, si consultino: Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923, Einaudi, Torino 1977; P. Frolich-R.Lindau-A. Schreiner-J. Walcher, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania 1918-1920, Edizioni Pantarei, Milano 2001; P. Frolich, Guerra e politica in Germania 1914-1918, Edizioni Pantarei, Milano 1995; A. Rosemberg, Origini della Repubblica di Weimar, Sansoni, Firenze 1972; D. Authier-J. Barrot, La Sinistra Comunista in Germania, La Salamandra, Milano 1981; E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in Occidente, Dedalo Libri, Bari 1974; V. Serge, Germania 1923. La mancata rivoluzione, Graphos, Genova 2003  

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Appuntamenti mancati, indirizzi sbagliati https://www.carmillaonline.com/2016/05/09/appuntamenti-mancati-indirizzi-sbagliati/ Mon, 09 May 2016 20:30:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30419 di Sandro Moiso Copertina1923

Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00

Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra Comunista italiana ed internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare, della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua ultima fatica editoriale pertanto si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo, si propone come un’importante riflessione su temi e problemi ancora di cocente [...]]]> di Sandro Moiso Copertina1923

Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00

Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra Comunista italiana ed internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare, della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua ultima fatica editoriale pertanto si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo, si propone come un’importante riflessione su temi e problemi ancora di cocente attualità. Primo tra tutti quello della centralità , o meno, della classe operaia e del suo ruolo all’interno di un radicale sovvertimento del modo di produzione attuale e della politica di alleanze che, attraverso le sue organizzazioni e partiti, dovrebbe saper mettere in piedi in una tale prospettiva. Ben al di là, naturalmente, della “egemonia”, principalmente culturale, teorizzata da Gramsci.

Tema delicato in cui una sorta di idealizzazione della stessa, ricollegabile alle trasformazioni avvenute forse più a partire più dall’inizio del ‘900 che ai fondatori del socialismo, ha forse raggiunto nell’operaismo degli anni settanta, e nei suoi attuali epigoni, il suo limite e il suo massimo rilievo teorico.1

Fin dalla premessa l’autore si chiede, a proposito della mancata rivoluzione tedesca del 1923, “perché fino a oggi l’argomento in Italia è stato affrontato in modo più che fuggevole, nonostante il fatto che in quel tentativo siano stati coinvolti all’incirca un milione di lavoratori e varie centinaia di migliaia di comunisti, e non solo tedeschi, cosa che nella storia non si era mai verificata prima e non si è più verificata successivamente. Dalla storiografia di tipo accademico c’era da aspettarselo: quello che si è rivelato come un «non evento» non poteva suscitare grande interesse”.

Osservando, però, subito dopo che “Si potrà essere o meno d’accordo su singoli aspetti della nostra analisi, ma non si potrà evitare di riconoscere che i motivi veri della sconfitta in Germania (primo fra tutti il mancato riconoscimento dell’idea che la rivoluzione comunista doveva avere carattere popolare o non sarebbe stata, idea presente, anche se poco considerata, nel famoso opuscolo di Lenin sull’Estremismo) siano esistiti e necessitino ancora di una seria discussione, nonostante la mole d’acqua che è passata sotto i ponti della storia.
Purtroppo in Italia, e non solo in Italia, ha circolato e alimentato, con effetti disastrosi, la cultura di quella che è stata chiamata «sinistra rivoluzionaria» la tesi secondo la quale la rivoluzione nei paesi sviluppati sarebbe stata, e sarebbe ancora al risveglio della classe operaia, di estrema «semplicità», con uno svolgimento positivo assicurabile da un grado spinto di intransigenza formale rispetto a obiettivi programmatici generalissimi. Ristabilire la verità sul 1923 in Germania, che ha attestato proprio l’esatto contrario della «semplicità» del processo rivoluzionario in Occidente, è quanto abbiamo cercato di fare
”.

Il tema centrale dello studio qui esaminato riguarda quindi le possibili strategie e tattiche di un percorso politico destinato a sfociare nel superamento dei rapporti di produzione e dominio di carattere capitalistico. Tema che Basile focalizza soprattutto analizzando l’azione del Partito Comunista Tedesco che, all’epoca, costituiva il secondo partito, numericamente e per ordine di importanza, dopo quello bolscevico all’interno dell’Internazionale Comunista.2

Era chiaro che il proletariato tedesco non poteva restare inerte di fronte alle ripercussioni della crisi mondiale sulla disastrata economia del paese e alla progressiva svalutazione del danaro, all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e di prima necessità, alla crescita della disoccupazione e all’impoverimento di sempre più vasti settori della popolazione, per la quale giorno dopo giorno si aggravava ovviamente anche il problema delle abitazioni. Ed era altrettanto chiaro che la KPD (Partito Comunista Tedesco) non poteva sottrarsi al compito di dare a questo fenomeno una prospettiva politica pratica, fuori da un ambito propagandistico generale”.

Ma, in Germania, proprio l’orientamento operaista significò “contrapporre alcune decine di milioni di lavoratori al resto della popolazione, che ammontava a un po’ più di sessanta milioni, tra la quale, nel vuoto lasciato dai comunisti e dagli stessi socialdemocratici, cominciarono a prendere sempre più piede le destre e l’estrema destra (i nazionalisti, i gruppi paramilitari reazionari derivati dai Corpi Franchi, l’Orgesch, i völkischen e i nazionalsocialisti), che sfruttarono la protesta sociale cercando di indirizzarla anche in senso fisico contro il movimento operaio e le sue organizzazioni”. La rivoluzione non poteva certo vincere lasciando da parte più della metà della popolazione del paese.

Il dramma prese inizio a partire dall’entrata sul territorio tedesco delle truppe franco-belghe che fin dal 10 gennaio 1923 “occuparono nei giorni successivi Düsseldorf, Bochum e Dortmund. La Germania perse così il 40 per cento del suo ferro, il 70 per cento della sua ghisa e l’88 per cento del suo carbone […]La Germania fu trascinata in una spirale inflazionistica peggiore di quella in atto, voluta dai finanzieri e dagli industriali speculatori, che liquidò la resistenza, investì i risparmiatori, assumendo l’aspetto di un’espropriazione sistematica delle classi medie e precipitando i lavoratori in una miseria inaudita. Il cambio del marco tedesco, a pochi mesi di distanza dall’occupazione della Ruhr, passò da 48.000 in maggio a 4,6 milioni per un dollaro in agosto. Si può facilmente immaginare l’abisso in cui repentinamente precipitarono le condizioni di vita della popolazione. Scoppiarono infatti vere e proprie «rivolte della fame» in parecchie città. E il tasso di cambio continuò a salire”.

Karl Radek, all’epoca uno dei più important rappresentanti del Partito Bolscevico e dell’Internazionale, ebbe ad osservare che i comunisti, in tale situazione, avrebbero avuto tutto l’interesse a non consegnare all’imperialismo francese il cuore della rivoluzione: il bacino della Ruhr.
Sempre Radek affermò che “Il fatto decisivo in tutta la situazione è che una grande nazione industriale è stata ridotta al rango di una colonia. Questa sconfitta della borghesia tedesca suscita un grande movimento rivoluzionario. Il nazionalismo, che un tempo era soltanto uno strumento per rafforzare i governi borghesi, si converte in un fattore di accelerazione dell’attuale rovina capitalistica

E continua poi ancora: “Il partito tedesco non si è affatto adattato all’ondata nazionale, esso non ha smesso di incoraggiare la fraternizzazione con i soldati francesi […], ma la KPD non deve trascurare che la differenza tra il nazionalismo e gli interessi rivoluzionari della nazione tedesca che sono adesso la stessa cosa degli interessi nazionali rivoluzionari del proletariato […] Quello che viene definito nazionalismo tedesco non è soltanto nazionalismo, bensì un vasto movimento nazionale d’importanza rivoluzionaria. Le ampie masse piccolo borghesi, le masse dei tecnici e degli intellettuali, che svolgeranno un ruolo importante nella rivoluzione proletaria per il fatto che nel sistema borghese tutte queste masse vengono schiacciate, declassate e proletarizzate, danno ai loro rapporti con il capitalismo degenerato la forma di una ribellione nazionale. […] Noi dobbiamo combattere l’ideologia nazionalistica, aprire gli occhi alle masse che ne sono strumentalizzate. Ma se non vogliamo essere un mero partito operaio di opposizione, ma un partito operaio che combatte per il potere dobbiamo trovare il cammino che conduce a queste masse”.

Agli inizi di luglio, si verificò il montare spontaneo di scioperi rivendicativi a causa del crollo del marco e dell’aumento vertiginoso di tutti i prezzi, con il governo che sembrava in procinto di dichiarare bancarotta. Contemporaneamente gli occupanti francesi e belgi nella Ruhr spingevano avanti un movimento secessionista e in Baviera il governo di estrema destra si muoveva per rendersi autonomo da Berlino; la Reichswehr, con i gruppi paramilitari fascisti, si preparava dal canto suo a intervenire contro i governi operai della Sassonia e della Turingia.
La Centrale della KPD lanciò un appello per organizzare in tutto il paese per la fine del mese una «giornata antifascista» che prevedeva la mobilitazione dei proletari contro la minaccia del fascismo e l’agitazione tra le masse piccolo borghesi per separarle dai loro dirigenti.

Ma tale appello portò, progressivamente a far dipendere sempre di più l’azione dei comunisti e delle masse già potenzialmente in rivolta dalle scelte operate dal partito socialdemocratico e dal sindacato con cui si era cercata l’alleanza a discapito di un’azione allargata anche a quei settori “nazionalisti” che, di fronte ad un’azione più decisa della KPD, avrebbero dovuto decidere se stare dalla parte del capitale o dei lavoratori e dei contadini . Così quando, di fronte agli scontri che si verificarono in alcune prove preliminari a ridosso di scioperi rivendicativi, la polizia della Prussia e il governo del Reich vietarono la manifestazione, si propose di svolgere la manifestazione stessa soltanto là dove, come in Sassonia e in Turingia, non fosse stata sospesa dalle autorità o dove, come nella Ruhr e nell’Alta Slesia, queste ultime non potessero impedirla. Nel resto del paese si sarebbero dovuti tenere comizi in spazi chiusi. In considerazione anche del fatto che i fascisti sembravano molto superiori ai comunisti quanto ad armamento e sarebbe stato utopico credere che i socialdemocratici avrebbero seguito i comunisti nel caso di scontri diretti, nei quali la polizia, trovandosi di fronte a nulla più che una dimostrazione di protesta, sarebbe stata tra l’altro dalla parte dei fascisti.

Ai primi di agosto, la Commissione di Berlino dei sindacati, nella quale era presente una forte componente socialdemocratica, sia di destra sia di sinistra, invitò l’ADGB (Allgemeine Deutsche Gewerkschaftsbund – Confederazione generale dei sindacati tedeschi), la SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Tedesco), l’USPD (Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco) e la KPD a una riunione di «concertazione», ma questa iniziativa fu surclassata subito dalle azioni di massa e dagli scontri con la polizia e con l’esercito che, con morti e feriti in varie città, fecero aumentare ancor più la tensione.

Ruolo propulsore nella dichiarazione di uno sciopero generale di tre giorni ebbero i comitati di fabbrica, che avevano raggiunto il numero di ventimila, con un Consiglio d’azione a livello nazionale, presieduto da un comunista, che l’11 agosto esso approvò un programma in nove punti: dimissioni del governo, formazione di un governo operaio e contadino, requisizione dei viveri e loro distribuzione sotto il controllo delle organizzazioni proletarie, riconoscimento ufficiale dei comitati di vigilanza appositamente costituiti, decadenza dell’interdizione degli organismi operai di autodifesa, salario orario minimo, riassunzione dei disoccupati, revoca dello stato d’assedio e del divieto di manifestare, liberazione dei prigionieri politici operai.

Lo stesso giorno il partito socialdemocratico fu costretto ad annunciare la fine del proprio sostegno al governo Cuno che si dimise. L’incarico di formare un nuovo governo fu affidato da Ebert, presidente socialdemocratico della repubblica, al deputato popolare Gustav Stresemann. Questi diede vita a un ministero di «grande coalizione». Su tale base la socialdemocrazia, pronta a voltare le spalle alle lotte operaie e all’ipotesi di un accordo con i comunisti, appoggiò Stresemann ed entrò nel governo con quattro ministri.

A poco a poco, nel giro di una settimana, le lotte si esaurirono. Cominciarono arresti e licenziamenti (che raggiunsero la cifra di centomila verso la fine del mese). Anche i vertici dei comitati di fabbrica furono colpiti dalla repressione, così come l’apparato della KPD.
Nel partito si fece strada, lentamente e nonostante forti incertezze, l’idea che forse la situazione era più matura per un’azione rivoluzionaria di quanto esso avesse ritenuto fino alla «giornata antifascista» di fine luglio. Le lotte rivendicative degli operai e dei disoccupati erano nel frattempo ricominciate, così come quelle per la casa e per gli approvvigionamenti, mentre si moltiplicavano gli scontri con la polizia e con l’esercito.

A settembre nel giro di alcune settimane, la Germania diventò l’argomento principale degli interventi pubblici dei dirigenti sovietici, dei loro discorsi nei congressi, sindacali o d’altro genere, il centro dell’attenzione della stampa sovietica. In particolare ebbe inizio l’impegno per sostenere le strutture militari della KPD e di quelli che erano chiamati organismi di difesa della classe operaia o «Centurie proletarie». Un generale sovietico già presente in Germania fu posto alla loro testa con lo pseudonimo di Helmuth Wolf e furono creati apparati specifici per l’addestramento militare, per lo spionaggio, per la penetrazione nella polizia e nell’esercito e per le azioni di sabotaggio e terroristiche.

centuria Per quanto riguarda le Centurie proletarie, esse erano state pazientemente costituite agli inizi dell’anno. Il 15 maggio erano state vietate in Prussia, misura presa a ruota in altre regioni, e ciò aveva ostacolato il loro sviluppo, costringendo gli organizzatori a mascherarle come servizi d’ordine o associazioni sportive. Se a maggio ne esistevano 300 in tutta la Germania, in luglio crebbero a 900, per un totale di circa centomila uomini, la metà dei quali concentrati in Sassonia e Turingia, con forti presenze anche nella Ruhr e a Berlino. Nella maggior parte dei casi si trattava di organismi, basati nelle aziende o nelle varie località, a composizione mista, di membri della KPD, dei sindacati e della socialdemocrazia.

L’armamento delle Centurie in ottobre, nell’ipotesi migliore, a parte le pistole, non superava i 50.000 fucili. Si approntarono anche riserve di esplosivi, si svaligiarono botteghe di armaioli e si organizzarono vari furti nelle caserme. In Sassonia si impiantò addirittura una fabbrica clandestina di armi e munizioni.Lo sforzo militare compiuto in pochi mesi fu davvero considerevole. Ma, rapportato alla società tedesca, agli effettivi e all’armamento della Reichswehr, della polizia e dei gruppi paramilitari d’estrema destra, esso appare del tutto inadeguato.

Mentre i comunisti entravano nei governi della Sassonia e della Turingia a fianco dei socialdemocratici, il generale Müller in Sassonia, fin dagli ultimi giorni di settembre, aveva rafforzato lo stato d’emergenza, attribuendo alla Reichswehr il compito di assicurare l’ordine pubblico, vietando ogni manifestazione di strada e gli scioperi, annunciando lo scioglimento delle Centurie proletarie e il ritorno della politica locale ai propri compiti tradizionali di pura amministrazione.
Cosa non meno importante, egli aveva ordinato alle banche di non consegnare i fondi chiesti dai ministri del governo di Dresda. Nello stesso modo si era comportato il generale Reinhardt in Turingia, dove tutto si svolse più o meno come in Sassonia, con la stessa violenza anche se con maggiore lentezza. Il 5 ottobre era stata sospesa la stampa comunista. Ma le truppe erano rimaste consegnate momentaneamente nelle caserme.

La tensione cresceva. Dal ministero sassone dell’economia partì una richiesta alle banche di Dresda per l’apertura di un credito di 150 miliardi di marchi-oro che avrebbe permesso di effettuare gli acquisti più urgenti di generi alimentari per 700.000 abitanti ridotti letteralmente al lumicino.
Le banche comunicarono che il credito sarebbe stato messo a disposizione del generale Müller. La Baviera sospese le vendite del latte e dei prodotti caseari in genere in Sassonia e i granai del Reich aumentarono i prezzi del 41%. Per la Turingia la situazione non era diversa. Era in atto un vero e proprio blocco contro le regioni rosse.

La Reichswehr si mobilitò nelle strade e nelle piazze dove le proteste, anche in Sassonia, contro l’intervento militare prendevano sempre più l’aspetto di una rivolta: di nuovo ad Amburgo, ad Aquisgrana, Berlino, Düsseldorf, Erfurt, Cassel, Essen, Colonia, Francoforte, Hannover, Beuthen, Lubecca, Braunschweig e Allenstein. Questa collera non poteva giungere da sola al livello dell’azione rivoluzionaria: essa, di fronte al protrarsi eventuale della repressione, non poteva trasformarsi in altro che in una rassegnazione disperata. Ma non esisteva soltanto il proletariato, per la piccola borghesia, più pauperizzata che mai, e i ranghi intermedi e inferiori delle forze armate la capitolazione nella Ruhr aveva accresciuto piuttosto che diminuito l’ira, anche se ne beneficiava l’estrema destra, a causa della debolezza che sulla questione specifica aveva recentemente mostrato il KPD che senza un’azione rivoluzionaria diretta, non poteva provocare crepe reali nella forza dello Stato.

Il 20 ottobre i dirigenti comunisti incaricati dell’insurrezione si riunirono clandestinamente a Dresda e sottolinearono unanimemente che prima della data prevista per l’insurrezione era necessario che il proletariato sassone chiamasse in proprio aiuto l’insieme dei lavoratori tedeschi. Solo durante lo sciopero generale, in cui questo aiuto si doveva esprimere e che sarebbe stato indetto da una conferenza dei comitati di fabbrica convocata a Chemnitz il giorno successivo, sarebbe iniziato il sollevamento armato. Ai segretari di distretto si comunicò che il 23 le Centurie e i gruppi d’assalto sarebbero entrati in azione, attaccando caserme e posti di polizia, occupando i nodi stradali, le stazioni, gli uffici postali e gli edifici amministrativi.

Ma, per i tentennamenti e i rifiuti opposti da una parte della socialdemocrazia e degli operai ad essa legati questo ordine finì con l’essere sospeso e solo ad Amburgo (dove i comunisti erano in condizioni di marcata inferiorità rispetto ai socialdemocratici), a causa dell’abbandono in anticipo della riunione della Centrale da parte di un rappresentante dell’organizzazione cittadina, questi partì convinto che l’insurrezione fosse confermata e l’attacco iniziò come stabilito, ma, ovviamente, senza mobilitazione delle masse. All’alba del 23 ottobre, l’organizzazione di combattimento del partito (composta da un po’ più di un migliaio di militanti) attaccò i posti di polizia dei sobborghi della città per rifornirsi di armi e fornirne anche alle Centurie proletarie, che erano state formate, ma non ne disponevano. Poi si puntò verso il centro della città. Mancando la mobilitazione proletaria, per lo meno nelle proporzioni che avrebbe dovuto avere – non si può dire che fu proprio del tutto assente –, l’azione si esaurì in ventiquattr’ore, nella consapevolezza dell’isolamento in cui si svolgeva, a causa della preponderanza delle forze avversarie (la polizia contava varie migliaia di uomini che furono rincalzati via mare). Il partito riuscì a organizzare abbastanza efficacemente la ritirata. Sul terreno restarono alcune decine di morti da ambo le parti. Molti furono i feriti e vennero arrestati un centinaio di comunisti.

Nei giorni seguenti lo stato d’emergenza dichiarato dal governo e l’azione decisa della Reichswehr portarono all’eliminazione dei “governi operai” della Sassonia e della Turingia, sostituiti da governi a cui capo vi erano rappresentanti della destra socialdemocratica e finiva così in un fiasco l’ultima occasione, prima dell’avvento del nazismo, che la più importante classe operaia e il più grande partito comunista dell’Occidente avessero mai avuto.

Che in quel fiasco l’incapacità di allargare un fronte dal basso alle esigenze di altri settori di società, non solo operai, abbia avuto un ruolo è cosa certa per l’autore, che conclude il suo lavoro citando Lenin nel 1916 che, in occasione dell’insurrezione irlandese, aveva scritto: “Le fiamme delle insurrezioni nazionali, dovute alla crisi dell’imperialismo, sono divampate sia nelle colonie sia in Europa e […] le simpatie e antipatie nazionali si sono manifestate nonostante le minacce di misure draconiane di repressione. […] La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, […] potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere […] e attuare le altre misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all’abbattimento della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si «epurerà» dalle scorie piccolo borghesi tutt’altro che di colpo. […] Non è […] chiaro che in questo senso meno che in ogni altro è lecito contrapporre l’Europa alle colonie? La lotta delle nazioni oppresse in Europa, capace di giungere sino all’insurrezione e alla lotta di strada, sino a spezzare la ferrea disciplina dell’esercito e dello stato d’assedio, «inasprisce la crisi rivoluzionaria in Europa» con forza immensamente maggiore di un’insurrezione molto più sviluppata in una lontana colonia”.

Giunto a questo punto, devo scusarmi con il lettore, per la lunga dissertazione tesa a riassumere i fatti narrati (con maggior dovizia di particolari) nel testo, ma la conoscenza di quegli errori e di tentennamenti, di quei dibattiti a livello tedesco ed internazionale di cui furono protagonisti tutti i maggiori rappresentanti dell’Internazionale Comunista (che l’autore riporta con estrema fedeltà e con un’abbondante raccolta di relazioni e discorsi) non ancora stalinizzata, vale ancora la pena di essere approfondita e conosciuta, non soltanto per pedanteria storica o per il piacere della citazione.parigi 1 maggio

Si può non essere d’accordo con la tesi dell’autore, ma è certo che, e forse soprattutto, oggi la questione della capacità per un movimento antagonista di essere portatore di istanza collettive globali, da Occupy Wall Street al movimento NoTAV passando per Taranto fino al rifiuto dei pareggi di bilancio e delle leggi sul lavoro imposti da Bruxelles e dai governi che ne sono ispirati fino ai diritti dei migranti e degli immigrati, resta un terreno di scontro, ricerca teorica, organizzazione ed azione che proprio l’opposizione di una parte del sindacato al referendum sulle trivelle o l’appoggio alla disperata ed iniqua scelta tra posto di lavoro e salute dei cittadini oppure l’appoggio di una parte delle ex-sinistre alle politiche europee, dimostrano essere ancora centrale e vitale.

Così come si dimostra ancora essenziale la riflessione sul legame tra lotte di classe e questioni nazionali, dalla Palestina al Kurdistan fino al Donbass, e su ciò che si intende come internazionalismo e che non può essere semplificato solamente attraverso la richiesta dell’abolizione di tutti i confini. Oppure su svariati altri temi, come la spontaneità o meno di un’insurrezione, che Corrado Basile tocca nel corso della sua indagine e di cui occorre qui lasciare al lettore l’onere della scoperta.


  1. Come precisa lo stesso autore “Con orientamento operaista intendiamo il fatto di concentrare l’attenzione sui problemi che in modo diretto e immediato riguardavano la condizione dei lavoratori, trascurando tutti gli altri come di second’ordine se non peggio”  

  2. Secondo le fonti disponibili, i membri della KPD nel 1922 dovevano essere circa 220.000, per lo più operai. I giovani comunisti erano 30.000. L’organizzazione si basava sul centralismo democratico. Il partito disponeva di 38 quotidiani con 340.000 abbonati. I deputati al Reichstag erano 14, nei parlamenti regionali erano presenti 72 deputati; i consiglieri municipali erano 12.000 e la KPD disponeva della maggioranza assoluta in 80 consigli e relativa in 170. Dopo il partito bolscevico quello tedesco era il più importante partito della Terza Internazionale. I comunisti influenzavano due milioni e mezzo di lavoratori attraverso i sindacati, i comitati di fabbrica e le organizzazioni dei disoccupati. I comitati di fabbrica erano strutture legali dal 1920 e avevano raggiunto una consistenza numerica considerevole, con un congresso e un consiglio d’azione nazionale orientato molto a sinistra  

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