Duchamp – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cloaca. Icone dell’arte e della merce https://www.carmillaonline.com/2021/12/18/cloaca-icone-dellarte-e-della-merce/ Sat, 18 Dec 2021 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69640 di Gioacchino Toni

Scrive Simonetta Fadda nella postfazione al volume di Roberto Costantino, Cloaca. Icone dell’arte e della merce (postmedia books, 2021): «Il capitalismo è a tutti gli effetti una religione disperata o, come dice Costantino “aberrante”. […] Il suo principio di valore o, se si preferisce, la sua forma di razionalizzazione economica, consiste nel “trasformare qualsiasi cosa – quale che sia, poco importa – in merce”. Così facendo, “ha realizzato il Paradiso in terra, ma ha dovuto trasformare la terra in un immenso cumulo di feci”».

Nel recente volume realizzato da Roberto [...]]]> di Gioacchino Toni

Scrive Simonetta Fadda nella postfazione al volume di Roberto Costantino, Cloaca. Icone dell’arte e della merce (postmedia books, 2021): «Il capitalismo è a tutti gli effetti una religione disperata o, come dice Costantino “aberrante”. […] Il suo principio di valore o, se si preferisce, la sua forma di razionalizzazione economica, consiste nel “trasformare qualsiasi cosa – quale che sia, poco importa – in merce”. Così facendo, “ha realizzato il Paradiso in terra, ma ha dovuto trasformare la terra in un immenso cumulo di feci”».

Nel recente volume realizzato da Roberto Costantino, ultima uscita della collana “sartoria editoriale” realizzata da postmedia books, vengono passate in rassegna opere che, sebbene molto diverse tra loro, risultano accomunate dal fatto di indurre a una riflessione sulle trasformazioni economiche e culturali novecentesche che, in qualche modo, ancora segnano questi primi decenni del nuovo millennio.

Il Novecento è stato il secolo in cui si è consacrato il trionfo della merce, l’epoca in cui praticamente tutto è stato convertito in denaro; dagli oggetti ai comportamenti, fin anche ai saperi. Se a tale pratica a volte l’arte ha saputo opporsi, altre non ha mancato di dare il suo supporto, più o meno consapevolmente, più o meno volontariamente. Tutto ciò lo si coglierebbe abbastanza facilmente se solo si volesse guardare il mondo dell’arte con occhio attento e critico, se quest’ultimo termine può ancora essere espresso senza essere messi all’indice dagli egemoni martellanti cantori dell’esistente in cui sempre va e andrà tutto bene.

Tra i diversi casi su cui riflette il volume, vale la pena ricordarne almeno un paio: il succedersi di valori e funzioni degli oggetti proposti da Duchamp come “ready-made” e l’avvicendarsi di pratiche di détournement che intrecciano l’ambito Situazionista al famoso gesto vandalico che, sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, ha preso di mira una celebre opera di Raffaello alla Pinacoteca di Brera.

A proposito dei ready-made duchampiani lo studioso sottolinea come, del tutto in linea con la fine della pretesa unicità dell’opera d’arte, questi, almeno dal 1936 in poi, si presentino al pubblico sotto forma di “copie conforme agli originali”, non trattandosi più dei ready-made originariamente esposti dal francese. Dopo averli replicati e donati in quantità, a partire dal 1964 Duchamp decide di acconsentire la realizzazione in serie dei suoi ready-made trasformandoli così da doni a merci messe sul mercato. «Insomma, la merce ha fatto propria anche l’insensatezza del ready-made e, in questo modo, questa insensatezza è stata addirittura estremizzata e ancor più esaltata».

Se nel 1917 Fontana, il celebre orinatoio, si presenta sulla scena come profanazione del sistema-arte, soltanto qualche decennio dopo «le sue icone sono state consacrate nel recinto sacro dell’arte, rovesciando l’originale apostasia del ready-made nel suo contrario». Quell’orinatoio, sottoposto a una prima ricontestualizzazione dall’artista, che lo aveva elevato a oggetto/idea dissacrante, è stato, suggerisce Costantino, nuovamente trasformato assumendo il ruolo di “icona”, “immagine culturale” dell’arte novecentesca.

L’artista francese non ha mancato di riflettere circa la svolta che ha toccato il sistema-arte dall’arrivo sul mercato dei tubetti di colori pronti all’uso: non più prodotti manualmente in atelier dal pittore a partire da pigmenti, leganti e dilunenti, questi colori in tubetto – definiti da Duchamp “ready-made-products” – avrebbero trasformato i dipinti in “ready-made-aided”; assemblaggi di prodotti del tutto simili ai suoi assemblaggi tra ruota di bicicletta e sgabello, a loro volta, separatamente, “ready-made-products. Che si tratti di tubetti di colore o dipinti, così come di altri oggetti “ready-made”, si tratta pur sempre, sembra suggerire il francese, di prodotti realizzati per essere venduti; «non esisterebbero se non fossero delle merci in un mondo che già allora era destinato a diventare, tutto quanto, interamente un grande “ready-made-aided”».

Venendo invece al gesto sacrilego nei confronti dell’opera di Raffaello, Costatino si sofferma sul concetto di détournement in seno all’Internazionale Situazionista, dunque come «riutilizzo in una nuova unità di elementi artistici preesistenti» che sancisce «la perdita di importanza […] di ogni elemento autonomo detourné e, allo stesso tempo, l’organizzazione di un altro insieme significante, che conferisce ad ogni elemento la sua nuova portata». Il détournement si presenta pertanto come negazione del valore dell’organizzazione precedente dell’espressione ed è anche attraverso tale pratica strategica che l’I.S. intende sovvertire e distruggere la società esistente.

Il caso a cui vine fatto riferimento sul libro riguarda l’atto vandalico portato nel 1958 da Nuzio Van Guglielmi nei confronti dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, quando, armato di martello e punteruolo, ha mandato in frantumi la teca di vetro posta a protezione del dipinto e inferto alcuni fendenti direttamente sull’opera lacerandola per poi lasciare un foglietto recante la sorprendente scritta “W la rivoluzione italiana. Viva il governo clericale”. A completamento della rivendicazione l’autore del gesto si è poi dichiarato “pittore anacronistico” spiazzando ulteriormente ogni tentativo di dare un senso razionale all’azione.

A poche settimane dal fatto, la Sezione Italiana dell’Internazionale Situazionista, ribaltando la condanna a mezzo stampa, soprattutto attraverso un milione di copie di La Domenica del Corriere, diffonde in un numero esiguo di manifesti a favore di Guglielmi in cui viene ribadito il disprezzo nei confronti dell’arte e delle istituzioni borghesi contro cui, a suo modo, si sarebbe scagliato lo stesso autore del fatto. Così l’I.S. si appropria del gesto inquadrandolo come «gesto situazionista esemplare», «prosecuzione della politica e dell’arte con gli strumenti più opportuni ne teatro di guerra in cui si sta recitando». Curiosamente, a distanza di tempo, sarà lo stesso autore del gesto che si era definito “anacronistico” a rivendicarsi “pittore situazionista”.

Cloaca ha il merito di proporre riflessioni critiche importanti sull’arte e sulla società senza perdersi nelle frequenti, quanto inutili, tautologiche lungaggini con cui tanta critica d’arte finisce per nascondere il proprio conformismo nei confronti dell’arte e dell’esistente. Insomma, un centinaio di pagine capaci di offrire una boccata d’aria nel soffocante panorama contemporaneo facendo riflettere su alcuni meccanismi di mercificazione propri anche del mondo digitalizzato iperconnesso.

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L’ombra ed i suoi significati simbolici https://www.carmillaonline.com/2015/11/30/lombra-ed-i-suoi-significati-simbolici/ Mon, 30 Nov 2015 22:30:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24211 di Gioacchino Toni

nosferatu murnau 00Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, Il Saggiatore, Milano, 2015, 256 pagine, € 16,00

Dal mito pliniano delle origini della pittura all’Incarnazione del Verbo nelle Annunciazioni, dalla demonizzazione secentesca all’iperbolizzazione espressionista, dall’ombranalisi alla vertigine della proliferazione dei simulacri, Victor Stoichita passa in rassegna la storia dell’ombra e dei significati che, strada facendo, ha assunto nella cultura occidentale. Il saggio, ristampato nel corso del 2015, (prima ed. inglese 1997, prima ed. italiana 2000), inizia, inevitabilmente, da Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis Historia, racconta di come la nascita [...]]]> di Gioacchino Toni

nosferatu murnau 00Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, Il Saggiatore, Milano, 2015, 256 pagine, € 16,00

Dal mito pliniano delle origini della pittura all’Incarnazione del Verbo nelle Annunciazioni, dalla demonizzazione secentesca all’iperbolizzazione espressionista, dall’ombranalisi alla vertigine della proliferazione dei simulacri, Victor Stoichita passa in rassegna la storia dell’ombra e dei significati che, strada facendo, ha assunto nella cultura occidentale. Il saggio, ristampato nel corso del 2015, (prima ed. inglese 1997, prima ed. italiana 2000), inizia, inevitabilmente, da Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis Historia, racconta di come la nascita della pittura sia dovuta ad un procedimento “in negativo”: l’atto di circoscrivere l’ombra di un essere umano. Secondo tale approccio la pittura compare sotto il segno di un’assenza (corpo) / presenza (sua proiezione). L’immagine pittorica è, dunque, frutto di un consolidamento della proiezione del corpo; si tratta di una rappresentazione di una rappresentazione, di una copia di una copia (immagine d’ombra). Soltanto quando la pittura finisce con il superare la proiezione piatta ricorrendo al modellato, l’ombra abbandona la funzione primitiva di matrice di immagini e diviene mezzo d’espressione. Il mito pliniano (origine dell’arte) ed il mito platonico della caverna (origine della conoscenza) hanno in comune il fatto di concentrarsi sulla proiezione, su una macchia in negativo, un’ombra: arte e conoscenza consisterebbero nel suo superamento.

L’autore sottolinea come Platone non parli mai direttamente del mito dell’ombra come origine della rappresentazione artistica; per lui è il riflesso nello specchio a spiegare lo statuto mimetico della pittura. Se in Plinio l’immagine è l’ “altro dello stesso”, in Platone l’immagine è il sé allo stadio di copia, lo stesso nello stato di doppio. Se in Plinio l’immagine capta il modello duplicandolo (funzione magica dell’ombra), in Platone l’immagine manifesta la propria rassomiglianza (funzione mimetica dello specchio) rappresentandolo. Sia il simulacro che la copia si rifanno alla magia; magia per sostituzione nel primo caso, magia di somiglianza nel secondo. È il pensiero di Platone a principiare l’idea occidentale che vede lo strumento della mimesis nello specchio e non nella proiezione di corpi frapposti.

stoichita storia ombraAnalizzati i miti fondativi dell’antichità, l’autore passa in rassegna l’età medievale, sottolineando che per diversi secoli, sin quasi a Giotto, l’immagine viene intesa come un’entità priva di corporeità e soltanto con l’introduzione della prospettiva, l’ombra portata inizia ad essere studiata dai pittori. Nella pittura del Trecento l’ombra integrata viene concepita come elemento fondamentale dell’esecuzione a “rilievo” delle figure ma, nel Rinascimento, si assiste ad un cambio di paradigma, tanto che le immagini iniziano ad essere concepite come riflesso nello specchio, prolungamenti della realtà. Con il Rinascimento si ha la prima teoria dell’arte fondata sul paradigma speculare, tanto che Leonardo arriva a cogliere un’analogia tra la tela e lo specchio: in entrambi i casi si tratta di superfici bidimensionali in grado di visualizzare la realtà tridimensionale. A partire dal XV secolo si sviluppa una vera e propria scienza dell’ombra e la rappresentazione delle ombre portate diviene segno di fedeltà mimetica. È con artisti come Masaccio, Leonardo e Dürer, argomenta l’autore, che l’ombra portata diviene un elemento strutturale della pittura prospettica e prova di mimesi.
Particolarmente interessante risulta essere l’uso dell’ombra nei dipinti delle Annunciazioni – nel saggio ne sono analizzate diverse – che deve essere interpretata a partire dal testo evangelico di Luca: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”. Il farsi ombra del Verbo determina una proliferazione di interpretazioni legate all’Incarnazione non di rado ispirate alle riflessioni duecentesche di Jacopo da Varazze, l’autore della celebre Leggenda aurea.

Sappiamo come a partire dal Rinascimento prenda piede l’idea di segnalare la presenza dell’artista nell’opera, a tal proposito Stoichita evidenzia come in alcuni casi, ricorrendo all’espediente dell’immagine che mostra l’atto del dipingere, venga mostrata l’ombra della mano dell’artista che si proietta sulla tela. L’autore sottolinea, inoltre, la portata delle riflessioni di Boileau volte ad indicare, nel corso del XVII secolo, come sia la presenza dell’ombra nel quadro a conferirgli lustro: “Boileau rovescia il rapporto metaforico codificato dalla tradizione tra tenebre e luce, proiettando sull’ombra quanto più radicalmente si oppone (‘lo splendore’)”.
Altro importante rovesciamento di paradigma citato nel saggio riguarda la poetica della fase finale di Monet, ottimamente esplicitata da una fotografia da lui stesso realizzata nel 1905 ove, oltre alle, immancabili, ninfee all’interno dello stagno, compare l’ombra dell’artista. Il francese sembra rovesciare il mito delle origini: sulla superficie riflettente non vi è la sua immagine ma la sua ombra. Attraverso la foto, in linea con la sua poetica pittorica terminale, l’artista compie un gesto radicale: “In rapporto alla tradizione occidentale dell’automimesi, l’ombra di Monet proclama il primato (moderno) dello ‘sguardo’ sulla ‘mano’. Propone la sostituzione del paradigma narcisistico della mimesi occidentale con l’elogio orientale dall’evanescenza dell’ombra”.
Ad essere analizzati dal saggio sono anche diversi autori che, nel corso dei primi decenni del Novecento, in reazione al trionfante mimetismo fotografico, ricorrono all’inserimento del proprio profilo in ombra nelle tele. L’autore si sofferma su alcune opere di Picasso in cui l’artista inserisce spesso la propria ombra di profilo sulle tele, dando luogo, in tal modo, ad un “tentativo di ridefinizione dell’intera tradizione riguardante l’ombra della mano che, nell’ambito dell’estetica classica, designava il segno dell’autore sull’opera, mentre qui viene a concretizzare la definitiva scomparsa dei limiti tra produttore e prodotto. (…) Picasso segna così la fine dell’antica tradizione che vedeva nell’ombra il completamento essenziale dell’incarnato. Per lui più che un mezzo per ‘fare’ il volume l’ombra diventa lo strumento per (dis)farlo”.

Il Seicento risulta essere un secolo particolarmente fecondo per il ragionamento sull’ombra, a tal proposito l’autore si sofferma sulle riflessioni prodotte in particolare da Joachim von Sandrart, Samuel von Hoogstraten ed Athanasius Kircher. L’autore del celebre scritto Accademia germanica di pittura (1675), Joachim von Sandrart, viene citato per aver ripreso il mito classico delle origini della pittura sia di Plinio che di Quintiliano nella convinzione che la “pittura/ombra” sia stata ingenerata sia dalla luce del sole (Quintiliano) sia dalla luce del fuoco (Plinio). Un paio di incisioni attestano tale doppia origine: in una viene mostrato un pastore che traccia con un bastoncino il contorno della propria ombra sul terreno, mentre, nell’altra, la figlia di Butodes circoscrive, attraverso una linea nera, il profilo dell’amante sulla parete servendosi della luce di una lanterna. Hoogstraten Shadow danceIl pittore secentesco Samuel von Hoogstraten pur nella convinzione che “la perfetta pittura è come uno specchio della natura”, non manca di interessarsi alla rappresentazione dell’ombra, come avviene nell’incisione La danza dell’ombra (1675) ove mostra come si deformino le ombre proiettate su parete di diversi personaggi in base alle differenti posizioni assunte rispetto alla fonte di luce: di pari passo all’aumentare dell’ingrandimento dell’ombra si determina un incremento della sua “demonizzazione”. Gli esseri umani proiettati si ingigantiscono e si deformano trasformandosi in creature mostruose con tanto di coda e corna. Il gesuita Athanasius Kircher, nel testo Ars Magna Lucis et Umbrae (1656), descrive un arnese in grado di creare immagini illusorie combinando il principio del quadrante solare e quello della lanterna magica: si tratta di uno strumento finalizzato alla “demonizzazione dell’ombra”.
Visto che nel mito fondatore della pittura, l’ombra non ha nulla di demoniaco, secondo Stoichita occorre capire come mai l’ombra nella pittura occidentale si trovi spesso investita di valenza negativa. Secondo l’autore la risposta ci è data dallo “stato di alterità della rappresentazione per mezzo dell’ombra portata. Era questo un concetto inerente al mito, nel quale (…) si faceva pure riferimento alla creazione di un doppio. L’abbandono di questo aspetto nel pensiero occidentale sull’immagine si traduce in un cambiamento radicale di paradigma, e questo emargina la rappresentazione/ombra nel tempo mitico delle origini, oppure nello spazio, mitico anch’esso, di paesi lontani. In tal modo, la pittura occidentale smette di essere una ‘pittura d’ombra’ per diventare una pittura che fa uso dell’ombra tra i molti altri sistemi di rappresentazione e di simbolizzazione”.
Tra il XVI ed il XVII secolo, l’ombra assume il ruolo di “nemico chimerico” e si assiste ad un’interiorizzazione dell’ombra in quanto proiezione della persona, come “zona oscura” dell’anima in cui la “negatività interiore si materializza”: l’ombra diviene l’emblema del raddoppiamento negativo. A tal proposito viene citata un’incisione di Johannes Sambucus (Cattiva coscienza, 1564), ove un uomo infierisce con la spada contro la propria ombra ritenuta testimone delle sue malefatte. È come se il personaggio infierisse contro se stesso.
Anche nella letteratura romantica non mancano esempi, fondati sul rovesciamento di una situazione narcisitica, in cui la lotta contro l’ombra di se stessi conduce al suicidio. Viene riportato anche un esempio Novecentesco tratto dai fumetti; si tratta del cowboy Lucky Luke, definito “l’uomo che spara più veloce della propria ombra”, che, alla fine di ogni puntata, ingaggia un duello con la propria ombra che risulta sempre in ritardo nel rispondere al fuoco. In sostanza l’eroe spara contro “il nemico chimerico”, che qui ha la forma della sua silhouette nera.

La trattazione concede spazio anche al caso di Johann Caspar Lavater, autore che, sul finire del Settecento, descrive un nuovo strumento per realizzare meccanicamente le silhouette. Lo studioso, riprendendo l’antica tradizione degli studi di fisiognomica, vede nel profilo circoscritto dell’ombra del viso i segni dell’anima ma, a differenza delle analisi tradizionali, non è tanto il volto ad essere il riflesso dell’anima, bensì l’ombra del volto. Il profilo circoscritto diviene un disegno da interpretare in una sorta di “ombranalisi”. Se si associa a tale pratica la vocazione religiosa di Lavater, ecco che, sostiene l’autore, tale metodo di analisi finisce col proporsi come “cura dell’anima”: nato ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo avrebbe perso la rassomiglianza a causa del peccato ma ciò che Lavater cerca nell’ombra non è la divinità oscurata dalla carne, bensì il lato decaduto.

wiene dr caligariLa distorsione e l’amplificazione dell’ombra risultano essere tra gli strumenti principali utilizzati dalle arti figurative al fine di evidenziare la carica negativa di un personaggio. L’iperbolizzazione dell’ombra, nei tempi moderni, trionfa nel cinema espressionista. Nel trattare il ruolo dell’ombra nelle produzioni di autori come Friedrich Wilhelm Murnau e Robert Wiene, il saggio sottolinea come sia possibile analizzare la loro poetica filmica sin dall’analisi dei singoli fotogrammi; tali autori, infatti, “sviluppano una retorica dell’immagine filmica basata sulla sineddoche”, nel senso che ogni immagine, ogni inquadratura rimanda per analogia o per contrasto all’intero film. In tali opere le ombre ingigantite e deformate sono spesso un’esteriorizzazione dell’interiorità del personaggio.
Il Gabinetto del dottor Caligari (1919-20) di Wiene risulta essere l’incarnazione dei fantasmi del folle narratore del racconto che “appare come il doppio del regista e la proiezione delle ombre come un doppio del film in quanto tecnica figurativa”. Nel caso del celebre fotogramma proposto da Stoichita, “il messaggio metapoetico dell’ombra (…) è un’iperbole del mezzo chiave del cinema espressionista: il piano americano (…) L’ombra viene in tal modo a mettere in discussione la natura stessa della creazione filmica e dei suoi meccanismi di fascinazione”.
murnau nosferatuQuando osserviamo la silhouette del vampiro in Nosferatu (1922) di Murnau, siamo di fronte al vampiro stesso o alla sua ombra? Visto che i vampiri non hanno ombra, se ne deduce che si tratti di Nosferatu “in persona”, abitante di un universo sotterraneo labirintico quanto l’inconscio freudiano. L’autore ravvisa in Murnau la figura di colui che “mostra le ombre”, che visualizza la parte oscura della coscienza rendendola racconto attraverso un’estetica che mostra analogie tra “ombra” ed “immagine filmica”. “La prova che a questa lettura meta-estetica è data forma nell’ambito del racconto viene fornita allo spettatore solo alla fine del film, nell’attimo in cui il primo raggio di sole su Brema disintegra Nosferatu, e, soprattutto, nell’attimo in cui la luce elettrica inonda la sala di proiezione e lo schermo torna ad essere bianco”.

L’ultima parte del saggio tratta l’ombra e la sua riproducibilità nell’epoca della fotografia ed i meccanismi di moltiplicazione nell’età del trionfo dei simulacri. Passando in rassegna opere come il Quadrato nero (1915) di Malevič e le fotografie realizzate da Brancusi alle proprie sculture, oltre a prove fotografiche di Duchamp e Man Ray, l’autore analizza il ruolo dell’ombra nella rappresentazione artistica degli anni Venti del Novecento. Una breve ma interessante trattazione viene riservata alle “ombre incoerenti” di De Chirico che, paradossalmente, sembrano quasi un tentativo di conferire un senso a quelli che, altrimenti, rischiano di essere meri esercizi costruttivi da manuale; le ombre, in De Chirico, cessano di essere insignificanti per caricarsi di mistero. La “perturbante estraneità” delle opere dechirichiane sembra davvero irridere il codice della rappresentazione occidentale. La chiusura del saggio spetta a Wharol ed ai suoi autoritratti ove entrano in gioco l’immagine in negativo, la moltiplicazione e la polimerizzazione. A proposito della polimerizzazione dell’immagine, suggerisce Stoichita, a partire dagli anni ’60, Wharol, non solo ricorre alla stratificazione tecnica della rappresentazione/simulacro ma, da un punto di vista simbolico, attribuisce un’unità artificiale ed indistruttibile al multiplo della vita. “l’Autoritratto si trasforma, nel suo complesso, in allegoria dell’io nell’epoca della polimerizzazione dell’individuo”. Con un’opera come Doppio Mickey Mouse (1981) si arriva ad una situazione in cui i due personaggi sono sia l’artificiale che la copia, identici seppure diversi. Si apre così quella “vertigine senza fine” propria dell’età dell’ascesa e del trionfo dei simulacri.

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso) :

– Particolare di fotogramma tratto da Nosferatu (1922) di F.W. Murnau
– Copertina: V. I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art (2015)
– Samuel von Hoogstraten, La danza dell’ombra (1675)
– Fotogramma tratto da Il Gabinetto del dottor Caligari (1919-20) di R. Wiene
– Fotogramma tratto da Nosferatu (1922) di F.W. Murnau

 

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Vita, arte e desiderio. La rivoluzione del “non-fare arte” https://www.carmillaonline.com/2015/07/29/vita-arte-e-desiderio-la-rivoluzione-del-non-fare-arte/ Wed, 29 Jul 2015 21:30:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23768 di Gioacchino Toni

piero_manzoni_002_fiato_d_artista_1960Roberto Pasini, Fare e non fare. Arte, cultura, società. Mursia, Milano, 2015, 384 pagine, € 22,50

De-sideribus. Giù dalle stelle. Qui e ora ciò che sta lassù e sembra irraggiungibile. Non dobbiamo concepire la vita come una serie di desideri senza possibilità di realizzazione”

Analizzando i concetti di fare e non fare, evidenziandone le molteplici sfumature che li contraddistinguono sia in senso generale, che come modalità espressive all’interno dell’ambito creativo, l’autore focalizza l’attenzione su alcune individualità che, ricorrendo a poetiche che privilegiano il non-fare arte, nel corso del Novecento, hanno [...]]]> di Gioacchino Toni

piero_manzoni_002_fiato_d_artista_1960Roberto Pasini, Fare e non fare. Arte, cultura, società. Mursia, Milano, 2015, 384 pagine, € 22,50

De-sideribus. Giù dalle stelle. Qui e ora ciò che sta lassù e sembra irraggiungibile. Non dobbiamo concepire la vita come una serie di desideri senza possibilità di realizzazione”

Analizzando i concetti di fare e non fare, evidenziandone le molteplici sfumature che li contraddistinguono sia in senso generale, che come modalità espressive all’interno dell’ambito creativo, l’autore focalizza l’attenzione su alcune individualità che, ricorrendo a poetiche che privilegiano il non-fare arte, nel corso del Novecento, hanno mutato radicalmente il mondo dell’arte, tanto a livello di prassi operativa, quanto di definizione stessa. A lungo l’arte è sottostata all’idea che vuole l’autore come creatore dell’opera, tale meccanismo è restato indiscusso fino a quando qualcuno ha sentito l’esigenza di rifiutare la logica dell’opera come qualcosa che viene prima pensato, poi realizzato e mostrato allo spettatore.

Attorno alla metà del Novecento prende piede l’idea di fare della propria esperienza/esistenza un atto creativo: “L’opera c’è, ma non è un prodotto mentale, bensì il risultato di un’azione fisica, seppure innervata anche troppo di problematiche mentali (…) Questa idea dell’evento come fatto artistico è la principale eredità dell’Informale”. Dopo l’esaltante stagione Informale, le poetiche del gesto, una volta abbandonata l’enfasi romantica e lo sforzo fisico, sintetizzano il pensiero creativo in gesti autosignificanti incentrati sull’uso del corpo. “Prende vita una nuova concezione creativa in base alla quale si fa ciò che si è (…) il fare e l’essere tendono a coincidere (…) diminuisce l’incidenza del fare sino al grado zero dell’essere”. Ad essere rifiutato, sottolinea Pasini, è il “principio di prestazione”, il valore aggiunto della produttività.

pasini_fare_non_fare_mursia“Fare-arte nei secoli passati era per lo più attualizzare una tecnica, trasformandola in una poetica”. A partire dalla metà del Novecento, la modalità operativa tradizionale, che impone all’artista di scegliere una tecnica al fine di produrre un oggetto, salta. Nel corso del secolo scorso le cose sono cambiate a livello tale che sarebbe limitativo continuare ad insistere sulle tecniche; “il fare-arte dovrebbe essere identificato nella doppia valenza del pensare e del realizzare”. In molti casi, nell’ambito dell’arte contemporanea, il fare-arte si avvicina più al pensare che non al realizzare. Non è infrequente che l’artista assuma il ruolo di inventore e coordinatore lasciando l’operatività a maestranze che si occupano di concretizzare i suoi progetti. L’abbandono di una forma operativa codificata ha portato ad una creatività diffusa, tanto che, tra gli anni ’60 e ’70, si è diffusa l’idea della “morte dell’arte”; il passaggio dall’arte all’estetica prevede la morte della prima e la performance ha un ruolo fondamentale in tale passaggio. “L’esercizio del corpo come elemento creativo determinò la suggestione che la forma percettiva del mondo (…) subentrasse a quella tradizionalmente creativa, basata sulla separazione fra artista e spettatore. A sua volta veniva a essere superata anche quella fra opera e non-opera: non esisteva più il bello come dimensione prodotta da qualcuno, ma solo come aisthesis di qualcosa già esistente, nella vasta morfologia del mondo”. Il sistema dell’arte ha tutto l’interesse ad imporre all’arte di tradursi in un fare, dunque, la difficoltà di monetizzare la fruizione estetica del mondo ha imposto il riaffiorare dell’oggetto artistico vendibile. Non a caso gli anni ’80 si aprono con la ricomparsa dei quadri: di nuovo una merce monetizzabile. Dalla morte dell’arte degli anni ’60 e ’70 si passa al fervore pittorico degli anni ’80 caratterizzato della poetica dei ritorni, una poetica che, però, argomenta Pasini, non si accontenta di scegliere un periodo del passato per ridefinirlo in chiave contemporanea, come altre volte è avvenuto, in questo caso tutto il passato può essere “saccheggiato”. Dietro all’ubriacatura di forme e colori rivisitati, dietro a questa “apparente festa galante” non è difficile ravvisare l’angoscia del futuro: dalla “morte dell’arte” siamo passati alla “morte della storia”. Soltanto l’avvento degli anni ’90 raffredda la baldanza pittorica del decennio precedente.

Fino alle Avanguardie storiche l’arte non si è sottratta al percorso canonico: occorre prima pensare l’arte, poi realizzarla. L’arte nasce da un progetto; il modus operandi tradizionale prevede un bozzetto, uno schizzo da concretizzare nell’opera finale anche se un conto è progettare un’opera figurativa, altro un’opera non figurativa. Nel caso delle correnti astratte si è insistito nel mettere al primo posto il pensiero. Nell’action painting di Pollock il progetto è stato sostituito dal processo: le poetiche informali stabiliscono il primato del fare sul pensare. Non si tratta di “un fare senza pensare ma di un pensiero sedimentato nel gorgo buio dell’esistenza che genera fiotti di materia indistinta”: l’operatività non passa più dal pensare al fare, ma concede la massima importanza a quest’ultimo.

Nel corso della trattazione, Pasini opera alcune importanti distinzioni terminologiche che non devono essere percepite dal lettore come compiaciuti giochi di parole a cui ricorrono, con un certa frequenza, purtroppo, quanti, parlando d’arte, credono di dover adottare il “critichese” pensando sia la lingua ufficiale deputata a trattare le questioni artistiche. L’autore del saggio opera una distinzione tra “non fare arte” e “non-fare arte”: il non fare non ha riscatto mentre “il non-fare si connota come un fare al negativo, quindi comunque un fare”. Inoltre, viene evidenziata la distinzione tra “non artista” e “non-artista”: il primo è colui che non pratica arte, mentre il secondo è invece colui che la pratica da una postazione negativa. Tali distinzioni si rivelano fondamentali per comprendere gli snodi principali del testo.

Le Avanguardie storiche hanno voluto abolire il referente, mettendo in crisi la percezione dello spettatore, ed hanno inteso superare la morfologia tradizionale dell’opera. “Sottrarre il visivo significa aumentare il mentale”. Cézanne inizia a lasciare parti di tela non coperte dal colore, in tal modo intende andare oltre il referente pur senza abolirlo. L’immagine viene frammentata, le pennellate di cielo finiscono sulla terra e viceversa: “al fine di attribuire per la prima volta in modo netto e tagliente più importanza a ciò che sta dentro il quadro che non al rapporto fra interno ed esterno”. Cézanne intende abolire la prospettiva, l’immagine referenziale, distruggere la mimesi della realtà: le sua pittura “non rappresentano più la realtà visiva nelle modalità fenomeniche, assume un ruolo chiave nella svolta novecentesca antireferenziale”. In Kandinsky la pittura arriva a non dover affidarsi più al referente: è il “passaggio storico dal fenomeno al noumeno”.

DUCHAMP_aria_di_ParigiSe il fare arte rappresenta la pratica dell’arte tradizionale, il metodo del non-fare arte viene inaugurato da Duchamp, metodo che, togliendo artisticità all’opera, convoglia tutto il potere all’autore. Nel 1913 l’artista espone Ruota di bicicletta; con quel gesto l’artista cessa di essere un produttore di manufatti per divenire un utilizzatore di oggetti già disponibili. Con il ready-made l’opera non è più il risultato di un percorso creativo-operativo tradizionale ma esiste già in partenza; ciò che designa l’opera non è il risultato di una pratica ma “la scelta iniziale di una non-azione teorica”. A questo punto la domanda d’obbligo diviene: “l’arte deve essere un prodotto oppure può (deve) essere (solo) un pensiero?” Nel 1919 Duchamp, intendendo portare un dono da Parigi ad amici americani, entra in una farmacia parigina, chiede un’ampolla, la fa sigillare ottenendo così Aria di Parigi. Materialmente l’artista non ha fatto nulla, l’opera non consiste nel contenente (l’ampolla) ma nel contenuto (l’aria di Parigi). Per ottenere l’opera d’arte Duchamp ha sostituito al fare il non-fare. Così facendo l’arte si riduce ad operazione fattuale di cui l’artista è il catalizzatore di un’operazione compiuta da altri (il farmacista): l’artista realizza arte attraverso la sola mente. Il ricorso al ready-made sancisce uno spartiacque nella storia dell’arte. L’artista francese non propone una regressione dell’arte all’oggetto né intende elevare l’oggetto ad opera, il suo gesto “ha come esito il rafforzamento dell’artista, al quale viene conferito il potere creativo più alto di tutta la storia dell’arte: il suo ruolo passa da quello di realizzatore materiale di un manufatto a quello (…) di ideatore di un concetto, di cui l’opera, ossia l’oggetto scelto a incarnarla, è il puro e distaccato fenomeno”. Il ready-made, sostiene Pasini, ha finito con l’anticipare la figura dell’artista concettuale e per certi versi, ha reso indispensabile il critico d’arte come collegamento tra artista e comune fruitore, spesso incapace di recepire l’opera. Il portato rivoluzionario delle proposte di Duchamp viene ripreso negli anni ’60 e ’70.

Lo statuto dell’arte tradizionale prevede la sequenza artista-opera-pubblico, con il sabotaggio duchampiano la sequenza diventa non-artista non-opera non-pubblico. Piero Manzoni può essere considerato il degno continuatore di Duchamp ma, a differenza del francese, focalizza la creatività non tanto sulla sfera celebrale ma piuttosto su quella fisica. Corpo d’aria (1960) e Fiato d’artista (1960) di Manzoni possono essere accostate ad Aria di Parigi (1919) di Duchamp ma, se nel francese vige l’idea come forma creativa – l’esito fisico non interessa, produce un oggetto che rimarca la nozione di oggettività – nell’italiano, invece, la fisicità è fondamentale, il fiato, a differenza dell’aria parigina, non prescinde dal corpo che lo emette. Corpo d’aria ha maggiori analogie con Aria di Parigi, mentre Fiato d’artista enfatizza il feticismo fisico dell’artista. Da Fiato d’artista a Merda d’artista (1960) il passo è breve. L’idea di arte dell’italiano si lega al concetto di non-fare arte ma, rispetto a Duchamp, che tende ad azzerare il corpo, qua ha un ruolo fondamentale. La poetica manzoniana “corrisponde quindi a un’uscita dal recinto artistico, e per tale ragione si presenta come un non-fare, concettualmente legato al progetto di eversione globale del mondo produttivo tradizionale”; le piccole azioni che compie, come gonfiare un palloncino, risultano innocue rispetto alla poetica del non-fare, “tali azioni non corrispondono più alla figura dell’artista ma la rovesciano come un guanto”.

Di fronte alle proposte citate, appare evidente che il criterio interpretativo deve necessariamente adeguarsi alla logica del non-fare arte. Per affrontare opere come Fontana (1917) di Duchamp o Merda d’artista (1960) di Manzoni, che rappresentano, probabilmente, il culmine dell’eversione ideologica nell’arte contemporanea, suggerisce Pasini, dobbiamo cambiare prospettiva, “dobbiamo applicare anche a loro la legge che in altro contesto riguarda il rapporto fra analogia e anomalia”. I due “introducono l’anomalia e spostano il baricentro della ricerca creativa dall’opera all’autore: tutto quello che prima di loro è stato considerato arte, ovvero analogia, da loro in poi deve essere considerato superato (…) Entrati nel campo dell’anomalia non possiamo più applicare le regole dell’analogia: sono, semplicemente, da dismettere se si vuole capire quanto abbiamo davanti”. Le opere di Duchamp e Manzoni si distanziano dalla concezione tradizionale dell’arte come fenomeno visivo, con annesso corollario di fondo, il criterio del bello, “l’unica forma concettual-verbale che possiamo recuperare per definire tali operazioni, distinguendole dalle opere comunemente intese, in quanto l’atto è più importante del fatto, è non-fare arte”. Non-fare arte significa in realtà farla, ma di nuovo tipo. L’artista, concepito come demiurgo, attribuisce artisticità attraverso modalità non-operative. Le operazioni non-fattuali rivestono un carattere mentale e l’esito materiale ne è soltanto la fenomenizzazione necessaria affinché si possa ancora parlare di arte visiva (il pubblico deve pur poter “vedere qualcosa”).

klein_vuotoKlein, come Manzoni, concentra la sua poetica sul corpo, seppure in maniera meno ironica. L’idea è quella di sostituire la materia pittorica con quella umana, un non-fare arte che si colloca sul piano traspositivo (dal pennello al corpo, dalla tela al sudario) attraverso le Antropometrie, ovvero tracce lasciate dai corpi delle modelle sulla tela. Il quadro, qua, non è prodotto della pittura, essendo stato abolito l’intervento manuale. Il vero punto di svolta in Klein si ha con la mostra del Vuoto (1958) a Parigi ove non espone oggetti privi di artisticità, come Duchamp, ma espone il vuoto, il nulla, se non se stesso attraverso la sua presenza fisica nello spazio espositivo. “L’artista esce dalle quinte e prende la scena. L’opera è bandita. Al suo posto c’è l’autore. L’arte non consiste più in qualcosa che si può vedere e misurare (…) bensì nella sensibilità immateriale dell’artista ossia – ammesso che esista – una entità del tutto invisibile”. L’opera è l’artista. Non è l’essere a trasformarsi in fare, quanto il fare a venire sussunto nell’essere. Il fare si è tradotto nel non-fare evidenziando la dimensione immateriale dell’arte. Se in Duchamp l’idea primeggia sulla materia ed in Manzoni prevale il motto “non c’è più nulla da fare, c’è solo da essere, c’è solo da vivere”, Klein sancisce che la mera presenza dell’artista determina l’esistenza anche della sua arte, intesa come pura energia immateriale: dal fare arte siamo passati all’essere arte.

Il percorso del non-fare proposto da Pasini, termina con Gilbert&George che con il loro esporsi, fanno, davvero, il meno possibile. Si tratta infatti non di una presenza vitale ma di una semplice presenza, i due si propongono come soggetti privi di identità senza travestirsi indossando i “panni di altri” ma restando nei propri, trasformandosi in macchiette kitsch dal gusto antiquato. I due non intervengono sulla realtà, si mostrano senza fare nulla, si espongono come opera già data in sé. “Klein non-fa arte attraverso il proprio essere intrinsecamente arte, in quanto portatore di un’energia creativa di derivazione cosmica” mentre, secondo Pasini, “G&G non-fanno arte in quanto attori muti di uno spettacolo di burattini che non ha più il burattinaio: lo hanno introiettato”. G&G offrono la loro “disarmante inutilità”, mancando la vita, al suo posto abbiamo la semplice presenza. A proposito dei due inglesi, acutamente Pasini segnala che “Il problema di un’umanità inserita in meccanismi socio-lavorativi che penalizzano lo sviluppo interiore e le capacità creative, impedendone di fatto la felicità psicofisica nel nome di una sublimazione civile degli istinti libidici, appare quanto mai lontano dalle ‘sculture’ apprestate da G&G (…) che minimizzano ogni aspetto del vivente, eppure non si può fornire un’interpretazione completa della loro invenzione senza avere almeno accennato a questo importante aspetto”. Il disperato tentativo di essere visibili rivelato dalla poetica di G&G può essere colto come preconizzazione della nascente società dell’immagine.

Il saggio di Pasini termina ricordandoci che l’arte è desiderio, così come la vita stessa. “De-sideribus. Giù dalle stelle. Qui e ora ciò che sta lassù e sembra irraggiungibile. Non dobbiamo concepire la vita come una serie di desideri senza possibilità di realizzazione”. Il “non-fare arte” può, secondo l’autore, essere visto come realizzazione del sogno vero e profondo dell’essere umano: la “Libertà Totale”.

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Piero Manzoni, Fiato d’artista (1960)
– Copertina: R. Pasini, Fare e non fare. Arte, cultura, società (2015)
– Marcel Duchamp, Aria di Parigi (1919)
– Yves Klein, Il vuoto (1958)

 

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