droghe – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La vera notte di Iguala e il caso Ayotzinapa: intervista con Anabel Hernández https://www.carmillaonline.com/2017/03/15/la-vera-notte-iguala-caso-ayotzinapa-intervista-anabel-hernandez/ Tue, 14 Mar 2017 23:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37045 di Fabrizio Lorusso

Anabel Hernández è una delle giornaliste d’inchiesta più riconosciute del Messico. E’ autrice, tra gli altri, dei libri La terra dei narcos. Inchieste sui signori della droga[*], Messico in fiamme. L’eredità di Calderón e La vera notte di Iguala, l’inchiesta più attuale e contundente sul caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala, nel meridionale stato messicano del Guerrero, la notte del 26 settembre 2014. Per le minacce e le aggressioni ricevute, che hanno coinvolto direttamente lei, la sua famiglia e i suoi vicini, [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Anabel Hernández è una delle giornaliste d’inchiesta più riconosciute del Messico. E’ autrice, tra gli altri, dei libri La terra dei narcos. Inchieste sui signori della droga[*], Messico in fiamme. L’eredità di Calderón e La vera notte di Iguala, l’inchiesta più attuale e contundente sul caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala, nel meridionale stato messicano del Guerrero, la notte del 26 settembre 2014. Per le minacce e le aggressioni ricevute, che hanno coinvolto direttamente lei, la sua famiglia e i suoi vicini, Anabel vive da più di sei anni sotto scorta. Dall’agosto del 2014 e all’agosto del 2016, s’è dovuta rifugiare negli Stati Uniti, dove ha potuto vivere coi suoi figli grazie a una borsa di studio del programma di studi in giornalismo dell’Università della California a Berkeley. Ho conversato con lei delle sue scoperte sul caso dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa, sulla corruzione delle autorità e il ruolo dell’esercito, sulla situazione dei cartelli del narcotraffico, sul muro di Trump e sulla legalizzazione delle droghe. Questa è la versione integrale dell’intervista di cui alcuni estratti sono usciti su Huffington e su Ctxt. Esce oggi su Carmilla in collaborazione con Frontiere News [Foto “Ayotzinapa” di Diego Simón Sánchez / Cuartoscuro].

Perché te ne sei dovuta andare dal Messico e com’è stato il periodo dell’esilio negli USA?

Prima di tutto va spiegato che il Messico è uno dei luoghi più pericolosi al mondo per l’esercizio della professione giornalistica. Non sono solo parole al vento. In Messico sono stati assassinati più di 116 giornalisti negli ultimi dieci anni. Solo l’anno scorso sono stati sedici ed io, per sfortuna, sono una delle giornaliste che ha subito violenze e attentati come conseguenza del mio lavoro. In seguito alla pubblicazione del mio libro Los señores del narco (uscito in Italia col titolo La terra dei narcos. Inchieste sui signori della droga) nel dicembre del 2010 sono venuta a sapere da una delle mie fonti d’informazione che l’allora Ministro della Sicurezza Pubblica, Genaro García Luna, aveva organizzato un piano per uccidermi come rappresaglia per quanto avevo pubblicato su di lui e sulla rete di corruzione che operava dentro la Polizia Federale (PF) per favorire il cartello [organizzazione criminale] di Sinaloa e passava direttamente dallo stesso García Luna e dai principali capi della polizia. Questo ha provocato che la polizia organizzasse un complotto per assassinarmi. Me ne sono accorta in tempo e allora la Commissione Nazionale dei Diritti Umani ha chiesto al governo di Città del Messico di darmi una protezione. Da allora vivo 24 ore su 24 con la scorta.

verdadera noche iguala portadaDopo questi fatti, nel gennaio 2010, c’è stato un attentato armato contro la mia famiglia e s’è scatenato un inferno: alcune delle mie fonti d’informazione sono state ammazzate, crivellate di colpi per strada, come nel caso del Generale Mario Arturo Acosta Chaparro, che era stato una delle mie fonti principali per il libro Los señores del narco e mi aveva narrato l’incontro che ebbe con esponenti dei differenti cartelli della droga, compreso Joaquín “El Chapo” Guzmán, che all’epoca era latitante, per ordine dell’allora Presidente della repubblica Felipe Calderón. Contrariamente a quanto diceva in pubblico, cioè che c’era una “guerra contro il narcotraffico”, in realtà quello che faceva era essere corrotto dal narcotraffico e cercare di negoziare con diverse organizzazioni criminali. Questa informazione, in seguito, me la confermò anche Edgar Valdez Villareal, alias “La Barbie”. Si tratta di un narcotrafficante importante che [prima di finire in manette] lavorava per il cartello di Sinaloa, per quello dei fratelli Beltrán Leyva e per El Chapo Guzmán. Valdez mi scrisse una lettera nel novembre del 2012, raccontando come lo stesso presidente Calderón aveva condotto alcune di queste gestioni con i criminali, per cui invece di perseguitarli si sedeva a prendere un caffè con loro, e come gli risultasse che quel capo di polizia, che risponde al nome di Genaro García Luna, e altri dirigenti che avevo denunciato ricevesse denaro da lui e da altri cartelli.

Sono rivelazioni molto pesanti.

Questo ha fatto sì che le aggressioni contro di me fossero sempre peggiori e nel dicembre 2013 è successa una cosa molto delicata, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, per cui sono stata costretta a lasciare il Messico. E’ arrivato un commando armato della polizia federale con undici uomini armati a casa mia. Sono entrati nel condominio, hanno minacciato gli uomini della scorta, portandosene via una per malmenarlo brutalmente, e poi hanno minacciato i miei vicini, puntagli le pistole alle tempie, senza nemmeno risparmiare i bambini di sei o sette anni lì presenti. Infine sono entrati in casa ma io non ero là. Non hanno rubato assolutamente niente, ma questo crimine è rimasto impune e sono stata obbligata a pianificare un’uscita dignitosa dal Paese.

Dico così perché non volevo sembrare un “cattivo esempio” per i miei colleghi e compagni, scappando solo per scappare. Volevo veramente trovare un modo di avere uno spazio, di continuare a lavorare, ricercando e pubblicando informazione in Messico senza stare in Messico. Così ho trovato un programma di giornalismo d’inchiesta alla Università della California di Berkeley che mi ha che mi ha accolto per due anni dandomi una borsa per poter vivere coi miei figli in relativa tranquillità. Anche se era una piccola isola, per me era difficile pensare ai miei colleghi che continuavano a morire in Messico e alla situazione che non cambiava, così ho deciso di rischiare comunque e, nei due anni passati negli USA, ho indagato sul caso Iguala-Ayotzinapa e la desaparición dei 43 studenti, tornando una volta al mese in Messico.

Anabel Hernandez

Foto: la giornalista Anabel Hernández (su gentile concessione)

Quali sono le principali scoperte del tuo libro sulla “vera notte di Iguala” e il caso Ayotzinapa?

Dapprima vorrei dire all’opinione pubblica e alla comunità internazionale che il governo del Messico ha inventato la risoluzione del caso.

Quando succede questa terribile sparizione forzata degli studenti e l’omicidio di tre di loro e di altre tre persone, proprio quella notte del 26 settembre che tutti ricordano, il governo messicano ha cominciato a tessere una versione ufficiale che potesse coprire per sempre la realtà dei fatti accaduti quella notte. Durante un anno mi sono occupata di smantellare tutte le menzogne inventate dal governo federale, principalmente dalla Procura Generale della Repubblica (PGR), diretta all’epoca da Jesús Murillo Karam e dal responsabile diretto delle indagini, che era il direttore della Agenzia per la Indagini Criminali (AIC), il signor Tomás Zerón.

Questi due personaggi hanno inventato la cosiddetta “verità storica”, hanno fatto credere al mondo che gli studenti della scuola normale erano stati assassinati per ordine di un semplice e piccolo sindaco, quello di Iguala, José Luis Abarca, da un gruppo di poliziotti senza armamento né formazione sufficiente e da un piccolo gruppo criminale che era operativo nella zona. Questa è la storia inventata dal governo che ha detto al mondo che gli studenti erano stati cremati quella notte in una discarica della vicina cittadina di Cocula. E’ la storia che conosce il mondo, ma questa storia è falsa.

Ciò che ho scoperto in due anni di ricerche si riassume in cinque punti fondamentali che dimostrano, provano, che sono stati i funzionari pubblici del governo del presidente Enrique Peña Nieto, sono stati i militari, i poliziotti della federale e i federali-ministeriali, e sono stati alcuni membri della polizia statale [dello stato del Guerrero] a prendere parte a questo crimine. Ho trovato che sono stati direttamente l’esercito messicano, il 27esimo battaglione di fanteria, e l’allora colonnello responsabile del battaglione [José Rodríguez Pérez] che hanno orchestrato, disegnato, ordinato, coordinato e infine eseguito la sparizione forzata dei 43 studenti. Ho potuto anche scoprire che vi hanno partecipato attivamente almeno quattordici elementi della Polizia Federale. Nel libro cito anche i loro nomi nello specifico. Cito anche i nomi dei membri della Polizia Federale Ministeriale (PFM), ossia coloro che lavoravano al servizio di Tomás Zerón e hanno partecipato direttamente ai fatti, e ho prove contundenti del fatto che l’esercito ha sparato direttamente quella notte contro i cinque pullman su cui viaggiavano gli studenti. Hanno sparato in particolare sui due autobus della marca Estrella de Oro, i bersagli di quella notte.

Ho scoperto che l’origine o la ragione dell’attacco, che fino ad ora è stato tenuto nascosto dal governo federale, è che l’esercito quella notte stava lavorando per conto di un boss molto importante che gestiva le operazioni nel Guerrero e che voleva recuperare il carico di eroina di due milioni di dollari che si trovava nei due pullman e che, per una fatalità, gli studenti avevano occupato ignari di tutto qualche giorno prima. Senza sapere che quei bus si sarebbero trasformati nelle loro tombe. E un altro degli elementi che ho potuto scoprire è che il governo del Messico era a conoscenza di tutto ciò.

fue el estadoCome?

A metà 2016 c’è stata un’investigazione interna alla procura. Il responsabile degli affari interni, l’Auditor Generale della PGR ha fatto un’indagine indipendente sulla stessa investigazione condotta dalla PGR nel caso e ha scoperto quello che avevo scoperto anch’io: che la presunta cremazione dei corpi a Cocula non è mai esistita, che la maggior parte degli arrestati per il caso, come racconto nel libro, erano stati brutalmente torturati per strappargli confessioni di delitti che non avevano commesso e che i due pullman Estrella de Oro erano realmente la chiave di quello che era successo quella notte. Per questo l’Auditor ha ordinato di investigare più a fondo questi fatti. E ha ordinato anche di indagare sul Capitano José Martínez Crespo, un personaggio centrale in questa tragedia, uno dei principali responsabili, accusandolo di presunti nessi con la criminalità organizzata. Ha ordinato anche l’arresto di vari poliziotti federali e un’investigazione totale sul 27esimo battaglione delle forze armate. Il governo federale era a conoscenza di tutta l’informazione e, per ordine del presidente Peña Nieto, queste due indagini chiave, sulla falsità dei fatti della discarica di Cocula e sul coinvolgimento dell’esercito, sono state tenute segrete per vari mesi. Per ordini presidenziali.

Dopo aver presentato il suo rapporto, l’Auditor della procura, César Alejandro Chávez Flores, è stato minacciato e s’è dovuto dimettere. Il documento è stato divulgato pubblicamente? Si può parlare della “riduzione al silenzio” di uno dei pochi funzionari onesti in questa vicenda?

E’ così. Il documento è finito nelle mie mani proprio quando stavo finendo di scrivere il mio libro. Mi ha confermato la bontà dei contenuti dell’inchiesta e ho pubblicato il suo contenuto nel libro, ma ora si può trovare anche alla pagina web verdaderanochedeiguala.com, che abbiamo creato con la casa editrice affinché tutti, compresi i genitori dei 43 studenti e i loro avvocati, possano consultare questi documenti. L’Auditor s’era preso l’impegno con i genitori dei 43 di condurre un’investigazione indipendente contro Tomás Zerón e nei riguardi dell’indagine della PGR, quindi sul lavoro dello stesso Zerón ma anche dell’ex procuratore di Jesús Murillo Karam.

Si suppone che c’era un impegno, nell’agosto scorso, della PGR a consegnare i risultati di questo rapporto ai genitori degli studenti, ma dato che l’auditing interno aveva scoperto tutte le irregolarità e la “bugia storica”, è per questo che per ordine del presidente la allora procuratrice di giustizia, Arely Gómez, ha ordinato di non dare il documento ai genitori di Ayotzinapa. L’auditor dopo ha subito pressioni da parte della stessa procuratrice e da altri funzionari della procura, tra cui il primo degli accusati, Tomás Zerón, affinché cambiasse i risultati del suo rapporto che distruggeva la “verità storica”.

La cosa più grave di questo documento, che poi è la più importante, è il momento in cui l’auditor, attraverso varie prove ricavate da perizie e testimonianze, con un’indagine molto profonda, scopre, riguardo ai fatti di Cocula, che gli studenti non sono mai stati assassinato e bruciati lì. E che le ossa dello studente Alexander Mora, che si suppone sia l’unico identificato tramite analisi genetico dei suoi resti, rinvenuti nel fiume di Cocula, sono stati collocate lì in realtà dallo stesso Tomás Zerón: si tratta della prova periziale più importante che coinvolge, incolpa e responsabilizza il governo messicano di questi fatti. Perché, se i fatti di Cocula sono falsi e le prove sono state messe lì nel fiume San Juan di Cocula, il signor Zerón e il governo erano in possesso dei resti calcinati di Alexander Mora? Questa è la parte centrale del caso, per questo il governo non poteva permettere che fosse diffuso pubblicamente il rapporto dell’auditor generale. Ed è per questo che lui è stato minacciato di morte ed è stato forzato a rinunciare.

vivos se los llevaronSarebbe possibile accusare di crimini di lesa umanità gli alti funzionari del governo e lo stesso presidente?

Non sono un avvocato né esperta nella materia, ma una delle parti più efficaci delle conclusioni che raggiunge l’auditor, dopo aver controllato la normativa internazionale, è che effettivamente, dato che è stato violato il diritto alla verità delle vittime, che è parte del diritto internazionale, visto che sono stati commessi selvaggi atti di tortura per inventare questa storia e presumibilmente “risolvere il caso, siccome sono state alterate le prove e la verità dei fatti e sono state compiute violazioni gravi ai diritti umani, si può considerare che se il governo del Messico, Peña Nieto e i funzionari pubblici coinvolti non risolvono questa situazione, possono essere giudicati internazionalmente se si integra un tribunale speciale.

Che resta del famigerato gruppo di narcotrafficanti dei Guerreros Unidos e dell’ex sindaco di Iguala, José Luis Abarca, e di sua moglie, María Pineda, che inizialmente vennero indicati come i responsabili della sparizione degli studenti?

La gran maggioranza, l’80%, dei detenuti, compresi presunti membri dei Guerreros Unidos, il sindaco e sua moglie, sono stati torturati e i loro arresti sono stati illegali. L’ho saputo dai referti medici che ho controllato e che furono realizzati a tutti questi detenuti, ma anche da testimonianze che ho ottenuto da loro e dai loro familiari. Per vari mesi mi hanno mandato lettere dalla prigione, raccontandomi le brutali e selvagge torture che hanno sofferto, comprese le violazioni sessuali e le scariche elettriche su tutto il corpo per far sì che confessassero il falso. Secondo l’auditor generale l’incarcerazione della maggior parte di loro e dei principali accusati d’essere gli autori intellettuali e materiali della sparizione dei normalisti, come il signor Abarca e sua moglie, i quattro detenuti che hanno confessato d’aver bruciato gli studenti e i poliziotti locali che, secondo l’accusa, avrebbero orchestrato e organizzato tutto ciò, è stata illegale, il che significa che non dovrebbero restare in prigione. Il governo del Messico s’è preoccupato di fabbricare capri espiatori, falsi colpevoli, ed ha accusato persone innocenti di un crimine che non hanno commesso per proteggere i veri colpevoli, principalmente i funzionari pubblici di Iguala, dell’esercito messicano, della polizia federale e della stessa procura che hanno partecipato attivamente alle operazioni della notte di Iguala.

Al di là dei gruppi criminali piccoli del narcotraffico come i Guerreros Unidos, nel Guerrero chi comanda?

Per scrivere il libro Los señores del narco per dodici anni ho investigato sulle operazioni del cartello di Sinaloa e dei fratelli Beltrán Leyva [che prima della scissione del 2008 lavoravano insieme]. Una delle principali basi delle operazioni di questi gruppi era il Guerrero, specialmente la città portuaria di Acapulco. In quel libro racconto come l’allora comandante militare della zona, Salvador Cienfuegos, attualmente Ministro della Difesa, andava in giro in yatch per la baia di Acapulco in compagnia del boss Arturo Beltrán Leyva. Il libro è uscito ormai più di sei anni or sono e il Ministro non ha mai negato i fatti che vi sono narrati né ha sporto denuncia. Quando viene fuori questa storia del governo federale per cui presumibilmente c’era un gruppo criminale molto forte chiamato Guerreros Unidos e c’erano anche i rivali, Los Rojos, mi metto a cercare e ritiro fuori l’archivio che avevo usato per il libro e scopro che quell’organizzazione quasi non esiste, è praticamente minuscola. Ho potuto parlare personalmente con gente del cartello di Sinaloa e dei Beltrán Leyva e mi hanno detto che in effetti sì esistono le bande dei Rojos e dei Guerreros Unidos, ma si tratta di cellule minuscole che non rappresentano nulla in comparazione con il potere che ancora possiede nel Guerrero l’organizzazione dei Beltrán Leyva. Quando Arturo Beltrán Leyva viene assassinato a Cuernavaca, nello stato del Morelos, nel dicembre 2009, varie parti della loro organizzazione iniziano a smantellarsi. Ci sono molti membri importanti di questo gruppo criminale i cui nomi non sono stati rivelati dal governo ma che continuano con le loro operazioni nel Guerrero. E sono diventati capi importante, magari non al livello de El Chapo Guzmán, però sì con la capacità di trafficare quantità significative di droga, di eroina, dal Messico agli Stati Uniti. Uno di questi capi, di alto livello, nel settembre 2014 controllava la zona di Iguala e dintorni ed è questo boss, il cui nome il governo non cita e che non è accusato o in arresto per il caso, che la notte del 26 settembre ordina al 27esimo battaglione dell’esercito di recuperare ad ogni costo l’eroina che si trovava in quei due pullman da cui sono stati sequestrati i 43 studenti.

ezln 43Quindi qual è il ruolo dell’esercito nel Guerrero?

Sono in possesso di fascicoli della stessa PGR, dichiarazioni di testimoni collaboratori di giustizia che adesso la procura non può smentire, in cui si segnala che per anni l’esercito messicano ha protetto e lavorato con il cartello di Sinaloa e dei Beltrán Leyva. Questo è successo durante molto tempo, è una complicità antica. Particolarmente nel Guerrero c’era questa protezione. Ripeto: lo stesso General Cienfuegos, quando era a capo della zona militare di quella regione, è accusato di aver frequentato Arturo Beltrán Leyva e di averlo protetto. Ci sono molte accuse addirittura non solo contro l’esercito, ma anche contro la polizia federale e la federale-ministeriale, che allora era la AFI o Agenzia Federale delle Investigazioni. Quando Genaro García Luna ne era il direttore, nel 2004-2006, la stessa agenzia funzionava come “assassino mercenario” del cartello di Sinaloa. C’è un episodio che ricordo molto bene e ho i documenti che avallano quanto dico. E’ successo ad Acapulco, dove c’era un gruppo del cartello degli Zetas che voleva prendersi la plaza [la zona, il mercato] e toglierla agli uomini dei Beltrán Leyva e di Sinaloa. Quando i Beltrán Leyva vengono a sapere di questa operazione, non solo inviano i loro uomini armati a combattere gli Zetas m sono gli stessi membri della polizia AFI che agiscono come sicari agli ordini di Arturo Beltrán quella sera: sequestrano vari membri degli Zetas e dopo li fanno fuori registrando un video impressionante. E’ stato quello il primo video di un “esecuzione” dal vivo che poi venne diffuso in vari mezzi di comunicazione in spregio agli Zetas nel mezzo di una guerra selvaggia che stavano facendo col cartello di Sinaloa. Insomma, la complicità dell’esercito, dei federali e della polizia federale ministeriale col narcotraffico nel Guerrero, specialmente coi Beltrán Leyva, è antica e ci sono diverse prove al riguardo. Oggi purtroppo il caso dei 43 desaparecidos è un esempio ulteriore di questa collusione del governo, di questa guerra fallita in cui non solo l’esercito protegge i narco ma addirittura agisce da sicario.

Perché il caso Iguala-Ayotzinapa è emblematico?

Per varie ragioni. La più umana e allo stesso tempo più importante è che in effetti in Messico migliaia di famiglie hanno vissuto la tragedia dei desaparecidos. Oltre 25mila persone sono state “fatte sparire” nel periodo presidenziale di Felipe Calderón (2006-2012), ma per paura o per via delle intimidazioni molti dei loro familiari sono rimasti zitti, non han detto nulla, pero timore ad essere criminalizzati. I genitori dei 43 ragazzi hanno rotto questo schema e hanno dimostrato al Messico e al mondo che di fronte al crimine delle sparizioni forzate non si può mantenere il silenzio.

L’esempio che hanno dato questi genitori negli oltre due anni dalla sparizione dei propri figli non è solo di coraggio ma anche di profondo amore. Mi sembra che alla fine questo è quello che conta di più. L’esempio d’amore di questi genitori ha commosso il mondo e ha fatto in modo che in Messico questo caso non si dimentichi e che ci siano molte persone che continuano a cercare verità e giustizia.

D’altra parte questo caso è l’esempio chiaro del fatto che questa “guerra contro il narcotraffico” in Messico è una guerra simulata perché non si può parlare di “guerra” quando un battaglione è al servizio del narcotraffico. Non si può parlare di guerra contro i narco quando il presidente della Repubblica, invece di mettere in prigione un manipolo di pessimi funzionati pubblici, cioè 40 o 50 funzionari coinvolti nel narcotraffico che hanno determinato i fatti della notte di Iguala, e invece di processarli e dare un esempio per dire che “questo non lo possiamo permettere”, ecco al contrario il presidente ha tollerato la corruzione e la collusione, premiando i responsabili. Oggi il colonnello che era responsabile del 27esimo battaglione ha assunto praticamente l’incarico di sottosegretario alla difesa ed è diventato generale. Il Capitano Martínez Crespo e i federali che hanno partecipato agli attacchi continuano a “proteggere la società” ovunque essi siano, il che in realtà rappresenta un rischio per la società messicana.

Il caso è emblematico perché dimostra il fallimento della guerra alla criminalità organizzata.

Infine è un caso che ha scosso il mondo, ha fatto in modo che la comunità internazionale veda che in Messico in verità non ci sono né pace, né verità, né giustizia quando si tratta di crimini commessi dallo Stato.

ayotzinapa-somos-todosE’ proprio il ministro Cienfuegos che ora chiede l’approvazione di una Legge per la Sicurezza Interna che legittimi la militarizzazione della sicurezza pubblica, la presenza dei militari per le strade e la realizzazione di operazioni di polizia da parte delle forze armate. Che ne pensi?

Mi sembra che il Messico stia passando per un processo molto complicato. Da una parte abbiamo un esercito fuori controllo che vuole più potere e impunità.

Dall’altro abbiamo un presidente con i livelli più bassi di popolarità degli ultimi decenni, con indici minimi di approvazione, che è a punto di finire il suo mandato e non sa come uscirne fuori. E abbiamo una società che ripudia la presenza dell’esercito per le strade. E’ molto pericoloso che il caso di Ayotzinapa resti impunito perché permetterà che l’esercito messicano possa continuare a stare per le strade commettendo questo ed altri crimini. Non va dimenticato che i fatti di Iguala non sono il primo crimine di massa commesso dai militari. Appena qualche mese prima, a metà del 2014, nel Estado de México, a Tlatlaya, i militari hanno assassinato ventuno persone, le hanno ultimate in modo sommario. Il Ministero della Difesa ha provato a nascondere anche questo caso per vari mesi fino a che alla fine l’inchiesta giornalistica dell’agenzia AP e della rivista Esquire è riuscita a scoprire la verità e a rivelare che non s’era affatto trattato di uno scontro a fuoco tra l’esercito e alcuni delinquenti, ma un’esecuzione sommaria condotta dall’esercito. Siamo dinnanzi a una crisi terribile in cui sfortunatamente sembrerebbe che questo esercito boia permarrà nelle strade con tutto ciò che implica.

Gli Stati Uniti hanno promosso per decenni le politiche di “guerra alle droghe”, specialmente in America Latina, ma adesso la marijuana è stata legalizzata per uso ricreativo in ben otto stati americani e in altri quindici è permesso il suo uso medicinale. Che pensi di questo paradosso?

Tutto dipende dall’angolazione da cui guardiamo questa situazione. La mia posizione è contraria alla legalizzazione delle droghe. Mi spiego, se la giustificazione per la legalizzazione è legata alla salute pubblica, mi pare che sia una strategia sbagliata e ti do le mie ragioni. Prendiamo per esempio gli USA. Il principale consumo di droghe negli Stati Uniti non è di droghe illegali ma legali. Le medicine che si suppone che possono essere vendute solo su prescrizione medica, mentre in realtà c’è tutto un mercato nero immenso nel Paese che fa sì che giovani, bambini e persone adulte abbiano accesso a medicine allucinogene in modo illegale in una farmacia legale. Questo dimostra che la legalizzazione non è la soluzione. Se non c’è prima una vera cultura della legalità, se la legge che esiste attualmente non si applica, non si può pensare che la legalizzazione della marijuana, della cocaina, dell’eroina e delle metanfetamine sarà la soluzione, sempre ci sarà un mercato nero. E’ quanto stiamo vedendo con le medicine. Se il governo statunitense non è capace di controllare le imprese farmaceutiche, non riesco nemmeno a pensare come qualcuno possa solo sognare di poter controllare il business legale, i piccoli proprietari, le imprese che fabbricano droghe che prima erano illegali. E’ un sogno stupido, ingenuo, che non porta da nessuna parte. E’ dimostrato che la legalizzazione delle droghe, le droghe legalizzate dunque, non implica che, anche se sono legali, non sorga un mercato illegale, nero, di queste. Da una parte.

Dall’altra se si tratta di vedere la legalizzazione delle droghe come una maniera per controllare la violenza e il business multimilionario, di miliardi di dollari secondo il governo USA, del narcotraffico e dei cartelli, è una visione totalmente erronea. Quando in Colorado s’è iniziata legalizzare la marijuana, con questi posti in cui si può comprare apertamente, i cartelli della droga messicani, secondo quanto mi ha spiegato un agente de la DEA (Drug Enforcement Administration) [agenzia antidroga statunitense], hanno creato delle minipillole, piccole dosi di droga sintetica che fanno lo stesso effetto della marijuana ma a un decimo del costo di una sigaretta di marijuana legale. Stiamo parlando, quindi, del fatto che non è possibile controllare i cartelli perché per ogni droga che si legalizza, se ne inventano una nuova. I cartelli stanno nel business e stanno inventando costantemente nuove droghe per migliorare i loro affari, per renderli più efficienti e redditizi.

Inoltre dobbiamo tenere da conto che non trafficano solo droghe, ma anche persone o merci e si dedicano alla pornografia infantile, al taglio abusivo degli alberi e un mucchio di affari illegali. Allora pensare che la legalizzazione di alcune droghe controllerà il potere dei cartelli è un sogno ridicolo, è una cosa che non succederà. Solo con la cultura della legge, applicando la legge. Non mi riferisco a sparare. Mi riferisco al fatto che, se veramente si cominciasse a vedere una vera guerra contro il narcotraffico, prima di arrestare El Chapo Guzmán, si sarebbero dovuti arrestare tutti i suoi complici, dai governatori ai banchieri e agli imprenditori. Se le grandi banche continueranno a riciclare denaro sporco impunemente, ci saranno “Chapos” ovunque perché ci sarà sempre una parte del mondo “legale” disposta a convivere e fare affari con il mondo illegale. La recente estradizione de “El Chapo” negli USA non sarà una soluzione per il Messico nemmeno alla lontana, anzi, potrà generare ancora più violenza e instabilità.

marcha-ayotzinapaUn altro tema, diciamo, “frontaliero” è l’amministrazione di Donald Trump. Hai vissuto due anni negli USA come migrante-esiliata e conosci bene i due lati della frontiera. Che pensi della costruzione del muro e delle prime settimane di governo?

Devo riconoscere che facevo un po’ di fatica, quando vivevo là, a riconoscere certe attitudini, certi modi di essere del nordamericano. Perché da una parte c’è una comunità latina molto grande, di migranti, ma l’essenza, ciò che è l’americano bianco, anglosassone, beh, sono personaggi difficili da comprendere. Una cosa vera è che, per come l’ho sperimentato in carne viva là e l’ho visto, negli Stati Uniti c’è sempre stato un razzismo occulto, non detto, silenziato. Per un’epoca, lo sappiamo, c’è stato un razzismo aperto, selvaggio e crudele, però poi, col passare degli anni, questo razzismo è rimasto progressivamente all’interno degli americani anglosassoni. L’ascesa di Trump spiega questo: chi vota per lui è questa maggioranza bianca, e non mi riferisco solo a una maggioranza bianca economicamente benestante, ma anche all’esistenza di un’ampia maggioranza bianca formata da operai, gente comune che non ha abbastanza per vivere e che si sente scalzata dai migranti e sentono che questi sono arrivati a rubargli il loro paese. Poco tempo fa ho potuto parlare con un accademico molto importante della Università della California a Los Angeles, David Maciel, e lui mi spiegava una cosa che non avevo capito, perché c’è bisogno di essere americani per capire queste parole: quando Trump in campagna elettorale diceva “faremo di nuovo grande l’America” e “America per gli Americani”, significava tornare indietro di cinquant’anni. Alla “America grande” in cui c’era un gran razzismo e ciascuno se ne stava al suo posto e non si poteva muovere da lì. Restituire l’America agli americani si riferisce a questa classe, a questa razza fondatrice di ciò che sono gli Stati Uniti. A questo faceva riferimento Trump, per questo ha votato la gente, per tornare al passato. Siamo di fronte a una situazione critica perché chi pensa che si tratti solo di Donald Trump, si sbaglia. Tutto questo riguarda una buona maggioranza della società americana per cui c’è un piccolo razzista silenzioso che cova nel seno di ogni americano.

no-solo-ayotzinapaChe opinione ti sei fatta delle manifestazioni contro Trump in Messico, compresa l’iniziativa “Vibra México” che pretende di creare una “unità di tutti” contro il presidente USA? Ci sono alcuni settori e organizzazioni della società che l’hanno usata, piuttosto, per sostenere Peña Nieto internamente. Che pensi delle reazioni del governo messicano?

Credo che, ci piaccia o no, che siamo d’accordo o no come messicani da questa parte del confine, il presidente Trump sul suo territorio possa fare quello che vuole. E’ tra le sue prerogative farlo. Se lui pensa che con un muro impedirà che i messicani passino il confine e questa è la sua politica pubblica e gli americano lo sostengono, non c’è maniera di impedirlo. E’ assurdo, colpirà milioni di messicani, ma non si può impedirlo. Quando lui dice “i messicani finiranno per pagare il muro”, ci sono tanti modi con cui può fare in modo che i messicani paghino il muro e ti faccio un esempio specifico. La principale entrata legale di denaro, senza parlare delle droghe, che ha il Messico, più del petrolio, sono le rimesse dall’estero, ossia i soldi che inviano tutti i messicani che vivono negli USA ogni anno. Se Trump decidesse aumentare o introdurre una tassa a queste rimesse, noi messicani finiremmo per pagare il muro. Riguardo a questo discorso di “unità”, mi sembra che in Messico non vi sia unità, perché non può esseri unità intorno a un presidente assassino. Uno cosa è che Trump sia terribile e un’altra è che la gente pensi di stringersi attorno a un presidente che è stato terribilmente corrotto, come l’ha mostrato il caso della Casa Blanca [Casa Bianca, un’inchiesta giornalistica del portale Aristegui Noticias che messo in luce le opache relazioni tra l’acquisto della casa del presidente e sua moglie e contrattisti del governo del gruppo imprenditoriale Higa] e il fatto che ha permesso l’impunità, proteggendo per esempio i responsabili della sparizione dei 43 studenti nel caso di Ayotzinapa. E la gente questo lo sa! Come si fa a lanciare un appello all’unità quando è un governo assassino che convoca? Siamo in una situazione davvero molto polemica in cui vedo una società che ama il proprio Paese, in cui amiamo il nostro Paese, il Messico, ma sappiamo che il governo che abbiamo sarà capace di qualunque cosa affinché Trump non decida rappresaglie legale contro vari funzionari pubblici, per esempio adesso che El Chapo Guzmán è stato estradato negli Stati Uniti… Molti, incluso il presidente, devono essere preoccupati, anche se lui stesso ha accettato l’estradizione pensando che così sarebbe entrato nelle grazie di Trump. Ebbene oggi, osservando l’attitudine di Trump, mi pare che tutti debbano preoccuparsi perché il signor Joaquín Guzmán Loera possiede molta informazione non solo sui periodi presidenziali precedenti ma anche su quello in corso in cui, ricordiamo, è stata possibile la sua seconda fuga di prigione a metà 2015…

padres ayotziCome pensi che possa evolvere l’organizzazione de “El Chapo” in Messico adesso? Potrà realmente il boss stipulare dei patti con la giustizia statunitense? Molti dicono che non ha più molte carte in mano o che comunque non riuscirà mai a uscire di galera con tutti capi di accusa che gli hanno dato.

E’ una domanda complessa a ampia, ma bisogna premettere che la fine de El Chapo è iniziata nel gennaio 2016, quando è stato ricatturato. La sua fine era già quindi determinata prima dell’estradizione del 19 gennaio scorso. Non era già più il capo del cartello di Sinaloa, quando viene estradato, e non aveva più nessun potere, era totalmente debilitato da una guerra interna. Ora negli USA lui sa che la sussistenza, la sopravvivenza della sua famiglia dipende soprattutto da lui e da quello che pensa di negoziare col governo americano. So che il governo statunitense lo vede come un’arma importante contro il governo messicano. L’aspettativa è che, sebbene non gli possano offrire una condanna minore e, per quanto ho capito e per le informazioni in mio possesso, gli daranno l’ergastolo, comunque ci sono altre cose da negoziare con lui come i soldi, la protezione per la sua famiglia, eccetera. Dunque in cambio di diversi benefici che il governo USA sarebbe disposto a concedergli, tra i quali non ci sarebbe una sentenza leggera ma benefici di indole economica e di altro tipo, loro si aspettano che El Chapo Guzmán cominci a denunciare i suoi principali protettori nel governo, in questo e nei periodi passati. E’ l’informazione che ho. Nel fascicolo criminale aperto contro di lui presso la corte federale del distretto est di New York, in cui sarà giudicato, si riconosce che nell’ultimo decennio il boss è diventato il narcotrafficante più potente del mondo grazie all’aiuto di funzionari dei livelli più alti del governo messicano che, durante questa presunta “guerra al narcotraffico”, hanno combattuto di più i suoi nemici per rafforzare il cartello di Sinaloa e consegnarli le plazas.

Tornando al caso Ayotzinapa. Nella presentazione del libro La verdadera noche de Iguala alla FIL-Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara, nel dicembre 2016, hai parlato del caso di un militare del 27esimo battaglione a Iguala che stavi per intervistare, ma poi non è stato possibile perché la persona che faceva da tramite è stata assassinata. Stai ancora investigando sul caso?

Continuo a indagare sul caso e su quale sia la situazione legale dei detenuti che sono stati torturati. Anche la ONU e la Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH) stanno investigando su questo. So che ci sono già state le liberazioni di alcuni reclusi. Mi aspetto che ce ne possano essere altre e di certo continuo a investigare su quale sia stato il destino finale degli studenti che è una questione ancora irrisolta. Per quanto riguarda il militare m’interessava parlare con lui perché mi aveva fatto arrivare una comunicazione secondo cui alcuni dei 43 studenti erano stati portati nella caserma del 27esimo battaglione nella notte del 26 settembre 2014. Non segnalo questo nel mio libro, non ne parlo, perché non ho avuto l’opportunità di parlare direttamente con il militare visto che la mia fonte che faceva da tramite è stata assassinata e, ora che ho provato a stabilire di nuovo qualche tipo di contatto con il militare, mi hanno informato che risulta desaparecido…

ayotzi 43 ya bastaChe messaggio vorresti far passare ai lettori in Europa?

Mi sembra che la comunità internazionale sia stata abbastanza debole col governo del Messico riguardo questo caso dei 43 studenti. Mi pare che la stessa Unione Europea e il governo statunitense vincolino il governo messicano all’adempimento di norme minime sul rispetto dei diritti umani per poter fare affari col Messico. Ciononostante il Messico nemmeno rispetta questi standard minimi sui diritti umani. USA ed Europa continuano a fare affari col Paese con un pragmatismo criminale.

Mi pare che la comunità internazionale deve iniziare a vedere il Messico con occhi più disincantati e a comprendere che è una polveriera. La comunità internazionale, magari, si sta fregando le mani, pensando agli investimenti e ai guadagni multimilionari che può ottenere in un paese come il Messico, soprattutto adesso che c’è stata la riforma petrolifera, per cui chiunque può investire ed estrarre petrolio nel Paese, ed è cambiata anche la normativa sul settore energico. Mi sembra che la comunità internazionale non capisce che il Messico è una polveriera in cui i suoi capitali e gli investimenti possono esplodere insieme al resto del Paese.


[*] Il titolo del libro in spagnolo è Los señores del narco. Lo sottolineo perché nella traduzione italiana si perde un contenuto importante: i “signori del narcotraffico” del titolo originale non sono solo i trafficanti di droga e i boss ma anche, e soprattutto, i “signori” del mondo politico che li proteggono o fanno affari con loro ed anche i riciclatori di denaro sporco che permettono al business di “ripulirsi” e proliferare. Migliore è il titolo della versione americana: Narcoland: the mexican drug lords and their godfathers (La terra dei narcos: i baroni messicani della droga e i loro padrini).

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Lo “scivolone” di Cortázar https://www.carmillaonline.com/2016/06/01/lo-scivolone-cortazar/ Tue, 31 May 2016 22:00:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30851 Cortazardi Raul Schenardi*

Dopo una lunga assenza è tornato in libreria, nella nuova traduzione di Ilide Carmignani, L’inseguitore di Julio Cortázar, riproposto da Sur con le illustrazioni di uno dei maestri del fumetto argentino, José Muñoz. Il racconto fu pubblicato nel 1959 nella raccolta Las armas secretas, e sotto il nome del protagonista, Johnny Carter, è facile riconoscere la figura del leggendario sassofonista Charlie Parker, morto nel 1955 a soli trentacinque anni, fondamentalmente per abuso di alcol ed eroina.

E qui abbiamo un problema.

Perché nel racconto, come [...]]]> Cortazardi Raul Schenardi*

Dopo una lunga assenza è tornato in libreria, nella nuova traduzione di Ilide Carmignani, L’inseguitore di Julio Cortázar, riproposto da Sur con le illustrazioni di uno dei maestri del fumetto argentino, José Muñoz. Il racconto fu pubblicato nel 1959 nella raccolta Las armas secretas, e sotto il nome del protagonista, Johnny Carter, è facile riconoscere la figura del leggendario sassofonista Charlie Parker, morto nel 1955 a soli trentacinque anni, fondamentalmente per abuso di alcol ed eroina.

E qui abbiamo un problema.

Perché nel racconto, come viene ribadito più volte, la “droga” che assume Johnny Carter non è l’eroina, termine che non compare mai, bensì… la marihuana.

Leggiamo: «Johnny sta delirando e ha in corpo abbastanza marihuana da far impazzire dieci persone». E ancora, sempre più stupefatti: «fantasmi della marijuana, in fin dei conti, che scompaiono con una cura di disintossicazione». In un crescendo che sembra destinato a non finire mai: «Johnny suonava svogliato con l’ansia di scappare (a drogarsi di nuovo, aveva detto il tecnico del suono fuori di sé dalla rabbia), e quando l’avevo visto uscire barcollando con la faccia cinerea, mi ero chiesto se sarebbe durato ancora molto». Infatti, il macabro presagio viene ripreso poco dopo: «Johnny non resisterà ancora a lungo in questo stato. La droga e la miseria non vanno d’accordo».

(Oddio, la marihuana porta dritti alla schizofrenia? Al manicomio? Uccide? Ci si può salvare solo con una bella cura di disintossicazione? Tutti a Patrignano? E nessuno se n’era mai reso conto, ignorando i paterni avvertimenti che ci venivano da Fini, Giovanardi, Casini e altri probi viri…)

Insomma, per tutto il racconto abbiamo a che fare con sintomi e comportamenti tipici di un eroinomane, comprese le dolorose crisi di astinenza, solo che questa serie di disgrazie viene attribuita all’assai più innocente marihuana.

Forse è il caso di rimettere un po’ d’ordine, e per farlo possiamo ricorrere a William Borroughs, uno che se ne intendeva. Nel prologo del suo Il Pasto nudo (prima edizione, Parigi 1959, lo stesso anno dell’Inseguitore) scriveva:

“Quando parlo di tossicomania non mi riferisco né al keif, né alla marijuana, né ad alcun preparato a base di hashish, mescalina, Bannisteria caapi, LSD6, Funghi Sacri o qualsiaisi altro allucinogeno… Non è scientificamente dimostrato che l’uso degli allucinogeni causi dipendenza fisica. L’azione di questi stupefacenti è fisiologicamente opposta all’azione della droga. A causa dello zelo delle Squadre narcotici degli Stati Uniti e di altri paesi si è creata una deplorevole confusione fra le due classi di droghe”.

Com’è possibile che tale “deplorevole confusione” faccia capolino anche nel racconto di uno scrittore latinoamericano niente affatto moralista o provinciale come Cortázar? Il “dettaglio”, se vogliamo chiamarlo così, non poteva sfuggire, e vi accenna anche Ilide Carmignani in un articolo per “La Stampa” poi ripreso da Sotto il vulcano, il blog delle edizioni Sur.

Martín Caparrós (autore dell’ottimo saggio-reportage La fame, pubblicato l’anno scorso da Einaudi) racconta che una volta, durante un viaggio in taxi dopo un’intervista, fece una domanda a Cortázar su questo punto, che l’aveva sempre incuriosito: “Perché gli era passato per la testa di scrivere che Johnny Carter, il sassofonista del Perseguidor, diventa un tossico terminale, soffre di terribili crisi d’astinenza e alla fine muore per un’impossibile overdose di marihuana? Cortázar rise e disse che in effetti si trattava di un errore, che nel 1958, quando aveva scritto il racconto, non aveva la minima idea su nessuna droga e aveva messo marihuana come avrebbe potuto mettere candeggina, e che si era reso conto dello scivolone (patinazo) solo grazie al suo traduttore americano, che aveva ipertradotto eroina invece di marihuana – ma lui non aveva voluto cambiarlo. Poi parlammo dei grandi errori letterari, dell’orologio di Amleto, dei leoni di Kipling, e il taxi non arrivò da nessuna parte».

Commenta un po’ diffidente Caparrós: «È strano immaginare adesso un’epoca in cui uno scrittore latinoamericano a Parigi, ansioso di modernità e frequentatore di vari bassifondi, non sapesse cos’era la marihuana». Già.

Di sicuro comunque Cortázar ne seppe qualcosa più tardi, durante una delle sue vacanze a Deià, Mallorca (il “paradiso segreto” scoperto da Robert Graves già nel 1929), dove nei primi anni Sessanta era ben installata una comunità di artisti della beat generation piuttosto numerosa e agguerrita: fra gli altri, musicisti come Robert Wyatt, Mike Oldfield, Kevin Ayers, e un artista come Mati Klarwein, che ha realizzato alcune delle copertine psichedeliche più celebri degli lp degli anni Settanta, da Bitch Brew di Miles Davis ad Abraxas di Santana.

Sta di fatto che in una lettera del 1970 all’amico pittore e poeta Eduardo Jonquières, il Gran Cronopio scriveva: “Strane circostanze mi hanno fatto incontrare un gruppo di hippy e per un’intera notte ho scoperto che non sono quel cancro sociale denunciato dai benpensanti, anzi, il cancro è precisamente ciò che li circonda e li ostacola; in ogni caso, in quel gruppo c’era qualcosa di molto simile alla felicità, alla conclusione di un lungo viaggio, a una riconciliazione. Con l’aiuto della marihuana, chiaro (la fumano, l’abbiamo fumata, seduti sulla scalinata della cattedrale, cosa piuttosto buffa, e senza che la polizia venisse a ficcare il naso, malgrado l’odore abbia poco a che vedere con quello dell’incenso)”.

Possiamo tirare un sospiro di sollievo: Cortázar non può essere arruolato impunemente fra i persecutori dei ragazzi dello spinello.

Resta il dubbio sul perché, una volta messo in guardia dal suo traduttore inglese, non abbia mai voluto correggere l’errore nelle edizioni successive. Il critico Carlos María Domínguez sostiene che: “In spagnolo preferì che restasse com’era, forse perché il racconto più che di Parker parla di Cortázar, e anche della sua esperienza con la marihuana, pudicamente velata in questo racconto degli anni Cinquanta”.

(E Cortázar sembra dargli ragione quando nell’“Inseguitore” mette in bocca queste parole alla voce narrante, il suo alter ego Bruno, critico di jazz: “Il brutto è che se continuo così finirò per scrivere  più di me che di Johnny. Comincio a sembrarmi un evangelista e non lo trovo affatto divertente”.) Nella stessa nota, un’approfondita recensione della biografia di  Annie Pannonica Rotschild, “la baronessa del jazz”, detta “Nica”, Tica nel racconto, Carlos María Domínguez dà sostanzialmente ragione alle critiche mosse a Cortázar dalla biografa – una nipote della “pecora nera” dei Rotschild –, per aver dipinto il quadro di una donna abbastanza frivola e promiscua, oltretutto sospettata da Bruno di procurare la “droga” al musicista. È pur vero che Charlie Parker morì in casa della baronessa, della quale peraltro non era particolarmente amico, ma aveva appena bussato alla sua porta per chiederle qualcosa da bere e da mangiare, in condizioni pietose dopo un tentativo di suicidio, la morte della figlioletta e l’abbandono della moglie. E Nica non rifiutava ospitalità a nessuno dei suoi amici jazzisti. In particolare, accompagnò Thelonius Monk per quasi trent’anni, prendendosi cura anche della moglie e dei figli, e lo ospitò per un decennio dopo la separazione della moglie, quando era ormai caduto in uno stato catatonico.

Alla fine mi viene un dubbio, niente affatto atroce, casomai ironico: Cortázar non avrà glissato sul suo rapporto con la marihuana per paura del giudizio di Jorge Luis Borges? In questo caso sarebbe andato fuori strada, perché una volta il suo compassato Maestro, alla domanda di un intervistatore: “Certe malelingue mi hanno detto che lei ha conosciuto certe droghe…”, rispose: “Sì, però ho fallito con la cocaina e con la marihuana. Ho fatto diversi esperimenti sinceri, cinque o sei. E con la cocaina, sì, mi sentivo ciarliero, ma molto nervoso. Con la marihuana, invece, non ho sentito assolutamente niente. Però sono stato sul punto di diventare un ubriacone”.

Le solite (o altre) malelingue hanno messo addirittura in circolazione la voce secondo cui sarebbe stato stato proprio Borges, che trascorse un periodo in un paesino poco distante da Deià alla fine degli anni Venti, a far conoscere a Robert Graves certi funghi psichedelici messicani, e in rete c’è chi è pronto a giurare – basandosi addirittura su un’allusione di sua moglie, Maria Kodama, durante un convegno pubblico – che la rivelazione del celebre racconto “L’Aleph”, l’apice “mistico” dell’opera borgesiana, non sia stata indotta dallo “pseudo-cognac” offertogli dall’amico-rivale Carlos Argentino Daneri – tant’è che Borges non prova i classici sintomi dell’ingestione di un alcolico, che peraltro conosceva bene –, ma da un fungo allucinogeno (nome scientifico Psylocybe hoogshagenil) che cresce anche in Argentina nel mese di febbraio tra i 1000 e i 1800 metri. Scrive infatti il Maestro: “Sentii un confuso malessere, che volli attribuire alla rigidità, e non all’effetto di un narcotico. Chiusi gli occhi, li riaprii. Allora vidi l’Aleph”.

*Traduttore (Arlt, Aira, Asturias, Pacheco, Sabato, Vallejo), aficionado di letteratura latinoamericana, blogger su perleecicatrici.org

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L’ultimo narcos: epopea e segreti del Chapo Guzmán https://www.carmillaonline.com/2016/01/30/lultimo-narcos-epopea-e-segreti-del-chapo-guzman/ Fri, 29 Jan 2016 23:00:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28358 di Fabrizio Lorusso

chapo pensoso[La narrazione viaggia su cinque capitoli, intervallati da alcuni video e foto. Si può pure saltare da uno all’altro in caso di necessità. Indice: 1. Il Cartello  2. Ayotzinapa  3. La terza cattura  4. Estradizione?  5. Triangolo: Kate del Castillo, Sean Penn e “El Chapo” Guzmán]

“A cosa starà pensando El Chapo?” Questa semplice domanda, contenuta in un tweet del giornalista messicano Diego Enrique Osorno diventa virale la sera dell’8 gennaio. Sono passate poche ore dalla cattura, la terza, del narcotrafficante [...]]]> di Fabrizio Lorusso

chapo pensoso[La narrazione viaggia su cinque capitoli, intervallati da alcuni video e foto. Si può pure saltare da uno all’altro in caso di necessità. Indice: 1. Il Cartello  2. Ayotzinapa  3. La terza cattura  4. Estradizione?  5. Triangolo: Kate del Castillo, Sean Penn e “El Chapo” Guzmán]

“A cosa starà pensando El Chapo?” Questa semplice domanda, contenuta in un tweet del giornalista messicano Diego Enrique Osorno diventa virale la sera dell’8 gennaio. Sono passate poche ore dalla cattura, la terza, del narcotrafficante più ricercato al mondo, Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, capo dell’organizzazione criminale di Sinaloa. Più conosciuto ormai per il suo alias, “El Chapo”, ossia il tozzo o tarchiato, il capo rinchiuso è diventato un numero: prigioniero 3870 del penitenziario di massima sicurezza El Altiplano, prima La Palma. Nel tweet di Osorno è incorporata una delle foto diffuse dalla stampa dopo l’arresto. Guzmán sta seduto al suo posto vicino al finestrino, in canotta, con lo sguardo perso nel vuoto e la testa reclinata sul vetro. Pensoso, con un suo scagnozzo affianco, e provato dopo un risveglio di sparatorie e fuggifuggi. Il cartello di Sinaloa, conosciuto anche come del Pacifico o Federazione, è l’organizzazione criminale più potente del continente americano e probabilmente del mondo. Muove la gran parte dell’eroina, della cocaina, della marijuana e delle droghe sintetiche negli Stati Uniti e ha espanso le sue attività illegali nel pregiato mercato europeo, in Asia e in Oceania, dove i prezzi degli stupefacenti crescono ancora promettendo lauti guadagni. Il cartello di Sinaloa la fa da padrone nella spartizione di una torta globale psicotropica stimata tra i 300 e i 400 miliardi di dollari. E’ forte a New York come a Buenos Aires ed è presente in ogni grande città tra queste due. Al di là del tradizionale business delle droghe, i cartelli messicani hanno diversificato le loro attività delinquenziali orizzontalmente, cioè si dedicano al contrabbando di metalli preziosi e petrolio, al commercio di armi e alla tratta di persone, al traffico di migranti, all’estorsione, al sequestro di persona, al riciclaggio, e a un’altra dozzina di tipologie criminali.

Capitolo 1. Il Cartello

winslow cartelLe aree degli affari mafiosi non dipendono da una sola persona ma da reti, franchigie, gruppi, bande, strutture, organizzazioni, connivenze e associazioni che tendono a persistere: morto un Papa, cioè un boss, o smantellato uno degli anelli della catena, se ne fanno altri o altri già ne esistono, mentre i flussi globali di merci e servizi seguono il loro corso. In seguito all’arresto di un capo o allo smantellamento del grosso delle sue reti, possono avvenire scissioni o ristrutturazioni all’interno dell’organizzazione. Alcuni gruppi, clan o famiglie provano a “lavorare in proprio” o si specializzano in uno o più business criminali su cui avevano acquisito un vantaggio competitivo.

Circolano queste ipotesi circa le possibili future evoluzioni del cartello di Sinaloa che, sia ora sia nel precedente periodo di incarceramento del Chapo (febbraio 2014-luglio 2015), ha continuato a funzionare “normalmente” vista la solidità dei suoi affari e delle sue ramificazioni. E grazie anche ad altre leadership consolidate: c’è Ismael “El Mayo” Zambada, suo figlio “El Vicentillo”, attualmente neutralizzato e in carcere negli USA, i figli di Joaquín Guzmán o vecchie glorie come Rafael Caro Quintero che, nel silenzio, potrebbe essere tornato in attività dopo la sua liberazione nel 2013. E infine c’è anche “El Azul”, Juan José Esparragoza Moreno, capo storico dato per morto nel giugno 2014 ma che pare possa essere redivivo secondo varie fonti.

Infine, come sostiene lo scrittore noir americano Don Winslow, autore dei bellissimi Il potere del cane (2005) e Il cartello (2015), c’è e lì resta il Cartello, inteso non solo come l’organizzazione criminale, ma anche come tutto quello che ci sta intorno e la fa funzionare, ossia gli apparati dello stato, le polizie e i politici implicati nel contrabbando di stupefacenti o nella protezione di tali illeciti commerci (ascolta qui un’interessante intervista del giornalista di RSI Daniel Bilenko allo scrittore).

Missione compiuta? E Gisela Mota, la sindaca ammazzata?

gisela mota“Missione compiuta: ce l’abbiamo. Voglio informare i messicani che Joaquín Guzmán Loera è stato arrestato”. Arriva alle 12:19 PM – 8 Jan 2016 il cinguettio di @EPN, account twitter del presidente del Messico Enrique Peña Nieto. Per lui e il suo esecutivo è un momento di rivincita e festeggiamenti, mentre le voci critiche parlano di una “finzione compiuta”, alludendo alle incoerenze nelle narrazioni che si susseguono ora dopo ora, alle filtrazioni premeditate di informazioni e dettagli, secondo un copione occulto, e infine alla pomposità dello spettacolo presidenziale riprodotto dalle TV.

Tra l’altro la ricattura del boss arrivava proprio in un momento delicatissimo, con un timing e una precisione impressionanti. Il 2 gennaio, infatti, veniva uccisa Gisela Mota, neosindaca di Temixco, vicino a Cuernavaca, nella regione del Morelos, da un commando armato di presunti narcos del gruppo dei Los Rojos. Questi, come i tristemente famosi Guerreros Unidos, sono una cellula scissionista dell’ex potente cartello dei fratelli Beltrán Leyva, a loro volta fuoriusciti da quello di Sinaloa nel 2009.

La notizia del crudele assassinio, perpetrato nella casa della giovane funzionaria nel secondo giorno del suo mandato di fronte ai suoi familiari, ha fatto il giro del mondo, mettendo nei guai il governo e il presidente, giusto nel mese in cui si preparava la sfilata nella vetrina del World Economic Forum. In terra azteca sono un centinaio i presidenti municipali, come sono chiamati i sindaci nei comuni, ammazzati negli ultimi dieci anni. Gisela non s’era piegata ai dettami della delinquenza organizzata della zona, sempre più confusa e infiltrata nelle polizie locali e statali. Graco Ramírez, governatore del Morelos, ha approfittato del femminicidio mafioso per assumere pieni poteri sulle polizie dei comuni, il che di per sé non risolve le gravi disfunzioni di questi corpi corrotti, putrefatti. Di fatto gli osservatori più attenti, tra cui il poeta attivista Javier Sicilia, attribuiscono proprio all’incapacità e ai contuberni del governo statale la deriva violenta degli ultimi cinque anni. Si protegge il crimine organizzato, i suoi affari e i loro complici nella funzione pubblica, ma non si tutelano gli amministratori e i politici onesti che sono minacciati.

Quando in Italia e in Colombia la violenza crebbe sproporzionatamente fino a toccare il cuore del mondo politico e dell’élite, lo scossone cominciò a smuovere l’opinione di coloro che vivevano nel e del sistema politico-mafioso e della classe dirigente nel suo complesso. Il dilemma era diventato: o noi, o loro. E quindi arrivarono misure d’emergenza e maxiprocessi. E’ la spiegazione del paradosso che hanno vissuto questi paesi a detta dell’accademico Edgardo Buscaglia. In Messico, invece, gli assassini politici a tutti i livelli non hanno provocato nessuna reazione complessiva e decisa del sistema e nel sistema, per cui la violenza pare inarrestabile.

chapo entrevistaEcco che allora prendere il Chapo diventa strategico, vitale, di fronte all’opinione pubblica mondiale. Le critiche per l’insicurezza e l’indignazione per l’ennesimo crimine di stampo mafioso vengono smorzate e, almeno momentaneamente, dimenticate dinnanzi allo show del jefe de jefes che viene scortato nell’aeroporto Benito Juárez della capitale. L’intervista dell’attore Sean Penn al Chapo, che esce sulla rivista Rolling Stone il 9 gennaio, e la persecuzione contro lo stesso Penn e l’intermediaria dell’incontro, Kate del Castillo, fungeranno da distrazione massiva per tutto gennaio e oltre, mentre la memoria di Gisela Mota e delle altre vittime della narcoviolenza e del narco-stato solo viene difesa da parenti, movimenti sociali e media indipendenti.

Il 22 febbraio del 2014 il capo sinaloense era stato imprigionato, ma il 12 luglio di un anno dopo era riuscito a fuggire clamorosamente dal carcere di “massima sicurezza” El Altiplano, nei pressi della capitale, grazie a un tunnel di un chilometro e mezzo scavato sotto la prigione. Fu uno sberleffo per i responsabili della sicurezza e specialmente per il governo che dal momento del suo insediamento, nel dicembre 2012, ha provato a costruire di fronte al mondo l’immagine di un Paese sicuro e moderno, pronto ad accogliere investimenti e capitali offrendo le garanzie di un vero stato di diritto e d’una economia dinamica. Che poi in soldoni non si traduce in sicurezza sul lavoro, diritti, certezza della legge e responsabilità sociale, come il discorso ufficiale ambiguamente prova a comunicare, ma in una forza lavoro sottopagata, ricattabile e “ben disciplinata”, in vantaggi fiscali enormi per le multinazionali, nella privatizzazione di educazione, salute e beni comuni e infine nell’apertura allo sfruttamento delle risorse naturali, in primis quelle minerarie ed energetiche.

Capitolo 2. Ayotzinapa

Di lì a poco, il 26 settembre, la “notte di Iguala” avrebbe nuovamente e definitivamente stravolto i sogni di gloria dell’esecutivo, rivelando le trame della narco-politica e della narco-polizia, così come la volontà di governo e procura di sotterrare il caso, occultare responsabilità e adulterare le indagini. Ma ormai non si poteva più lasciare all’oscuro il grosso dell’opinione pubblica nazionale e internazionale e i genitori dei 43 ragazzi, sostenuti da un solido e indignato movimento di protesta, sono diventati subito una spina nel fianco, ancor più di quanto non lo fosse stata la fuga del boss più ricercato e ricco del mondo (leggi qui gli articoli su Iguala-Ayotzinapa).

Tanto in là s’è spinta la brama di manipolare, prima, e chiudere, poi, il caso, oltreché di zittire le proteste e le voci discordanti, che è stata creata una confusa “verità storica”, sbandierata messianicamente come “buona e giusta” dall’ex procuratore Jesús Murillo Karam. Era invece fallace e menzognera, un insulto. L’effetto boomerang è stato dirompente e il movimento di sostegno ai genitori di Ayotzinapa e alle vittime di sparizione forzata, tra cui si contano migliaia di centroamericani, oltre che 30mila messicani, s’è internazionalizzato e rinforzato, malgrado le continue denigrazioni mediatiche e la repressione fisica di attivisti e giornalisti.

Gli studenti restano desaparecidos, cioè in un limbo burocratico e ontologico tra la vita e la morte, introvabili, per cui campeggiano i loro volti e i loro nomi, giganti di dignità e lotta, per le strade e le piazze, come a simboleggiare e denunciare le infinite impotenze e corruzioni strutturali dei diversi apparati statali coinvolti nei delitti commessi contro di loro. Il rischio che venga riconosciuto internazionalmente il crimine di lesa umanità per il caso Iguala-Ayotzinapa è alto e concreto e il presidente, che è capo supremo delle forze armate, ne dovrebbe rispondere direttamente. I pochi “punti d’immagine” che gli restano sarebbero immediatamente seppelliti in una delle tante fosse comuni dell’oblio, colme di ossa e segreti di stato, di cui per lungo tempo s’è voluta negare financo l’esistenza. Ma prima di tornare al Chapo…

Ayotzi 2016Breve aggiornamento

Al termina di una carovana che ha portati in 15 stati della repubblica messicana, il 26 gennaio 2015, a 16 mesi dalla sparizione dei loro figli, i genitori di Ayotzinapa e i movimenti solidali hanno marciato per le strade di Città del Messico e hanno chiamato i collettivi all’estero a realizzare una giornata globale di protesta. La rivista Proceso ha pubblicato un reportage che mostra come vi sia del materiale audiovisuale importantissimo per il caso che è estato lasciato fuori dalle indagini ufficiali e come nella notte del 26 settembre 2014 il C4 (Centro di Controllo, Comando, Comunicazione e Computer) di Iguala fosse controllato da militari. Stiamo parlando del più importante snodo per il commercio di oppiacei ed eroina del continente americano. Iguala e i vertici del “pentagono dell’oppio” messicano nello stato del Guerrero sono vigilati da distaccamenti militari, ben informati circa i flussi che vi transitano. Le forze armate sono state protette dal governo durante le indagini e sono blindatissime per cui non è possibile interrogare nessuno dei militari che erano presenti durante i massacri e le desapariciones della notte di Iguala. Nel video occultato dalle autorità si nota chiaramente il passaggio di un convoglio composto da varie auto della polizia e, tra queste, vi sono altri veicoli che potrebbero essere “ufficiali” e avere a bordo funzionari pubblici. Viene quindi confermata la natura organizzata e complessa dell’operazione contro gli studenti sopravvissuti, le vittime e i desaparecidos di Ayotzinapa. Il 5 e 6 febbraio si svolgerà il Primo Incontro Nazionale dell’Indignazione, convocato dai genitori di Ayotzinapa e dai gruppi solidali, per articolare un fronte nazionale di lotta comune.

 

Capitolo 3. La terza cattura

chapo capturado“Burla e sfida”, furono le parole usate da Peña dopo la fuga di luglio. La sua credibilità cadde in picchiata, il mito del narcos Guzmán si consolidava. Invece la sera di venerdì 8, in attesa di una risalita negli indici di gradimento, il presidente appare raggiante di fronte alle telecamere. Declama sorridente la riacquisita solidità di quelle stesse istituzioni che, pochi mesi prima, s’erano mostrate porose e corrotte nel custodire e lasciar scappare il jefe de jefes. Certo, adesso i complimenti veri vanno alla Marina, probabilmente l’apparato meno corrotto e più efficiente nel Messico della narcoguerra, ma vengono profusi altresì elogi e complimenti a tutte le istituzioni e in generale a presunti miglioramenti nello stato di diritto.

Peña s’è vantato dei 98 arresti compiuti dei 122 “obiettivi criminali” prioritari nel Paese. L’opinione pubblica invece si chiede come mai i mercati delle droghe illecite siano fiorenti come mai prima e la violenza di omicidi, sparizioni forzate e sequestri di persona non dia cenni di cedimento. La guerra alle droghe, così com’è stata concepita sin dai tempi di Nixon negli anni ’70, è una sfida persa in partenza. Ciononostante il trionfalismo di Osorio Chong, il ministro degli interni, è imperturbabile: “Oggi il cartello di Sinaloa è totalmente un altro”. “Gli Zetas e il Jalisco Nueva Generación sono polverizzati”, ha chiosato al quotidiano La Jornada provando a ridisegnare a modo suo la mappa del crimine organizzato in Messico. Nel 2015 gli omicidi dolosi hanno superato la cifra di 18mila, in crescita rispetto ai due anni precedenti in cui c’era stato un calo. I desaparecidos sono ufficialmente quasi 27mila, ma Ong e associazioni della società civile ne contano oltre 30mila. L’Ufficio delle Dogane e il Controllo di Frontiera statunitense (CBP, in inglese) in un rapporto del 2010 spiegava che la cattura dei narco-boss non colpisce la dinamica del narcotraffico che, al contrario, vive e si rinnova anche grazie al ricambio dei vertici.

La procuratrice generale della repubblica, Arely Gómez, ha annunciato il ritorno di Guzmán nello stesso reclusorio in cui si trovava prima della fuga, El Altiplano. Ci resterà almeno un anno, mentre s’attendono i risultati dei processi di estradizione negli USA e i vari ricorsi che i suoi avvocati stanno già inoltrando a ripetizione. L’operazione di cattura della Marina messicana è durata alcune ore e il bilancio finale è di un militare ferito, cinque presunti delinquenti uccisi e sei arresti. El Chapo, raggiunto dai marines in una delle sue case-nascondiglio (casa de seguridad, in spagnolo) a Los Mochis, città costiera dello stato del Sinaloa, s’è inizialmente addentrato nei condotti delle fognature per poi riemergere da un tombino nel bel mezzo di un viale e rubare un’automobile. Non era un copione nuovo. Lo accompagnava Orso Iván Gastélum Cruz, alias “El Cholo”, sicario al suo servizio. Con il mezzo sono riusciti ad allontanarsi prima di essere fermati dalla polizia federale. Dapprima i due hanno cercato di corrompere i poliziotti, senza successo. Poi, una volta ammanettati, sono stati condotti in un motel dove i marines li hanno chiusi in una stanza e fotografati in attesa dei rinforzi.

Anche El Cholo è un personaggio interessante, di certo non un novellino: era già stato preso il marzo scorso a Guamúchil, in Sinaloa, e nel 2008 era evaso dal carcere di Culiacán. Il 24 novembre 2012 la reginetta di bellezza Miss Sinaloa venne crivellata durante uno scontro a fuoco tra i pistoleri di Gastélum e l’esercito. Restano ignote le ragioni per cui, dopo l’arresto solo pochi mesi fa, già si trovasse di nuovo in libertà e operativo affianco al suo mentore. La città de Los Mochis, una delle più prospere del Nordovest messicano, vive dal 2009 l’incubo della violenza scatenata dalla scissione tra il cartello di Sinaloa e quello dei fratelli Beltrán Leyva, ormai decadente a livello nazionale ma forte e presente in città. La cattura del Chapo minaccia di far esplodere reazioni a catena che rischiano di mettere a ferro e fuoco l’intera zona.

Trofeo e narco-capitali

MLOS MOCHIS, SINALOA, 08ENERO2016.- En un operetivo realizado por la Marina Armada de México durante la madrugada, fue recaptrado Joaquín "El Chapo" Guzman Lorea. FOTO: ESPECIAL /CUARTOSCURO.COMFOTO: Cuartoscuro ESPECIAL /CUARTOSCURO.COM

Gli USA vogliono El Chapo e ne hanno chiesto l’estradizione il 25 giugno scorso, poco prima della sua fuga. Non se lo sono portati via subito dopo l’arresto per via dello zelo e prontezza dei suoi avvocati che si sono dati da fare sin da prima della cattura. E’ ricercato in sei corti statunitensi per reati di crimine organizzato, traffico di droga, riciclaggio e omicidio, tra gli altri.

Guzmán e Zambada, quest’ultimo ancora a piede libero, sono accusati di 21 reati e le procure sperano di recuperare capitali stimati tra i 4 e i 14 miliardi di dollari, in buona parte ricavati dal traffico di una quantità di cocaina che va da 127 a 465 tonnellate tra il 1999 e il 2014. In Messico un altro grande interrogativo riguarda proprio i patrimoni dei capi estradati. Il rischio di perderli è altissimo, dato che non vengono sequestrati a tempo debito, e dunque la beffa per una società violentata dalla narcoguerra e poi espropriata dei proventi del traffico illecito diventa doppia. La rivista Forbes stimava il patrimonio del Chapo in un miliardo di dollari, chi, o quale governo, riuscirà mai a recuperarne anche solo una quota?

Molti capitali sono già nei circuiti legali, ma non vengono né tracciati né, in caso, sequestrati. Men che meno si riutilizzano socialmente in beneficio delle comunità colpite dalla violenza. E’ il paradiso dell’impunità imprenditorial-criminale, finanziaria e del riciclaggio. Decine di imprese legalmente costituite, anche se legate all’organizzazione criminale, funzionano coll’annuenza o le sovvenzioni dello stato e non sono sottoposte a auditing tributario. L’esperto Edgardo Buscaglia, autore di un libro sul riciclaggio del denaro sporco, sostiene che “non si mette mano al patrimonio del cartello di Sinaloa perché la stessa classe politica ha paura di farlo visto che ci sarebbero ripercussioni sul finanziamento delle campagne elettorali”. Inoltre, sul tema dell’estradizione, Buscaglia ritiene che sarebbe l’ammissione del collasso dello stato messicano e che “se succede, nel processo giudiziario il PM americano si concentrerà sui delitti commessi negli USA e non coinvolgerà la classe politica messicana […] cioè coinvolgerà alcuni imprenditori messicani e statunitensi ma non la classe politica nel suo insieme”.

chapo sierra esconditeContro la brama statunitense di mettere le mani sul loro cliente gli avvocati del boss difendono coi cosiddetti “amparos”, strumenti legali del diritto messicano che bloccano temporaneamente i processi per tutelare i diritti dell’accusato. Dunque ci potrebbero volere mesi o anni, sempre che la volontà politica del capo dell’esecutivo si orienti per l’estradizione. La PGR, Procura Generale della Repubblica, vi s’era opposta nel 2014, ma ora ha cambiato opinione, così come l’esecutivo di Peña che comunica posizioni possibiliste. E d’altronde è una scelta quasi obbligata, dopo quanto è successo. “Non ci sono prigioni adatte al Chapo in Messico”, ha sentenziato a ragione il giornalista e specialista di criminalità organizzata Ricardo Ravelo. “La notizia dell’arresto è stata una sorpresa all’inizio perché nessuno credeva che lo stessero cercando dopo la sua fuga che, a detta di molti dentro e fuori dal Messico, era stata quasi pattuita”, ha spiegato a caldo dopo l’arresto al sito Aristegui Noticias. “Più che un colpo della Marina, sembra che ci sia stato un errore di logistica del team di Guzmán”, ha aggiunto.

Tra burocrazie e ritardi, oltre ai dovuti passaggi legali, El Chapo avrà il tempo per provare a fuggire di nuovo trovando spiragli nelle maglie del sistema penale e carcerario. Oppure per negoziare con calma un accordo con gli Stati Uniti da un posizione di forza, magari in seguito a una ammissione di colpa e al pagamento di una multa milionaria. Ci sta lavorando su la sua squadra di difensori: erano ben sette nel 2014, ma ora ne sono stati ratificati solo due. D’altronde un’estradizione fast track violerebbe i diritti del boss e sarebbe l’ammissione dell’impotenza di una lunga serie di istituzioni messicane, ossia il contrario di quanto ha cercato d’affermare il governo dopo la sua cattura.

A cosa starà pensando El Chapo? Era la domanda iniziale. Di certo l’elaborazione di un nuovo piano di fuga è un’ipotesi plausibile, nonostante i notevoli mezzi messi in campo per la sicurezza della cella e dell’intero penitenziario: un centinaio di federali all’esterno e trentacinque custodi all’interno, cinque filtri di controllo e due elicotteri all’esterno e persino un mastino (con la museruola) all’interno. Il boss sinaloense, almeno per il momento, non gode più delle prerogative che aveva in prigione nel 2014, cioè le visite intime di sua moglie, la ventiseienne Emma Coronel, la televisione con casse acustiche e non con le cuffie e incontri più lunghi del normale coi suoi avvocati-messaggeri. In alcune occasioni aveva anche ricevuto visite di una deputata dello stato del Sinaloa, Lucero Guadalupe Sánchez, del partito conservatore Acción Nacional, la quale s’era introdotta con documenti falsi e, secondo le versioni giornalistiche dei fatti, aveva una relazione sentimentale con El Chapo.

Capitolo 4. Estradizione?

chapo pena nietoCi sono motivi validi contro l’estradizione. Da una parte il governo cerca di difendere almeno una qualche parvenza di autonomia e sovranità nella sua relazione col Paese vicino, dall’altra esiste il rischio concreto che un capo storico come Guzmán possa trasformarsi in collaboratore di giustizia negli USA e rivelare le complicità nel mondo politico e imprenditoriale che gli hanno permesso di evadere due volte e di creare un’organizzazione criminale tra le più potenti del mondo, presente in 59 paesi. In questo caso si scoperchierebbe un vaso di Pandora che potrebbe provocare un collasso del sistema politico messicano, oppure, vista la capacità di persistenza dell’élite al potere, solo qualche rimpasto e giustificazione da sotterrare col sostegno dei mass media “amici” alla prima occasione. El Chapo potrebbe testimoniare addirittura contro alcuni membri della sua stessa organizzazione, ormai usciti dalle sue grazie, in cambio di sconti di pena e altri benefici. Si vedrà, ma intanto c’è ancora tempo prima che la giustizia americana e la messicana seguano il loro corso. C’è tempo anche per digerire la massa di opinioni e dichiarazioni che nei cinque continenti cercano di spiegare questo arresto e le complesse evoluzioni della “guerra alle droghe”.

La fuga del trafficante sinaloense nel luglio 2015 aveva provocato un problema di stato, comparabile solo alla crisi di legittimità provocata dal caso dei 43 studenti di Ayotzinapa e dalla conseguente emersione delle trame della narco-politica. Quindi, così come era successo con la “versione storica” delle autorità sui 43, la cattura del Chapo viene ora esibita come un successo, un trofeo, ma potrebbe trasformarsi in un nuovo incubo per l’intera classe politica e generare un effetto domino dalle conseguenze imprevedibili. Inoltre per l’evasione dell’anno scorso sono sotto processo solo pesci piccoli dell’amministrazione del carcere e quel gravissimo scandalo sta rientrando senza grossi scossoni.

ESTRADIZIONE BOSS MESSICOLa logica e gli argomenti del governo messicano in tema di estradizione dei baroni della droga sono state storicamente erratiche e poco incomprensibili: il leader del cartello del Golfo è stato inviato negli USA, ma un suo successore, Eduardo Costilla “El Coss”, è rimasto in Messico; quando era possibile farlo, Guzmán Loera non è stato estradato, mentre il figlio e il fratello de “El Mayo” Zambada sì (vedi infografica di Insight Crime). Un caso clamoroso è quello del ex capo del cartello di Guadalajara Rafael Caro Quintero, coinvolto nell’omicidio dell’agente americano della DEA (Drug Enforcement Administration) Enrique Camarena nel 1985, poi condannato e imprigionato, il quale è stato liberato “per motivi tecnici” da una corte messicana nel 2013. Ora è latitante. Lo stupore e l’indignazione statunitensi raggiunsero l’apice dopo la sua scarcerazione. Ad ogni modo la decisione sull’estradizione resta squisitamente politica, tecnicamente nelle mani del Ministero degli Esteri, e per adesso El Chapo è considerato “estradabile”.

Bio e un po’ di storia

Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, comunità La Tuna, città di Badiraguato, stato di Sinaloa, 4 aprile 1957. Figlio di Consuelo ed Emilio, copia di contadini, genitori di undici figli, otto maschi e tre femmine, cresciuti in povertà e senza possibilità di studiare oltre le scuole elementari in una casa dal tetto di lamiera. Una storia abbastanza comune nel Messico rurale.

Dopo anni d’esperienze come coltivatore di amapola o papavero da oppio durante l’adolescenza, il “padrino” del mitico cartello di Guadalajara degli anni ottanta, Miguel Ángel Félix Gallardo, prende il giovane Guzmán Loera al suo servizio e questi si fa le ossa nella principale organizzazione per il contrabbando di stupefacenti nel Paese. Tra il 1985 e il 1989 i principali capi dell’organizzazione vengono arrestati e comincia la lotta per la successione.

Chapo Guzman FUGAS infografica TeleSurIl Padrino stabilisce dalla prigione una spartizione dei territorio tra le varie famiglie e gruppi, anche se poi gli equilibri non reggono. Guzmán si allea con Ismael “El Mayo” Zambada e nasce il Cártel de Sinaloa o Pacífico. I fratelli Arellano Félix fondano l’organizzazione di Tijuana e Amado Carrillo si stabilisce a Ciudad Juárez. Carrillo decide di modificare i suoi tratti somatici e si reca in una clinica privata di Città del Messico. E’ il 1997. I medici “sbagliano” la dose di anestetici e lo uccidono. La pagheranno cara e moriranno tutti ammazzati. Negli anni Novanta Amado Carrillo era riuscito a dominare la scena del narcotraffico ed era noto come “Il Signore dei Cieli”. In Messico l’omonima serie di successo è arrivata alla quarta stagione. Nel 1993, durante una sparatoria tra sicari del Chapo Guzmán e pistoleri degli Arellano Félix, viene ucciso il cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo a Guadalajara. Guzmán è accusato dell’omicidio e viene arrestato in Guatemala prima di essere spedito in Messico, nelle prigioni di Almoloya e Puente Grande, in Jalisco. Qui, paradossalmente, riesce a rafforzare i suoi affari e nel 2001 evade nascondendosi in un carrello della lavanderia.

I dettagli di questa evasione sono ormai un cocktail di storia e leggenda, ma il fatto certo è che da quell’anno Sinaloa inizia la scalata al potere criminale globale. Tra il 30% e il 50% della coca in entrata negli USA passa dalle sue mani. I colombiani, dopo l’intensificazione dei blocchi navali statunitensi nei Caraibi negli anni ’80, la morte del capo del cartello di Medellín, Pablo Escobar, nel 1993 e l’avvio del Plan Colombia, a direzione statunitense, nel 2002, sono progressivamente soppiantati dai messicani. Nel 2000 in Messico vince il PAN, partito di destra che promette grossi cambiamenti, dopo oltre settant’anni di egemonia del populista PRI. Il fiammante presidente Vicente Fox s’insedia nel dicembre di quell’anno. Il suo successore, Felipe Calderón, anche lui del PAN, governa dal 2006 al 2012 e lancia un’offensiva militare contro i baroni della droga conosciuta come “narcoguerra”. Almeno 100.000 morti in sei anni e decine di migliaia di desaparecidos sono le eredità di quella strategia che, però, non è stata modificata sostanzialente fino ad oggi.

Nel frattempo le droghe sperimentano un boom nei mercati “sviluppati” ed “emergenti”, la globalizzazione e l’impennata del commercio interessa anche loro. El Chapo entra nella classifica di Forbes tra gli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio stimato di un miliardo di dollari. Gli anni del PAN sono gli anni in cui Sinaloa diventa “il Cartello”, grazie alle connivenze e alla partecipazione delle istituzioni a tutti i livelli. Nel 2012 il PRI torna al potere e il presidente Peña mantiene i soldati per le strade, continua a ricevere i fondi USA dell’Iniziativa Merida, in diminuzione e criticati ormai anche dal congresso americano, e solo cambia il suo discorso, improntato alla modernizzazione e alle riforme. Le armi made in USA inondano e invadono il Paese. I giornalisti e gli attivisti vengono perseguitati senza tregua, il numero dei desaparecidos cresce a dismisura, la società viene limitata nelle sue possibilità d’espressione, nell’esercizio delle libertà e della democrazia ed è preda della morsa tra autorità inefficienti o corrotte e criminalità organizzata. Due facce della stessa medaglia, frequentemente confuse tra loro o indistinguibili.

Capitolo 5. Triangolo: Kate del Castillo, Sean Penn e “El Chapo” Guzmán

Chapo-Guzmán-y-Sean-Penn1A poche ore dall’arresto di Guzmán la procuratrice Arely Gómez ha dichiarato che l’intenzione del capo di girare un film autobiografico e proprio i suoi contatti con attori e produttori avevano permesso alle autorità di trovarlo, anche se le indagini duravano comunque da sei mesi. Su tutta la vicenda ad oggi restano più domande che risposte.

Il 2 ottobre 2015 l’attore Sean Penn e l’attrice Kate del Castillo, che ha stabilito il contatto tramite gli avvocati del capo, hanno fatto visita a Joaquín Guzmán Loera in una delle sue proprietà sperdute nella sierra tra il Durango e il Sinaloa e hanno passato la serata con lui, con le sue guardie del corpo e i suoi figli. Tequila e tacos a volontà. E anche qualche chiacchiera, giustamente.

Nel gennaio 2012 del Castillo pubblicò un tweet che diventò virale e polemico perché l’attrice affermava, provocatoriamente, di avere più fiducia nel Chapo Guzmán che nel governo messicano. Pare che il boss, che presumibilmente ha avuto diciotto figli con sette mogli e amanti diverse, sia avvezzo ai messaggini di testo e alle donne, quando è in libertà e quando è recluso. Inoltre l’idea del film lo stimolava. Kate del Castillo comunicava con lui servendosi del sistema di messaggeria BBM Black Berry e di lettere manoscritte. Solo a lei, come persona ritenuta di fiducia, El Chapo avrebbe rivelato e concesso i diritti sulla sceneggiatura. Anche per questo è stata fissata una visita in un luogo segreto e alcuni produttori di Hollywood, informati da del Castillo, hanno deciso di contattare Sean Penn che ha accettato di accompagnare la messicana nel viaggio nella sierra occidentale e ha proposto al narcos di realizzare un’intervista.

Però il video di 17 minuti spedito dal Chapo a Kate del Castillo non è stato registrato quella sera ma nelle settimane seguenti. Si tratta di un documento interessante anche se rappresenta più che altro una confessione, un messaggio di Guzmán al mondo, e non una vera e propria intervista in cui il giornalista ha la possibilità di controbattere. D’altronde, per come è stata fatta, non ce n’era il modo. Il testo finale è dovuto passare dall’approvazione del Chapo prima della pubblicazione. In questo senso sono piovute critiche a Rolling Stone e all’autore, accusato di aver costruito l’apologia di un delinquente responsabile di migliaia di morti. Penn ha definito El Chapo “prima di tutto un business man, che ricorre alla violenza quando lo considera vantaggioso per se stesso o i suoi interessi commerciali”.

Una visione forse romantica, anche se un po’ di verità c’è. Stiamo parlando di un impresario e commerciante, ma anche di un capo mafioso corresponsabile di mattanze e atrocità, malgrado l’affabilità e semplicità teatrali che ha sfoggiato nel video e durante la visita degli attori. Grazie ad essi ha potuto lanciare al mondo messaggi importanti, comunicare il suo potere come trafficante e burlarsi in diretta delle “solide istituzioni” propagandate da Peña Nieto. Il tempismo è stato eccellente: il giorno dopo l’arresto è uscita l’intervista, come a voler dare una sberla al governo e a comunicare che il capo resta il capo anche in prigione.

Sean Penn ha accusato le autorità messicane di mettere in pericolo la sua vita. Infatti, la procura ha sostenuto che l’intervista è stata un elemento decisivo per poterlo riacciuffare. Comunque la sua intenzione era quella d’accendere i riflettori su una giusta causa, cioè la denuncia dell’ipocrisia della guerra alle droghe, per cui i morti restano a sud mentre gli stupefacenti e i narco-capitali e le sostanze vanno a nord, e sul ruolo che gli Stati Uniti hanno in essa. In qualche modo c’è riuscito, nonostante le critiche e le speculazioni che immediatamente hanno ricoperto lui e Kate del Castillo. La strategia dei mass media s’è concentrata dunque sui personaggi, sulle frasi dei governanti, sull’etica giornalistica, sui messaggini tra Kate e Guzmán e i suoi legali e su vari dettagli morbosi, ma non sul nucleo del problema e sulle responsabilità a monte dell’ondata di violenza e corruzione che sta distruggendo la società e l’economia messicana.

Rivelazioni, film e depistaggi

chapo kate del castilloEl Chapo voleva eternizzarsi con un film, prodotto da Kate del Castillo e soci, che raccontasse la sua vita e che potesse offrire una visione diversa da quella cristallizzata nei libri, nelle inchieste, negli articoli, nei miti e nelle cronache. Per questo motivo aveva contattato tramite i suoi legali l’attrice messicana, di recente naturalizzata statunitense, che era nota al capo e al grande pubblico per il ruolo da protagonista nella serie La Reina del Sur (La Regina del Sud). Del resto da anni i suoi avvocati fanno da intermediari anche con vari potenziali ghost writer per far scrivere la sua biografia che dovrebbe intitolarsi “El Ahijado”, il figlioccio.

Nella video-intervista El Chapo ha senza dubbio rotto una tradizione, quella dei capi-mafia che mai dichiarano d’essere dei trafficanti, ma si definiscono invece imprenditori o semplici lavoratori e negano ogni vincolo con la delinquenza fino alla fine. “Traffico più eroina, metanfetamine, cocaina e marijuana di chiunque altro al mondo, ho una flotta di sottomarini, aerei, camion e autobotti”, ha dichiarato invece il sinaloense. E poi ha aggiunto, perentorio: “Il giorno in cui io non ci sarò più, non cambierà niente [nei traffici]”. Infine ha ammesso: “Son più di vent’anni che non consumo droghe” e “le droghe distruggono”.

chapo triangulo doradoIl reportage dell’attore, intitolato “El Chapo parla”, ha fatto sorgere dubbi sostanziali sul governo messicano dato che vi si descrive il momento in cui le auto su cui viaggiavano Penn e Kate del Catillo vengono fermate da un posto di blocco dell’esercito. Alcuni soldati riconoscono Alfredo, uno dei figli del Chapo, e lo lasciano passare non senza nascondere un certo imbarazzo. Il testo su Rolling Stone narra di come gli aeroplani del cartello di Sinaloa, a disposizione del gruppo, riescono a rendersi invisibili ai radar di terra e, inoltre, conferma che l’organizzazione criminale è puntualmente informata quando l’esercito esegue perlustrazioni aeree a grandi altezze che possono scoprire i loro movimenti.

Non si tratta di informazioni nuove, ma l’impatto sull’immagine dell’esecutivo è stato dirompente e imbarazzante, così come lo è stato il fatto stesso che un incontro di questo genere si sia potuto realizzare. In qualche modo le affermazioni di diversi funzionari subito dopo l’intervista hanno preannunciato la “vendetta”, cioè il ciclone mediatico e accusatorio contro Sean Penn e, in particolare, contro la sua compagna di viaggio nel ranch del Chapo.

L’attrice è oggetto di continui attacchi che mettono in pericolo persino la sua vita. La procura ha fatto in modo che venissero alla luce informazioni e comunicazioni provate contro di lei secondo un piano-montaggio orchestrato per sviare l’attenzione e colpevolizzare l’attrice. La giornalista Lydia Cacho su Proceso ha parlato di una “persecuzione di stato” che fa sospettare vi siano molti altri segreti inenarrabili dietro a tutta la vicenda e che la “logica della comunicazione politica istituzionale non solo si focalizza sulla spettacolarizzazione del caso, ma anche sulla violazione della legge”. E conclude: “L’impero di Guzmán non esisterebbe senza la connivenza delle autorità federali”. Altro che messaggini e chat. Tutti si chiedono piuttosto dove sono i soldi del Chapo e chi se li intascherà.

La polemica delle alte autorità messicane, gli inviti a comparire delle procure messicane e americane per Penn e del Castillo e l’attacco mediatico contro di loro risponde alla volontà di voler sotterrare i particolari vergognosi di questa storia per lo stato messicano: la prima fuga del narcos grazie alla corruzione di funzionari e politici, la rete intoccata delle imprese legate al cartello, la corruzione nelle forze armate, le menzogne raccontate per tappare la cloaca della narco-politica, l’omicidio di una giovane sindachessa in un territorio fuori controllo e l’impossibilità di offrire spiegazioni per il crimine di stato di Iguala contro gli studenti di Ayotzinapa e per gli altri 26mila desaparecidos. Ecco le vere questioni aperte.

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NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga https://www.carmillaonline.com/2015/06/03/narcoguerra-cronache-dal-messico-dei-cartelli-della-droga/ Tue, 02 Jun 2015 22:46:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23057 di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può [...]]]> di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può tranquillamente attraversarne migliaia di chilometri senza mai percepire un clima di violenza sanguinaria. Eppure… esiste anche l’altro Messico, quello che Fabrizio Lorusso sviscera nei suoi reportage, nei suoi approfondimenti giornalistici, nei racconti di vita quotidiana. E lo fa con esemplare giornalismo narrativo, che attualmente è l’unica fonte di informazione attendibile, non essendo schiava di una gabbia ristretta di “battute” né di censure, o meglio di autocensure, perché tutti, quando scriviamo per una certa testata, abbiamo in mente che questa ha un preciso proprietario e quindi certi limiti ce li mettiamo da soli, prima ancora che vengano imposti. Ovviamente, il giornalismo narrativo non può che trovare spazio in un libro, che poi faticherà non poco a trovare uno spazio nell’editoria. Oppure – come è il caso di alcuni di questi scritti – lo spazio se lo prendono su internet, l’universo che ci illude di essere liberi di esprimere qualsiasi opinione: peccato che, siamo sinceri, finiamo per leggerci l’un l’altro, cioè tra quanti una certa sensibilità già ce l’hanno, senza scalfire la cosiddetta “informazione di massa”, che altro non è se non disinformazione massificata.

Esiste, dunque, anche l’altro Messico, dei corpi appesi ai cavalcavia, delle teste mozzate e infilate sui pali, dell’orrore che ormai viene acriticamente ascritto ai “narcos” quando nessuno capisce più se siano effettivamente i ben armati e ben entrenados Zetas (in maggioranza ex militari di reparti speciali e mercenari centro e sudamericani con master in centri di addestramento di Usa e Israele), o se si tratti di squadroni della morte, milizie di latifondisti, regolamenti di conti d’ogni sorta, ed eliminazione spiccia di oppositori sociali.

E questa è anche la mia schizofrenia, perché…

Il Messico è dove torno ogni anno per qualche mese e dove vorrei concludere i miei giorni, e se, dopo averci vissuto per anni tanto tempo fa, continuo questo incessante andirivieni, forse è per un inconfessabile timore dell’abitudine: ovunque vivi per troppo tempo, finisci per vederne solo i difetti e non più i pregi. Io vado e vengo perché, come un vampiro, continuo a succhiarne gli aspetti migliori. Troppo comodo, lo so. Ma è così. Amo talmente il Messico, da impedirmi di trasformarlo in una consuetudine, in una routine quotidiana che ne assopirebbe le emozioni: è un po’ come con le droghe, l’assuefazione ti priva di rinnovare la sensazione inebriante della prima volta. Meglio rinnovare la crisi di astinenza – chiamiamola struggente nostalgia – che assuefarsi, svilendo quel miscuglio di energie rinnovate e sensazioni ineguagliabili che mi dà ogni volta che ci torno. Se non tornassi ma rimanessi per “sempre”, temo che l’abitudine spegnerebbe tutto.

Odoya Bandiera messicana coca proiettiliE chiarisco: la semplificazione di “pregi e difetti” è improponibile, proprio perché semplifica l’immane complessità della situazione. Difetti: non si può relegare a questo vocabolo l’orrore dei morti ammazzati. Pregi: quei milioni di messicani che in ogni istante ti dimostrano quanto siano diversi dall’orrore, con la loro sensibilità, creatività, ribellione, resistenza… dignità. La cronaca, purtroppo, privilegia gli orribili e trascura i dignitosi.

Leggendo i coraggiosi scritti di Fabrizio Lorusso (coraggiosi per il semplice e spietato fatto che lui, lì, ci vive e si espone alle eventuali conseguenze) riconosco me stesso come ero trent’anni fa: lodevole donchisciotte che, penna – o tastiera – in resta, affronta i mulini a vento dei todopoderosos di sempre, di ieri e di oggi… E in fin dei conti, oggi, mi appare come un’illusione, il tentativo di informare gli altri sulla realtà, perché la sensazione è che tutti (be’, quasi tutti) se ne freghino, della realtà. Quindi, è un’utopia. Ma cosa saremmo, senza illusioni e utopie?

Nada más que amibas. Saremmo parassiti intestinali, tanto per restare sul campo messicano. Miserabili parassiti assuefatti a una realtà ingiusta e insopportabile. È per questo, che abbiamo bisogno di illusioni e utopie. Persino dell’illusione che, scrivendo, informando, potremmo rendere meno feroce e nefasto questo mondo in cui viviamo. Che è anche l’unico che abbiamo.

Petizione del collettivo Paris-Ayotzinapa: “NO alla presenza del presidente messicano Enrique Peña Nieto alle celebrazioni del 14 luglio 2015” – LINK Firma

Prossime presentazioni a Milano: 13 giugno Libreria Les mots e 16 giugno Macao

Leggi l’introduzione del libro: QUI – Risvolto/Riassunto del libro+Bio: QUI 

Pagina NarcoGuerra: QUI – Scarica PDF Indice + Intro + Prologo del libro: QUI

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