Dune – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La saga di Alien tra orrore cosmico e capitalismo dello spazio profondo https://www.carmillaonline.com/2024/09/25/alien-tra-orrore-cosmico-e-capitalismo-dello-spazio-profondo/ Wed, 25 Sep 2024 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84441 di Sandro Moiso

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, pp. 246, 20,00 euro

Quando nel 1979 un ancor giovane Ridley Scott, alla sua seconda regia di un lungometraggio, portò sugli schermi Alien probabilmente nessuno, e tanto meno il regista inglese, avrebbe potuto anche solo lontanamente pensare che tale film stesse per dare inizio ad una delle saghe fantascientifiche cinematografiche più durature, complesse e articolate. Una saga ampliatasi ben al di là degli schermi cinematografici per espandersi nei comics, videogiochi, serie televisive e, più in [...]]]> di Sandro Moiso

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, pp. 246, 20,00 euro

Quando nel 1979 un ancor giovane Ridley Scott, alla sua seconda regia di un lungometraggio, portò sugli schermi Alien probabilmente nessuno, e tanto meno il regista inglese, avrebbe potuto anche solo lontanamente pensare che tale film stesse per dare inizio ad una delle saghe fantascientifiche cinematografiche più durature, complesse e articolate. Una saga ampliatasi ben al di là degli schermi cinematografici per espandersi nei comics, videogiochi, serie televisive e, più in generale, nell’immaginario collettivo e nelle paure inconsce di milioni di spettatori di tutte le età.

Anche se l’ultimo prodotto cinematografico ispirato alle vicende degli Xenomorfi e del loro atroce coinvolgimento nelle disavventure di equipaggi spaziali umani del tutto incapaci di far fronte alla loro minaccia, Alien Romulus di Fede Álvarez, nonostante un ottimo inizio e il successo al botteghino si sia rivelato come il più debole di quelli realizzati fino ad ora, vale la pena di ripercorrere le vicende della ideazione e della realizzazione delle storie contenute nella saga e, soprattutto, le riflessioni e invenzioni scientifiche, letterarie, filosofiche, religiose e tecnico-economiche che in esse si annidano.

A guidare il lettore nell’autentico e interessante, oltre che caotico, labirinto formato dall’insieme degli infiniti rivoli di orrore e paura sgorgati da quella fonte iniziale ci pensano Paolo Riberi e Giancarlo Genta con il volume appena uscito per le edizioni Mimesis. Il primo, laureato in Filologia e letterature dell’antichità e in Economia presso l’Università deli Studi di Torino, è giornalista, studioso di storia antica e letteratura delle origini cristiane oltre che membro della Società Italiana di Storia delle Religioni e autore di vari saggi dedicati al mondo dei vangeli apocrifi e alla simbologia del cinema contemporaneo.

Il secondo è professore emerito di Costruzione di macchine presso il Politecnico di Torino, membro dell’Accademia delle Scienze della stessa città e dell’Accademia Internazionale di Astronautica. E’ autore di numerosi testi di formazione, di articoli e di volumi sull’esplorazione spaziale e il programma Search for Extra-Terrestrial Intelligence, oltre che di sei romanzi di fantascienza e di un altro saggio in coppia con Riberi, anch’esso edito da Mimesis, sul ciclo di Dune di Frank Herbert (qui).

Diviso in tre parti riguardanti, nell’ordine, la saga stessa e la sua ideazione e realizzazione, i rapporti della stessa con il mito e la filosofia e, per ultima, quelli con la scienza e l’economia, il testo si rivela come un’autentica bibbia per tutti gli appassionati non soltanto del ciclo degli Xenomorfi, ma della fantascienza in generale. Qui il recensore, però, non potrà che riprenderne e sottolinearne alcuni aspetti, lasciando ai lettori la scoperta dei numerosi altri.

Nella prima parte, comprensiva di una ricostruzione in ordine cronologico degli eventi narrati nei primi sei film, sicuramente la parte del leone la fa la ricostruzione dei conflitti, delle rivalità tra sceneggiatori e successivi registi e dei dubbi della casa di produzione cinematografica, la 20th Century Fox, che portarono alla realizzazione del cult movie nel 1979. Una ricostruzione che vede tra i protagonisti Dan O’Bannon, John Carpenter, Walter Hill, Ridley Scott, James Cameron, Sigourney Weaver (destinata a dare volto e corpo ad una delle figure femminili più iconiche della cinematografia degli ultimi quarant’anni), Alejandro Jodorowsky (con il suo fallimentare progetto di un film, basato sul ciclo di Dune di Frank Herbert, della durata prevista di dieci ore) e Ron Shusett al quale, in definitiva, si deve l’idea di coniugare «le sfumature dei racconti di Howard P. Lovecraft con i tabù sessuali più oscuri della storia dell’Occidente», con la creazione «di un mostro alieno che, dopo essere salito a bordo di un’astronave umana, “violenta uno dell’equipaggio, gli salta sulla faccia, gli infila un tubo nel corpo, introduce il suo seme e poi fuoriesce dal suo stomaco”»1.

A costoro vanno aggiunti almeno tre importanti artisti e illustratori: lo statunitense Ron Cobb, destinato a dare forma alle astronavi del ciclo; il francese Jean Giraud alias Moebius, ideatore delle tute spaziali e, soprattutto, lo svizzero Hans Ruedi Giger dai cui disegni e illustrazioni da incubo sarà tratta la forma definitiva, allo stesso tempo oscena e spaventosa, del primo Xenomorfo. Immagine tratta, come tra l’altro molte di quelle che animavano i racconti di H. P. Lovecraft, direttamente dagli incubi dell’autore.

Ma non sono soltanto gli incubi notturni di Giger a far sì che sia possibile un rinvio dell’intera saga all’immaginario lovecraftiano, poiché i principali protagonisti della sua ideazione e realizzazione, da O’Bannon a Shusett fino allo stesso Ridley Scott (che nel complesso sarà responsabile della realizzazione di tre film dei primi sei di quelli appartenenti alla saga ed esclusi quelli della serie “parallela” Alien Vs. Predator), solo per citarne alcuni, saranno tutti “discepoli” e amanti dell’opera del solitario di Providence.

Il cui concetto di “orrore cosmico”, come ben si dimostra nell’apposito capitolo contenuto nella seconda parte del testo è sostanzialmente alla base dell’intero ciclo. Come affermano gli autori, la sua influenza su Alien è innegabile, così come quella del suo Necronomicon, libro maledetto scaturito totalmente dalla fantasia e dagli incubi dello scrittore americano, ma ripreso in seguito come fonte di ispirazione non soltanto per i suoi romanzi e racconti ma anche per un numero infinito di altri appartenenti ad altri autori. Oltre che per i disegni di Giger, da cui sarebbe stata ripresa quasi integralmente la morfologia della creatura figlia dello spazio profondo.

A ben vedere, la stessa immagine del mostro che fuoriesce all’improvviso dal petto della vittima dopo averla dilaniata dall’interno è già presente nei racconti lovecraftiani: in La casa delle streghe, il mostruoso famiglio dai denti aguzzi Brown Jen­kin, con il viso e le mani umanoidi, e il corpo di topo, si comporta esattamente come il chestbuster di Alien, uccidendo il povero protagonista Walter Gilm […] Analogamente – osserva il critico cinematografico Davide Co­motti – “l’abominio che fuoriesce dalle uova (il facehugger) è un essere tentacolare che ricorda da vicino lo Cthulhu lovecraftia­no”, mentre lo Xenomorfo, “che viene definito dal robot [Ash] come un superstite, richiama i Grandi Antichi, mostruosità innominabili anch’esse ricorrenti negli scritti di Lovecraft”2.

Ma più che nelle immagini orrorifiche e nelle creature mostruose oppure nelle trame, la vicinanza maggiore tra la saga e Lovecraft sta proprio nella filosofia di fondo che li sostiene, poiché:

L’alieno non è mai soltanto un “predatore dello spazio”, un parassita o un animale feroce, bensì un’entità molto più oscura e incomprensibile, al pari di Cthulhu e del folle Yog-Sothoth. Come direbbe Charles Darwin – parlando dei suoi “Xenomorfi in miniatura” – si tratta di un’entità così assurda da indurci a negare l’esistenza stessa di Dio…3

Così come sembrano confermare le recenti osservazioni del fisico Carlo Rovelli e del teologo Giuseppe Tanzella-Nitti:

Se le costanti della fisica fondamentale fossero diverse, come sarebbe il mondo? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che noi non ci saremmo, perché il mondo che ci ha generato è quello di queste costanti, non di altre. Questo per noi ha un enorme valore. Quindi ci sembra, rispetto a ciò a cui noi diamo valore, che le costanti siano fissate «stranamente» proprio per generare ciò a cui noi diamo valore, cioè noi stessi. L’errore che stiamo commettendo è di non vedere che noi abbiamo ovviamente valore, siamo ovviamente «speciali», ma lo siamo rispetto a noi stessi. Se l’universo fosse diverso, sarebbe quello che sarebbe […]. Nulla, della stretta dipendenza di ciò che esiste dalle costanti, può legittimamente essere interpretato come prodotto da un disegno intelligente. Se la struttura e l’evoluzione dell’universo rispondono all’intenzione di un Dio Creatore, ciò non può essere dedotto dalle osservazioni e dalle misure proprie del metodo scientifico4.

In un universo in cui «la vita stessa è una temporanea anomalia frutto del caso, che dal Nulla nasce, e al Nulla ritorna. Non c’è più spazio per alcuna legge, sia essa di natura morale, giuridica o fisico-scientifica»5. Dove predominano la morte, il caos e la distruzione, esattamente come in quello dell’ateo e visionario Lovecraft al cui centro balla Yog-Sothoth, dio nudo e idiota, in una cacofonia di flauti e tamburi. Di cui lo pseudo-biblium Necronomicon, traducibile come Libro delle leggi dei morti, costituisce l’anti-Bibbia per eccellenza. Un universo casuale in cui il mondo non è stato affatto creato per l’uomo e in cui il cosmo caotico che lo circonda lo tollera a malapena, poiché i Grandi Antichi oppure i loro corrispondenti Ingegneri, compresi nella saga, hanno probabilmente creato la vita e l’uomo stesso per errore oppure come semplice e atroce esperimento oppure, ancora, per dare ospitalità nei loro corpi al seme degli Xenomorfi affinché questi ultimi possano riprodursi su scala più ampia e diffusa. Attraverso la filosofia e l’opera dell’autore statunitense avviene così

lo svelamento di una verità profonda e incontrovertibile (“la più terribile concezione del cervello umano”), ovvero la consapevolezza di essere del tutto soli di fronte alla sconfinata vastità dell’universo. Alla base di queste teorie c’è il radicale ateismo dell’autore: vivendo pur sempre nei primi anni del Novecento, ossia un tempo fortemente influenzato dal pensiero di Arthur Schopenhauer e di Friedrich Nietzsche, Lovecraft rifiuta alla radice l’ottimistica visione del mondo giudaico-cristiana, sostenendo di “non essere mai riuscito a placarsi con le dolci illusioni della religione”. Il suo categorico rifiuto lo induce a ripudiare non soltanto l’idea di un benevolo Dio Padre, ma – coerentemente – anche la concezione umanista che deriva dalla Bibbia, e che nel corso degli ultimi due millenni ha plasmato la storia dell’Occidente: per Lovecraft, il cosmo è un abisso oscuro e misterioso, che non ha al proprio centro né la Terra, né tantomeno l’uomo, e che non risponde a quelle “immutabili leggi della natura” a cui l’homo sapiens, con i suoi studi scientifici, ha preteso di attribuire una valenza universale e assoluta6.

Tanto per Lovecraft quanto per Alien l’approdo finale non può che consistere nel cosiddetto nichilismo: se Dio non esiste – e non esiste neppure un ordine razionale dell’universo – allora nulla ha davvero senso, e l’unica certezza diventa il Nulla supremo, oppure come avrebbe affermato il colonnello Walter Kurtz in un altro celebre film, null’altro che «l’orrore, l’orrore!»7.

L’unico appunto che si potrebbe fare a questa parte del testo, certamente una delle più interessanti, è dovuto al fatto che gli autori si sono un po’ troppo basati sulle considerazioni derivate dalle opere sulla vita e l’opera di Lovecraft del controverso Sebastiano Fusco, più che su quella monumentale e più autorevole di S. T. Joshi8.

Il riferimento precedente al film di Coppola ispirato a Cuore di tenebra di Joseph Conrad non è casuale, poiché fin dal primo film di Ridley Scott altri elementi conradiani sono comparsi nella saga di Alien. Ad esempio il nome dell’astronave su cui iniziano le avventure di Ellen Ripley è Nostromo, mentre quello della scialuppa di salvataggio sulla quale si salverà la stessa figura femminile interpretata da Sigourney Weaver è Narcissus, nomi presi entrambi a prestito da romanzi brevi dell’anglo-polacco Conrad.

Ed è proprio a partire dalla Nostromo che inizia nella saga quella riflessione sull’espansione capitalistica nello spazio che occupa un capitolo nella terza e ultima parte del libro di Riberi e Genta. Una riflessione che fin dalle prime immagini porta il conflitto salariale e di classe nello spazio profondo e che vedrà nella Weyland-Yutani Corporation la massima espressione dell’avidità e indifferenza del capitale nei confronti dei suoi dipendenti e dell’intera specie umana.

Ecco allora che tutto quanto si è detto e citato prima a riguardo dell’inesistenza di un “piano regolatore” delle vicende umane e del cosmo trova la sua perfetta adesione alle finalità anonime e distruttive riconducibili agli interessi dell’accumulazione capitalistica. Costi quel che costi, anche in termini di devastazione delle esistenze dei singoli oppure di interi pianeti. Un’ipotesi che sembra essere non del tutto approfondita dai due autori che preferiscono lasciare, forse, un filo di speranza a chi legge ma che già oggi, nelle “imprese” spaziali private di Elon Musk e nelle su promesse di conquista di Marte, iniziano a dare i primi segni del bisogno di espansione infinita del capitale e del suo sogno di eternità. Ben rappresentato dagli obiettivi iniziali del fondatore della stessa corporation Weyland -Yutani.

Una disponibilità a divorare vite, ricchezze accumulate socialmente e digerite privatamente, pianeti interi che ben si accompagna all’immagine degli Xenomorfi e degli incoscienti Ingegneri o Space Jokey che perseguono piani non del tutto chiari nemmeno a loro. In cui la creazione si accompagna alla distruzione, lasciando spesso soltanto un mondo di rovine e di guerre senza fine e senza scopo. Una visione apocalittica, e qui ancora il riferimento all’Apocalisse di Coppola, per cui l’intera saga costituisce una delle critiche più radicali del modo di produzione capitalistico, la cui massima espressione sembra essere, oggi sulla Terra e domani nello spazio profondo, la guerra.

Tema indagato soprattutto nell’espansione della saga nei comics e per questo motivo non troppo sottolineato all’interno della ricerca pubblicata da Mimesis. Rimane comunque ancora il profumo di un altro autore di fantascienza, il vecchio Jules Verne, che già nel sul Dalla Terra alla Luna, nel 1865, illustrava il grande interesse finanziario contenuto nel battage pubblicitario destinato a raccogliere i fondi per il lancio del proiettile/navicella verso la Luna.

Sbagliò di poco i conti lo scrittore di allora rispetto al tempo impiegato nel 1969 dalla Apollo 11 per portare gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla superficie lunare e centrò invece perfettamente l’obbiettivo dell’operazione. Cosa che gli sforzi di Musk oggi confermano, in attesa che una Weyland-Yutani di domani riporti sul pianeta qualche strano essere più adatto a fare la guerra e a dominare il cosmo di quanto lo sia la specie umana. Forse ancora “troppo umana” e dunque sostanzialmente inutile per le finalità ultime del capitale.


  1. P. Riberi, G. Genta, I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024, p.16.  

  2. P. Riberi, G. Genta, op. cit., pp. 90-91.  

  3. Ibidem, p. 97.  

  4. Carlo Rovelli, Giuseppe Tanzella-Nitti, Universo, un disegno poco intelligente: la scienza non può dimostrare l’esistenza di Dio, Corriere della sera qui  

  5. P. Riberi, G. Genta, op.cit., p.105.  

  6. Ibid., pp. 104-105.  

  7. Interpretato da Marlon Brando nel film, di Francis Ford Coppola, Apocalypse Now nel 1979.  

  8. S. T. Joshi, Io sono Providence: la vita e i tempi di H.P. Lovecraft, 3 voll, Providence press  

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Rebuilding America: Civil War di Alex Garland https://www.carmillaonline.com/2024/04/25/re-building-america-civil-war-di-alex-garland/ Thu, 25 Apr 2024 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82189 di Sandro Moiso

– Chi siete? – Siamo americani. – Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in [...]]]> di Sandro Moiso

– Chi siete?
– Siamo americani.
– Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in un panorama politico e culturale asfittico come quello italiano, diviso tra l’intimismo cinematografico troppo spesso travestito da impegno civile e lo sciapo dibattito “antifascista” sulla censura all’ancor più insipido monologo di chi vorrebbe atteggiarsi a novello Matteotti, esplode letteralmente sullo schermo e nello sguardo dello spettatore. Con una forza e una virulenza ormai lontane da qualsiasi prodotto della nostra intellighenzia vacua e perbenista.

Alexander Medawar Garland, scrittore di romanzi e già sceneggiatore di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle, non è la prima volta che porta sullo schermo le possibili conseguenze di una violenza a lungo repressa e negata che può, però, trasformarsi in autentica guerra interna alle società che si credono più evolute e liberali. Ma se nell’opera che gli ha dato la celebrità come sceneggiatore il tema era ancora collegato ad un contesto di carattere grosso modo fantascientifico e anticipatorio, Civil War ci parla, sostanzialmente, del qui e adesso.


Il viaggio della veterana fotoreporter di guerra Lee, dei due giornalisti Joel e Sammy e dell’aspirante e acerba fotoreporter Jessie, non è un viaggio in un futuro distopico, ma fa precipitare lo spettatore nelle contraddizioni di una guerra civile latente già visibile oggi, per gli osservatori più attenti, nelle pieghe di una società sorta da una guerra civile mai del tutto risolta e che da anni torna a presentarsi come inevitabile necessità storica1.

Sono 758 miglia quelle che separano New York, punto di partenza dell’equipe di reporter, da Washington, punto di arrivo programmato per un’ultima e incerta intervista a un Presidente degli Stati Uniti ferocemente abbarbicato al potere, ma ormai circondato dalle truppe del Fronte Occidentale, dell’alleanza tra Texas e California (i due stati più grandi dell’Unione), che hanno mantenuto le strisce bianche e rosse della bandiera nazionale riducendo però le stelle a due, e dell’Alleanza della Florida.

New York è sconvolta dalle proteste per le miserabili condizioni di vita e dagli attentati suicidi dei più disperati delle tendopoli che si sono sviluppate nelle vie della ex-Grande Mela, sul modello di quelle attuali e reali di Los Angeles. Così il viaggio, per motivi di convenienza, punterà prima ad ovest per poi rientrare verso est all’altezza di Charlottesville in Virginia. Quella Virginia che, nel 1862, durante la guerra civile “storica” vide una importante vittoria delle armate secessioniste del Sud e che proprio da lì, sotto la guida del generale Lee, decisero di attraversare il Potomac per marciare su Washington.

E’ un paesaggio di autostrade piene di mezzi civili e militari distrutti e abbandonati, di centri commerciali diventati zona di guerra e di campi profughi organizzati negli stadi; di crudeltà di ogni genere compiute da una parte contro l’altra, anche se ben si recepisce che le parti in gioco siano ben più di due, animate spesso da motivazioni diverse eppure guidate dalla stessa ferocia. Di cadaveri abbandonati nei parcheggi dei mall oppure nelle fosse comuni e cosparsi di calce oppure di corpi seviziati, umiliati e offesi in ogni modo, appesi ai cavalcavia se non negli autolavaggi. Di uccisioni a sangue freddo dopo interrogatori sommari oppure senza neanche il bisogno di quelli: la Land of the Free viene fotografata, letteralmente, in tutta la sua possibile barbarie, mentre la musica dei Suicide, da Rocket USA a Dream Baby Dream, funge egregiamente da viatico per l’impresa2.

E’ come se la guerra e la violenza esportata per decenni dall’impero occidentale nel resto del mondo, spesso sotto le spoglie di colpi di stato e guerre civili, avesse deciso di rientrare nel grembo materno, per divorare il corpo della madre dall’interno. Eppure, anche se qui e là appaiono cecchini dalle unghie smaltate, le camicie hawaiane dei Boogaloo Boys o gli sguardi esaltati che ricordano gli assalitori di Capitol Hill, non sono le milizie locali o le armi “casalinghe” a determinare il gioco delle parti, ma forze armate ben addestrate al compito di uccidere e distruggere, dotate di un arsenale e un potenziale di fuoco che comprende armi pesanti, carri armati, elicotteri, blindati Humvee e di ogni altro genere.

L’esercito si è evidentemente disgregato come la Guardia Nazionale, ma la macchina bellica e i suoi armamenti sono rimasti ben oliati e funzionanti e così, mentre le ultime truppe lealiste difendono Washington e il presidente annuncia ripetutamente, come d’uopo anche in questi giorni a proposito di Ucraina e Medio Oriente, la prossima storica vittoria delle forze del bene, tutto viene distrutto oppure violato, insieme alle ultime difese, al Lincoln Memorial e alla stessa Casa Bianca.

La violenza dispiegata è ben più terribile di quella immaginata ai tempi dei film che prevedevano invasioni sovietiche e nord-coreane degli Stati Uniti, come Alba rossa (Red Dawn, 1984) di John Milius. Quarant’anni non sono trascorsi invano, né nella storia reale del declino dell’impero né, tanto meno, per l’immaginario cinematografico americano che spesso, anche là dove non osa parlare della possibile guerra civile che attende l’impero, non smorza certo i toni della critica al dominio imperiale sul resto del mondo, sia nelle serie televisive che, in maniera mediata dalla fantascienza epica, in produzioni come Dune I e II del canadese Denis Villeneuve.

Non ci dice il film a quale campo appartenga il presidente, se repubblicano o democratico, in fin dei conti non occorre, anche se certamente tanta critica ben pensante nostrana e tanto pubblico avrebbero preferito una situazione più definita, per poter almeno parteggiare per una delle due parti in causa. Ma ciò che realmente conta è che il dollaro americano ha perso il suo valore e che la vita può esser considerata normale soltanto una volta accettata la normalità della guerra.

La produzione anglo-americana è seria. Sa che una guerra civile di tali proporzioni non è il prodotto di una semplice e retorica battaglia tra democrazia e autoritarismo oppure riconducibile ad una “lotta di classe” ridotta a teatrino tra due facilmente riconoscibili e “pure” classi in lotta: borghesia e proletariato. Come si è già affermato in un testo di alcuni anni or sono, la categoria di guerra civile può infatti costituire:

un elemento più adeguato per l’interpretazione di un insieme di contraddizioni sociali e di lotte manifestatesi a livello internazionale con una certa frequenza e intensità nel corso degli ultimi anni, la cui eterogeneità organizzativa e di scopi può difficilmente essere ancora rinchiusa soltanto all’interno della più tradizionale, e forse riduttiva, formula di lotta o guerra di classe. Contraddizioni sul piano sociale, economico e ambientale agite da attori multipli, cui gli Stati, indipendentemente dalla loro collocazione geopolitica, hanno dato, quasi sempre, risposte di carattere repressivo ed autoritario3.

Ma che proprio negli Stati Uniti potrebbe trovare, come ci indica il film di Garland, il suo punto finale di espressione. Anche se non è soltanto Garland a suggerirlo, ma anche svariati e attenti studi sulla realtà americana4.

Tralasciando, per ora, il contenuto più evidentemente politico e sociologico del film, oltre a sottolineare l’essenzialità della regia di un film a medio costo e la bravura delle interpreti e degli attori, da Kirsten Dunst (Lee), Wagner Moura (Joel), Stephen McKinley Henderson (Sammy), Cailee Spaeny (Jessie) fino a Jesse Piemons (nei panni di un militare ultranazionalista), quello che occorre qui ancora sottolineare è un altro e importante aspetto delle vicende narrate.

Si tratta della differenza che intercorre tra fotografare la realtà della guerra oppure descriverla in un articolo. La differenza tra lo sguardo e la parola e il diverso collegamento tra occhio e mente rispetto a quello tra la facoltà di scrivere e la riflessione necessaria per metterla in atto. La prima azione è immediata e non può permettersi il lusso della mediazione, mentre la seconda fa della capacità di mediazione interpretativa il suo punto di forza. In altre parole: il reporter, se vuole, può re-inventarsi la guerra, rimuovendo ciò che potrebbe ferirlo di più, mentre il fotoreporter deve per forza accettarne gli aspetti più dolorosi, pena il venir meno alla sua funzione.

Questa semplice e immediata considerazione sembra riflettersi nel carattere dei personaggi, nelle loro scelte e nel loro destino. Apparentemente più cinica e distaccata appare la fotoreporter più vecchia, pienamente in grado, però, di trasmettere alla sua giovane “erede” la capacità di cogliere il momento attraverso lo scatto, costi quel che costi sia sul piano fisico che emozionale. Uno sporco mestiere in cui l’”attimo fuggente” è tutto e richiede di saper scollegare la sensibilità dalla disposizione ad agire automaticamente per mezzo della macchina fotografica, anche a costo di perdere la propria umanità, proprio per trasmettere al grande pubblico la disumanità di ogni guerra. Oppure conservarla dentro di sé, fimo ad esserne straziati, come accade a Lee, che proprio in virtù di questo è, però, ancora l’unica capace di un gesto estremo .

Mentre il giornalista può comunque prendere tempo per narrare i fatti attraverso la mediazione della scrittura. In viaggio, sul campo di battaglia oppure in uno di quegli hotel per giornalisti tipici delle zone di guerra che nel film, almeno per una volta, non sono più soltanto in Medio Oriente, Asia, Africa o sui confini orientali d’Europa, ma in una New York in cui l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 sembra costituire, più che un preavviso o un avvertimento, soltanto un pallido ricordo, mentre il cratere di Ground Zero sembra aver davvero inghiottito definitivamente tutto.


  1. Si veda in proposito quanto precedentemente affermato dall’autore di questo articolo qui, qui e qui.  

  2. A proposito del seminale gruppo musicale americano si veda qui  

  3. S. Moiso, Miseria, repressione e crollo delle verità/mondo: ovvero perché parlare ancora di guerra civile, introduzione a S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 9-10.  

  4. Si veda in proposito, solo per citare alcune riflessioni più recenti, la Parte III del numero 3/2024 di Limes, Mal d’America, con i saggi di Chris Griswold, Michael Bible, Kenneth J, Heineman, Tiziano Bonazzi, Jeremy D. Mayer, Mark J. Rozell e Jacob Ware, pp. 201-248.  

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Dune nell’immaginario di ieri e di oggi https://www.carmillaonline.com/2024/02/20/dune-nellimmaginario-di-ieri-e-di-oggi/ Tue, 20 Feb 2024 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80944 di Gioacchino Toni

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Dune. Storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides, Mimesis, Milano-Udine 2024,

Dune può dirsi un vero e proprio mito contemporaneo capace di segnare profondamente l’immaginario collettivo nato a metà anni Sessanta del secolo scorso dalla creatività narrativa dello statunitense Frank Herbert, per poi svilupparsi nel corso del tempo attraverso diversi romanzi dello stresso scrittore che ne espandono le vicende narrate, numerosi prequel scritti da altri autori, più o meno fedeli allo spirito e alle vicende introdotte da Herbert, adattamenti cinematografici solo progettati o rivelatisi disastrosi insuccessi al botteghino e, [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Riberi, Giancarlo Genta, I segreti di Dune. Storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides, Mimesis, Milano-Udine 2024,

Dune può dirsi un vero e proprio mito contemporaneo capace di segnare profondamente l’immaginario collettivo nato a metà anni Sessanta del secolo scorso dalla creatività narrativa dello statunitense Frank Herbert, per poi svilupparsi nel corso del tempo attraverso diversi romanzi dello stresso scrittore che ne espandono le vicende narrate, numerosi prequel scritti da altri autori, più o meno fedeli allo spirito e alle vicende introdotte da Herbert, adattamenti cinematografici solo progettati o rivelatisi disastrosi insuccessi al botteghino e, in epoca recente, serie televisive e nuove proposte cinematografiche finalmente capaci di tradurre in ambito audiovisivo con una certa fedeltà la fervida creatività dello scrittore statunitense e di soddisfare pubblico e critica.

Questa colossale saga letteriario-audiovisiva nasce dunque con il romanzo di fantascienza Dune di Frank Herbert pubblicato nel 1965 in cui vengono fatti confluire i suoi racconti Dune World e The Prophet of Dune precedentemente pubblicati sulla rivista “Analog SF” tra il 1963 ed il 1965. Vincitrice dei premi i Hugo e Nebula, l’opera di Herbert si è rivelata capace di segnare in maniera indelebile l’immaginario degli appassionati di fantascienza dell’epoca riverberandosi fino ai nostri giorni.

Forte del successo ottenuto con il romanzo del 1965, è lo stesso Herbert ad espande la saga con altri titoli: Messia di Dune (Dune Messiah, 1969), I figli di Dune (Children of Dune, 1977), L’Imperatore-Dio di Dune (God Emperor of Dune, 1981), Gli eretici di Dune (Heretics of Dune, 1984) e La rifondazione di Dune (Chapterhouse: Dune, 1985).

Dagli appunti stesi dallo scrittore scomparso nel 1986, il figlio Brian insieme a Kevin J. Anderson, pur con minori consensi di critica e di pubblico, oltre a portare a compimento la parabola narrativa dello scrittore realizzando I cacciatori di Dune (Hunters of Dune, 2006) e I vermi della sabbia di Dune (Sandworms of Dune, 2007), danno poi vita a una lunga serie di prequel ancora in corso di pubblicazione composta dalle trilogie Legends of Dune (2002-2004), Le Grandi Scuole di Dune (Great Schools of Dune, 2012-2016) inedita in Italia, Preludio a Dune (Prelude to Dune, 1999-2001), La Trilogia di Caladan (The Caladan Trilogy, 2020-2022), Gli Eroi di Dune (Heroes of Dune, 2008-2023)1.

I prequel realizzati da Brian Herbert e Kevin J. Anderson contrastano con gli accadimenti narrati nel volume Enciclopedia di Dune (The Dune Encyclopedia, 1984) scritto da Willis Everett McNelly con l’autorizzazione di Frank Herbert, evidentemente non intenzionato ad occuparsi direttamente della narrazione di eventi precedenti i fatti raccontati nel suo ciclo di opere.

La storia cinematografica di Dune prende invece il via con l’acquisizione dei diritti da parte del produttore Arthur P. Jacobs che però muore improvvisamente prima che il regista David Lean inizi le riprese del film sulla base di una riduzione del romanzo a cui hanno lavorato Joe Ford e Bob Greenut con la sceneggiata di John Boorman.

È dunque la volta di un nuovo progetto cinematografico affidato nel 1974 da un consorzio francese con a capo Jean-Paul Gibon al regista visionario Alejandro Jodorowsky che, avvalendosi di collaboratori come Hans Ruedi Giger, Chris Foss, Jean Giraud e Dan O’Bannon, progetta un kolossal snaturante il racconto dello scrittore con l’intenzionato di avvalersi per la colonna sonora dei Pink Floyd e Tangerine Dream, mentre il cast prevede Salvador Dalí, Orson Welles, Mick Jagger, Amanda Lear, Alain Delon, Gloria Swanson, David Carradine, Geraldine Chaplin, Udo Kier ed il figlio, Brontis Jodorowsky, nei panni del protagonista Paul Atreides. Dopo avervi lavorato per un paio di anni, Jodorowsky si vede costretto ad abbandonare il suo immaginifico progetto in quanto la produzione si rifiuta di imbarcarsi in quello che ritiene possa trasformarsi in un pericoloso azzardo economico con scarse possibilità di successo al botteghino. Su tale progetto è stato realizzato il  lungometraggio documentario Jodorowsky’s Dune (2013) di Frank Pavich (visibile su diverse piattaforme).

Nel 1976 i diritti cinematografici vengono dunque acquisiti da Dino De Laurentiis che dopo aver affidato in un primo tempo la stesura della sceneggiatura allo stesso Frank Herbert decide di farla riscrivere – riducendo drasticamente la durata del film prevista dallo scrittore – a Rudy Wurlitzer che però prospetta cambiamenti considerati inaccettabili da Herbert. I dissidi sorti tra lo scrittore e De Laurentiis fanno cadere il progetto.

Successivamente il produttore italiano decide di ritentare avvalendosi della fervida mente creativa di Hans Ruedi Giger e del regista Ridley Scott che però prospetta la necessità di spezzare la vicenda in due parti – come del resto era accaduto nell’uscita originaria di Dune sulla rivista “Analog SF” – proponendo la realizzazione di due distinti film. Anche in questo caso, dopo parecchi mesi di preparazione, il progetto viene abbandonato ma, prima della scadenza dei diritti, De Laurentiis decide di ricucire i rapporti con Herbert e di affidare la regia a David Lynch che, dopo aver lavorato a lungo alla sceneggiatura, nel 1983 inizia le riprese in Messico avvalendosi di 80 set, 16 teatri di posa e una troupe di 1.700 persone con un budget faraonico di 40 milioni di dollari. Gli effetti speciali risultano però incapaci di rende sullo schermo quanto prospettato dal regista, inoltre la produzione impone di ridurre le tre ore montate in un primo tempo da Lynch in sole due ore costringendolo a tagliare drasticamente diversi passaggi chiave realizzati dal visionario regista. Oltre ad essere stroncato dalla critica, il film si rivela un disastro al botteghino e soltanto in anni recenti la sua realizzazione ha iniziato ad essere considerata, da alcuni, in maniera più benevola.

In apertura del nuovo millennio l’opera di Herbert viene ripresa fedelmente da una miniserie televisiva in tre puntate intitolata Dune: il destino dell’universo (Frank Herbert’s Dune, 2000) – composta da Dune, Muad’dib e The Prophet – per la regia di John Harrison trasmessa da Syfy Channel ottenendo un buon successo di critica e di pubblico a cui si è poi aggiunto il sequel Children of Dune (2003) diretto da Greg Yaitanes, meno aderente all’opera di Herbert.

Con l’avvento della la computer grafica il cinema si sente di poter nuovamente affrontare il progetto Dune. Dopo un primo annuncio nel 2008 da parte della Paramount, poi lasciato cadere nel vuoto, nel 2016 la Legendary Entertainment acquista i diritti ed affida a Denis Villeneuve il compito di affrontare fedelmente l’opera di Herbert confrontandosi però anche con le trasposizioni audiovisive già realizzate: il film di Lynch e le serie televisive di Syfy Channel.

Come già aveva pensato di fare Ridley Scott, anche Villeneuve opta per un doppio film: Dune (Dune: Part One, 2021) e Dune. Parte due (Dune: Part Two, 2023). Il cast del primo film è composto da attori del calibro di Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Stephen McKinley Henderson, Zendaya, Chang Chen, Sharon Duncan-Brewster, Charlotte Rampling, Jason Momoa e Javier Bardem, a cui nel secondo film si aggiungono Christopher Walken, Florence Pugh, Austin Butler, Léa Seydoux e Souheila Yacoub.

Il successo di critica e di pubblico è stato tale da non escludere la possibilità di un terzo capitolo affidato a Villeneuve incentrato stavolta sul romanzo Messia di Dune. Nel frattempo HBO Max ha dato il via ai lavori per un adattamento seriale di Sisterhood of Dune, in uscita con il titolo Dune: The Prophecy, una sorta di prequel ambientato diecimila anni prima rispetto a quanto raccontato nei film di Villeneuve. Come sottolineano Riberi e Genta, è stato necessario mezzo secolo affinché dall’opera narrativa si riuscissero a ricavare trasposizioni audiovisive in grado di ottenere riconoscimenti di critica e pubblico.

Quel che è certo è che la saga letteraria e cinematografica di Dune ha influenzato enormemente l’immaginario collettivo contemporaneo, ed a ciò, sottolineano Riberi e Genta, contribuisce lo stesso film mai realizzato di Alejandro Jodorowsky, di cui non si è mai smesso di parlare, grazie anche alle trovate prospettate dai suoi collaboratori Hans Ruedi Giger, Chris Foss, Jean Giraud e Dan O’Bannon che avrebbero ispirato opere come Alien (1979) e Balde Runner (1982) di Ridley Scott, The Matrix (1999) delle sorelle Wachowski – tutti film che apriranno la strada a diverse altre produzioni ad opera degli stessi o altri registi – e serie televisive come Copenhagen Cowboy (2023) realizzata da Nicolas Winding Refn. Tra i tanti debitori Riberi e Genta citano i registi Steven Spielberg, James Cameron e George Lucas, ma anche, per opere più recenti, James Cameron, le sorelle Wachowski e Nicolas Winding Refn, così come, per quanto riguarda la narrativa fantasy, gli scrittori Patrick Rothfuss e Steven Erikson, mentre in ambito musicale dell’universo Dune si trova traccia negli Iron Maiden e nei Blind Guardian. Insomma, secondo gli autori del volume è possibile affermare che «l’intero immaginario pop degli ultimi cinquant’anni sia stato influenzato a vario titolo dalle avventure cartacee e cinematografiche di Paul Atreides, che possono essere considerate a tutti gli effetti un autentico mito contemporaneo».

A delineare lo sviluppo dello studio proposto dal volume di Paolo Riberi e Giancarlo Genta è lo stesso sottotitolo scelto: Storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides. Infatti, dopo aver ricostruito la storia della saga, ricordando le tappe principali del fenomeno letterario-cinematografico Dune, gli autori individuando i motivi che ne hanno determinato il duraturo successo, dunque ricostruiscono puntualmente la complessa mistica che innerva la saga, in un intrecciarsi di culti messianici mediorientali, cosmismo, transumanesimo, mistica medievale sufi, droga sacra, ecc. Infine, nell’ultima parte del volume, Riberi e Genta passano in rassegna la tecnologia che attraversa l’universo di Dune; dall’informatica all’intelligenza artificiale, dai viaggi spaziali agli armamenti avveniristici, sino agli ambiti scientifici medici ed eugenetici.


  1. Le trilogie sino ad ora realizzate da Brian Herbert e Kevin J. Anderson sono così composte: Legends of Dune: Il Jihad Butleriano (The Butlerian Jihad, 2002), La Crociata delle Macchine (The Machine Crusade, 2003) e La Battaglia di Corrin (The Battle of Corrin, 2004). Le Grandi Scuole di Dune (Great Schools of Dune) inedita in Italia: Sisterhood of Dune (2012), Mentats of Dune (2014) e Navigators of Dune (2016). Preludio a Dune (Prelude to Dune): Casa Atreides (House Atreides, 1999), Casa Harkonnen (House Harkonnen, 2000) e Casa Corrino (House Corrino, 2001). La Trilogia di Caladan (The Caladan Trilogy) inedita in Italia: The Duke of Caladan (2020), The Lady of Caladan (2021) e The Heir of Caladan (2022). Gli Eroi di Dune (Heroes of Dune): Paul of Dune (2008) inedito in Italia, The Winds of Dune (2009) inedito in Italia, La principessa di Dune (The Princess of Dune, 2023). 

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