Dracula – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:19:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dracula sulle dune d’alghe https://www.carmillaonline.com/2023/03/11/dracula-sulle-dune-dalghe/ Sat, 11 Mar 2023 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76362 di Franco Pezzini

Marinella Lőrinczi, LI commentarii, ovvero dei V sensi, pp. 196, € 20, Grafica del Parteolla, Dolianova CA 2022.

Su Dracula, inteso come personaggio di Bram Stoker o quattrocentesco voivoda valacco, in Italia hanno scritto tantissimi, ora tentando chiavi d’approccio originali ma più spesso presentando (diciamo così) il riciclone del riciclone: interpretazioni psicologizzanti da rotocalco, forzature esoteriche, fantasismi di piccolo cabotaggio, ovvietà assortite, in una rimasticatura allungata di Wikipedia. Rari sono gli studi che a distanza d’anni mantengano una vera utilità, vuoi per completezza panoramica – magari con quelle connotazioni pionieristiche [...]]]> di Franco Pezzini

Marinella Lőrinczi, LI commentarii, ovvero dei V sensi, pp. 196, € 20, Grafica del Parteolla, Dolianova CA 2022.

Su Dracula, inteso come personaggio di Bram Stoker o quattrocentesco voivoda valacco, in Italia hanno scritto tantissimi, ora tentando chiavi d’approccio originali ma più spesso presentando (diciamo così) il riciclone del riciclone: interpretazioni psicologizzanti da rotocalco, forzature esoteriche, fantasismi di piccolo cabotaggio, ovvietà assortite, in una rimasticatura allungata di Wikipedia. Rari sono gli studi che a distanza d’anni mantengano una vera utilità, vuoi per completezza panoramica – magari con quelle connotazioni pionieristiche che a tratti svelano un godibilissimo gusto vintage (Giovannini, Introvigne, ecc.) – vuoi per brillantezza di chiave prescelta (per esempio Teti, sul rapporto tra vampiro e malinconia). Ma un nome che va rimarcato per importanza particolare – nel senso che un saggio che oggi non ne consideri gli studi resta incompleto e discutibile – è quello di Marinella Lőrinczi, seria studiosa di linguistica romanza e lingua e letteratura romena (già con cattedre all’Università di Cagliari, dove ha iniziato e concluso la carriera accademica), esperta di aeree plurilingui e forme di plurilinguismo, autrice non solo di articoli dedicati alla lingua sarda – “più esattamente all’ideologia linguistica, cioè a idee, opinioni, preconcetti, che si manifestano nei discorsi di persone di varia provenienza sociale e professionale in relazione alla lingua sarda e al suo ruolo sociale e politico”– , ma di alcune opere draculesche di assoluto rilievo per rigore e originalità di taglio.

A partire dal fondamentale Nel dedalo del drago. Introduzione a Dracula (Bulzoni, Roma 1992), per passare poi alla bellissima raccolta Paesaggio marino con dame vittoriane (CUEC, Cagliari 1995), al breve e denso Dracula & Co. Il richiamo del Nord nei romanzi di Bram Stoker (CUEC, Cagliari 1998) e in ultimo a Sulla mistificazione. Il caso del romanzo Dracula di Bram Stoker (1897) (Il Maestrale, 2018), dove affonda il bisturi in certe sovrainterpretazioni ed eccessive disinvolture critiche. Testi – ho ricordato solo quelli sul tema in questione, ma la sua produzione è più ampia e variegata – che meriterebbero assolutamente una riproposizione, e che garantiscono alla materia bibliografie scintillanti e una conoscenza ravvicinata del terreno culturale, visto che l’autrice, “Nata in Transilvania (Romania) da madre fiumana /arpista di professione) e padre ungherese (scrittore), […] laureata a Bucarest” dove ha frequentato la scuola ungherese, ha potuto avvicinare in grazia delle proprie competenze linguistiche testi altrimenti chiusi anche a parecchi colleghi accademici nostrani. Chi scrive è lieto di ammettere il proprio debito nei confronti di questi studi tanto ricchi: riportarne le provocazioni senza citarli sarebbe semplicemente disonesto.

In ordine di tempo, LI commentarii, l’ultimo scritto edito dell’autrice, è però una specie di romanzo, dalla genesi complessa, nascendo da un tessuto di storie di diversa provenienza (ricordi personali, racconti già proposti come autonomi, esperimenti narrativi di vario genere): un testo di notevole potenza onirica, e le cui immagini sembrano in effetti dettate da visioni notturne o da trasfigurazioni di memorie remote, anche per tipo di passo narrativo. A partire dal micromondo di una piazzetta, poi su spiagge coperte da alti cumuli d’alghe polverizzate – pericolosi, un bambino può morirci – e infine in una strana villa semiabbandonata nella boscaglia, dove si consuma il rapporto prima guardingo e poi sempre più profondo tra un uomo e una donna. Lui conosce gli spiazzamenti e le crisi dell’uomo pragmatico davanti a novità trascinanti – sentimenti compresi – che non capisce appieno; lei è segnata nel suo passato da un’avventura strana in un mondo primitivo (la sua casa presenterà però aspetti ipertecnologici), che le ha cambiato il metabolismo e l’ha resa sciamanicamente più prossima all’orizzonte di insetti e pesci. E gli scarabei tatuati sulla sua schiena paiono svelare caratteristiche stranianti.

Difficile – ma non così importante – etichettare un’opera del genere, un oggetto narrativo non identificato (diviso in 51 “fasi”, una Postfazione e un’Appendice) per cui la cifra del romanzo sembra inadatta, e che nel grande fascino visionario, nella messe lussureggiante di spunti e insieme in quell’attardarsi – come nei sogni – su singole immagini ed emozioni traghettate coinvolge non solo i cinque sensi del titolo ma, si direbbe, anche altri dal profondo, dalla memoria, dalla malinconia.

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Nel 1899 naviga un piroscafo lisergico e mostruoso https://www.carmillaonline.com/2023/02/21/nel-1899-naviga-un-piroscafo-lisergico-e-mostruoso/ Tue, 21 Feb 2023 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76222 di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e [...]]]> di Paolo Lago

Il 1899, come tutti gli estremi lembi dei secoli, può essere considerato, per certi aspetti, liminale, colmo di un notevole valore simbolico: fine del vecchio e inizio del nuovo. Nella fattispecie, l’Ottocento è stato il secolo della Rivoluzione industriale e il Novecento, nell’immaginario collettivo, si configurava come la nuova era della velocità e del progresso. Ma l’inquietudine e l’angoscia sono sempre pronte ad emergere; come l’Illuminismo secondo Horkheimer e Adorno, anche l’era del progresso tecnologico, della velocità e dell’imperialismo vittoriano, è attraversata da una profonda “dialettica”: sotto la luce e il progresso si celano il buio e l’orrore. Ecco che, proprio in quegli ultimi lembi di Ottocento, nel 1897 vede la luce “Dracula” di Bram Stoker, in cui il mostruoso vampiro proveniente dai desolati confini dell’“impero” si reca a Londra, nel cuore economico di quello stesso “impero”. Ecco che, spesso, dietro ai viaggi dall’Inghilterra verso Oriente narrati da Joseph Conrad come, ad esempio, in “Il negro del «Narciso»” – romanzo uscito sempre nel 1897 – si celano la malattia e l’orrore.

Questa dicotomia e questa dialettica sono assai presenti anche nella serie TV Netflix, 1899 (2022, otto episodi di un’unica stagione) di Baran Bo Odar e Jantje Friese. L’azione narrativa si svolge su un piroscafo in viaggio tra l’Europa e l’America sul quale i passeggeri, com’era uso all’epoca, sono rigorosamente divisi in classi. Ci sono i ricchi di prima classe e i poveri di terza, prevalentemente migranti. Il piroscafo, emblema del progresso e della velocità del nuovo secolo che sta per arrivare, fin dalle prime puntate, possiede una marcata connotazione mostruosa: oscuro, gigantesco, con enormi fumaioli dai quali esce perennemente fumo nero proveniente dal suo ventre infernale, la sala macchine, dove i fuochisti sono costretti a lavorare in condizioni ai limiti dell’umano. La nave porta un alone di mostruosità anche nel suo stesso nome, “Kerberos”, che rimanda al guardiano infernale presente nella mitologia antica e nell’Inferno dantesco, un mostruoso cane a tre teste. Se nelle prime puntate la narrazione sembra poggiare su un impianto – se così si può dire – ‘tradizionale’, successivamente subentrano degli spunti narrativi che la trasformano in qualcosa che mai ci saremmo aspettati. Senza spoilerare troppo, si potrebbe affermare che 1899 possiede due film in uno: il primo, prevalentemente di carattere storico, horror e thriller; il secondo di carattere fantascientifico. Gli spazi della nave si configurano come un labirinto dalle connotazioni quasi kafkiane: se all’inizio si potrebbe pensare di trovarci sulla nave di Amerika (postumo, 1927) di Franz Kafka, dove il giovane Karl Rossmann non riesce più a ritrovare la via giusta, successivamente quel labirinto kafkiano si trasforma in un universo virtuale in cui i ‘pixel’ iniziano a spostarsi e a decostruirsi distruggendo passaggi o creandone di nuovi.

Perché – e mi si perdonerà questo spoiler, ma è funzionale a quanto voglio dire – nella seconda parte della narrazione i personaggi, lentamente, capiranno di trovarsi in un mondo virtuale. Se, come scrive Franco Moretti, due ‘classici’ del terrore come Frankenstein di Mary Shelley e Dracula, “sono romanzi in cui la realtà funziona spesso secondo le leggi che governano i sogni”1 sembra che in molto cinema e in molti prodotti per la televisione contemporanei, al sogno, si sostituisca la realtà virtuale a partire, diciamo, da Matrix (The Matrix, 1999) di Lana e Lilly Wachowski. Un altro film incentrato sulle doppie realtà, una virtuale e una reale e sulla necessità di ‘svegliarsi’, da parte dei personaggi, per vedere il mondo reale, è anche l’oscuro e intrigante Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, del 1999 come Matrix) di Josef Rusnak. E allora, in molto cinema contemporaneo – parafrasando Moretti – la realtà funziona secondo le leggi che governano i mondi virtuali creati da fantomatici ‘manovratori’, spesso in intricati giochi di scatole cinesi per cui non si capisce fino in fondo quale sia la ‘vera’ realtà. A monte dell’idea degli universi virtuali creati per mezzo di un computer c’è un archetipo classico come il mito della caverna di Platone che, nella serie TV, viene anche direttamente citato.

Ecco che la nave di 1899, da buona eterotopia (secondo Foucault, infatti, la nave è “l’eterotopia per eccellenza”, cioè lo spazio altro per eccellenza)2 può sovrapporre, in un unico luogo reale, spazi che sono anche molto diversi tra loro3. Attraverso misteriosi passaggi dimensionali, i personaggi si ritrovano in luoghi svariati e, comunque, estremamente diversi dallo spazio navigante circondato dall’Oceano: lande ghiacciate, paesaggi montani desolati oppure luoghi legati al loro doloroso passato. D’altra parte, nella serie, incontriamo una presenza iperbolica e francamente eccessiva di questi passaggi dimensionali i quali, talvolta, conducono anche a sviluppi non sempre comprensibili della trama. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che gli autori di 1899 sono anche quelli di Dark (2017-2020, 3 stagioni per 26 episodi), una serie TV incentrata sui viaggi nel tempo che avvengono, appunto, mediante un apposito varco dimensionale localizzato nella misteriosa cittadina tedesca di Winden.

Fra i luoghi che incontriamo una volta imboccate le porte dimensionali, particolarmente interessante è la clinica psichiatrica del padre della protagonista, la dottoressa Maura Franklin, che è anche il proprietario della compagnia di navigazione alla quale appartiene il “Kerberos”. Dietro i muri della clinica, i personaggi scoprono le nere e tetre fiancate della nave: quest’ultima appare perciò strettamente associata all’universo della follia. Allora, non si può non pensare nuovamente a Foucault e alla sua Storia della follia nell’età classica, nel momento in cui lo studioso descrive l’usanza rinascimentale – che molta fortuna avrà nell’arte letteraria e figurativa – tedesca (come gli autori della serie TV) della “nave dei folli”: affidare i folli alla massa oscura dell’acqua4. Tra l’altro, sempre secondo Foucault, la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”5. Chi altri sono quei personaggi intrappolati sul “Kerberos”, in mezzo all’Oceano, se non dei ‘folli’ alla deriva dal mondo roccioso della ragione? Tra l’altro, il racconto mette in gioco anche il tema del doppio: il “Kerberos”, infatti, si imbatterà in un suo inquietante doppio andato alla deriva, il “Prometheus” sul quale, in una lisergica esplosione musicale di White Rabbit dei Jefferson Airplane (e la colonna sonora è indubbiamente un punto a favore di 1899), verrà ritrovato un bambino misterioso in possesso di una piccola scatola a forma di piramide.

Inutile dire che, anche nel mondo virtuale del piroscafo “Kerberos”, domina la logica spietata del Capitale. I passeggeri di terza classe appaiono come i prigionieri dei più bassi interstizi della nave, solo un gradino più alto della manovalanza maledetta e condannata dei fuochisti. Intrappolati nei loro alloggiamenti separati dal resto della nave da un cancello chiuso a chiave, se solo osano avventurarsi negli eleganti saloni della prima classe, vengono ricacciati dentro il loro inferno in malo modo. Ognuno, sulla nave, sembra condannato a rivestire il suo ruolo in una specie di eterno presente, quello forgiato dalle logiche capitalistiche. D’altra parte, gli stessi ricchi di prima classe, colpiti da una misteriosa epidemia di trance, quasi come zombie si dirigeranno in fila indiana fino sul ponte della nave per poi gettarsi in mare e, come zombie, macchine asservite al Capitale, sono tratteggiati anche i già nominati fuochisti, costretti a gettare incessantemente il carbone nelle caldaie per far correre la nave mostruosa verso un progresso che assomiglia sempre di più ad una prigione. Perché vie d’uscita non ce ne saranno, né nuove sponde e neppure nuovi futuri (e non svelerò davvero l’esplosivo finale): il piroscafo, come un inquieto “Olandese volante” della Rivoluzione industriale, come il vascello dannato del Manoscritto trovato in una bottiglia di Edgar Allan Poe, è solo una truce macchina nomadica lanciata verso gli inferni del mondo irreale nel quale ci stiamo perdendo.


  1. F. Moretti, Dialettica della paura, in “Calibano”, 2, Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie di massa, febbraio 1978, p. 97. 

  2. cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano-Udine, 2001, p. 31. 

  3. cfr. ivi, p. 27 

  4. cfr. Id., Storia della follia nell’età classica, trad. it. Rizzoli, Milano, 1978, p. 26. 

  5. Id., L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74. 

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L’ombra di un’ombra https://www.carmillaonline.com/2022/07/03/lombra-di-unombra/ Sun, 03 Jul 2022 20:29:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72823 di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, La stirpe e il sangue, illustrazioni (splendide) di Darkam, pp. 171, € 18, Bompiani, Milano 2022.

Cosa può spingere un’autrice certo eclettica, capace di muoversi disinvoltamente tra mainstream e genere e comunque di offrire un genere elegantemente letterario, ma non cultrice del romanzo storico in quanto tale, ad allontanarsi dagli sfondi e dalle storie pur tanto crudeli della nostra epoca per precipitare indietro fino al XV secolo? Se lo chiedeva lei stessa, Lorenza Ghinelli, in una presentazione di questo libro tenuta di recente a Torino. Cosa può spingere [...]]]> di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, La stirpe e il sangue, illustrazioni (splendide) di Darkam, pp. 171, € 18, Bompiani, Milano 2022.

Cosa può spingere un’autrice certo eclettica, capace di muoversi disinvoltamente tra mainstream e genere e comunque di offrire un genere elegantemente letterario, ma non cultrice del romanzo storico in quanto tale, ad allontanarsi dagli sfondi e dalle storie pur tanto crudeli della nostra epoca per precipitare indietro fino al XV secolo? Se lo chiedeva lei stessa, Lorenza Ghinelli, in una presentazione di questo libro tenuta di recente a Torino. Cosa può spingere soprattutto a cercare in quel passato le dimensioni più oscure, umbratili e meno immediatamente attraenti per l’uomo della strada, persino per chi quegli sfondi – Valacchia, Anno Domini 1442 – studia per interesse alla nerissima saga dei Drăculeștii, ormai di dominio pop? Che qui invece resta assolutamente sullo sfondo e defilata. In scena sono invece gli ultimi e i senza storia, una madre Maria e i due piccoli Anna e Radu, sopravvissuti all’eccidio consumato nel loro villaggio al dilagare dell’esercito ottomano di Murad II: ultimi che dovranno reinventarsi un ritmo quotidiano per sopravvivere – mangiare, essere difesi, non impazzire – nelle circostanze più estreme: la foresta piena di pericoli concreti, poi la casa di un boiardo persino più insidiosa, quindi di nuovo la foresta e la casa di una “strega”.

Quel che si dipana – e l’immagine, considerando la visceralità, non va tanto a un gomitolo ma a intestini srotolati –, è una sorta di romanzo di formazione. Formazione per la madre, costretta a cambiare la propria vita in un modo drastico che mai avrebbe immaginato; per Anna, la piccola che però dovrà subire tutto, perché abbastanza cresciuta da non conoscere la pietà dell’incoscienza; per Radu stesso, che in mezzo a tutto ciò cresce, con il suo problema metabolico per cui solo il sangue può integrare davvero il suo vitto – o almeno di ciò è convinta la madre e dunque si convinceranno anche lui e (in qualche misura) la sorella. Una formazione terribile che, come nei riti di passaggio, vede consumarsi l’esplosione di ogni regola civile, in un’ostinazione a vivere che non pretende assoluzioni o simpatie di nessuno. Alla stirpe dei padri – i signori della storia, i coinvolti nella gestione di alleanze e voltafaccia ai tavoli dei principi e comunque gli amministratori della forza comunitaria – si oppone così la logica del sangue, delle madri, cioè le complicità e alleanze segrete delle donne, figure marginalizzate e ultime che però possono spalleggiarsi con effetti eversivi: e la storia (esilio, fughe continue e anzitutto da se stesse) è quella di una liberazione non condotta sotto le insegne della luce. Non per tutte le liberazioni è possibile, riflette l’autrice, e del resto la Storia invita a essere molto cauti verso chi pretenda di bandire gonfaloni luminosi. Più in generale è utile riflettere che nell’intreccio della Storia le lotte di liberazione possono conoscere dimensioni  oscure senza per questo perdere il loro valore di fondo (bene ribadirlo, in un tempo in cui per esempio la Rivoluzione francese è oggetto di una serie di scandalose svalutazioni da parte di bigotti, reazionari e ignoranti sempre più numerosi): ma il teatro simbolico qui in scena e volutamente enfatizzato (di fronte a certe trovate è impossibile non pensare all’amore, più volte dichiarato, dell’autrice verso il terribile Titus di Julie Taymor da Shakespeare, 1999) parla il linguaggio nero delle fiabe. Sia nel ritmo ipnotico, a tratti cantilenante, lucidamente eletto come cifra stilistica, sia nelle scelte estreme dei contenuti: il buonismo becero da società-chioccia confonde il sadismo inutile di Bambi con la necessità che una fiaba abbia connotati “impresentabilmente” neri. Del resto, chi non si fa inquietare all’infanzia dalle storie di ombre, ricorda Le Fanu in Carmilla, è candidato da adulto a farsi divorare dalle medesime, in quanto mancante di quel sacrosanto vaccino della fantasia che aiuta a tenervi testa.

Se, in un mondo estremo, il cuore della morale è rappresentato dalla sopravvivenza nostra e delle persone che amiamo – come quel cucciolo malriuscito e troppo pallido che la Morte stessa non ha toccato in vista di chissà quali progetti – a quel punto la lotta è aperta: ed è questa la fiaba nera che Ghinelli racconta. Dove l’ombra dilagante attribuita al voivoda arcivampiro si rivela invece, al netto di tutte le deformazioni dei fuochi notturni e della luna, quella esile di un ragazzo che le donne hanno fatto sopravvivere.

Per tornare dunque alle domande iniziali: da dove questa storia? Forse è normale che un’autrice come Lorenza Ghinelli, con una sensibilità accentuata al sentire dei ragazzi, l’allergia alle storie con la morale (manzoniana o meno) ma lo sguardo ben oltre quelle esaurite in un nero fino a se stesso, andasse prima o poi a sgattare nelle ombre e nel terriccio retrostanti l’antico mito vampirico: a stanare quei bambini perduti nell’orrore organizzato dai padri, e costretti a trovare nel sangue sghembe formule di sopravvivenza (c’entra fino a un certo punto, ma mi pare inevitabile ricordare Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex, con la sua Svizzera/Transilvania). E insieme vien da pensare a un calare sciamanico tra i morti per coglierne le voci con la medianità della letteratura, e riportarle a noi, e traversare i mondi col suo fiato di rivolta.

Tanto più che il romanzo finisce col costituire insieme una potente, fiabesca metafora della sete di sangue di noi lettori, nelle terre occupate del neocapitalismo ostaggio di voci educatamente esangui, di romanzi da salotto tantopresentabili, di rovelli ombelicocentrici terreno di mamozzi altoborghesi le cui paturnie vengono paludate come spasmodicamente interessanti. Un grottesco impoverirsi della letteratura che spinge allora gli assetati a cercare storie dove vengano imbandite, magari di cattiva qualità o di cattive idee, perché quella sete di sangue (cioè di vita vera, di storie vere) c’è, e in sé è sana. E certo non vi sovvengono gli uomini delle Alte Poltrone, che hanno solo interesse a confermare questa forma del mondo. Mentre le storie terribili dobbiamo conservarle, tanto più se raccontano che i poteri cattivi si possono sovvertire: fiabe di formazione di cui, in momenti difficili come questo, abbiamo un gran bisogno.

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Incontri con l’Altro nei viaggi coloniali https://www.carmillaonline.com/2022/01/25/incontri-con-laltro-nei-viaggi-coloniali/ Tue, 25 Jan 2022 22:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70249 di Paolo Lago

Mario Coglitore, Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, prefazione di Barbara Henry, Il Poligrafo, Padova, 2020, pp. 159, euro 24,00.

I viaggi coloniali avvenivano soprattutto a bordo di una nave; come scrive Michel Foucault, «la nave è un frammento galleggiante di spazio, un luogo senza luogo, che vive per se stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all’infinito del mare e che, di porto in porto, di costa in costa, da case chiuse a case chiuse, si spinge fino alle [...]]]> di Paolo Lago

Mario Coglitore, Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, prefazione di Barbara Henry, Il Poligrafo, Padova, 2020, pp. 159, euro 24,00.

I viaggi coloniali avvenivano soprattutto a bordo di una nave; come scrive Michel Foucault, «la nave è un frammento galleggiante di spazio, un luogo senza luogo, che vive per se stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all’infinito del mare e che, di porto in porto, di costa in costa, da case chiuse a case chiuse, si spinge fino alle colonie per cercare ciò che esse nascondono di più prezioso nel loro giardino»1. Lo studioso continua affermando che «la nave è stata per la nostra civiltà, dal XVI secolo fino ai nostri giorni, non solo il più grande strumento di sviluppo economico (non è di questo che voglio occuparmi adesso), ma anche il più grande serbatoio di immaginazione»2. Per Foucault, la nave è uno strumento di sviluppo economico ma anche una vera e propria eterotopia, cioè uno spazio separato da tutti gli altri spazi, saturo di immaginazione e di fantasia liberata.

Certo, non si può negare che grandi «serbatoi di immaginazioni» siano anche le navi che, emblemi dell’imperialismo marittimo vittoriano, si dirigono verso mari orientali e sconosciuti nei romanzi di Joseph Conrad. Però, Conrad riveste le sue navi e i suoi equipaggi di connotazioni quasi ‘infernali’ e ‘malate’, segno di un’avventura coloniale che si dirige verso una lenta decadenza. Ad esempio, la nave de Il compagno segreto (The Secret Sharer, 1909), avvolta da isole sconosciute e scogli affioranti pericolosi per la navigazione, viene definita come un «battello di morti» che si dirige verso «l’ingresso stesso dell’Erebo»3 (l’oscura e misteriosa isola di Koh-Ring, nel Golfo del Siam). Ma già in un romanzo precedente come Il negro del «Narciso» (The Nigger of the «Narcissus», 1897), gli stessi personaggi sono caratterizzati da volti grotteschi e mostruosi mentre la malattia e il disfacimento sembrano dominare visibilmente i loro corpi. Per non parlare, poi, dei funzionari coloniali europei che si recano in Africa dipinti da Céline nel suo Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1933) come «satolli», «stravaccati», «pustolosi», «panciuti», «olivastri»: «Satolli, stravaccati, si rassomigliavano tutti adesso, ufficiali, funzionari, ingegneri e appaltatori d’imposte, pustolosi, panciuti, olivastri, mescolati, pressappoco identici. I cani assomigliano ai lupi quando dormono»4. I viaggiatori coloniali imbarcati sulle navi di Conrad e di Céline, benché esponenti di un mondo ormai alla deriva, continuano a vedere, negli “altri da sé”, siano essi orientali o africani, come scrive Mario Coglitore nel suo interessante saggio Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movimento tra Ottocento e Novecento, «l’emblematica raffigurazione di un selvaggio paragonabile al massimo a una scimmia urlante che salta tra gli alberi».

Del resto, come nota ancora Coglitore, «la conoscenza dell’Oriente che circolava in Europa era funzionale della messa a punto del congegno coloniale; era stata formalizzata in un “discorso” che utilizzava le rappresentazioni culturali di stampo schiettamente occidentale del “Vicino Oriente”, oggi indicato come Medio Oriente, per sostenere la creazione e il funzionamento stessi delle società coloniali». Si tratta, in sostanza, di quell’«orientalismo» del quale Edward W. Said ci ha offerto una lucida analisi. Come ha dimostrato quest’ultimo, lo studio dell’Oriente, realizzato anche per mezzo di testi letterari, ha consolidato modi di pensare che hanno costituito l’ossatura fondamentale del potere coloniale. Un certo «orientalismo» di fondo lo si può riscontrare anche nell’atteggiamento razionalista di Jonathan Harker che, in Dracula (1897) di Bram Stoker, viaggia verso la Transilvania per incontrare l’Altro al grado più alto, il vampiro: si tratta pur sempre di un inglese del periodo vittoriano che, dalla metropoli imperialista si sposta in treno verso le misteriose periferie del continente europeo. Harker, prima di partire, si era recato alla biblioteca del British Museum e aveva raccolto informazioni sugli usi e costumi della Transilvania, i cui abitanti vengono guardati con distacco e superiorità. Non a caso, il giovane e razionale inglese si prenderà gioco delle truci leggende e delle superstizioni di quel popolo, non ascoltando gli ammonimenti degli indigeni. Gli abitanti della Slovacchia e della Transilvania sono poi allontanati in una dimensione fantastica e ‘teatrale’, descritti da Harker come dall’«aspetto assai pittoresco, ma poco rassicurante. Sul palcoscenico potrebbero assai bene rappresentare qualche antica banda orientale di briganti. Sono però, mi si dice, del tutto innocui e mancano di qualunque autorità»5.

Il saggio di Mario Coglitore, da un punto di vista della forma, rifiuta, in modo originale, le tradizionali suddivisioni in «prologo, primo, secondo, terzo capitolo e conclusioni» sostituendo ad esse delle partizioni derivate dalla musica: abbiamo quindi una «Ouverture», tre «movimenti» e un «Finale». Dopo una lucida disamina introduttiva del concetto di «viaggio coloniale» da un punto di vista sociale, letterario, politico ed economico («Ouverture»), l’analisi si focalizza sulla figura di un funzionario coloniale, Roger Casement («Primo movimento (adagio)»), sulla figura di uno scrittore, Emilio Salgari («Secondo movimento (allegro)») e, infine, sull’importanza che la ferrovia (oltre che la nave) ha giocato nel viaggio coloniale («Terzo movimento (presto)»). Funzionario coloniale britannico e esploratore di origine irlandese, Casement partecipò a diversi viaggi in Africa, soprattutto in Congo. Dapprima fedele all’ideologia colonialista, successivamente, deciderà di prendere le parti degli indigeni difendendone i diritti e pagando con la vita questa sua scelta. Verrà infatti condannato all’impiccagione nel 1916 per alto tradimento, dopo aver cercato il sostegno della Germania contro la Gran Bretagna in favore dell’indipendentismo irlandese. Casement è l’autore del Congo Report, «un vivido documento di denuncia delle atrocità commesse dai belgi nei confronti degli indigeni con la complicità di altre nazioni europee: massacri, mutilazioni, criminale sottrazione di risorse per salvaguardare il commercio della gomma e promuoverne l’espansione nel mercato mondiale». Nel saggio di Coglitore non mancano certo puntuali rimandi alla letteratura: in uno di essi lo studioso ricorda che «l’anno precedente al viaggio di Casement, Joseph Conrad aveva pubblicato in volume Heart of Darkness, ambientato nel Congo belga, dove lo scrittore inglese era rimasto per sei mesi nel 1890; destinato a diventare un classico della letteratura, il romanzo di Conrad aveva denunciato i crimini perpetrati ai danni delle popolazioni locali più di un decennio prima. Nel 1904 il Rapporto sul Congo venne reso pubblico». Nonostante Casement si sia battuto senza tregua per difendere i diritti delle popolazioni indigene, «sarebbe rimasto per l’intera esistenza fermamente convinto della superiorità europea», segno che è veramente difficile, per un europeo, liberarsi della sua mentalità di carattere «orientalista».

Di una mentalità di questo tipo sono imbevuti anche i romanzi di Emilio Salgari (affrontati nel «secondo movimento» del volume), nati non da esperienze dirette dell’autore ma forgiati dall’immaginazione «sfogliando atlanti ed enciclopedie». Come osserva Coglitore, «le fonti di cui si serve Salgari sono già di per se stesse vettore di “orientalismo”, appartengono all’universo culturale degli occidentali e possiedono, in una densità linguistica strutturalmente “bianca”, le locuzioni della subalternità degli “altri da sé” che popolano le colonie, mondi totalmente inconoscibili se non a partire dalla necessità della conquista e, nel migliore dei casi, del riscatto che, quasi fosse un dono, viene offerto al non europeo dalle mille sfumature di nero». Le stesse stanze in cui vive Sandokan in Le tigri di Mompracem sono «colme di ogni specie di suppellettili e ornamenti, le “cineserie” per le quali impazzivano gli europei, che lo avvicinano più a un ricco possidente della metropoli che a un reietto». Le opere di Salgari sono il frutto di una fantasia liberata capace di creare un immaginario strettamente legato alla dimensione del viaggio in terre lontane e sconosciute. Se l’Oriente dello scrittore veronese è intriso della visione occidentale, è anche vero che la sua penna è stata capace di creare personaggi che resistono e si ribellano all’ingordigia dell’imperialismo: «Considerato autore di puro intrattenimento e sostanzialmente ignorato dalla critica, Salgari descrisse, forse inconsapevole, il colonialismo nei suoi vari aspetti, modellando figure a tutto tondo di veri e propri rivoluzionari: partigiani e guerriglieri che resistevano all’ingordigia dell’imperialismo (il cosiddetto ciclo de I pirati della Malesia ne è l’esempio più classico)».

Parlando di viaggi verso territori orientali, saturi di immaginazione e di mistero, non si può non ricordare che molti di essi avvenivano per mezzo del treno e della ferrovia. Come sottolinea l’autore del saggio, lo stesso Phileas Fogg, protagonista del Giro del mondo in 80 giorni (1873) di Jules Verne, per attraversare il territorio indiano da Ovest a Est, si sarebbe servito di una linea ferroviaria all’epoca famosa, la Great India Peninsular Railway, costruita tra il 1852 e il 1870. Il «terzo movimento» del volume è dedicato appunto alla «ferrovia nel viaggio coloniale». Gli europei, dopo aver colonizzato e assoggettato i paesi africani o orientali, costruivano la strada ferrata (molto più antica della locomotiva) per agevolare i trasporti e le comunicazioni in territori che, in alcuni casi, si presentavano estremamente vasti. Anche la costruzione della ferrovia rientrava quindi in una ‘europeizzazione’ dei paesi conquistati: essa, infatti, appartiene interamente al paesaggio europeo, sia reale che mentale. Fin dal 1855 le ferrovie erano attive in tutti e cinque i continenti: come, in modo suggestivo, scrive l’autore, «un pianeta in movimento venne intessuto di ragnatele di metallo che inventarono nuove geografie economiche, promossero scambi culturali e politici, favorirono commistioni tra abitudini, costumi, mentalità». La ferrovia e il treno a vapore divengono gli emblemi della modernità e della Rivoluzione Industriale; non si dimentichi, del resto, che il ‘razionalista’ inglese Jonathan Harker, per recarsi dal conte Dracula, viaggia in treno, utilizzando, così, il mezzo moderno per eccellenza. Non è un caso che il vampiro, esponente invece di un’arcaica alterità, per muovere il suo attacco a Londra, cuore economico dell’imperialismo, si imbarchi di nascosto su un mezzo più antico come la nave a vela, molto più lenta delle navi a vapore che pure in quello stesso periodo solcavano i mari.

Discutendo di ferrovia nel viaggio coloniale, l’analisi di Coglitore si concentra principalmente sulla costruzione della linea Congo-Oceano, realizzata fra il 1921 e il 1934, definita come «una delle opere d’ingegneria più letali della storia coloniale». I lavoratori vennero reclutati fra le tribù indigene, costretti a turni di lavoro massacranti e senza le più elementari condizioni igieniche (nei cantieri, la mortalità raggiunse molto probabilmente il tasso del 57 %). In questo genere di imprese, infatti, «si assiste a una reificazione degli indigeni, ridotti a puri e semplici automi, oggetto di brutalità indescrivibili». Essi venivano trattati come esseri viventi di infima categoria e – si potrebbe aggiungere – soggetti a un vero e proprio processo di “zombificazione”.

L’analisi portata avanti da Coglitore in modo lucido e disincantato appare intrisa di un habitus narrativo che tiene avvinghiato il lettore al racconto di viaggi che mettono in contatto culture diverse, le amalgamano, le apparentano, le incrociano, le contaminano. I viaggi “riterritorializzano”, quando il viaggiatore si stabilisce nella nuova terra. E allora, «in quelle comunità turbate da arrivi improvvisi, e indesiderati, ritroviamo spesso i nuclei di transizioni e di mutamenti storici». Ma si tratta pur sempre di viaggi coloniali e le riflessioni conclusive, in fin dei conti, sono amare perché «perfino quando gli eserciti si ritirano il colonialismo resta un destino», «una condizione esistenziale così profondamente imposta da essere ritenuta imprescindibile». Come scrive lo studioso, «l’Occhio dell’Impero sembra immortale». E, si potrebbe aggiungere, sembra continuare a sussistere ancora oggi, nelle stragi di migranti nel Mediterraneo che avvengono sotto gli occhi indifferenti dei paesi ricchi, nelle delocalizzazioni del capitalismo occidentale nei paesi più poveri, nel lavoro che spesso diventa schiavitù, nelle mille prevaricazioni quotidiane nei confronti dell'”altro da sé”. Nessun Sandokan e nessun pirata della Malesia riuscirà a scalfire tale «condizione esistenziale» che sembra non finire; ci riuscirà, forse, un nuovo immaginario libero e liberato che faccia a pezzi queste strutture di pensiero surrettiziamente sopravvissute fino ad oggi.


  1. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano, 2002, p. 32. 

  2. Ibid. 

  3. J. Conrad, I grandi romanzi e i racconti, Newton Compton, Roma, 2013, p. 1615. 

  4. L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte, trad. it. Corbaccio, Milano, 2010, p. 141. 

  5. B. Stoker, Dracula, in B. Stoker, J. S. Le Fanu, J. W. Polidori, Vampiri. Dracula, Carmilla, Il vampiro, Skira, Milano, 2018, p. 11. 

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Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

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Nemico (e) immaginario. Vampiri e biopolitiche di sangue https://www.carmillaonline.com/2020/02/02/nemico-e-immaginario-vampiri-e-biopolitiche-di-sangue/ Sat, 01 Feb 2020 23:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57057 di Gioacchino Toni

L’etimologia della parola “vampiro” risulta problematica, come documentano le molteplici ipotesi circa la sua origine, comunque in genere circoscritta alle lingue dell’Europa orientale. Se nell’intricato folklore dei non-morti esteuropei si trovano svariati esseri sovrannaturali dalle identità e dai confini incerti ed a volte sovrapponibili, dagli anni Trenta del Settecento il termine vampiro in lingua inglese inizia a connotare significati e associazioni ben precisi, tanto da distinguere un essere specifico. Se il mondo dei vampiri ha le sue radici nell’Europa orientale, è l’Inghilterra – o meglio, allargando l’orizzonte, la Gran Bretagna e l’Irlanda – ad essere la sua arteria [...]]]> di Gioacchino Toni

L’etimologia della parola “vampiro” risulta problematica, come documentano le molteplici ipotesi circa la sua origine, comunque in genere circoscritta alle lingue dell’Europa orientale. Se nell’intricato folklore dei non-morti esteuropei si trovano svariati esseri sovrannaturali dalle identità e dai confini incerti ed a volte sovrapponibili, dagli anni Trenta del Settecento il termine vampiro in lingua inglese inizia a connotare significati e associazioni ben precisi, tanto da distinguere un essere specifico. Se il mondo dei vampiri ha le sue radici nell’Europa orientale, è l’Inghilterra – o meglio, allargando l’orizzonte, la Gran Bretagna e l’Irlanda – ad essere la sua arteria principale, prima di divenire fenomeno cinematografico e televisivo statunitense.

Oltre un secolo e mezzo prima che Bram Stoker con il suo Dracula (1897) dopo essersi appropriato dell’immaginario vampiresco precedente lo aggiornasse alla modernità sino a proiettarlo nei tempi a venire, i vampiri già smascheravano le ansie umane e le biopolitiche del periodo suggestionando la cultura occidentale nel suo tentativo di definire l’essere umano. La storia del vampiro antecedente a quello proposto dal romanzo di Stoker, già indagata puntualmente da Massimo Introvigne1, è stata recentemente ricostruita da Nick Groom nel suo Vampiri. Una storia nuova (Il Saggiatore, 2019) «unendo la visione scientifica ed empirica dei “veri” vampiri dell’Europa orientale con le loro successive rappresentazioni evocate nella letteratura gotica [prendendo] in esame trattati teologici e referti medici, diari di viaggio e allegorie politiche, poesia, narrativa e testi sull’occulto»2.

Il ritorno dei morti è una paura primordiale, tanto che morti inquieti, invendicati, desiderosi di punire i vivi popolano miti, leggende e folklore sin dai tempi remoti. Se numerose sono le figure che riprendono vita per scatenare il caos, tuttavia i vampiri sono entità diverse dagli spiriti e dai non-morti ed hanno destato interesse tra gli intellettuali europei in circostanze ben precise. Se fantasmi e demoni hanno spesso antecedenti biblici o derivati da miti antichi, si può dire che i vampiri, invece, siano stati “scoperti”; se lo studio dei fantasmi e delle apparizioni ha preso il via indagando le testimonianze di chi si è imbattuto in essi, per quanto riguarda l’indagine sui vampiri, invece, almeno agli inizi, questa si è svolta su esseri fisici «che avevano un fondamentale (e letterale) “corpo” di prove, costituito dai cadaveri del colpevole e delle vittime»3, pertanto, nel caso dei vampiri, non si è di fronte a demoni primordiali ma, suggerisce Groom, a creature dell’Illuminismo, radicati come sono nei nascenti approcci empirici delle scienze investigative settecentesche, nella biopolitica europea e nel pensiero dell’epoca.

«In altre parole, essi appartengono del tutto al mondo moderno – o meglio: i modi con cui sono stati esaminati sono sorprendentemente moderni. I vampiri nacquero quando la razionalità illuminista incontrò il folklore dell’Europa orientale – un incontro che cercò di dare loro un senso attraverso il ragionamento empirico e che, considerandoli attendibili, li rese reali. Dunque, i vampiri hanno proprio una preistoria folkloristica e, dall’inizio del XIX secolo, i vampirologi si sono applicati per rintracciare le loro origini attraverso esempi archetipici e leggendari di mostruosità»4.

Sebbene i demoni succhiatori di sangue siano presenti già in antiche tavole caldee e assire, nel mondo antico sia greco che romano, nella tradizione giudaico-cristiana e nei poemi epici anglosassoni, i vampiri occupano una posizione particolare tra i succhiatori di sangue e nonostante le loro storie a volte si intreccino con quelle di demoni, fantasmi, spettri, revenant o streghe, dovrebbero essere distinti da quell’insieme di paure verso i morti, i non-morti. «La distinzione tra i fantasmi succhiasangue del mondo classico e il vampiro moderno, come osserva l’occultista Montague Summers5, è che “la qualità peculiare del vampiro, specialmente nella tradizione slava, è la rianimazione di un corpo morto, che è dotato di alcune proprietà mistiche come la dispersione [estensione], la sottigliezza [tenuità] e l’incorruttibilità temporale”6. Sebbene una parte di questa tradizione slava fosse senza dubbio retrospettiva, è sorprendente notare come alcuni peculiari elementi comuni siano stati poi trasposti nei primi avvistamenti di veri vampiri e come la natura accrescitiva delle credenze popolari abbia dato vita, per così dire, al corpus di conoscenze sui vampiri»7.

Se il pensiero vampiresco finisce col riflettersi nelle scienze mediche, soprattutto con lo svilupparsi delle nuove teorie sul contagio, non di meno fornisce un repertorio iconografico all’economia, alla politica e, ovviamente, alla letteratura, avvicinando così finzione, teorie mediche e scienze sociali.

Parlare di vampiri significa parlare inevitabilmente di sangue ed infatti questo, sgorgato dal pensiero settecentesco, resta costantemente presente nel pensiero ottocentesco. «Il vampiro incarnava le contraddizioni del sangue: oscurava le distinzioni tra vivi e morti, umani e non umani, anche tra stabilità psicologica e metamorfosi fisica. Il vampiro era anche la quintessenza del sangue cattivo: del sangue corrotto e virulento. E […] la paura verso il sangue contaminato è stata acuita dal timore del contagio a causa dei luoghi ammuffiti e angusti, dei cimiteri, del marciume e della decadenza, dell’aria viziata, delle infezioni portate nell’atmosfera, della nebbia e dei pericoli invisibili. Tutto questo orrore si condensò con l’avvento del vampiro»8.

Durante il XIX secolo vengono sostanzialmente mantenute le vecchie credenze popolari circa le virtù curative del sangue, pur assumendo veste scientifica, e si moltiplicano tanto gli esperimenti di trasfusione endovenosa quanto lo studio di malattie ereditarie. Anche un centro nazionalismo fa del “sangue comune” il suo mito fondativo e la donna stessa, agli occhi maschili, appare “contraddistinta dal sangue”. Nell’immaginario ottocentesco l’associazione donne-vampirismo si struttura proprio a partire dal legame donne-sangue derivato, oltre che dalle perdite mestruali, anche, soprattutto nei primi decenni del secolo, dal diffondersi delle analisi del sangue al microscopio per diagnosticare l’anemia particolarmente diffusa in ambito femminile, tanto che la stessa figura del vampiro finisce con l’assume quello che diventerà il suo classico pallore.

L’associazione donna-vampiro ha dato luogo anche a vampiri femminili, come nel caso della protagonista del racconto Carmilla (1872) di Joseph Sheridan Le Fanu che, pur con peculiarità tutte sue legate al periodo, si inserisce all’interno di una lunga tradizione di figure femminili che si alimentano di sangue che hanno come antenate sovrannaturali figure come Lamia e Lilith9.

Dopo essere stato medicalizzato nel corso del Settecento, il vampirismo, nel secolo successivo, si lega a malattie e paure connesse al corpo femminile, nella convinzione che la perdita di sangue mestruale potesse addirittura dar luogo a catastrofiche conseguenze fisiche e mentali sull’intera civiltà occidentale e tale timore si collega ad una delle grandi paure di fine Ottocento: l’inversione evolutiva, la degenerazione verso uno stato animalesco o primitivo.

Il teorico della degenerazione Bénédict Morel10, ad esempio, vede nella follia il risultato di un danno fisiologico o di un comportamento immorale capace di trasformarsi in una patologia trasmissibile alle generazioni successive. Si afferma dunque un’idea di psichiatria radicata tanto nel corpo quanto nel comportamento ed è proprio rifacendosi a More che l’antropologo criminale Cesare Lombroso individua nei criminali segni di “evoluzione a ritroso” che li colloca, rispetto ai “normali” esseri umani, ad un gradino evolutivo inferiore; una vera e propria razza primitiva e subumana. In Lombroso anche le donne abitano una scala evolutiva inferiore, essendo, a suo avviso, dotate di un “cervello infantile”, dunque non sviluppato al pari di quello degli uomini. Se a tale “immaturità congenita” femminile si aggiunge una condotta criminale, allora, secondo Lombroso, si raggiunge l’apoteosi del mostruoso.

Sulle orme di Morel e Lombroso, il sociologo Max Nordau11 deriva le prove della decadenza morale della società del tempo dai suoi studi sui criminali, sugli omosessuali, sulle figure femminili più emancipate e sugli artisti più innovativi del tempo. Tale degenerazione deriverebbe dunque, secondo il sociologo, da cause fisiche determinate però dal vivere una modernità segnata dal ricorso smodato a narcotici e stimolanti, dal consumo alimenti avariati e dal respirare veleni organici. Insomma, i vampiri di fine Ottocento non sembrano essere più causa o segno di degenerazione; è l’intero mondo moderno ad essere degenerato e i vampiri, abitandolo, semplicemente ne condividono la sorte. Anche l’aumento dell’isteria, secondo Nordau, è riconducibile alle medesime cause.

Le immagini del sangue e del succhiasangue, come detto, hanno finito con il fornire un repertorio iconografico anche all’economia ed alla politica, inoltre, l’ottocentesca ossessione per il sangue ha probabilmente contribuito al revival della medievale “accusa del sangue” mossa nei confronti degli ebrei, rafforzando così l’antisemitismo. Se il vampirismo era già stato identificato da intellettuali come Voltaire e Rousseau con il commercio e con le operazioni finanziarie, tale associazione si è spinta ben oltre nel corso dell’Ottocento quando la metafora del vampiro risulta ben presente nei circoli della sinistra hegeliana, nella pubblicistica socialista e, soprattutto, diventa ricorrente nelle opere di Karl Marx.

Come ha ricostruito Luca Cangiati, se Marx ricorre alla metafora del vampiro in numerose opere – Sacra famiglia, Lotta di classe in Francia, Diciotto Brumaio di Napoleone Bonaparte, Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai – è nei Grundrisse che tale metafora acquisisce uno status epistemologico innegabilmente costitutivo. «In questi famosi quaderni di appunti il filosofo afferma che “Nel capitale viene posta la perennità del valore… caducità che passa – processo – vita. Ma questa capacità il capitale l’ottiene soltanto succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro”. Che la metafora capitale/vampiro sia a tutti gli effetti costitutiva della teoria del plusvalore e dello sfruttamento è testimoniato inoltre dalla dialettica tra il lavoro vivo, costituito dagli esseri umani lavoratori, e quello morto, cristallizzato nei mezzi di produzione, cioè nel capitale: “Il lavoro vivo si presenta come puro mezzo per valorizzare il lavoro materializzato, morto, per permearlo con un’anima vivificante e perdervi la propria”»12.

L’Ottocento è anche un secolo funestato dalle pandemie di colera in Europa e nel Nord America, coincidenti spesso con guerre e disordini politici. Il contagio ottocentesco è dunque un “contagio moderno”, vissuto nella sua concretezza. Messi da parte i capri espiatori tradizionali, le accuse finiscono per focalizzarsi sulla professione medica ed a ciò si è prontamente adeguato l’immaginario riferito al vampiro. Quest’ultimo, inoltre, già ritenuto vettore di malattia, non tarda ad essere associato agli spazi urbani malsani delle città industriali.

Se ancora nella prima metà del secolo la febbre viene trattata con l’aerazione, nella seconda metà dell’Ottocento inizia ad essere vista come una malattia infiammatoria a cui si risponde con la pratica del salasso spesso mediante sanguisughe ed in tale periodo la popolarità del tema del vampiro e sua efficacia nel metaforizzare paure e problemi d’epoca si lega proprio a quella per la suzione di sangue. Nella seconda metà dell’Ottocento, la teoria dei germi sostituisce parzialmente la teoria del miasma ed il diffondersi della convinzione che la malattia potesse essere causata da parassiti viventi, secondo Laura Otis13, si presta ad essere interpretata come metafora delle paure dell’epoca nei confronti di tutti i “nemici invisibili”, militari, politici o economici.

Riflettendo sulle analogie tra il prendere piede della teoria dell’infezione microbica ed il fatto che, più o meno in maniera figurata, questa la si ritrova già sia in diversi racconti di vampiri che nei tentativi di spiegare il contagio vampirico del secolo precedente, Groom osserva come, non a caso, i successivi racconti di vampiri vittoriani si soffermino spesso «su minuscole prove giudiziarie (piccole lesioni nella pelle, polvere) o su forze invisibili (mesmerismo, effetti psichici, psicologici e telepatia). Il contagio e il corpo, il sangue e l’economia, il potere politico, l’invisibile e il vampirismo sono dunque coesistiti nell’immaginario vittoriano. E il romanzo di Bram Stoker, Dracula, ne è la dimostrazione migliore»14.

Ed è proprio il libro di Stoker a palesare una svolta: capace di far suo l’immaginario vampiresco procedente, Dracula si presenta come concentrato di mitologie, sogni ed incubi propri del mondo vittoriano ma si rivela anche in grado di prefigurare inquietudini e desideri del mondo che sarebbe venuto, come documenta l’opera in due volumi che Franco Pezzini vi ha recentemente dedicato15.


  1. M. Introvigne, La stirpe di Dracula. Indagine sul Vampirismo dall’antichità ai nostri giorni, Mondadori, Milano, 1997. 

  2. N. Groom, Vampiri. Una storia nuova, Il Saggiatore, Milano, 2019, p. 13. 

  3. Ivi, p. 22. 

  4. Ivi, pp. 22-23. 

  5. M. Summers, The Vampire, His Kith and Kin, Kegan, Paul, Trench, Trubner & Co., London, 1928 e M. Summers, The Vampire in Europe, University Books, New York 1968. 

  6. M. Summers, The Vampire in Europe, cit., p. 1. 

  7. N. Groom, Vampiri. Una storia nuova, op. cit., p. 33. 

  8. Ivi, p. 38. 

  9. Sulla figura di Carmilla si veda: F. Pezzini, Cercando Carmilla. La leggenda della donna vampira, Ananke edizioni, Torino, 2000. Sulla tradizione dei vampiri femminili si veda: A. Conti, F. Pezzini, Le vampire. Crimini e misfatti delle succhiasangue da Carmilla a Van Helsing, Castelvecchi, Roma, 2005. 

  10. B. Morel, Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine, 1857. Testo in cui Morel mescola cattolicesimo e teorie relative all’ereditarietà dell’evoluzionista Jean-Baptiste Lamarck 

  11. M. Nordau, Degeneration, 1898. Tr. it.: M. Nordau, Degenerazione, Piano B edizioni, Prato,2009. 

  12. L. Cangianti, FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria, pp. 85-86, in: L. Cangianti, A. Daniele, S. Moiso, F. Pezzini, G. Toni, Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2018. 

  13. L. Otis, Membranes: Metaphors of Invasion in Nineteenth-Century Literature, Science, and Politics, Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD), 1999. 

  14. N. Groom, Vampiri. Una storia nuova, op. cit., p. 188. 

  15. F. Pezzini, Il conte incubo. Tutto Dracula, Volume 1, Odoya, Bologna, 2019 e F. Pezzini, Abraham Van Helsing e l’ultima crociata. Tutto Dracula, Volume 2, Odoya, Bologna, 2019. 

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Abraham Van Helsing e l’ultima crociata https://www.carmillaonline.com/2019/12/07/abraham-van-helsing-e-lultima-crociata/ Sat, 07 Dec 2019 22:22:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56594 di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di chi scrive, Abraham Van Helsing e l’ultima crociata. Tutto Dracula volume 2, pp. 495, € 24, Odoya, Bologna 2019. Se ne riporta uno stralcio, con citazioni dal romanzo tratte da quell’edizione Feltrinelli 2011 a cura di Luigi Lunari, utilizzata a suo tempo per il corso TuttoDracula, 2012-2014, da cui è “figliato” il presente volume come il precedente Il Conte incubo. Il brano che segue, sul cap. 23 del romanzo, vede i cacciatori appostati in uno dei covi acquistati a Londra dal terrorista orientale [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di chi scrive, Abraham Van Helsing e l’ultima crociata. Tutto Dracula volume 2, pp. 495, € 24, Odoya, Bologna 2019. Se ne riporta uno stralcio, con citazioni dal romanzo tratte da quell’edizione Feltrinelli 2011 a cura di Luigi Lunari, utilizzata a suo tempo per il corso TuttoDracula, 2012-2014, da cui è “figliato” il presente volume come il precedente Il Conte incubo. Il brano che segue, sul cap. 23 del romanzo, vede i cacciatori appostati in uno dei covi acquistati a Londra dal terrorista orientale Dracula, e uno dei loro pochi confronti diretti con lui: un episodio che permette d’altronde di aprire finestre verso altri miti eccellenti dell’età vittoriana.

L’occasione mi permette di ricordare con simpatia e gratitudine Lunari (1934-2019), conosciuto proprio in occasione di quella sua traduzione, intellettuale vivace ed eclettico dalla strabordante umanità, morto a Ferragosto di quest’anno.

Dracula il Saltatore

3 ottobre

La narrazione passa ora a Seward per poi tornare ad Harker: si tratta insomma nuovamente di un capitolo a più voci. E la prima parte è ancora datata al 3 ottobre, che riprende dal punto interrotto da Jonathan, in attesa coi due medici del ritorno di Arthur e Quincey [in missione per sterilizzare altri covi del vampiro a Londra]. […]  Nell’attesa Van Helsing cerca di “mantenere attivi i nostri cervelli” non lasciando che i presenti si ripieghino su se stessi. Soprattutto Harker, sopraffatto dalla tristezza [la moglie Mina è stata infettata da Dracula] e improvvisamente invecchiato – non solo nel colore dei capelli ma nei tratti segnati dal dolore – anche se ardente di un’energia febbrile, che può permettergli di reagire alla crisi. Dracula ringiovanisce (potremmo dire) facendo invecchiare gli altri…

Comunque Van Helsing, preoccupato per Jonathan, cerca di intrattenerlo. Ha studiato e ristudiato le carte relative al Conte, ed è sempre più convinto che occorra distruggerlo. Infatti “Tutto dà prova di suo progredire: non solo per quanto riguarda sua potenza, ma anche di sua coscienza di questo”. E il tema dei progressi di Dracula, del suo progressivo imparare e sperimentare nel nuovo stato di non-morto, anche in seguito ritornerà nell’analisi di Van Helsing: un proto-neuroscienziato che, ci aveva informato Renfield, “ha rivoluzionato la terapeutica, con la scoperta della continua evoluzione della materia cerebrale”.

Citando l’amico Arminius dell’Università di Budapest e riprendendo le informazioni già fornite nella lezione al cap. 18, il professore ricorda che Dracula “in vita è stato grande uomo. Soldato, statista, e alchimista – la quale alchimia era il punto più avanzato del sapere scientifico della sua epoca”. Questo tema dell’alchimia è interessante e originale: e da un lato preannuncia i riferimenti che nel capitolo successivo Van Helsing dispenserà sulle bizzarrie geologiche e chimiche della regione in cui il Conte ha abitato per secoli. Però dall’altro richiama quel confronto tra macro e microcosmo che vede il corpo umano stesso farsi athanor, fornello di trasformazione alchemica: e si può pensare a tutto il tema dell’alchimia del sangue, che verrà sviluppato da certi filoni esoterici del Novecento. Ma in realtà Stoker lascia i riferimenti vaghi, a evocare più genericamente un titanismo ermetico nel flirtare coi segreti della Natura, e la romantica, luciferina ambiguità di cui nell’Ottocento si paludava l’idea dell’alchimia.

Van Helsing continua: “Aveva una grande intelligenza, e una cultura senza confronti, e un cuore che non conosceva né paura né rimorso”; un ritratto che, ribadiamolo, non corrisponde che in modica parte a quello del Dracula storico, guardando piuttosto a un profilo di liberissima reinvenzione, a un super-vilain divenuto tale proprio per l’assoluto sprezzo di ogni limite caratteriale o etico: e non a caso il vampiro è proprio la creatura che sfugge limiti e definizioni esistenziali. Van Helsing torna anzi a sottolineare che il Conte aveva “osato perfino frequentare Scholomance [la scuola di magia gestita dal diavolo], e non c’era ramo del sapere del suo tempo che lui non ha provato” (“He dared even to attend the Scholomance, and there was no branch of knowledge of his time that he did not essay”): a innestare la condanna del vampirismo in un dramma faustiano. Che dal titanismo romantico delle fonti ottocentesche d’ispirazione del romanzo (pensiamo agli eroi maledetti portati in scena da Irving) traghetta però idealmente a certi profili di nevrosi e alienazione nichilistica del Novecento.

Eccezionale in vita, il Conte rimane tale da non-morto e “in lui i poteri della mente sono sopravvissuti alla morte fisica; anche se pare che la sua memoria non rimanesse completa”. Una soluzione ovviamente, ancora una volta, funzionale allo sviluppo narrativo, per contenere la forza di un nemico troppo ingombrante per gli eroi: dove però forse Stoker recepisce una delle obiezioni fondamentali all’idea del vampirismo, il tema della rapida degenerazione del cervello dopo la morte, rileggendola in termini di libertà artistica. La morte condurrebbe così a una sorta di nuova, oscura infanzia:

 

In qualcuna delle facoltà del suo cervello era rimasto, ed è anche adesso, un bambino; però sta crescendo, e alcune cose che in principio erano infantili ormai hanno preso una dimensione adulta. Sta sperimentando, e lo fa piuttosto bene; e se non era che noi abbiamo attraversato la sua strada, lui poteva essere – e se noi falliremo, lo sarà – il padre o il capostipite di un nuovo genere di esseri, la cui strada si snoda non attraverso la Vita, ma attraverso la Morte.

 

Cioè – come già accennato – un Adam Dracula, con tutti gli echi possibili impliciti nel concetto, sia sul piano simbolico-religioso che su quello scientifico-evoluzionistico. Sorto in un contesto sociale dove le interpretazioni di Charles Darwin conoscevano recezioni distorte in termini di xenofobia culturale, il minaccioso straniero Dracula capace di allarmanti progressi in termini (anti)evoluzionistici è stato definito da qualche critico un perfetto esempio di mostro darwiniano. Forte infatti dell’antica tenacia, Dracula sviluppa a poco a poco il suo piano complesso: e, insieme al piano, cresce il suo cervello.

A quel punto Harker, angosciato che tutto ciò combatta contro Mina, chiede a Van Helsing di chiarire in che senso il nemico stia “sperimentando”: e il professore risponde che da quando è sbarcato in Inghilterra, il vampiro ha continuato a mettere alla prova il proprio potere; e buon per loro che il suo cervello sia ancora infantile nel senso già accennato, altrimenti sarebbe già stato troppo forte. Ma conta di conseguire i propri obiettivi, e avendo i secoli davanti a sé può procedere con tutta calma.

Harker però nuovamente chiede di capire, visto che dolore e preoccupazione devono avergli rallentato il cervello: e questo meccanismo, per cui il discepolo si rivolge a più riprese all’iniziatore con le proprie domande e quello pazientemente riprende il tema, rimanda simmetricamente ai dialoghi di Seward con Van Helsing nei giorni drammatici della morte di Lucy. Il professore fa notare “come, di recente, questo mostro è avanzato in conoscenza attraverso tentativi e esperimenti”, e spiega – per i lettori meno attenti – che per esempio ha usato Renfield per aggirare il tabù del permesso di entrare; ma anche che ora, evidentemente, ha capito che può spostare da solo le casse, senza farne conoscere l’ubicazione ad altri. Anzi, potrebbe avere l’intenzione di seppellirle sottoterra,

 

così che per lui sia comodo usarle [nel senso di entrarne e uscirne] non solo di notte ma anche in qualsiasi momento voglia cambiare sua forma [torniamo alla cassa come luogo del cambiamento]; e nessuno può sapere dove sono i suoi nascondigli! [So that only he use them in the night, or at such time as he can change his form, they do him equal well, and none may know these are his hiding place!].

 

Però – tranquillizza Jonathan – Dracula arriva tardi. Tutti i rifugi sono già stati esorcizzati, tranne uno che individueranno prima del tramonto, e a quel punto non avrà più una tana: per questo il professore ha scelto di muoversi a un’ora più tarda. Così (sembra intenda) non hanno trovato il vampiro a riposo in una delle basi. Ovvio, devono essere anche più prudenti di lui… Comunque, conclude, è ormai l’una, e Arthur e Quincey dovrebbero essere ormai di ritorno, rinforzando la squadra.

A quel punto un doppio colpo dalla porta d’ingresso li fa sobbalzare, ma è solo il ragazzo del telegrafo che consegna a Van Helsing un telegramma di Mina. Che recita

 

Attenti a D. È arrivato qui ora, 12,45, di corsa da Carfax e di fretta si è diretto verso sud. Sembra voler fare il giro e forse vi cerca. [Look out for D. He has just now, 12:45, come from Carfax hurriedly and hastened towards the South. He seems to be going the round and may want to see you.]

 

Sembra di capire che Mina – che avevamo trovato alla finestra – abbia avvistato il Conte, plausibilmente furioso, mentre imboccava la strada verso sud. Ma può darsi che la condivisione di sangue abbia reso Mina capace di cogliere il suo passaggio anche senza una visione diretta: la dinamica non è troppo chiara.

In ogni caso Jonathan ringrazia Dio, non vedendo l’ora di incontrare il nemico: Van Helsing allora gli rammenta che Dio agisce “secondo suoi tempi e modi”, e lo esorta a evitare timori e baldanza, visto che “quello che adesso noi desideriamo potrebbe essere nostra fine”. Anzi, ad Harker che si dice pronto a vendere l’anima (“I would sell my soul”) pur di spazzare via il mostro, il professore ricorda che Dio non acquista anime in tal modo, e per contro il diavolo non mantiene le promesse: dove il tema del patto col diavolo richiama ancora idealmente alla dimensione faustiana del romanzo, con echi sparsi fin da quei primi capitoli in cui Jonathan contratta – sia pure per conto dello studio Hawkins – col mefistofelico Conte. Torniamo a rammentare che Henry Irving aveva portato in scena il Faust nel 1886, pochi anni prima dell’inizio dell’operazione di scrittura del Dracula.

Van Helsing esorta ancora a una serena fermezza, dal momento il vampiro ha poteri e limiti degli esseri umani e fino al tramonto non può trasformarsi: è l’una e venti, ci metterà ancora un po’ ad arrivare e c’è da sperare che giungano prima gli amici. Questo tema dell’attesa dei cacciatori in tensione è giocato da Stoker con efficacia, ancora una volta in pagine troppo spesso poco considerate.

In effetti una mezz’oretta dopo il telegramma ecco nuovamente bussare alla porta, e i nostri sobbalzano; poi, armati (arma spirituale nella sinistra, materiale nella destra) raggiungono l’anticamera, Van Helsing schiude a metà la porta… e possono finalmente tirare un sospiro di sollievo all’apparire di Arthur e Quincey. Che, chiusasi la porta alle spalle, annunciano di aver trovato i due covi, e sterilizzato in entrambi sei casse; per cui – conclude Quincey – non resta loro che aspettare lì. Se poi il Conte non apparisse per le cinque dovrebbero tornare alla base per non lasciar sola Mina dopo il tramonto. Ma Van Helsing ribatte che Dracula sarà lì tra non molto, e ricostruisce lo spostamento:

  • da Carfax si è diretto verso sud, quindi ha passato il fiume e può averlo fatto solo con la bassa marea poco prima dell’una: in questa fase il Conte nutre solo sospetti sulle mosse avversarie, e dunque si è diretto dove ritiene ci sia minore interferenza della squadra;
  • a Bermondsey (base sud) dev’essere passato poco dopo Arthur e Quincey…
  • …che evidentemente l’hanno preceduto anche a Mile End (base est), per raggiungere la quale, ripassando il fiume, ha però di certo perso un po’ di tempo;
  • ne segue che ormai sta per piombare a Piccadilly, per cui devono aver pronto subito un piano d’attacco.

Ma a quel punto impone silenzio, “Tutti pronti con le vostre armi! In guardia!”, e “nel silenzio tutti abbiamo sentito una chiave introdursi piano nella serratura della porta d’ingresso”. Seward registra ammirato “il modo in cui una personalità superiore riesce a manifestarsi”: Quincey Morris, che era sempre il pianificatore “In tutte le nostre battute di caccia e altre avventure condotte in varie parti del mondo” (a evocare le vacanze esotiche di rampolli di facoltose famiglie anglosassoni, ma in particolare il modello dell’americano cacciatore di tracce), qui obbedisce immediatamente ai segni muti – uno sguardo, un gesto – coi quali Van Helsing li piazza in posizione. Il professore, Harker e lo stesso Seward dietro alla porta, in modo che all’entrata del Conte il primo gli si pari davanti e gli altri gli taglino l’uscita; Arthur e Quincey fuori dall’immediata visuale, ma pronti a bloccare la finestra. “Noi tutti aspettavamo col fiato sospeso mentre ogni secondo sembrava scorrere con la lentezza di un incubo. Risuonarono nell’anticamera passi lenti e prudenti: il Conte era evidentemente preparato a una qualche sorpresa, o comunque la temeva”… finché all’improvviso, “con un solo balzo” se lo ritrovano dentro. Il movimento è tanto veloce che non si accenna neanche all’aprirsi della porta: e il Conte si apre la strada tra gli avversari, prima che chiunque possa tentare qualunque cosa per fermarlo. “Nei suoi movimenti c’era qualcosa di così simile ai movimenti di una pantera – qualcosa di così non umano che subito è sembrato farci superare lo choc del suo arrivo”: dove l’espressione un po’ barocca (“There was something so pantherlike in the movement, something so unhuman, that it seemed to sober us all from the shock of his coming”) sembra significare che lo choc stesso per quell’irruzione così assurdamente veloce viene archiviato da un’altra impressione ancora più scioccante sull’inumanità di quel tipo di movimento. Con Dracula, non solo si iniettano nel racconto di vampiri caratteristiche del genere avventuroso – eroi giovani e dinamici, azione, velocità – ma è lo stesso vampiro che viene dinamizzato come a effetti speciali in modo del tutto nuovo.

Comunque è Harker a reagire per primo, balzando davanti alla “porta che conduceva alla sala sul davanti della casa” (probabilmente il locale ha due porte): e sul volto del Conte l’iniziale ghigno a canini snudati lascia subito posto al “freddo sguardo di un disdegno leonino” (“a cold stare of lion-like disdain”). Seward parlava prima di batture di caccia, e il Conte ha già assommato caratteristiche di pantera (pantherlike) e di leone (lion-like): il contesto è quello di una caccia, ed è interessante notare che la stessa terminologia da caccia grossa tornerà in un racconto di poco successivo su un agguato in una casa abbandonata a un arcicattivo, “L’avventura della casa vuota” (1903) con l’agguato di Holmes ricomparso alla – potremmo definire – seconda incarnazione del Male, il colonnello Moran. Le cui avventure esotiche, il record di tigri uccise e le memorie di caccia attribuitegli giustificano le metafore e similitudini alla “dark jungle of criminal London”, alla caccia a una “wild beast” e specificamente a una tigre, cui Watson assimila il colonnello (anzi nel contesto non stupisce che a sua volta Holmes gli balzi addosso “like a tiger”).

Poi però l’espressione del vampiro muta di nuovo quando gli avversari gli si fanno addosso: e qui c’è un’osservazione curiosa, perché Seward che si era sperticato in elogi sulla capacità organizzativa di Van Helsing ammette che si sono mossi “concordemente, d’impulso” (“with a single impulse”) e che “Era un peccato che non avessimo un piano d’attacco meglio organizzato, perché anche in quel momento io mi chiedevo che cosa dovevamo fare”.

Ammette anche di non sapere se poi, alla prova dei fatti, le loro “lethal weapons” avrebbero funzionato: ma Harker tenta un affondo con il suo “great Kukri knife” e solo il balzo all’indietro diabolicamente rapido del Conte gli evita di restarne trafitto. È interessante che sia lo stanziale Jonathan e non uno dei facoltosi giramondo Arthur, Quincey e Jack a brandire quest’arma esotica usata anche come attrezzo da lavoro, originaria del Nepal e utilizzata in particolare nei reggimenti Gurkha della British Indian Army. Tra la fine della Indian Rebellion, 1857 e la Prima Guerra Mondiale i reggimenti Gurkha operarono non solo in Oriente (Burma, Afghanistan, India, Malesia, Cina, Tibet) ma anche a Malta durante la guerra russo-turca (1877–78), e a Cipro: comunque Jonathan può averlo acquistato in Inghilterra.

La punta però raggiunge la stoffa della giacca del Conte (“the cloth of his coat”), con uno squarcio da cui cadono “un rotolo di banconote e un fiume di monete” (“a bundle of bank notes and a stream of gold”). Mentre un’espressione infernale si disegna sul volto di Dracula, Harker si prepara a un secondo affondo e Seward si fa avanti con crocifisso e ostia, subito imitato da qualcuno dei compagni. Con risvolti mistici – “Ho sentito una straordinaria forza fluirmi lungo il braccio” – del tipo sovrannaturalistico che poi ispirerà autori popolari come Dennis Wheatley quando descrive eroi in lotta col Male, ma che possono essere intesi anche nella loro dimensione emotiva.

Comunque Dracula retrocede, ed

 

È impossibile descrivere l’espressione di odio e di malvagità sconfitta – di rabbia e d’ira infernale – che si è dipinta sul volto del Conte. Il suo volto di cera si è fatto verde e giallastro in vivido contrasto con gli occhi fiammeggianti [“His waxen hue became greenish-yellow by the contrast of his burning eyes”: ancora una volta la maschera di cera, maschera mortuaria e gorgoneion, che acquista tonalità di livore verde/giallastro, quasi in sostituzione dell’arrossamento che avrebbe un vivo forse per la putredine del sangue che irrora il corpo non-morto, cfr. per esempio in Ap 6, 8 il cavallo verde: “Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano”]; mentre la rossa cicatrice sulla sua fronte spiccava sul pallore della pelle come una piaga palpitante [and the red scar on the forehead showed on the pallid skin like a palpitating wound].

 

Dove torna il tema della ferita inferta da Harker sul capo di Dracula, che però il campione di trasformismo non sembra essere stato in grado di far sparire. O non vuole farla sparire, a memento simbolico della vendetta, come il servo del re dei Persiani con l’ordine di comunicargli ogni giorno: “Sire, ricordati degli Ateniesi”? In ogni caso questa strana cicatrice sembra presentare un peso simbolico: da un lato per le solite specularità richiama il segno sulla pelle di Mina, ma più in generale evoca un intero filone di ferite mistiche, in particolare della letteratura cavalleresca. Si pensi alla piaga incurabile del Re Vulnerato Anfortas delle storie graaliche – del resto se il Graal epifanizza in un castello, Dracula ha ricevuto la ferita mentre si trova ancora nel proprio castello covo di misteri d’immortalità anti-graalica, per il solito motivo della simbologia invertita – o alla mutilazione di Clinschor, castrato da un marito tradito come Jonathan.

Con “un guizzo serpentino” (“a sinuous dive”) il vampiro riesce però a sgusciare sotto il braccio di Harker evitando il colpo; “raccolta una manciata di monete dal pavimento” balza attraverso la sala e sfondando la finestra si lancia giù, tanto che Seward può cogliere anche “il tintinnio delle monete […] sulle pietre”. Ai cacciatori accorsi alla finestra, il Conte appare però rialzarsi indenne, risalire una rampa e attraversare il cortile, spalancando la porta di una scuderia o rimessa che vi si apre (“He, rushing up the steps, crossed the flagged yard, and pushed open the stable door”). E la scena presenta almeno due suggestioni intriganti.

La prima è naturalmente il tema del denaro. Abbiamo visto che Dracula è un avido tesaurizzatore che va in cerca di tesori sepolti, ammassa monete nel suo castello e minaccia il facchino che vuole più soldi: mentre i buoni spendono con larghezza per la buona causa, valorizzano cioè la ricchezza dono di Dio, il Conte mostra verso di essa un rapporto forzato e predatorio. E la sua foga nel chinarsi a raccogliere una manciata di soldi nel pieno dello scontro è in fondo l’ennesima, grottesca icona della profanazione, in questo caso di un bene-benedizione di Dio.

Ma c’è un secondo spunto, legato alle mitologie vittoriane. Dracula balza giù dalla finestra, si rialza illeso in un cortile chiuso e ora lo vedremo sfuggire per quella via: ed è possibile che per questo vampiro acrobata Stoker trovi ispirazione in un personaggio di una leggenda metropolitana del tempo, quello Spring-heeled Jack, Jack dai tacchi a molla o Jack il Saltatore, così chiamato per il suo stranissimo modo di fuggire. Questa creatura che avrebbe infestato le notti di Londra – ma avvistata in seguito anche in altre aree della Gran Bretagna e persino oltreoceano – sarebbe stata infatti in grado di compiere balzi prodigiosi, saltando senza necessità di rincorse dalla base di un edificio fin sul tetto a decine di metri, defilandosi così di fronte agli sguardi basiti di testimoni ed eventuali inseguitori. Se fantasmi saltanti sono menzionati a Londra fin dal primo Ottocento e un misterioso “peculiar leaping man” (un “curioso uomo che salta”) emerge citato dalla stampa britannica nel 1817, la prima testimonianza articolata su Jack il Saltatore rimonta all’ottobre 1837: in due giorni successivi lo strambo personaggio prima forza una ragazza ai propri baci, strappandole i vestiti e toccandola con artigli freddi da cadavere, e poi terrorizza un cocchiere saltando all’improvviso sulla sua carrozza, e dileguandosi con un altro salto oltre un muro di nove piedi (m. 2,7). Nel periodo successivo si moltiplicano le denunce di aggressioni imputategli, e la stampa che inizialmente usa nomi come “Leaping Terror” e “Suburban Ghost” prende via via a parlare di “Spring Heeled Jack”; poi, dopo un periodo di calo, un nuovo picco si ha negli anni Quaranta, con apparizioni un po’ ovunque in Inghilterra. Spesso le testimonianze parlano di una figura umana piuttosto robusta, dal sembiante teatralmente demoniaco: occhi fiammeggianti, viso spaventoso sormontato da un elmetto o da corna, mantello nero e artigli affilatissimi di metallo. Si ipotizzerà un improbabile acrobata deforme, o piuttosto un briccone che capitalizza le paure della gente: come un certo aristocratico irlandese eccentrico e propenso a ubriachezze e vandalismi, Henry de la Poer Beresford, terzo marchese di Waterford, che ha occhi bizzarramente sporgenti e – guarda caso – si trova spesso nei paraggi quando Jack si manifesta. Ma se è possibile che lui sia responsabile di alcune comparsate, è un fatto che dopo la sua morte nel 1859 la creatura continui a colpire, fino a ispirare – si dice – la scelta del nome di un più sanguinario epigono, lo Squartatore. D’altra parte il Saltatore presenta già i connotati di un buon soggetto per isterie di massa: e la sua descrizione vede interessanti punti di contatto con la ben più recente leggenda metropolitana marca USA del Mothman, l’uomo falena, scuro con occhi fiammeggianti e ali non troppo diverse dal mantello del protomodello vittoriano.

Insomma si mobilitano vigilantes e la polizia ce la mette tutta, ma invano: Jack sfugge sempre. Ma nel frattempo del personaggio si stanno impadronendo la carta stampata (tre pamphlet sugli eventi già nel 1838, in seguito vari penny dreadful e romanzi popolari) e il teatro, che amano raffigurarlo con stivali e baffoni. Un nuovo picco di apparizioni si ha con gli anni Settanta: nel 1877 dei soldati gli sparano addosso invano. E se le ultime comparsate si registrano in Inghilterra agli inizi del Novecento (vi riapparirà, secondo alcuni, negli anni Settanta) negli Stati Uniti si sprecheranno denunce tra il 1938 e il 1945. Per la fughe di Dracula Stoker dispone insomma di un ottimo modello.

Comunque, ormai al sicuro in distanza sulla porta spalancata della scuderia, il vampiro – inevitabile pensare al Mefistofele di Irving, con quanto di teatrale ciò comporti – si volta e parla ai suoi nemici:

 

Voi pensate di averla vinta su di me, voi – con quelle pallide facce, lì tutti in fila, come pecore di fronte al macellaio. [“You think to baffle me, you with your pale faces all in a row, like sheep in a butcher’s”: “[…] era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori” è espressione biblica, Is 53, 7]. Ma ve ne pentirete, dal primo all’ultimo! Voi credete di avermi sottratto un luogo dove riposare; ma io ne ho degli altri! E la mia vendetta è appena cominciata! Io vivo nei secoli, e il tempo è dalla mia parte. [Si noti che l’espressione “My revenge is just begun!” – e che connota il classico villain popolare – sembra riferirsi a qualcosa di assai più antico delle manovre dei nostri eroi: di qui lo spazio a infinite letture, ma Stoker lascia il tutto piuttosto generico.] Le donne che voi tutti amate sono già mie; e grazie a loro anche voi e altri come voi sarete presto miei – creature mie, per obbedire ai miei comandi e farsi sciacalli obbedienti quando avrò fame e sete. [“Your girls that you all love are mine already. And through them you and others shall yet be mine, my creatures, to do my bidding and to be my jackals when I want to feed”: Dracula parla di girls, Mina ma anche Lucy, a sbeffeggiarne i partner e fingere d’ignorare il trattamento subito da quest’ultima; e ciò che Jonathan vagheggiava di fare per amore, cioè abbandonarsi al morso di Mina una volta che lei fosse una vampira, Dracula lo vede in funzione strumentale per arricchire le proprie truppe. Se poi, tornando al linguaggio della caccia grossa, Dracula è pantherlike e lion-like, i suoi avversari gli appaiono semplici jackals: forse non tanto in relazione all’idea di obbedienza delle “my creatures” evocata subito prima, quanto al fatto che gli sciacalli campano dei resti lasciati dai grandi predatori. Come i vampiri asserviti, che si nutrono di quanto avanza al loro master.]

 

E con un “Bah!” di sprezzo, varca la soglia della scuderia chiudendosi dentro col catenaccio. Seguirlo lì dentro è molto difficile, e spostandosi verso l’anticamera Van Helsing cerca di sollevare gli animi: hanno imparato parecchio da quell’incontro ravvicinato, e a dispetto delle parole baldanzose Dracula li teme, teme il tempo, teme ciò che (letteralmente) vuole, cioè i suoi stessi bisogni – traduce Lunari – o le privazioni – traduce Saba Sardi (“he fears us. He fears time, he fears want!”). “Non fosse così, perché lui tanta fretta? Anche il tono di sua voce lo tradisce, se mie orecchie non ingannano me. Perché prendere quei soldi?”: e spedisce gli amici, “cacciatori di bestie selvagge” in fretta sulle tracce del Conte, riservandosi il compito di far terra bruciata in quella tana perché Dracula non possa trarne più niente. Raccoglie dunque le monete, preleva i documenti, e il resto lo brucia nel camino.

Arthur e Quincey corrono giù in cortile e Jonathan si cala addirittura dalla finestra, ma ora che riescono a forzare la porta della scuderia non trovano più nulla. Invano Van Helsing e Seward cercano di raccogliere notizie, “le stradine sul retro erano deserte e nessuno lo aveva visto passare”.

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Il Codice Dracula, la bella e le bestie (Victoriana 26) https://www.carmillaonline.com/2019/05/24/il-codice-dracula-la-bella-e-le-bestie-victoriana-26/ Fri, 24 May 2019 21:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52697 di Franco Pezzini

Un paio d’anni fa, iniziava a diffondersi capillarmente tra i cultori del gotico la notizia della scoperta di un misteriosissimo testo, una versione islandese del Dracula in forma di vero e proprio romanzo alternativo. Il quadro si è poi complicato per lo spuntare di una versione ancora diversa, stavolta svedese – o meglio due, come vedremo: e ora, forte di una prima tornata di studi sul complicato caso, l’edizione commentata del testo islandese, fitta di note (anche sui complessi problemi di traduzione dalla lingua dell’isola), appare in un bel volume [...]]]> di Franco Pezzini

Un paio d’anni fa, iniziava a diffondersi capillarmente tra i cultori del gotico la notizia della scoperta di un misteriosissimo testo, una versione islandese del Dracula in forma di vero e proprio romanzo alternativo. Il quadro si è poi complicato per lo spuntare di una versione ancora diversa, stavolta svedese – o meglio due, come vedremo: e ora, forte di una prima tornata di studi sul complicato caso, l’edizione commentata del testo islandese, fitta di note (anche sui complessi problemi di traduzione dalla lingua dell’isola), appare in un bel volume per i tipi Carbonio.

Il concetto di “canone” – nei più vari sensi – implica per esclusione l’idea di altro materiale che, pur trattando il medesimo oggetto, non ne faccia parte: cioè i cosiddetti apocrifi, testi “non autentici” che sviluppano il canone stesso ampliandone l’area o correggendone il tiro. Il concetto, cui si ricorre tradizionalmente a proposito di testi antichi (e in particolare sacri, come gli apocrifi dell’Antico e del Nuovo Testamento) viene ormai utilizzato anche per la narrativa popolare: si pensi a un caso emblematico, le storie che “continuano” la saga doyliana di Sherlock Holmes. Ma il concetto si può anche ben applicare al Dracula, o meglio alla costellazione canonica che potremmo definire il “Codice Dracula”, da cui si è diramata nel tempo una quantità di apocrifi.

Cercando di fare un po’ d’ordine, il “Codice Dracula” comprende anzitutto le primissime edizioni del romanzo varate da Stoker, con ritocchi e stralci di qualche significato per la trama (per esempio la correzione testuale che differenzia dalla prima edizione inglese 1897 la prima americana, 1899, aprendo alla suggestione che il Conte si nutra anche di sangue maschile, in chiave di potenziale approccio omosessuale). Comprende poi il dattiloscritto originale, con le sue peculiarità rispetto al romanzo edito; il racconto-frammento Dracula’s Guest stralciato dal centinaio di pagine “perdute” a inizio romanzo (o meglio da una protoversione delle medesime); l’adattamento del testo in chiave di lettura drammatica confezionato da Stoker per assicurarsi il copyright; le note preparatorie al romanzo ed eventualmente i pochi scritti in cui l’autore parla del Dracula (un’intervista, un paio di lettere).

Stabilito dunque un canone, altri testi che riguardano quella storia, scritti o integrati da mani diverse ritoccandola, rileggendola sotto una diversa ottica, continuandola con sequel o prequel o comunque riprendendola, ricadono nella categoria dell’apocrifo. Un fenomeno particolarmente lussureggiante nel caso della saga stokeriana, tra quelle che più hanno mobilitato epigoni soprattutto a partire dagli anni Settanta. Anche se il concetto di apocrifo va rettamente inteso a proposito delle citate versioni islandese e svedese – tanto più a fronte di echi sensazionalistici del web che non aiutano a percepirne l’autentica natura.

Partiamo dalle informazioni-base: e cioè appunto dal fatto che l’edizione islandese Makt Myrkranna (“Poteri delle tenebre”, a cura di Valdimar Ásmundsson, 1901) e quella svedese Mörkrets Makter (stesso significato, a cura di un misterioso “A-e”, 1899) non sono traduzioni del Dracula che conosciamo ma piuttosto liberissime riscritture, con personaggi e vicende assenti nell’originale, riferimenti specifici alla cultura norrena, un gusto più vivacemente pulp, un erotismo diverso – non maggiore (come talora si trova detto) ma meno nevrotico – e alcuni curiosi ammiccamenti politici. Teniamo presente che il contratto con l’editore Constable non parlava di traduzioni, lasciando mano libera a Stoker di proporre il romanzo al di fuori del Regno Unito e delle Dipendenze della Corona; e dunque a maggior ragione era ammissibile la proposta in altre lingue di testi modificativi.

Dell’edizione islandese era già nota l’introduzione a firma dello stesso Stoker (sull’attribuzione si discute, mancando l’originale inglese, ma si propende per un’autenticità almeno di base), a causa di alcune bizzarrie contenute. Anzitutto l’affermazione che i fatti riportati sarebbero autentici anche se l’interpretazione potrebbe essere diversa; la menzione di alcuni delitti avvenuti prima di quelli dello Squartatore e in apparenza riconducibili alla serie detta “del Torso del Tamigi” (a partire dal 1887); il riferimento piuttosto criptico a “eminenti personalità straniere” a un certo punto sparite da Londra; la dichiarata familiarità dell’autore e comunque la pretesa realtà delle figure dietro vari personaggi, tra i quali un Thomas Harker dal nome di battesimo stranamente diverso da quello (Jonathan) del romanzo a noi noto.

La stranezza di queste righe era stata insomma da tempo rilevata, ma a un certo punto il fotografo e ricercatore d’arte Hans Corneel De Roos – un appassionato al tema che vanterebbe anche l’identificazione del vero luogo pensato da Stoker per il Castello Dracula e altre scoperte roboanti – si è preso la briga di verificare il testo della presunta “traduzione”. Di qui l’emersione della sua natura autonoma, che ha condotto all’edizione di lingua inglese Powers of Darkness. The Lost Version of Dracula (2017) presentata ora in italiano in forma aggiornata come I poteri delle tenebre. Dracula, il manoscritto ritrovato per i tipi Carbonio (Milano 2019, trad. di Maura Parolini e Matteo Curtoni, pp. 289, euro 16).

Curato dal giornalista e scrittore Valdimar Ásmundsson (1852-1902), Makt Myrkranna compare inizialmente a puntate sul quotidiano Fjallkonan (tra il gennaio 1900 e il marzo 1901) e viene poi subito raccolto in volume. Il testo è lungo quasi la metà del Dracula e risulta un dittico. La Parte I titolata “Il Castello nei Carpazi” – quasi a echeggiare il titolo di un celebre romanzo di Verne –, narrata in soggettiva con scansione diaristica, corrisponde più o meno ai capp. 1-4 dell’originale (in sostanza, il soggiorno di Harker al Castello) ma in realtà è considerevolmente più lunga. Mentre la Parte II scritta in terza persona e divisa in capitoli reinventa tutto il resto in una strana sintesi a tratti un po’ goffa.

Per quanto riguarda invece la versione svedese a cura di un misterioso “A-e” (il giornalista Anders Albert Andersson-Edenberg, 1834-1913?) – o meglio le due versioni, una delle quali abbreviata, riscoperte da Rickard Berghorn proprio sull’onda del clamore per la pista islandese – si attende una traduzione per il pubblico internazionale, anche se qualche informazione ovviamente già circola. Il romanzo appare a puntate in Svezia sul giornale Dagen dal 10 giugno 1899 al 7 febbraio 1900, e contemporaneamente su Aftonbladets Halfvecko-Upplaga dal 16 agosto 1899 al 31 marzo 1900: e per tutta una prima parte il contenuto è uguale. Ma dopo che Harker è fuggito dal castello usando come fune un lenzuolo, Aftonbladets inizia a riassumere, come poi farà la versione islandese che evidentemente ne deriva (va detto che gli studiosi di letteratura islandesi già sospettavano una fonte scandinava). La versione islandese è però ancora più scorciata, e per esempio elimina il personaggio di Renfield che Aftonbladets conservava; per contro presenta autonomi arricchimenti nel segno della saghe norrene (inseriti con ogni evidenza da Ásmundsson, specialista in materia). Per quanto concerne la versione italiana, la prefazione di Dacre Stoker (aprile 2017) è precedente la comprensione del motivo della scorciatura (“Purtroppo è improbabile che scopriremo mai perché Ásmundsson avesse pubblicato Makt Myrkranna in forma abbreviata”, eccetera, p. 18), ma la spiegazione – peraltro ormai circolante tramite il tam-tam del web – è fornita nell’Introduzione di de Roos (9 ottobre 2018).

La versione “completa” del Dagen è lunga quasi il doppio del Dracula canonico, e la portata delle differenze emerge in modo più clamoroso, ma già nell’islandese varie peculiarità spiccano. A parte una serie di cambiamenti nei nomi dei personaggi e la presenza di figure nuove, troviamo una scrittura meno organizzata e letteraria che nel Dracula, e senz’altro più pulp. C’è il Conte che fa commenti grassocci da vecchio libertino sui soggetti di quadri della sua galleria (lasciando turbato il povero ospite), teorizza l’endogamia come più sana dell’esogamia e cita Conan Doyle deliziandosi a pensare ai delitti che vengono perpetrati nel ventre di Londra. Ci sono le sirene del sesso tramite la presenza al castello di una femme fatale – una sola vampira invece di tre – bionda e attraente con vertiginose scollature, che insidia Harker in scene grondanti erotismo fin de siècle. C’è la setta che pratica sacrifici umani sotto il castello ma progetta di espandersi, con Dracula (Draculitz nella svedese) quale gran sacerdote in cappa rossa che ammannisce ragazze ignude a scimmieschi succhiasangue minori. C’è un sottotesto ideologico-politico minaccioso, perché Dracula non vuole spargere solo il vampirismo, ma cospira con potenti di tutto il pianeta per un nuovo ordine mondiale basato su istanze razziali e un diritto fascista del più forte: come appunto sarebbero i vampiri, nuovo step darwinistico di sviluppo (o degenerazione) della razza che sembra prefigurare il nazismo. Il tutto con un sapore di feuilleton e political thriller, a metà tra il monito e una satira grottesca, nerissima.

Le domande aperte sono molte. Anzitutto parrebbe curiosa la costosissima scelta di un lavoro autorale, creativo di “A-e” quando una traduzione del Dracula edito sarebbe stata più economica: la Svezia non aveva ancora aderito alla Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, 1886, e le traduzioni erano spesso abusive. Ma vari elementi fanno pensare all’utilizzo di qualche versione precedente e più grezza del Dracula approntata da Stoker durante gli anni Novanta, poi manipolata (quanto?) dall’editor svedese e in seguito dall’islandese. Alcuni riferimenti – non tutti – potrebbero infatti trovare nessi con idee documentate negli appunti preliminari ma poi non sviluppate nel romanzo-canone (per esempio il fatto che al servizio di Dracula sia una donna muta), oppure presenti in forma sfuggente nel medesimo o nel Dracula’s Guest. A livello esemplificativo, limitiamoci qui a un paio di nodi di particolare interesse partendo dalla versione ora tradotta in italiano.

Il primo riguarda la misteriosa dama bionda che trastulla Thomas Harker al castello, in un tira-e-molla seduttivo assai più prolungato di quanto descritto nel Dracula. Rispetto alle tre colleghe lì presenti, la dama è qui una figura più malinconica e meno esplicitamente predatoria, il che rende persino più difficile all’affascinato Harker il distaccarsene. Per inciso, il riferimento alle vertiginose scollature richiama semplicemente agli abiti del primo Ottocento, considerati scandalosissimi in età vittoriana: non si tratta insomma dei seni pervicacemente all’aria della vampira di Dracula 3D.

Ora, il Conte presenta ad Harker la dama come vedova di un nobiluomo austriaco (p. 120): una scelta geografica non strana, ma neppure scontata per un set transilvano. Però anche nel terzetto di vampire del Dracula canonico la vampira bionda (le altre due sono brune) è identificabile, almeno virtualmente, in una contessa austriaca. Ad Harker ricorda un viso noto che non sa riconoscere, e in effetti – testimonia il dattiloscritto originale del Dracula in una frase poi omessa – si tratterebbe della stessa vampira incontrata presso Monaco la Notte di Valpurga, cioè la stiriana/austriaca Contessa Dolingen del racconto-frammento Dracula’s Guest. Tutto bene? Non tanto, perché l’autore di I poteri delle tenebre non può conoscere il Dracula’s Guest edito solo nel 1914, e neppure il dattiloscritto con la frase che esplicita il nesso (dattiloscritto che avrà una storia tortuosa ma ben difficilmente passa per le mani di autori svedesi o islandesi). Si tratta di un caso? È l’ennesimo richiamo alla Carmilla di Le Fanu (che però è bruna)? O il curatore di I poteri delle tenebre – fin dalla versione svedese – ha avuto per le mani materiale di Stoker che presentava la dama vampira bionda come austriaca (almeno per matrimonio)?

Un secondo esempio riguarda una pagina poco considerata del Dracula canonico. Van Helsing sta cercando di chiarire al discepolo dottor Seward che esistono dimensioni della realtà non facilmente comprensibili: “Conoscete voi tutto quanto di anatomia comparata e potete dire pertanto che in certi uomini esistono qualità di bestie e in certi no?”. Tale la traduzione di Francesco Saba Sardi (Mondadori) per l’originale che suona: “Do you know the altogether of comparative anatomy and can say wherefore the qualities of brutes are in some men, and not in others?”. Dove brutes sta per bestie, bestiacce: in effetti più avanti il termine verrà usato per i pipistrelli. Ma gli uomini-bestia di I poteri delle tenebre – quelli scimmieschi o piuttosto lupeschi che si accaniscono nel tempio sotterraneo su vittime femminili (p. 176) – sono brutes in modo persino più paradigmatico; e vari ritratti del clan Dracula mostrano proprio quei connotati fisici animaleschi (p. 128). Considerando che nei primi progetti lupi e lupi mannari erano molto più presenti che nel Dracula canonico, si è tentati di vedere il riferimento ai brutes come riguardante non solo le connotazioni lupesche del Conte o le sue metamorfosi dirette, ma proprio qualche ipotetica comparsata – in qualche fase della genesi del romanzo – di tali uomini-bestia potenzialmente mutanti, al servizio del Conte e idealmente appartenenti alla sua razza. Per inciso ne I poteri delle tenebre le idee dell’Origine delle specie sono espressamente citate (“Per quello che sono riuscito a capire, nella mente del Conte aleggiava una vaga idea della legge di Darwin, che però lui aveva adattato alla sua maniera”, p. 129): e visto che sulla dialettica evoluzione/involuzione presente nel Dracula Stoker tornerà anche altrove (si pensi a La tana del Verme bianco) non stupirebbe che a condurre all’esito degli uomini-bestia fossero già autentiche suggestioni stokeriane.

Certo, queste restano semplici ipotesi, da avanzare con le cautele del caso. E comunque il ricorso a eventuali materiali dai cassetti di Stoker li vedrebbe modificati, alterati, arricchiti. Per esempio nella versione svedese si cita la cosiddetta “cospirazione orleanista” (in rapporto a presunti piani golpisti del pretendente al trono di Francia Louis Philippe Robert, duca d’Orléans, secondo voci circolanti nel periodo 1898-99, dunque posteriori all’uscita del Dracula) a confermare almeno integrazioni tarde. Del resto, proprio conoscendo una volontà dell’editor di modificare il testo o dando libertà in tal senso, la scelta di Stoker di recuperare dai cassetti una qualche versione vecchia e altrimenti inutilizzabile – invece del romanzo compiuto cui è ormai affezionato – apparirebbe assai più comprensibile. Resta il fatto che il ricorso alla categoria dell’apocrifo richiede in questo caso almeno una certa elasticità e qualche distinguo.

Rimane poi discusso per quali canali il materiale possa arrivare in Svezia (dove gli Stoker avevano amici), e comunque quanto Bram abbia contezza delle singole modifiche apportate. Ma, come evidente dal Dracula canonico e già rilevato dalla critica, l’autore nutre una profonda fascinazione per le antiche storie nordiche; quanto all’Islanda, è al tempo di moda tra gli intellettuali inglesi.

L’ipotesi è insomma che Stoker accetti di proporre una versione dal sapore più pulp – per pragmatismo e necessità economica, anche se un Dracula nelle lingue degli amatissimi vichinghi deve entusiasmarlo –, nello stesso modo in cui Arthur Conan Doyle accetta che le avventure di Holmes vengano alterate da William Gillette a teatro e poi al cinema (fino a far vivere al detective – per dare l’idea della portata della licenza – nientemeno che una tradizionalissima love story).

Chiaramente I poteri delle tenebre non è il Dracula-Director’s Cut di cui si sente talora straparlare. Ma si tratta di una scoperta che arricchisce in modo inatteso il quadro del mito-Dracula, ne sviluppa la dimensione di epopea-labirinto, e spariglia le carte affiancando al canone del romanzo (coi suoi testi-chiave) un proto-apocrifo elusivo e scatenato, con pagine di oscurità nordica di straordinaria suggestione. Un testo insomma godibilissimo, che val la pena leggere.

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Il Conte incubo https://www.carmillaonline.com/2019/02/05/il-conte-incubo/ Tue, 05 Feb 2019 22:08:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51003 di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di chi scrive, Il Conte incubo. Tutto Dracula, volume 1, pp. 544, € 25, Odoya, Bologna 2019. Se ne riporta uno stralcio (con citazioni dal romanzo tratte dall’edizione Feltrinelli 2011 a cura di Luigi Lunari, utilizzata a suo tempo per il corso TuttoDracula, 2012-2014, da cui è “figliato” il presente volume); e un riassunto pare opportuno.

Il giovane avvocato Jonathan Harker, partito per la Transilvania, non sta più dando notizie di sé: ciò che preoccupa la fidanzata Mina, ospite dell’amica benestante Lucy nella località vacanziera [...]]]> di Franco Pezzini

È appena uscito, a cura di chi scrive, Il Conte incubo. Tutto Dracula, volume 1, pp. 544, € 25, Odoya, Bologna 2019. Se ne riporta uno stralcio (con citazioni dal romanzo tratte dall’edizione Feltrinelli 2011 a cura di Luigi Lunari, utilizzata a suo tempo per il corso TuttoDracula, 2012-2014, da cui è “figliato” il presente volume); e un riassunto pare opportuno.

Il giovane avvocato Jonathan Harker, partito per la Transilvania, non sta più dando notizie di sé: ciò che preoccupa la fidanzata Mina, ospite dell’amica benestante Lucy nella località vacanziera di Whitby. Presso una postazione panoramica nel cimitero locale le ragazze si intrattengono con tre vecchietti, molto colpiti dalla bellezza di Lucy (e ispirati a tre vecchi pescatori che proprio a Whitby avevano raccontato a Stoker una serie d’incredibili storie di mare, come sappiamo dalle note dell’autore). Uno di questi, Swales, borbottando come gli omologhi del Muppet Show, se ne esce a beneficio delle ragazze in un’acidula e gigionesca esegesi delle iscrizioni sulle tombe lì attorno. Qualcosa è nell’aria…

 

I segnali del tempo

26 luglio

Torniamo al diario di Mina Murray, che avevamo interrotto con lo spettacolino di Swales quel 1° agosto da intendersi come 25 luglio. E facciamo ritorno alle sue pagine più private, alle considerazioni che il chiacchierare con Lucy davanti ai vecchietti lascia nella penombra del suo cuore.

Mina è molto agitata, e le è di sollievo scrivere il diario, insieme sussurro a se stessa e ascolto, anche per la peculiarità della stenografia (a tornare alle variegate funzioni del registro epistolare). È anzitutto preoccupata per Jonathan. Il gentilissimo Hawkins, il titolare dello studio di Jonathan a cui si era rivolta per notizie, le ha girato un messaggio appena ricevuto dal giovane, una riga dal Castello Dracula in cui il fidanzato accenna solo di essere in partenza (il dattiloscritto originale aggiungeva che probabilmente farà una sosta da qualche parte sulla via del ritorno): “Questo non è da Jonathan e mi mette a disagio”. Ma è preoccupata anche per Lucy: “anche se sta benissimo ha ripreso da un po’ la sua vecchia abitudine di camminare nel sonno”, per cui d’accordo con la madre di lei Mina ogni sera chiuderà a chiave la porta della stanza che le ragazze condividono. “La signora Westenra è convinta che i sonnambuli salgano sui tetti delle case e vadano in giro lungo i bordi dei precipizi, e che poi si sveglino all’improvviso e precipitino giù con un grido che echeggia dappertutto all’intorno”. Anche il padre di Lucy “soffriva dello stesso disturbo”: e qui emergono due temi.

Da un lato iniziamo a renderci conto che in Dracula i genitori latitano. Di quelli di Jonathan non si parlerà mai, e Hawkins ricopre un ruolo in qualche modo paterno; Mina non li ha mai conosciuti, come apprenderemo più avanti. Lucy invece ha una madre, ma piuttosto fragile ed evidentemente vedova… E insomma questa latitanza dei genitori pare un segno dei tempi, in quello scorcio di fine età vittoriana che vede arrivare in rotta di collisione il secolo nuovo: un motivo che non sarà senza conseguenze sul piano della trama.

Il secondo tema è naturalmente quello dei sonnambuli (sleepwalkers), altro topos delle inquietudini romantiche e ulteriore forma dello spossessamento di sé: dopo Harker alle soglie della follia, Seward il mad doctor un po’ sopra le righe e Renfield decisamente pazzo troviamo Lucy sonnambula: come suo padre, e in attesa d’incontrare altri agìti, ossessi posseduti ipnotizzati. Ora, l’uomo di teatro Stoker ricorda ovviamente il sonnambulismo come stazione della follia di Lady Macbeth, forse il peso del tema nel dramma Il principe di Homburg di Heinrich Von Kleist, 1808 e probabilmente l’opera lirica La sonnambula di Vincenzo Bellini, 1831, su libretto di Felice Romani, che a Londra ha fatto furore (ne circola anzi una versione un po’ spuria e parzialmente tradotta in inglese); ma forse anche romanzi come Edgar Huntly, Or, Memoirs of a Sleepwalker di Charles Brockden Brown, 1799, e Tess of the d’Urbervilles di Thomas Hardy, 1891. Non sappiamo invece se Stoker sia a conoscenza del fatto che John William Polidori, il dottore e compagno di viaggio di Byron presente a Villa Diodati nella celebre estate dei mostri (giugno 1816) e autore di “Il vampiro”, si fosse laureato a Edimburgo con una tesi sul sonnambulismo.

Proprio in riferimento ai soggetti in stato di suggestione ipnotica il linguaggio ottocentesco ricorrerà a immagini di ordine meccanico: il suggestionato è paragonato a una macchina e generalmente a un automa – termine che Charcot utilizzerà a proposito delle suggestioni muscolari da lui prodotte sulle isteriche – sottolineando che è in mano a un altro. In quest’ottica patologica, inevitabile per Lucy cadere preda dall’altro che viene. Stoker conduce sul tema letture, e gli appunti sono rivelativi di una serie di connessioni rilevanti per il romanzo. Dal volume di F. C. & J. Rivington, The Theory of Dreams, 1808 (cfr. gli appunti, da “Page 105” a “Pag. 107”), spigola per esempio la citazione di Thomas Browne, Religio Medici, sul sonno come stato tra vita e morte, e quelle di Samuel Garth, The Dispensary (1706) e George Cheyne, The English Malady; or, A Treatise of Nervous Diseases of All Kinds, as Spleen, Vapours, Lowness of Spirits, Hypochondreacal and Hysterical Distempers, etc. (1733) su casi di catalessia (cfr. in particolare quello del Col. Townshend citato da Cheyne, con impressionanti caratteri di morte apparente: cuore inavvertibile, mancanza di respiro ad appannare uno specchio eccetera).

Certo, i pensieri di Lucy sono tutti concentrati sul matrimonio quell’autunno, su “come sarà il suo vestito e […] come dovrà sistemare la casa”: il matrimonio – ora scopriamo qualcosa di più – con il “signor Holmwood, ovvero l’Hon. Arthur Holmwood, figlio unico di Lord Godalming”. E Mina, che pure la capisce, perché anche lei sogna il matrimonio, non può che constatare la diversa situazione: visto “che io e Jonathan cominceremo la nostra vita in tutta modestia, badando soprattutto a far quadrare i conti”.

Anzi, Arthur verrà di lì a poco, “non appena potrà lasciare la città, perché suo padre non sta molto bene”: un altro segno di crisi del mondo dei genitori che a un certo punto spariranno all’improvviso, lasciando alla nuova generazione la necessità di sostituirli con padri putativi. Cioè, per intenderci, Dracula e Van Helsing.

 

27 luglio

Cioè un giorno dopo. “Nessuna notizia di Jonathan”, Mina è sempre più preoccupata. Come se non bastasse,

Lucy cammina nel sonno come non mai, e ogni notte vengo svegliata da lei che gira per la stanza. Fortunatamente, fa così caldo che non può prendere freddo. […] Grazie a Dio, la salute di Lucy regge. Il signor Holmwood è stato chiamato improvvisamente a Ring, dove suo padre si è seriamente ammalato.

Lucy frigge per questo rinvio del loro incontro, ma la cosa non ha conseguenze sul suo aspetto. Si è irrobustita un filino, e le sue guance sono sempre di un delizioso rosato. Ha perso quel suo aspetto un po’ anemico. Spero che duri.

Insieme all’aggravarsi della crisi dei padri, inizia qui a profilarsi un altro tema, quello della donna sofferente. Anemica, come vittima di un vampiro: e se ora sta meglio, il suo rigoglio è ancora e sempre nel segno della vanitas, il “delizioso rosato” che prelude alla sfioritura. “Spero che duri”: e infatti il lettore (anche chi, come i primi, non sa cosa accadrà a Lucy) coglie già un retrogusto amaro, a preludere a quel tema della donna inferma – poi morente e infine stesa nella bara, una sequenza di fortissimo impatto nell’arte dell’epoca – che più avanti troverà sviluppo.

 

 

3 agosto

Sono passati altri giorni, Mina è sempre più preoccupata per Jonathan, spera non sia ammalato: “Penso alla sua ultima lettera, che però non mi basta. Non sembra neanche sua, eppure la calligrafia è quella. Su questo non c’è dubbio”: un’ulteriore variante sul tema della crisi nella comunicazione, perché a volte la lingua e la grafia si capiscono, ma è qualcos’altro a restare impenetrabile.

“In quest’ultima settimana Lucy non ha camminato molto nel sonno, ma c’è in lei una strana concentrazione e anche quando dorme sembra che mi osservi”: non solo Renfield [il folle della clinica psichiatrica del dottor Seward] è sotto osservazione, ma come per una forma di contaminazione anche Lucy diventa una “paziente”, e svela un atteggiamento quasi vampirico (si pensi all’immagine incontrata in precedenza di Dracula quiescente ma obliquamente vigile). “Prova la maniglia della porta, ma trovandola chiusa si aggira per la stanza in cerca della chiave”, quasi a vivere in termini di mimesi e proiezione per la sua compagna di stanza la disperata ricerca delle chiavi del castello da parte di Jonathan.

 

6 agosto

“Altri tre giorni, e nessuna notizia. Questo silenzio si sta facendo terribile”: la crisi della comunicazione – di Jonathan non si sa più nulla – sembra investir qui la stessa struttura narrativa, una provocatoria mancanza di epistole in un romanzo epistolare. Inevitabile pensare all’immagine bellissima del Nosferatu di Murnau in cui Ellen siede tra le dune punteggiate di tombe, davanti al mare, attendendo notizie sul ritorno del marito.

Se Mina prega che Dio la renda paziente, “Lucy è più eccitabile che mai, ma per il resto sta bene”: ancora una volta sembra di sentir parlare Seward di Renfield. Come del resto via via vedremo, il profilo di Lucy flirta e poi accederà pienamente alla condizione dell’isterica secondo le categorie mediche del tempo.

“Ieri sera c’era un’atmosfera pesantissima e minacciosa, e i pescatori dicono che siamo lì lì per una tempesta”: a preparare l’evento del capitolo successivo. A incombere è una tempesta che non si consuma in un puro dato meteorologico, accedendo a una dimensione simbolica e archetipica in tutto il ventaglio delle possibili implicazioni. “Devo cercare di osservare e di imparare a conoscere i segnali del tempo”, registra Mina, nella sua profondità di persona che osserva e medita: quei veri e propri segni dei tempi di una crisi epocale che dal profondo delle singole vite è pronta a dilagare nella storia.

Oggi è una giornata grigia, e mentre scrivo il sole si nasconde dietro spesse nuvole, alte sopra il Kettleness. Tutto è grigio – eccetto l’erba verde, che vi si staglia come uno smeraldo; grigia la roccia terrosa, grigie le nuvole, che sfumano ai bordi estremi nella luce del sole, e che gravano sul mare grigio, sul quale le lingue di sabbia si allungano come altrettante dita [quasi a predefinire visionariamente quell’icona espressionista della mano artigliante che verrà riconosciuta di lì a qualche decennio come archetipo di minaccia]. Il mare si accalca sopra le secche e sulle lingue di sabbia con un ruggito, attutito dalle nebbie che muovono dalla terraferma. L’orizzonte si perde in una grigia foschia. In questa grandiosità, le nubi si accumulano come rocce giganti, e dal mare si intende un brontolio che suona come un presagio di morte. Qua e là sulla spiaggia si intravedono delle figure, quasi avvolte in un sudario di nebbia, che paiono “uomini come alberi che camminano”. I pescherecci si affrettano per tornare a casa, e salgono e sprofondano tra le onde mentre imboccano il porto, piegati fino alle murate.

Una pagina bellissima, che non si consuma nella fascinazione romantica a effetto ma dice molto di un clima interiore. E in effetti qui Stoker importa nel testo quasi alla lettera un proprio appunto 11 agosto 1890 (“Page 70”). Dove badiamo a quegli “uomini come alberi che camminano”, espressione che richiama proprio un’osservazione di Stoker, di eco evangelica (cfr. Mc 8,24, l’episodio del cieco di Betsaida che risanato da Gesù e vedendo per la prima volta ha proprio questa sensazione) e insieme teatrale (la profezia del bosco di Birnam nel Macbeth). A evocare da entrambi i fronti l’irruzione del paradosso nelle categorie di chi vede: come l’albero, il morto dovrebbe star fermo. Ma insieme a veicolare una serie di implicazioni: il tema degli occhi che si aprono, perché Mina si troverà a conoscere attraverso le vicende del Dracula una sorta di illuminazione a dimensioni inimmaginate delle realtà; il tema di una minaccia appunto inimmaginata e incombente da parte di un nemico in avvicinamento, un tiranno; e in entrambi i casi (il miracolo, la profezia) riguarda in qualche modo il sovrannaturale.

Insomma, in questo grigiore inquietantemente profetico, occorre proprio che Mina impari a riconoscere i segnali del tempo: a partire da quello meteorologico che in effetti verrà inflenzato dal vampiro.

Ma ecco arrivare Swales, che ora con modi mutati e molto gentile spiega che vorrebbe dirle una cosa: e Mina gli prende la mano. Lui, mesto e imbarazzato, spiega allora di temere d’averla scandalizzata con tutte le cattiverie dette in quel periodo a proposito dei morti. “Ma non parlavo sul serio, e voglio che ve lo ricordiate bene quando me ne sarò andato”. Spiega che alla morte chi è vecchio non ama pensarci, ma non fa paura e riderne aiuta a tirarsi su di morale: e “io ai cento gli son tanto vicino che già vedo lo Scheletro che affila la falce. […] Un giorno o l’altro dei prossimi l’Angelo della Morte suonerà la tromba per me” (pensiamo anche qui alle immagini di morte della Ballata del vecchio marinaio). Poi, visto che Mina si sta commuovendo, la esorta a non piangere per lui:

se anche venisse stanotte, io non marcherò visita. Perché la vita, tutto sommato, è solo un aspettare qualcos’altro rispetto a quello che stiamo facendo, e la morte è l’unica cosa su cui possiamo contare senz’altro. Ma a me va bene che venga, mia carina, e che venga presto. Magari viene che noi siam qui che guardiamo e ci domandiamo quando. Magari è là, in quel vento in mezzo al mare che sta portando disgrazie e naufragi, dolore e basta! Guardate! Guardate!’ ha gridato improvvisamente, ‘c’è qualcosa in quel vento e nella sua voce che canta, e sembra, e ha l’odore, e il sapore della morte. È nell’aria. Lo sento che viene. Signore, fa’ che io risponda con cuore sereno quando sarò chiamato!’ Ha sollevato in un gesto devoto le braccia, e poi si è tolto il cappello. Le sue labbra si muovevano come se stesse pregando. Dopo pochi minuti di silenzio, si è alzato, mi ha stretto la mano, mi ha benedetto, mi ha detto addio e zoppicando se ne è andato. Tutto questo mi ha commosso e mi ha molto sconvolta.

Mina in precedenza aveva detto, sia pure con espressione scherzosa, che il signor Swales è l’Oracolo dei vecchietti: e in effetti qui eccolo presentire la natura mortifera di ciò che si sta avvicinando. Ma in realtà Swales rappresenta un’altra delle figure “simmetriche” del Dracula, nel suo caso rispetto a Renfield, e non a caso appaiono presentati a poca distanza uno dall’altro. Entrambi infatti interagiscono con Mina e ne vengono “convertiti”, ed entrambi verranno uccisi da Dracula; ma uno, Swales, parla sempre di morte, e l’altro, Renfield, sempre di vita. Swales è l’Oracolo dei vecchietti, Renfield come vedremo il veggente dell’Anticristo.

A distrarre Mina arriva il guardacoste, tenendo d’occhio una strana nave. La riconosce per russa, ma si sta muovendo – spiega – in modo stranissimo, senza saper decidersi se far rotta a nord o riparare lì. Il pilota pare impazzito, sembra che il timone non faccia niente, “e la nave si volta dappertutto a ogni sbuffo di vento. Ne sentiremo altre sul suo conto, entro domani a quest’ora”.

 

 

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Occidente lunare https://www.carmillaonline.com/2018/08/14/occidente-lunare/ Tue, 14 Aug 2018 21:41:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47992 di Franco Pezzini

Tale è la mente degli uomini sulla terra, quale è la giornata che loro invia il padre degli dei e dei mortali. (Odissea 18, 136-7)

Fa uno strano effetto recarsi ai Bray Studios, nel profondo della campagna inglese. Se in tempi recenti è stato possibile accedere all’interno solo in speciali occasioni memoriali (e con le nuove destinazioni immobiliari è difficile comprendere cosa sarà dell’area), anche il semplice colpo d’occhio sull’ingresso può emozionare chi ami il cinema popolare: da quel cancello degli studios (un tempo) della casa di produzione Hammer sono [...]]]> di Franco Pezzini

Tale è la mente degli uomini sulla terra, quale è la giornata che loro invia il padre degli dei e dei mortali. (Odissea 18, 136-7)

Fa uno strano effetto recarsi ai Bray Studios, nel profondo della campagna inglese. Se in tempi recenti è stato possibile accedere all’interno solo in speciali occasioni memoriali (e con le nuove destinazioni immobiliari è difficile comprendere cosa sarà dell’area), anche il semplice colpo d’occhio sull’ingresso può emozionare chi ami il cinema popolare: da quel cancello degli studios (un tempo) della casa di produzione Hammer sono passati personaggi che hanno modellato in modo impressionante il nostro orizzonte immaginale, muovendo archetipi e dinamizzando strutture mitiche. A partire dai quattro moschettieri che sotto i vessilli Hammer hanno segnato in modo più evidente – senza far torto a tutti i compagni nelle retrovie produttive, organizzative e di collaborazione artistica – la rinascita del gotico/horror alla fine degli anni Cinquanta. Cioè il regista Terence Fisher (1904-1980), col suo immaginario vittoriano, la fascinazione per la Scienza e l’approccio allusivo che evoca senza mostrare; lo sceneggiatore Jimmy Sangster (1927-2011), il cui stile sogghignante svela dall’inizio una potente carica critica; e soprattutto i due interpreti Peter Cushing (1913-1994), già divo del piccolo schermo, la cui carriera conosce al tempo una nuova nascita nel segno del gotico, e l’allora quasi esordiente – aveva avuto in precedenza solo piccole parti – Christopher Lee (1922-2015).

Il fatto è che il peso di quell’epopea, avviata nel 1957 con La maschera di Frankenstein e subito dopo – stessa squadra, sull’onda dell’enorme successo di pubblico – dall’ancor più fortunato Dracula il vampiro del 1958, non tocca solo la storia del cinema fantastico. Attraverso un complesso interscambio con fenomeni culturali, economici e sociali di vario genere, in un Occidente che sta uscendo dai postumi del Secondo conflitto mondiale e fa i conti con la Guerra fredda, la Hammer si pone come un potente motore di quella riscoperta del linguaggio dell’insolito, del gotico e dell’occulto che influenzerà ad ampio raggio non solo la fiction popolare – e i relativi studi – ma letteratura e arte “canonizzati” e più in generale il modo di comunicare e pensare in tutto l’Occidente. Un fenomeno che, fermentato lungo il corso degli anni Sessanta, condurrà alla fine del decennio in tutto l’Occidente al grande revival magico, spesso in chiave antiautoritaria (a sfatare un po’ la vulgata che abbina magia e pensiero reazionario) e con declinazioni – va detto – anche bizzarre. Se poi in questione è un orizzonte (come detto) occidentale, soprattutto del Vecchio Mondo ma con impatto potente in quegli Stati Uniti che per anni lasciano all’Inghilterra il timone dell’immaginario gotico, occorre considerare che le ripercussioni saranno planetarie. L’influsso per esempio sul fantastico dell’Oriente, anche estremo, sarà avvertibilissimo.

A ricordarci topoi, impatto e sviluppi di questa mitopoiesi sono oggi due studi straordinari, usciti a un po’ di mesi l’uno dall’altro e di diverso taglio, ma che idealmente si integrano: due volumi varati con rigore e passione – ben avvertibile, il che è sempre una marcia in più – da specialisti riconosciuti e destinati, per la loro ricchezza, a restare punti di riferimento e basi ineludibili da cui partire per successive ricerche.

Il primo e più recente, a firma di un’autorità nel campo degli studi sulla teratologia sociale, Fabio Giovannini, è il monumentale Dracula il vampiro. Il capolavoro gotico della Hammer 60 anni dopo, volume autoprodotto a tiratura limitata (2018, pp. 363, euro 49, cfr. sito), perché “nessuno degli editori con cui sono in contatto o collaboro abitualmente avrebbe mai pubblicato un volume illustrato, di molte pagine, tutto a colori e con le caratteristiche che desideravo”. Il risultato è una festa dell’immaginazione gotica in otto capitoli più introduzione e allegati, con un corpo impressionante di foto – da quelle più note alle rarissime –, una esaustiva presentazione del film, la sceneggiatura comprensiva di scene rimosse o invece aggiunte rispetto al testo originale, il cineromanzo trattone, un commento puntuale alle scene e poi uno generale, più tutto il resto che si può chiedere su una pellicola. Informazioni sugli attori e sulla scenografia, sulla critica, i flani e il merchandising… Un regalo che l’autore si fa per i suoi sessant’anni, quelli del film e la sessantina di pubblicazioni al suo attivo, a celebrare l’opera che anche più profondamente de La maschera di Frankenstein dell’anno prima ha segnato l’avvio di un fenomeno di massa: basti pensare che Lee, già imbastito nel trucco “da incidente stradale” della Creatura di Frankenstein (mancavano i diritti sul classico make-up Universal costruito da Jack Pierce) ora nei panni del Conte può mostrare tutta la sua eleganza da danzatore, torrida seduttività e aristocratica distanza. Se d’altra parte nella rivisitazione della storia di Frankenstein si aveva già il botto del gotico (la Hammer aveva varato fino a quel punto solidi film di fantascienza, ma negli anni Cinquanta le fantasie gotiche erano state in generale abbandonate dal cinema un po’ in tutto l’Occidente), con Dracula il vampiro irrompe il sovrannaturale e quell’occulto – con richiami sempre più avvertibili al pagano e al magico – che poi emergerà per mille rivoli. Quella che oggi è uso chiamare occulture.

Come ricorda una delle frasi un po’ enigmatiche del disegno ad anelli concentrici sul pavimento della biblioteca dove si consuma la distruzione di Dracula, “Tale è la mente degli uomini sulla terra, quale è la giornata che loro invia il padre degli dei e dei mortali” (Odissea 18, 136-7: nel disegno il testo è in greco). Come a dire che la giornata che sorge a Bray, quella idealmente degli anni Sessanta coi demoni e dei del pandemonium Hammer, impatta sulle menti di uomini che si affannano a proclamarsi moderni, baloccandosi anche con l’atomica, per riscoprirsi affascinati da un mondo mitico-magico ancora dotato evidentemente di buone ragioni simboliche.

Giovannini si basa su una bibliografia molto ampia – e penso, oltre ai libri, alla quantità di articoli su riviste. Tra i volumi citati mi fa però piacere ricordare un testo solido, completissimo e relativamente recente di Stefano Leonforte, A qualcuno piace l’horror. Il cinema della Hammer Films (Leima, Palermo 2014) che oltre a ricordare per ariosità di formato il volume recensito, permette di collocarne l’oggetto in una più generale galleria di titoli.

Al di là dell’estrema godibilità, la summa di Giovannini sul film del ’58 non si consuma nell’orizzonte del puro fandom; e addentrandoci nel dedalo di suggestioni che propone ci imbattiamo in una quantità di indicatori di un’epoca (l’immaginario visivo e il nuovo uso del colore, la dimensione musicale, i rapporti con la censura…) e insieme di provocazioni verso gli anni che verranno. Inizia in sostanza l’età del Swinging Gothic in cui s’incrociano mantelli di Dracula e minigonne alla Carnaby Street, vertigini della modernità e vaghe nostalgie imperiali; sesso e sangue – mostrati e soprattutto allusi – vengono celebrati nell’ambito di film-liturgie con un linguaggio rituale molto articolato, in cui il pubblico partecipa (oltre lo schermo, come da un palco teatrale o sulle panche di un tempio) delle trasgressioni del Conte e dell’affidabile maturità del suo avversario; e il pubblico – compresi i giovani come nuovo target di riferimento, da cui suggestioni iniziatiche del rito – torna a interessarsi in via derivata di un certo tipo di narrativa che pareva aver perso appeal. In particolare Dracula il vampiro si pone come causa principale del boom orrifico e specificamente vampirico dei primi anni Sessanta: anche in termini di fiction e saggistica, e si pensi alle scampagnate vampiriche di Tony Faivre, Ornella Volta, Valerio Riva, Emilio De’ Rossignoli. Ed è qui che passiamo al secondo volume.

Fabio Camilletti, professore associato e Reader a Warwick ha nel giro di pochi anni pubblicato non solo ottime curatele di classici gotici ma illuminanti studi saggistici e anche testi divulgativi di qualità come una Guida alla letteratura gotica per Odoya (Bologna 2018). Il suo terreno è la letteratura e il suo nuovo volume Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto (Lang, Oxford-Bern-Berlin-Bruxelles-New York-Wien 2018, pp. X-248, euro 51,47) è anzitutto un grande saggio di letteratura; ma non solo, perché le spettro è più ampio, e nei quattro capitoli più introduzione e conclusione troviamo cinema, studi sociali e un po’ di storia contemporanea. Si tratta di uno studio pionieristico (soprattutto le conclusioni potrebbero figliare parecchi altri volumi) ma con una compattezza e una ricchezza d’analisi che lo rendono fin d’ora preziosissimo.

Camilletti prende le mosse da un prodotto televisivo italico, cioè Il Segno del comando del 1971: un prodotto popolare di ottimo livello e dalla complessa genesi che si colloca al termine di quella stagione dei Sessanta che il Dracula di Fisher preparava. Dalle suggestioni occulte di quegli anni – nei due sensi, quello magico e quello poliziesco-spionistico (trame, servizi, golpe, Italia dei misteri e quant’altro) Il Segno del comando è epifania e metafora: e di qui un carotaggio nella cultura a monte per identificare una serie di radici di quest’Italia “lunare”.

Il panorama è ricchissimo, e l’autore segue quattro principali piste immaginali. Anzitutto (non a caso) il vampirismo tra Landolfi e Valerio Riva, Ornella Volta e De Rossignoli, Scerbanenco e i film di Polselli, Bava e Mastrocinque, ad analizzare le ricadute nostrane di un mito che al tempo spiazza i critici. Quindi i fantasmi: ed ecco entrare in gioco Fruttero e Lucentini (partendo dalla straordinaria antologia Storie di fantasmi, Einaudi 1960) e poi Soldati e Pitigrilli, Rol e tutta la stagione di una ghost story italicissima, nel complesso poco nota al grande pubblico odierno ma spesso qualitativamente alta, coi suoi perturbanti e perturbati. Si passa poi all’Italia dei dannati tra Charles Fort, Pauwels e Bergier, Folk Horror, Urban Wyrd e quel concetto di insolito che trova in Buzzati un grande anfitrione, in De Martino e Ginzburg studiosi d’eccezione e in Talamonti e Inardi curiosi repertoriatori. Fino al quarto tema, il demoniaco, alla luce livida del Toby Dammit riletto da Fellini e Bernardino Zapponi e delle risposte pontificie di quattro anni dopo. A quel punto Il Segno del comando “segna anche il momento in cui l’‘Italia dei misteri’ delle ‘Guide’ Sugar e dei vagabondaggi di Buzzati e Fellini lascia il posto a ‘misteri d’Italia’ di natura ben diversa”, nel segno del potere (il “comando”) e dei suoi giochi spregiudicati: dove i nessi tra paradigma esoterico – con quanto di paranoia implichi – e complottismo politico trovano rapporti in realtà concretissimi.

Di qui vicende che purtroppo conosciamo, compreso quel caso Pinelli che ha visto spesso il palazzo della questura presentato come sorta d’inconoscibile spazio gotico (con patologie misteriose come il malore attivo – prima considerazione del recensore), dunque con buona pace dei tentativi di avere giustizia (meglio pacificazioni senza verità scomode, e l’Italia-mamma ha riportato tanta bella concordia – seconda considerazione del recensore). È insomma “possibile che prodotti culturali come Il Segno del comando […] intercettino un preciso clima politico-sociale piuttosto che essere, rispetto a esso, strumenti di evasione”, disseppellendo “in pieno 1971, la capacità del gotico di afferrare obliquamente le tensioni e i conflitti di una società che si percepisce sempre di più alienata rispetto al ‘Palazzo’”.

D’altronde (come ben mostra l’autore) il gotico va “letto”, e la sua fittizia narrazione del passato in realtà parla del presente, di tutti i “presenti” che via via scorrono; ed è vero che a volte pare di trovarsi collettivamente in un romanzo gotico di cattiva qualità. In un castello d’Otranto dove l’occulto è spesso solo ciò che non si vuol vedere: e vengono in mente altre letture recenti che aiutano a guardare dietro quel velo di Pulcinella. Le impressionanti pagine di Vittorio Coco, Polizie speciali. Dal fascismo alla repubblica (Laterza, Bari-Roma 2017) e Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana (Einaudi, Torino 2017) mostrano per esempio con chiarezza il pacifico e anzi onorato perpetuarsi di personale fascistissimo nell’amministrazione repubblicana, dove l’epurazione è stata limitata: e questi personaggi hanno avuto tutto il tempo di selezionare propri simili, perpetuare convinzioni mentalità atteggiamenti, e relativizzare valori (presuntamente) condivisi. Solo un tassello nell’Italia di misteri tra i decenni Sessanta e Settanta, ma che può dire qualcosa su quel passato e per li rami ancora su un certo fetore del nostro presente.

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