Doris Lessing – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Su “Se camminare fa troppo rumore” di Giusi D’Urso https://www.carmillaonline.com/2024/07/16/su-se-camminare-fa-troppo-rumore-di-giusi-durso/ Tue, 16 Jul 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83433 di Serena Penni

Giusi D’Urso, Se camminare fa troppo rumore, Il ramo e la foglia, Roma, 2024, pp. 224, euro 16,00.

Se camminare fa troppo rumore racconta la storia di un risveglio, di una presa di coscienza dolorosa e faticosa, di un progressivo e inevitabile avvicinamento alla realtà da parte della protagonista, Sofia. Il romanzo è strutturato su un duplice binario: quello del passato e quello del presente narrativo. Nel passato c’è una bambina che nasce e cresce in Sicilia. È inserita in una famiglia apparentemente normale, costituita da un padre, una madre e una nonna. Tutto scorre tranquillo, peccato che i genitori [...]]]> di Serena Penni

Giusi D’Urso, Se camminare fa troppo rumore, Il ramo e la foglia, Roma, 2024, pp. 224, euro 16,00.

Se camminare fa troppo rumore racconta la storia di un risveglio, di una presa di coscienza dolorosa e faticosa, di un progressivo e inevitabile avvicinamento alla realtà da parte della protagonista, Sofia.
Il romanzo è strutturato su un duplice binario: quello del passato e quello del presente narrativo. Nel passato c’è una bambina che nasce e cresce in Sicilia. È inserita in una famiglia apparentemente normale, costituita da un padre, una madre e una nonna. Tutto scorre tranquillo, peccato che i genitori ogni tanto giochino in un modo un po’ troppo rumoroso, che il padre scherzi alzando un po’ troppo la voce, che un occhio della madre ogni tanto, come per magia, si tinga di azzurro, costringendola a truccare anche l’altro con un ombretto dello stesso colore, per amore di simmetria ma soprattutto per dare l’impressione che il suo sia “un matrimonio per bene”, volendo dirla con Doris Lessing.

Come tutti i bambini, Sofia va a scuola e qui si imbatte in Filomena, bruna, alta e sgraziata: tanto Sofia è studentessa modello, quanto Filomena appare negata per la scrittura, la lettura e, insomma, ogni attività di tipo didattico. Ma tra le due nasce un legame profondo, che va ben oltre le differenze anzi, che proprio delle differenze sembra nutrirsi. Un legame che non piace agli adulti, specialmente ai familiari di Sofia, le cui frasi a mezza voce giungono alle orecchie della bambina senza che lei le possa davvero comprendere, ma lasciandole addosso un senso di mistero e di oscura fatalità. Un legame di cui solo alla fine del romanzo capiremo il valore e la portata.

L’adolescenza di Sofia è segnata dall’improvviso trasferimento a Pisa – e il romanzo si apre proprio con la descrizione di questa città, vista con gli occhi di una ragazza fragile e sensibile, capace di coglierne la bellezza ma anche l’estraneità. Anche il mistero del trasferimento, così come quello del legame con Filomena, osteggiato dagli adulti, si chiarirà alla fine della narrazione, quando tutti i pezzi del puzzle torneranno al loro posto.

Sofia cresce e si iscrive alla facoltà di medicina. Con il passare del tempo, le dinamiche di sopraffazione che infestano la sua famiglia le divengono tristemente chiare: capisce la violenza del padre, l’ombretto azzurro della madre. I fantasmi del passato e del presente salgono in superficie, ben simboleggiati dalle scutigere, insetti striscianti richiamati dall’umidità, che popolano la vita e soprattutto l’immaginazione di Sofia. Alla madre, la giovane cerca di aprire gli occhi. Ma la donna sulle prime non accetta la realtà, di cui tuttavia è la prima vittima. È troppo attaccata a un’idea, soprattutto, è troppo attaccata al gioco dei ruoli per potersene liberare. Lo farà solo gradualmente, e mai del tutto. Assai interessante appare l’evoluzione del personaggio del padre di Sofia, o meglio, dell’immagine che la protagonista ha di lui. Se da bambina, come ogni figlia, lo idealizza, da ragazza ne scopre l’aggressività e la natura di essere fallimentare. Non tanto e non solo perché l’uomo è un artista mancato, ma perché non accetta di esserlo. anzi, mette in atto una forma di autodifesa che gli impedisce persino di rendersene conto, dirottando la sua rabbia altrove. Poi, Sofia arriva a vedere in lui un uomo malato – la malattia psichica, da sempre latente, si rivela a un tratto in tutta la sua gravità, seguita poi – e non sembra essere un caso – da quella fisica, descritta come terribile, degradante, invalidante. È forse l’ultimo strumento, attivato inconsapevolmente da parte dell’uomo, per tenere legata a sé una moglie che, seppure a fatica, ha preso emotivamente le distanze da lui.

L’amicizia tra Sofia e Filomena non si interrompe con la partenza della prima per Pisa anzi, sembra quasi rafforzarsi, perché ognuna trova nell’altra un antidoto alla propria solitudine: le due instaurano un rapporto epistolare in cui entrambe riversano le loro esperienze quotidiane ma soprattutto i loro sogni, le aspirazioni, le paure, i desideri di fuga. Poi, un bel giorno, quando si rivedono per via di una visita di Sofia in Sicilia, la protagonista rovescia addosso all’amica d’infanzia un’enorme quantità di veleno, rimanendone essa stessa colpita e turbata. Si rivedranno solo da adulte, quando Sofia ritroverà l’amica incastrata in una vita infelice, costellata di affetti che sono tali solo in apparenza e in cui nessuno dei suoi sogni di bambina, come era prevedibile, si è realizzato. Una vita che avrà un epilogo drammatico, facendo di Filomena l’ennesima Emma Bovary, vittima senz’altro delle proprie stesse aspirazioni, ma anche di un entourage crudele e maschilista, in cui vige la legge del più forte e in cui i deboli non possono che essere divorati dai forti, lasciando in chi resta inutili rimpianti e sensi di colpa.

Tutto questo riguarda il passato. Nel suo presente, Sofia si trova in un luogo non ben definito ma che, sin dalle prime pagine, intuiamo trattarsi di un ospedale psichiatrico. Il tempo è scandito dai pasti accolti senza entusiasmo, dalla luce flebile che filtra dalla finestra ma soprattutto dal dialogo con un uomo che, al pari del luogo, non è classificato ma che sembra trattarsi di uno psichiatra. È lui che, attraverso le sue domande, fa riemergere in Sofia un passato in buona parte doloroso, per lo più privo di amore e intriso di buchi neri. Sarà lui, infine, a portare Sofia a ricordare il legame che la univa a Filomena, la sua tragica presa di coscienza di esso, il bagaglio di non detti e di atti colpevoli che tale legame portava con sé. Sarà quest’uomo a permettere a Sofia di ricordare di avere, all’improvviso, visto la propria madre sotto una luce nuova, che le era intollerabile. Sarà lui a permettere a Sofia di ricordare il gesto che l’ha portata in quel luogo di cura, sì, ma anche di reclusione e dunque, paradossalmente, sarà proprio lui a liberarla.

Se camminare fa troppo rumore è un romanzo che parla di amicizia, di legami familiari, di malattia mentale, di violenza di genere, di dipendenze affettive e ancora di molto altro. L’autrice riesce a tenere il lettore incollato al libro pagina dopo pagina, grazie alla sua indubbia capacità di creare suspence, attesa, desiderio di scoprire cosa ne è – o cosa ne è stato, o cosa ne sarà – dei personaggi: della protagonista in primis, ma naturalmente non solo, perché chi legge si affeziona anche a coloro che costellano il suo mondo – interiore ed esteriore –, in particolare a Filomena. Quest’ultima appare come una sorta di doppio che non ce l’ha fatta, ma la cui immagine Sofia imparerà finalmente ad accettare, a custodire dentro di sé, per andare avanti come meglio potrà nel cammino accidentato e impervio dell’esistenza.

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Estetiche del potere. Virtualizzazione, estetizzazione, neutralizzazione ed altre patologie virali del Tele-Capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/05/04/estetiche-del-potere-virtualizzazione-estetizzazione-neutralizzazione-ed-patologie-virali-del-tele-capitalismo/ Wed, 04 May 2016 21:30:50 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29579 di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, [...]]]> di Gioacchino Toni

videodrome_tv«L’Intrattenimento è la falsa felicità di una vita che resta noiosa e denegata. L’Informazione è la falsa conoscenza di una realtà che resta oscura e oscenizzata» Carmine Castoro

«Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo» Gilles Deleuze

L’interminabile rappresentazione della politica italiana spettacolarizzata dalla televisione ha, per certi versi, in Tangentopoli il suo intervallo tra la prima e la seconda stagione di una messa in scena seriale televisiva che riprende estetiche della ficiton, del docudrama e del mockumentary. Tangentopoli chiude la prima stagione ed inaugura la seconda. Quest’ultima ha portato come novità principale la virtualizzazione del dissenso della piazza nei confronti del palazzo. I talk show televisivi, l’infotainment in tutte le sue nauseabonde forme, hanno messo in scena un conflitto tra piazza e palazzo che si risolve, alla fine di ogni puntata, nel rassicurante riassorbimento del dissenso all’interno del sistema e ciò avviene, principalmente, grazie ad un nuovo saltimbanco di turno che, di volta in vota, veste il ruolo di “novità antisistemica”. Tale attore cambia nel giro di alcune puntate perché, inevitabilmente, è destinato a dover essere sostituito palesandosi, nel frattempo, e sempre più velocemente, come anch’egli sia espressione del palazzo.

In alcune puntate, tale personaggio, capace di fagocitare l’ostilità nei confronti dell’establishment, può assumere l’immagine dell’uomo che si è fatto da solo mettendo a profitto le potenzialità del tubo catodico, oppure può indossare le vesti di un patetico sempliciotto logorroico ed iperattivo rottamatore capace di alternare il serioso completo d’ordinanza a citazioni giovanilistiche con pantaloni che svelano quattro dita di calze e smartphone sempre col clic in canna. Le nuove puntate della serie dovrebbero offrire nuovi protagonisti. Potrà trattarsi di un personaggio un po’ paonazzo in felpa localistica variabile, con un tablet sottobraccio, di cui probabilmente non ha ancora capito la funzione, ma fa tanto “popolarfuturista”, o di qualche videopredicatore qualunquista che gioca con la tv sulla falsariga del morettiano: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?» (Ecce Bombo, 1978). Tali nuovi personaggi sembrano, in entrambi i casi, più concentrati sul cosa dire per assorbire consenso immediato a buon mercato che non a badare se quel che dicono di pomeriggio è coerente con ciò che hanno affermato di mattino. La sensazione è che la serie sia davvero ormai con l’acqua alla gola e gli sceneggiatori inizino a non sapere più cosa inventarsi per prolungare lo spettacolo se non alternando e miscelando armi di distrazione/seduzione/distruzione di massa, dentro e fuori lo schermo televisivo.

La televisione ha contribuito a trasformare la politica italiana svuotandola, allontanando la gente dalla politica attiva ed, al tempo stesso, ha assunto un ruolo cruciale nel regolamentare la spartizione degli irriducibili e fedeli spettatori tra i nuovi politici cacciatori di “mi piace” utili ormai solo al mantenimento di una narrazione falsamente antisistemica in grado di riassorbire l’ostilità anti-palazzo. Sembra davvero di avere a che fare con un sistema agonizzante, perennemente in attesa di qualche trovata messianica, di un coup de théâtre, a cui non sembrano credere nemmeno i più creativi del palazzo e tutto ciò mentre le scelte politiche ed economiche vengono pianificate da organismi privati totalmente svincolati da una benché minima forma rappresentanza [su Carmilla].

castoro-clinica-tvA proposito del ruolo assunto della televisione in epoca contemporanea è da poco uscito l’interessante saggio di Carmine Castoro, Clinica della TV. I virus del Tele-Capitalismo. Filosofia della Grande Mutazione, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 266 pagine, € 20,00. L’intento del libro è quello di rintracciare ed evidenziare quelle logiche e quelle estetiche che allontano dalla comprensione della realtà in cui si vive. L’autore sostiene la necessità di una nuova ontologia critica dell’immagine in grado di dare autonomia e capacità critica a coscienze ormai abbandonate alle lusinghe del progresso e del benessere neoliberista e Clinica della TV, individuando una decina di “virus” propri del Tele-capitalismo, offre davvero numerosi spunti a proposito del ruolo che tale medium, con inevitabili riferimenti al web, viene ad avere nell’età contemporanea.

A proposito dell’attuale Presidente del Consiglio, protagonista momentaneo della pessima serie tele-politica italiana trasmessa a reti unificate, a cui ci si riferiva in apertura, anche Carmine Castoro, nel suo libro, non manca di segnalare come lo spettacolo sia davvero osceno e si presenti oggi come «un’orgia di slide, selfie, tweet, spending interattive, lavagne informatizzate, open government, e tutta una faraonica azione web-aggressive e, direi io, complexity-resistent, ovvero galoppante sul fronte mediocratico ma resistente all’interezza e alla poliedricità delle questioni sul tappeto, puntata più sulle mirabilie del 2.0 che sulla ruvidezza di una cittadinanza in piena debacle» (p. 61). Ed, ancora, continua l’autore, in Renzi «ogni esternazione è un fritto misto di inflessione toscana, battutine da animatore, metafore calcistiche, magnifiche sorti e progressive, dribbling sofistici, canzonature di disagi e coperture di Grandi Consorterie e volponi da off shore: un tritame disdicevole intriso di pavoneggiamenti sognanti e salmodianti che, ovviamente, dimentica di dissodare le strutture socio-economiche e che passa – suprema beffa – per realpolitik senza macchia e senza paura, mentre è solo il vecchio Ancien Regime smaltato di tele-giovanilismo e tele-ginnastica, parolai e posturali, in una selva di short message e frasi a effetto che sanno solo di dirigismo e auto-incensamento» (p. 62).

Nell’era contemporanea il Potere, sempre più reticolare, non ha interesse a vietare totalmente le notizie ma agisce affinché i media trasmettano un flusso casuale di comunicati decontestualizzati. Il Potere contemporaneo, argomenta Castoro, affianca all’intervento repressivo pratiche di seduzione consumistica, di instupidimento, deprivanti l’essere umano di capacità critica, costruendo uno stato di noia diffusa volto ad allontanare gli individui dall’agire politico. Si tratta, secondo l’autore, di un «tele-potere che meccanizza le nostre risposte, ci abitua al sensazionalismo e a contenuti inutili, neutralizza la forza stridente delle vere notizie che restano quasi sempre nel sottoscala dei tg, ci nega piani d’insieme e spettri allargati per cercare di capire dietro l’episodio occasionale di cronaca, lo scoop stupefacente o gli incontri fra i Grandi della terra, cosa cova, cosa si cela, l’unità di cose lontane, le matrici culturali realmente nuove che potremmo abbracciare a livello mondiale per crescere ed emanciparci tutti» (p. 96). L’effetto auto-determinante dei media, si sostiene nel saggio, consiste «nel dare una patente di ovvietà, necessità e irreversibilità a quella che è solo una, e una soltanto, delle milioni di possibilità di profilare la nostra quotidianità, di tracciare i nostri bisogni, di alzare la temperatura della nostra felicità» (p. 97)

L’informazione veicolata dai media sembra davvero sequestrare gli accadimenti pubblici rendendoci incapaci anche solo di capire se sono davvero successi. Il linguaggio televisivo, nel suo essere linguaggio di potere, assume la forma di sapere, ma si tratta di un sapere parodistico e vuoto che trova giustificazione in se stesso. Castoro sostiene che il fatto che il reale venga istituito attraverso la sua rappresentazione, o che la costruzione del fatto venga operata attraverso il suo racconto mediatico, presuppone la costrizione alla fonte stessa come la condizione a priori di ogni trasmissione di esperienza. Il condizionamento da infrastruttura, secondo l’autore, non è da ricercarsi nella parzialità dei messaggi, ma nella loro modalità. A tal proposito il saggio, riprendendo alcune riflessioni di Carlo Freccero (Televisione, 2013), evidenzia come la verità non risulti più nella rispondenza tra enunciato e realtà ma, piuttosto, nella “correttezza dell’enunciazione”. L’attuale televisione non si preoccupa di dire il vero circa un evento esterno, ma produce una sua verità che il pubblico ha modo di seguire mentre si costruisce in diretta.

In Clinica della TV si sostiene che oggi «il falso non è solo copertura o nascondimento del vero, ma, peggio, auto-determinazione e auto-rafforzamento di una luccicanza tecnologica, di una retorica del visibile così pervasive, credibili, osannate e al di sopra di ogni sospetto, da alimentare i nostri convincimenti più stabili con estrema facilità, fino a far indossare al Reale stesso l’indumento ottico che più serve a difendere taluni profitti privati, e/o orientare le masse verso alcune precise stazioni dell’indottrinamento e dell’illiberalità tout court» (p. 11).

Ciò che viene propinato dai media attrae intorno a qualcosa che risulta del tutto slegato da una corrispondenza oggettiva con la realtà; ciò che viene mostrato è un allestimento, una messa in scena. «Nel Tele-Capitalismo, insomma, la razionalità occidentale gioca il suo punto di svolta fra un rapporto potere-sapere imbastito su verità che hanno origine metafisica o svolgimenti storicistici presupposti certi e indubitabili, e, una volta crollate queste, l’utilizzo di tecniche addomesticanti che si presentano come valori inclusivi e livelli accettati di percezione e comportamento, e con i quali la televisione si incarica di irrigare il mentale e il sociale proprio per esercitare coercizione sulla libera espressione, da sempre ispida e riottosa allo status quo. Quello che Deleuze in una conferenza del 1987 così riassume splendidamente: “Avere un’idea non è dell’ordine della comunicazione… un’informazione è un insieme di parole d’ordine. Quando venite informati, vi dicono ciò che si presume che crederete. In altri termini informare è far circolare una parola d’ordine. Le dichiarazioni della polizia sono chiamate giustamente dei comunicati. Ci comunicano informazione, ci dicono ciò che si presume che possiamo, dobbiamo o siamo tenuti a credere. O anche a non credere, ma facendo come se ci credessimo. Non ci viene chiesto di credere, ma di comportarci come se credessimo… Ciò significa che l’informazione è proprio il sistema del controllo”» (pp. 19-20)

Videodrome99In tv, sostiene Castoro, tutti gli argomenti vengono miniaturizzati e banalizzati, tutta la complessità del reale tende ad essere ridotta a «statistiche di morte, citazioni di somme di danaro investito o meno dallo Stato, resoconti spicci di inviati-attacchini col microfono in mano e inquadrature di file di bare in bella mostra col solito piagnisteo di politici e opinionisti di sottofondo. Qui c’è tutta la potenza di fuoco, la retrattilità elastica di poderose liberalizzazioni nelle parole e nelle immagini, ma coagulate e assoggettate in chiacchiere, flash passeggeri, scalette di notiziari, prosopopee accademiche e telecompassioni da “pomeriggio in famiglia”. Il Tele-Capitalismo è davvero tutto qua, in questa santabarbara di ipocrisie e preconcetti che hanno però il sentore della libertà, l’eco lontana del pluralismo e della polifonia di voci “libere”» (p. 49).

Il saggio, nel passare in rassegna quelle che l’autore individua come dieci patologie virali del Tele-capitalismo, si apre affrontando la logica telecapitalistica della “Mutazione” intesa come «artificializzazione della realtà percepita che acquisisce i connotati dell’innaturale e dell’inappropriato, considerando invece per “natura” e per “proprium” un paesaggio biopolitico realmente condiviso, secondo l’ampiezza e la chiarezza di cause, processi, obiettivi» (p.17).

Un capitolo del libro è dedicato all’importante fenomeno della “Estetizzazione” ed, a tal proposito, si afferma che la logica telecapitalistica prevede un processo di riduzionismo del soggetto attraverso due passaggi: «un’anatomizzazione del “soma” secondo il modello imperativo dell’attrazione, della salute e della prestanza (seni turgidi, addomi piatti, muscoli gonfi, visi lisci, capelli folti, gagliardia motoria etc.) e una esteriorizzazione del “carattere” che deve smussare i suoi deficit, arrotondare il suo porsi, far vedere che il traguardo di massimo successo, l’alleluia di chi osserva, sono sempre prossimi, e che ci si presta senza rammarico al contegno di chi è bendisposto e vuole accedere al dogma mercantile del much expensive e/o del much more» (p. 231).

Nell’affrontare il processo di “Neutralizzazione” Castoro riprende alcune riflessioni di Doris Lessing (Le prigioni che abbiamo dentro, 2010) ed afferma che: «La logica telecapitalistica della neutralizzazione consiste nella positivizzazione di tutto quanto […] Despoti sudamericani o tele-democrazia che si abbiano di fronte, dice a chiare lettere la Lessing: “Il lavaggio del cervello si basa su tre fondamenti o modalità oramai ben noti. La prima è la tensione seguita dal rilassamento. Questa per esempio è la formula usata dagli interrogatori del prigioniero, quando l’inquisitore è alternativamente duro e tenero – prima un sadico, poi un amico gentile. La seconda è la ripetizione: dire o cantare la stessa cosa in continuazione. La terza è l’uso degli slogan, la riduzione di idee complesse a una semplice serie di parole”. Semplicità che nei laboratori delle mnemotecniche e del self-management psicologico viene perseguita come un principio di contabilità vero e proprio per togliere di mezzo tutto quanto è solo esornativo nelle nostre vite» (pp. 219-222).

Un’altra patologia virale indotta dalla televisione è quella che può essere definita come “messa in finzione della realtà” – processo individuato da Marc Augé (La guerra dei sogni) sin dai primi anni Novanta [su Carmilla] – ed a tale questione Castoro dedica il capitolo intitolato “Virtualizzazione”. «La logica telecapitalistica della virtualizzazione è il rischio della sparizione della realtà, della sua fantasmizzazione, e del suo tele-trasporto, quasi sotto banco, verso una sorta di ammortizzazione del reale stesso, che si astrae, si disperde, si interrompe e involve in un universo parallelo» (p. 187).

Trattando il processo di virtualizzazione, è inevitabile che l’autore finisca per estendere il ragionamento al web. Secondo l’autore il virtuale «è come se oscillasse da un lato, in maniera ascensionale, verso un arricchimento della nostra soggettività, delle nostre chance di ri-creare il mondo e i rapporti politici e affettivi che investiamo in esso, attingendo a quella “pratica di vuoto fertile” fatta di “riconoscimenti lievi” e “libera impotenza”, al vuoto come condizione paradossale e tormentosa della creatività, abitare la soglia, “sottrarre dentro” che significa “asciugarsi, divenire sempre più essenziali, vuoti, inesperti”. Dall’altro, verso una sorta di brillamento del reale, come quando si sprigiona sotto controllo l’energia di un ordigno: accensione e abbattimento. E quest’ultimo è l’esatto opposto di un virtuale inteso come anti-conformismo, ironia, rinascenza, sapienza impegnata, astensionismo delle risposte, incursione costante nel possibile, indefinitezza» (p. 187).

Facendo riferimento alla rete, l’autore, riprendendo alcune interessanti riflessioni di Giuliano Santoro (Cervelli sconnessi, 2014), afferma che «“l’intelligenza collettiva” è spesso bypassata dalla “emozione connettiva”, e che questo Sinusoide perverso-partecipativo dei sistemi digitali non può che chiamarsi, per dirla alla Santoro, con l’etichetta di “net-liberismo”. Intendendo con questa targa ideologica la grande trasformazione della Rete all’interno di un sistema socio-economico che avrebbe grazie ad essa incrudelito le sue leggi del profitto, del monopolio, del lavoro schiavistico o sottopagato, dei modelli di rabbonimento/ravvedimento delle masse» (p. 189). Afferma Castoro che sebbene le cause del processo di semplificazione e di ricerca di un facile sensazionalismo non siano da attribuirsi per intero alla smaterializzazione del capitale ed alle possibilità di simultaneità e di condivisione offerte dalla rete, è evidente che «l’utilizzo prevalentemente ludico-gossiparo-distrattivo di un certo linguaggio legato al virtuale non fa che approfondire la barbarie mentale e l’analfabetismo di ritorno, e rendere più caotica e oppressiva quella cortina invisibile di controllo e tele-sorveglianza che ci ha trasformati in cittadini-consumatori da invogliare e spolpare nelle maglie di un mercato sempre più smart» (p. 189).
Se da un lato la rete collega gli individui, dall’altro li mantiene in una situazione di isolamento; individui che cercano riscontri al loro ego attraverso asciutti riconoscimenti rilasciati da amicizie virtuali, di certo non migliorano la loro condizione di solitudine. «Nella società delle iperconnessioni ognuno di noi è agente di polizia mortuaria per l’altro, giudice che “nomina” ed elimina, sicofante e sabotatore perché sia sempre il vicino a fare da parafulmine e da anello debole della catena alimentare del Potere» (p. 191).

Circa le contraddizioni insite nel web, ci sembra valga la pena riprendere un ragionamento di Wu Ming 1, in parte riportato dallo stesso Castoro: «La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto. La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).

Verrebbe da dire che grande è la con-fusione tra dentro e fuori gli schermi ma la situazione è tutt’altro che eccellente: «Da un lato, un virtuale sfilacciato, “democratico” perché di accesso garantito a tutti, splatter di testi e immagini, troppo spesso fasulli e pensati a tavolino; dall’altro un televisivo che ha ancora una funzione accentratrice e che richiede col suo futile organigramma maggioranze silenziose e prone» (p. 194)

clinica-tvCastoro auspica che l’immagine oggi smetta di «ingannare, ingigantire, ingiungere. Ovvero, falsificare accecando l’orizzonte fenomenologico delle cose e delle passioni; ingrandire smisuratamente e senza precipuo valore ciò che meriterebbe di essere odiato, respinto o accantonato; intimare comportamenti, appropriarsi dei nostri strati più profondi, diluire le capacità critiche, implementare il senso della disfatta se non si acconsente a certi status e a certi dispositivi disciplinari sempre vigenti» (p. 10). Da parte nostra, affinché tutto ciò possa accadere, pensiamo occorra che il reale, che, se pure è scomparso dagli schermi, non lo è al di fuori di essi – pur essendosi avviato a quel processo di “messa in finzione” su cui si è speso Marc Augé [su Carmilla] – riprenda il sopravvento ma lo riprenda incanalandosi in una prospettiva volta ad abolire lo stato di cose presente. Solo così l’immagine può smettere di ingannare, ingigantire ed ingiungere. Solo così la politica può tornare ad essere partecipata e non simulata sugli schermi. Solo così l’essere umano può immaginare, prospettare e costruire un futuro alternativo all’esistente.

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Monica Pareschi: traduttrice, editor e scrittrice https://www.carmillaonline.com/2014/06/21/monica-pareschi-traduttrice-editor-scrittrice/ Fri, 20 Jun 2014 22:01:04 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15326 di Roberto Sturm

PareschiSturmMonica Pareschi è una delle più importanti traduttrici italiane e ha tradotto, tra gli altri, autori del calibro di James G. Ballard, Doris Lessing e Bernard Malamud. Lavora nel campo dell’editoria anche come editor freelance e cura una collana di classici femminili per Neri Pozza. Recentemente ha esordito nel campo della narrativa con un’antologia di racconti, edita da Italic Pequod, di qualità sorprendente dal titolo È di vetro quest’aria.

Monica, cosa ti ha spinto al debutto come scrittrice? Credo che per alcuni traduttori tradurre sia come aggirare il problema, come [...]]]> di Roberto Sturm

PareschiSturmMonica Pareschi è una delle più importanti traduttrici italiane e ha tradotto, tra gli altri, autori del calibro di James G. Ballard, Doris Lessing e Bernard Malamud. Lavora nel campo dell’editoria anche come editor freelance e cura una collana di classici femminili per Neri Pozza. Recentemente ha esordito nel campo della narrativa con un’antologia di racconti, edita da Italic Pequod, di qualità sorprendente dal titolo È di vetro quest’aria.

Monica, cosa ti ha spinto al debutto come scrittrice?
Credo che per alcuni traduttori tradurre sia come aggirare il problema, come prendere voce senza essere autorevoli. Conosco anche persone che hanno fatto il percorso inverso, per esempio Tommaso Pincio con cui parlavo pochi giorni fa. I traduttori sono i lettori per eccellenza e credo che spesso siano scrittori mancati o timidi che scrivono con parole altrui: una traduzione letteraria di alto livello s’inscrive nella cifra della scrittura, quindi scambiare le parti ritengo sia una cosa abbastanza naturale. Forse l’aver fatto del tradurre il mio mestiere ha a che fare con il desiderio di scrivere: una cosa un po’ vicaria. Di fatto ho sempre pensato di avere i tic e le idiosincrasie dello scrittore. Un modo esagerato e per certi versi perverso di vedere le cose.
Devo dire che ho cominciato a scrivere con una certa cautela, io sono anche editor, e penso e spero di avere un editor interno che funziona un po’ da super io: mi ritengo una scrittrice molto trattenuta e ciò credo derivi dal fatto che lavoro con le parole. In questi casi forse ci si accosta alla scrittura con una consapevolezza diversa. Con meno libertà, anche.

Quanto conta all’interno della tua attività di scrittrice il lavoro di traduttrice ed editor?
Non vorrei continuare a tradurre a tempo pieno, adesso avrei voglia di scrivere e dedicarmi all’editing, nonostante sia stato difficile pubblicare l’antologia. Gli editori vedono sempre con diffidenza i racconti. Sono belli, mi hanno detto in diversi, ma torna con un romanzo. A me però interessa esplorare questa misura narrativa forse anche perché non troppo pubblicata in Italia. Personalmente sono dubbiosa riguardo alle operazioni editoriali che confezionano un romanzo partendo da una raccolta di racconti. Spesso vedo che certi prodotti editoriali, nati per essere qualcos’altro, vengono trasformati in romanzi ma io non ho voglia di sperimentare questa strada.
Avrei voglia di scrivere, ti dicevo, e staccarmi dalle traduzioni perché noto che occuparmi della lingua altrui disturba la mia scrittura autoriale: oltre alla stanchezza alla fine di una giornata dedicata alla traduzione, ho bisogno di fare silenzio – anche letterario, far tacere la scrittura altrui – per scrivere. Anche perché, per forza di cose, credo, la mia scrittura è comunque molto legata alla mia attività di traduttrice: un’influenza digerita e metabolizzata che proviene dagli autori su cui ho lavorato c’è senz’altro, e io mi sono misurata principalmente con scrittori che hanno una voce molto potente avendo fatto poca gavetta in questo campo. E una voce letterariamente potente occupa molto spazio mentale, creativo, psicologico. Occorre metabolizzarla e, in qualche modo, liberarsene, prima di scrivere qualcosa di originale.

Hai un punto di vista privilegiato per illustrarci lo stato attuale dell’editoria italiana. Crisi persistente, ristagno o parvenza di ripresa?
Sono molto pessimista, mi dispiace. Negli ultimi due anni ho vissuto le cose un po’ più dall’interno rispetto a quando facevo soltanto la traduttrice e vedo un’editoria molto incerta e disordinata nelle proprie scelte, non riesco a individuare delle linee editoriali precise oltre alla corsa al si salvi chi può. Vedo come le cose non funzionano, le case editrici riducono il personale e sono sempre più frettolose, più oberate e quindi più disattente: questo fa male ai libri e a chi ci lavora. Anche il versante economico è sempre più difficile. Dirò una banalità, ma si pubblica tantissimo e gli editori con cui lavoro mi dicono che se non pubblicassero così tanto non potrebbero sopravvivere. Sono felice di occuparmi di una collana di classici perché mi sembra che sia il momento di rallentare e oltre che leggere occorrerebbe rileggere per tornare ai tempi naturali della fruizione del libro. Questa riproposizione dei classici spero che abbia, oltre a una motivazione economica, dato che sui classici non si pagano i diritti che scadono dopo settanta anni dalla morte dell’autore, l’idea del testo che rimane sullo scaffale della libreria per più di due mesi, al contrario della vita dei libri che escono oggi.

A proposito della collana di Neri Pozza?
I primi tre titoli della collana, quelli già usciti, sono stati scelti in modo molto idiosincratico e, diciamo, affettivo. Jane Eyre è un libro che ho letto in diverse età della vita, e ogni volta mi ha parlato in modo diverso. La piccola Fadette di George Sand l’avevo letta da bambina, e me lo ricordavo in modo nitido, in un qualche modo quella fiaba un po’ edificante mi aveva turbata – e infatti di motivi perturbanti ne contiene a iosa. La casa della gioia, di Edith Wharton, meno famoso dell’Età dell’innocenza, è un romanzo per certi versi più moderno, e aveva indubbiamente bisogno di una nuova traduzione che mettesse in luce questa grande attualità. Per quanto riguarda il futuro, insisterò con le Brontë, tutte e tre, e ci sarà una nuova Princesse de Cléves di Madame de La Fayette – un libro lontanissimo dalla mia sensibilità un po’ tempestosa (nel senso delle Cime!) – ma che mi affascina per l’esattezza geometrica con cui tratta i sentimenti, in particolare quello amoroso. E se me lo lasceranno fare, cercherò di espandermi geograficamente a nord, e temporalmente avanti, nel Novecento, e indietro, nel Medioevo.

Parliamo di editing: mi capita spesso di leggere romanzi – di esordienti ma anche di autori più affermati – che hanno delle ottime potenzialità che, se rese esplicite, avrebbero dato una qualità maggiore al testo. Nelle altre lingue come va?
Occupandomi di traduzioni, quando lavoro su autori contemporanei un editing, bene o male, è già stato fatto. Anche fuori dall’Italia credo che ci sia questa malattia della fretta perché mi capita di trovare veri e propri errori o magari delle piccole cose che se non danneggiano la qualità letteraria del testo danno fastidio.
Ho anche storie divertenti in merito, di cui una riguarda Ballard: ho tradotto Super Cannes e nell’originale a un certo punto c’è un rapporto sessuale tra i due protagonisti, Paul Sinclair e la giovane moglie Jane, e lei va in bagno a mettersi la spirale. Ho fatto un salto nella sedia perché la spirale in genere si mette dal ginecologo e non è una cosa piacevole. Ballard aveva già una certa età e sicuramente l’editor era un uomo e non ha pensato al diaframma, ha scritto proprio coil… Chiaramente i lettori italiani non hanno trovato alcuna spirale nel testo.
È anche vero che a volte si vedono vere e proprie lacune sull’impianto del testo: ho tradotto La casa rossa di Mark Haddon, dopo il successo de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, ed è stato molto faticoso perché il romanzo non comincia mai, ci vogliono cento pagine… Qui c’è stata una mancanza sulla struttura e questo libro, che pure secondo me aveva grandi potenzialità, non è andato per niente bene, infatti.

Le ambientazioni dei racconti di È di vetro quest’aria mi hanno colpito molto: rarefatte ed evanescenti, immobili come i protagonisti che sembrano in eterna attesa. Il tuo stile è molto essenziale e rigoroso. Giochi con le parole in maniera precisa, cercando di usarne il meno possibile. Non ci sono quasi mai riferimenti spazio–temporali che definiscano con precisione un luogo o un’epoca. Queste caratteristiche danno un taglio particolare ai racconti e secondo me rendono i testi più universali e, credo, più fruibili nel tempo, nel senso che manterranno più a lungo una loro attualità.
Cominciamo da quando dici che le vicende non sono situate in una situazione spazio–temporale precisa. È vero, non so quanto l’abbia fatto consciamente o quanto per un’idiosincrasia mia rispetto a certe narrative italiane… spesso sono infastidita dal regionalismo, dall’eccessiva attenzione di alcuni autori a una realtà molto locale, molto provinciale. Certo, m’interessa leggere ciò che accade in provincia però mi piacerebbe leggerlo come leggo Balzac, che sia applicabile alla provincia del mondo. Certe narrative italiane sono molto calate nel “territorio”… c’è tutta una linea di scrittura di giovani autori romani, per esempio, che ambientano le loro vicende nelle borgate, in una Roma di un certo tipo e io non riesco più a distinguere questi autori l’uno dall’altro. Trovo piccole marche di regionalizzazione che non mi piacciono. Per questo ho cercato altro, ma forse c’entra anche la mia storia personale di apolide, di sradicata.
Per quanto riguarda la lingua, è un po’ il discorso che facevo prima: auspicabilmente ho un editor interno, una specie di super io letterario molto cattivo che non mi permette di scrivere quanto vorrei. Il mio agente- editor, infatti, non è intervenuto sulla lingua: abbiamo discusso sulla successione dei racconti ma mi ha sempre detto che la lingua funziona, forse anche per il duro e umile lavoro quotidiano del tradurre, sicuramente una gran palestra per ogni scrittore.

Dopo aver letto Il progetto, il racconto dell’antologia che mi è piaciuto di più, sono andato a prendere nella mia libreria Super Cannes di Ballard, convinto che lo avessi tradotto tu e trovando conferma. Questo tuo racconto è molto ballardiano, sia come ambientazione (un’enclave supertecnologica) che come trama, ma sei riuscita a rielaborare il grande scrittore britannico rispetto alle tue esigenze letterarie con assoluta autonomia, con un taglio davvero particolare.
Spero sia così. Questo è stato il racconto più difficile e tormentato essendo il più lungo e il più complesso. Un’ambientazione simile è anche nel racconto Corpo a corpo, in entrambi è in atto una guerra, al proprio corpo in Corpo a corpo e al corpo altrui (o in difesa del proprio) nel Progetto. Spero di essere davvero riuscita a fare qualcosa di originale anche perché conosco questa ambientazione: ho vissuto in un luogo del genere per due anni, poi è chiaro che sia il vissuto sia l’esperienza letteraria siano confluite nel testo. Personalmente ho trovato queste zone terribili, ho sofferto molto e mi sono sentita totalmente estraniata. Questa la genesi autobiografica e letteraria del testo. Però non si è trattato di un fatto programmatico, non ho mai pensato di scrivere “come Ballard”. Però a posteriori ho visto anche io che Ballard c’era, in questi racconti.

Ci sono diversi fili conduttori tra i tuoi racconti. In quelli che mi hanno colpito di più uno è l’amore, direi diversi tipi di amore (copri quasi tutto l’arco di una vita nella raccolta), e il senso di estraniamento dal mondo circostante dei personaggi. L’amore non è mai visto come strumento di redenzione e i protagonisti non vivono vite felici.
Sì, ho messo anche dei versi in testa a un racconto, Come in autunno sul boulevard, di Mariangela Gualtieri, una poetessa che amo molto. Sono personaggi che cercano amore, soprattutto passione, come la protagonista del primo racconto, ma spesso non sanno a chi darlo. Ho pensato molto alla successione dei testi, con la mia agente volevamo fare una cosa organica. Lei era molto preoccupata dalla parola “racconti” e l’ha voluta definire opera. Si parte da un grado zero, dalla protagonista del primo racconto che è completamente separata dalla propria emotività. Ha paura, come molti, della passione ma allo stesso tempo la ricerca e non sa come procurarsela. In questo tema entra anche Come in autunno sul boulevard, in cui la protagonista ha voglia di farsi una storia d’amore. Un desiderio che sento molto nella vita reale, persone che vorrebbero innamorarsi e che non ci riescono e a volte “si fanno un film mentale”, come la protagonista del racconto. Per i miei personaggi spesso l’amore è una velleità e questo credo faccia parte del nostro tempo.

Per chiudere, cosa legge Monica Pareschi nel tempo libero?
Allora, questa traduttrice nel tempo libero legge tanta poesia, perché appunto il tempo libero è poco e la poesia è scrittura altamente concentrata e distillata, quindi dal punto di vista dell’economia del tempo conviene. Benn e Celan tra i tedeschi (con testo a fronte perché il tedesco lo sapevo ma me lo sono un po’ dimenticato, e poi entrambi hanno traduttori bravissimi). Tra gli anglosassoni, che fanno come sempre la parte del leone: Eliot, soprattutto i Quartetti, Dylan Thomas, Plath, Sexton, Bishop, Christina Rossetti, Emily Dickinson. Tra gli italiani contemporanei soprattutto Mariangela Gualtieri e un poeta dialettale secondo me grandissimo, Paolo Bertolani. Poi Sereni e Pagliarani. Cristina Campo, sempre. Ho letto molto Flannery O’Connor e Carver, scrittori che sento affini per il senso di misteriosa religiosità che li pervade. Alice Munro, per gli stessi motivi. Uno scrittore che mi ha colpita tantissimo, anche se frequento di rado quelle latitudini, è Lindgren Torgny, svedese, che ha scritto un romanzo incredibilmente bello, Miele, edito da Giano anni fa. Ultimamente ho letto un bel libro di Alessandra Sarchi, L’amore normale, edito da Einaudi.

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