Doris Duranti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 21 Apr 2025 22:01:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fresco come la rabbia, è amore alla Gkn https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/fresco-come-la-rabbia-e-amore-alla-gkn/ Sun, 18 Feb 2024 23:05:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81241 di Luca Baiada

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, Alegre, Roma 2024, pp. 144, euro 12,35, ebook euro 6,99.

Apri e sei a casa. Nella prima pagina c’è una cucina, con un tavolo e un mettitutto. Una volta c’era la madia, ne parlano anche le favole. Adesso ci sono le cucine su misura, prima c’erano i pensili avvitati al muro e prima il mettitutto: un mobile con cassetti, sportelli, un vuoto col ripiano (sì, anche a casa mia c’è un mettitutto). Certi mobili sono tenaci come il letto di Odisseo. In un romanzo di Jack London, La Valle della Luna, una donna [...]]]> di Luca Baiada

Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, Alegre, Roma 2024, pp. 144, euro 12,35, ebook euro 6,99.

Apri e sei a casa. Nella prima pagina c’è una cucina, con un tavolo e un mettitutto. Una volta c’era la madia, ne parlano anche le favole. Adesso ci sono le cucine su misura, prima c’erano i pensili avvitati al muro e prima il mettitutto: un mobile con cassetti, sportelli, un vuoto col ripiano (sì, anche a casa mia c’è un mettitutto). Certi mobili sono tenaci come il letto di Odisseo. In un romanzo di Jack London, La Valle della Luna, una donna ha in eredità dalla madre un cassettone forato da una pallottola indiana, e in un momento forte della storia bacia il foro. La Valle della luna e Il tallone di ferro erano fra le letture della Resistenza, ma adesso sono fuori moda; e pensare che in un racconto di Vasco Pratolini, fra partigiani che parlano di libri, uno fa: «Il tallone di ferro è la Divina Commedia, e che scherziamo?».

Pane, vino e zucchero, in questo libro: il ricordo dei sapori, degli odori. La vita contadina prima dell’industrializzazione. Pane, vino e zucchero è una madeleine dei poveri, come l’odore delle stanze abbandonate, dei fazzoletti piegati nei cassetti, delle lenzuola. Ai partiti della sinistra novecentesca, però, non piaceva l’introspezione. Realismo, ci vuole. Che poi, è un modo per dire che l’anima ce l’hanno solo i padroni e che i proletari hanno i muscoli. Al padrone piace, questo proletario senza l’anima. Ma solo coi muscoli, si progetta poco.

Una delle cose più forti, nell’esperienza della Gkn, è il programma di reindustrializzazione dal basso. Agata se ne accorge. Viene dal mondo contadino, dal campo, però è figlia di operaio e fa l’impiegata; Agata capisce che la salvezza della Gkn è nella modernità. La tecnologia non si ferma, l’idea di piccole patrie arcaiche è assurda e se fosse vera sarebbe autarchia e fascismo. Agata si apre alla vita dopo le manifestazioni, gli scioperi, la vertenza in tribunale, e soprattutto con la fase dei contatti allargati, della socialità diffusa: giuristi, ingegneri, economisti, e poi associazioni e studenti. Un mondo ha pugnalato la Gkn; quindi gli operai, la cittadinanza, il lavoro intellettuale vogliono cambiare quel mondo. Lei si tuffa nella lotta e s’innamora: «Un altro mondo possibile. Non uno slogan utopico, ma realtà cruda, fatta di pelle, sudore, sangue, nervi, orgoglio, storia, visione». E intelligenza, perché stare dalla parte del popolo vuol dire organizzazione.

Organizzarsi contro lo sfruttamento e la negazione. Anche con l’illusione, anche col disincanto. Come in amore. Quello di Agata e Lorenzo è alla Gkn. Lorenzo viene dal Sud ed è andato al Nord. La fabbrica dei sogni non lo dice subito, ma quel Nord è Firenze, perché c’è sempre un altro Nord sopra un Sud, e oggi si dice Nord globale e Sud globale, aree senza più neanche confini fisici. E qui ci sono altre prospettive: incrociate, sovrapposte, cioè reali e irrisolte. A Firenze, prima della Gkn, Lorenzo lavora in una fabbrica di borse, nella stanza delle donne. Si accorge che il padrone mette le mani addosso alle operaie, ma anche che la moglie fa finta di niente perché la ditta rende e il marito la porta in vacanza. È un’altra violenza, di genere, ma resta classista.

Sul rapporto fra economia e ambiente la battaglia della Gkn vuole spezzare i pregiudizi. Per questo, dopo una manifestazione Agata sente un vento «fresco come la rabbia giovane, forte come la lotta operaia». La devastazione del territorio va insieme alla distruzione del lavoro, ma dopo che l’individualismo portato dall’ordine borghese ha tolto ai lavoratori i punti di riferimento, li ha resi soli anche nel privato. Adesso sappiamo, però, che per la difesa dell’ambiente c’è chi si ribella. Li accusano di colpire i beni culturali, ma invece colpiscono le loro immagini: gettano colori innocui o sudiciume, ma non sulle opere d’arte, sui vetri che le proteggono. Un mese fa, per esempio, al Louvre hanno versato zuppa sul vetro della Gioconda, e subito il personale di sorveglianza ha isolato tutta l’area con pannelli scuri: l’importante è nascondere, abbuiare l’immagine. Una curiosa simmetria. Colpiscono l’immagine, non i beni. Gli speculatori, invece, svuotano i beni per appropriarsi del valore d’immagine, per mettere le mani su apparenze o rendite di posizione. Così uno stabilimento può diventare sede di tutt’altro, essere stravolto da una ristrutturazione, mutare in location.

L’immagine, certo, ma come? Il libro non si rifiuta di guardare, anzi. Ha una presa quasi cinematografica e si potrebbe farne un girato, magari con un montaggio sincopato, espressionista. La finestra apre sui campi, si vedono cose a occhi chiusi, dalla fabbrica si vedono il centro commerciale, il cinema eccetera. Agata e Lorenzo quando si incrociano si vedono e non si vedono, ma è lui che la accompagna a guardare dentro la fabbrica; gli sguardi dicono i desideri e li nascondono. È lui, a guardare Firenze dalla torre di San Niccolò, coi compagni lassù. Ed è lei, guardandosi nelle vetrate della Gkn, a vedersi bella perché ha fatto l’impensabile: ha parlato in assemblea, che è proprio il momento in cui tutti ti guardano, e se hai qualche problema a esporti, c’è da morire. Come c’è da tremare, a rivolgersi a Lorenzo per parlargli. Guardare una città, guardarsi, guardare dritto chi si ama, essere guardati. Col rovescio oscuro: la città vetrina, Firenze turistificio, la donna oggetto, la donna guardata male o ignorata se non corrisponde al canone estetico.

E sotto lo sguardo? Sotto c’è la pancia. A Lorenzo, quando lavora in mezzo alle donne, arrivano in pancia le risate delle ragazze. Agata crede di avere troppa pancia. Lorenzo da bambino ha preso un pugno in pancia, da grande il licenziamento è un colpo alla pancia. Qualcosa di profondamente fisico. Fa pensare al nesso evidente fra comportamento alimentare e rapporti sociali: l’oppressione produce alienazione e frustrazione direttamente sui corpi. Forse anche quel detto attribuito a Maria Antonietta – il popolo non ha pane, che mangi brioche – , vero o falso, ha sottotesti da decifrare, a proposito di carnalità nelle relazioni di potere. In Toscana si dice «corpo pieno non crede al digiuno». Insomma, la questione del cibo ci parla direttamente – alla pancia, direi – ed è una tappa obbligata della socialità. E Agata coglie presto una grossa vittoria, alla Gkn, proprio a tavola: riesce a mangiare davanti a lui, mentre di solito voleva mangiare sola.

La narrazione spariglia i capitoli con scritti in seconda persona e con «sogni». Non ci credo, però, che siano sogni. A meno che l’autrice scriva quando dorme; e non dico di più per non sciupare la lettura, che altrimenti non fa pro. Invece propongo una riflessione. Nel secondo Novecento c’erano intellettuali che si chiedevano fra loro: come giustifichi la tua latitanza dalla fabbrica? La domanda adesso ha senso soltanto se alla fabbrica si aggiungono l’allevamento intensivo, l’ufficio, il motorino dei fattorini schiavi dell’algoritmo eccetera. Però sarebbe troppo prevedibile chiedersi come si pone, chi fa narrativa, rispetto alla produzione: nel mondo iperconnesso siamo tutti latitanti e tutti troppo presenti.

La forma narrativa incuriosisce, si presta a implicazioni. La Gkn è una struttura produttiva e può svegliare gli appetiti degli speculatori, specialmente immobiliari. Si sente una somiglianza con gli usi predatori della cultura. Una certa narrativa in circolazione, in Italia, è fatta di scheletri di qualcosa, ossami di morto riconvertiti in centri commerciali, dove ognuno ha la sua vetrina, si mette in posa e dà in cambio l’anima. La fabbrica dei sogni fa il contrario: con una storia d’amore inseparabile dal lavoro, Agata l’anima se la riprende. In più è messa in chiaro una parte del lavoro di scrittura, come se si permettesse a chi legge di cercare qualcosa sul tavolo di chi scrive.

Per la Gkn ha importanza il rapporto con le persone del luogo, con la storia locale, col tessuto umano profondo. È un caso, che questa lotta sia in Toscana? Il dubbio è un terreno minato. Qualsiasi prodotto, basta scriverci sopra «Toscana» e vende di più. La Toscana è stata un perno della civiltà ma sta diventando tristemente un marchio caricaturale. La Toscana fu in prima fila nel fascismo e nell’antifascismo. Toscani furono Michele Della Maggiora, primo fucilato dal tribunale speciale fascista, ed eroi antifascisti assassinati dallo squadrismo, come Spartaco Lavagnini; ma anche il più fanatico dei fascisti giustiziati a Dongo, Alessandro Pavolini, fu toscano, come la sua amante Doris Duranti, diva del regime. Toscani furono il vescovo fascista di San Miniato, Ugo Giubbi, e il priore di Barbiana Lorenzo Milani, che in questo libro si affaccia, e sia benvenuto. Insomma, dico il territorio, che poi non vuol dire nulla; meglio, dico le persone, lo spiritaccio, come quello della nonna di Agata, che ride anche da morta.

Qualcosa mi riguarda. Per dare corpo a una produzione che sia al servizio della società ci vogliono anche i giuristi, e io sono un giurista. Ora, giuristi che si opposero al fascismo ce ne furono, con casi eroici come Giacomo Matteotti. Fra loro c’è Silvio Trentin: è talmente bravo che fa l’assistente universitario già prima della laurea; si sposa, ha davanti un carrierone e una vita comoda; arriva il fascismo: lui lascia la carriera e va all’estero con la giovane famiglia, a fare il contadino e il manovale. Lieto fine?

Cammina, cammina e càmmina… – come si dice fra i toschi – arriviamo al 1992: uno dei figli di Trentin, nato nell’esilio, che si chiama Bruno ed è giurista anche lui, firma gli «accordi di luglio», pietra miliare della disfatta del salario, cominciata molti anni prima. È la rivincita del capitale. Il babbo di Agata dà le dimissioni dalla Cgil e scrive proprio a Bruno Trentin: «Cancellare la scala mobile significa consegnarci di nuovo alla povertà, al ricatto dello stipendio che non basta mai, significa dover dire ai miei figli che tutto quello che ho insegnato loro non esiste più». Allora. Più la produzione è condizionata dalla tecnologia, più ci vogliono regole; ma vatti a fidare di chi quelle regole le scrive, le cambia, le applica, le invoca.

La Gkn ha bisogno dei giuristi, ma il punto resta: cos’hanno da dire gli scrittori a proposito del lavoro intellettuale applicato, quando chi lavora in fabbrica, negli uffici, nella logistica ha bisogno di contratti, organizzazione, garanzie. Il libro non è sui giuristi, ma nessuno è estraneo a questa storia. E poi, via: se la Repubblica è fondata sul lavoro, è sul lavoro che tutti devono misurarsi. A volte il confronto funziona proprio nelle realtà più vivaci ed esposte: a Roma, dieci anni fa, il Teatro Valle occupato è stato un laboratorio, oltre che di spettacolo e politica, anche di diritto, specialmente sui beni comuni. E anche lì si sono incrociate vite, esperienze. Che si fa?

Come si legge in questa storia d’amore e di molto altro, stavolta c’è di mezzo una fabbrica che «illumina la vita e crea speranza».

 

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Modelli e topoi della donna pirata (6) https://www.carmillaonline.com/2021/08/14/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-6/ Sat, 14 Aug 2021 20:31:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67622 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

PARTE II

Una spada non ha sesso: gli apocrifi

 

 Definendo un modello (1920-1952)

Fin qui un canone di importanza seminale per l’immaginario moderno sulla donna pirata, in particolare nei paesi anglosassoni e in Italia: ma il gioco delle varianti tra trasposizioni e ispirazioni più o meno dirette condurrà nei fatti a un ricco corpo di – si passi il termine – apocrifi. Dove proprio la contaminazione tra topoi vedrà realizzarsi su grande schermo una sorta di fusione tra i modelli tanto diversi [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

PARTE II

Una spada non ha sesso: gli apocrifi

 

  1.  Definendo un modello (1920-1952)

Fin qui un canone di importanza seminale per l’immaginario moderno sulla donna pirata, in particolare nei paesi anglosassoni e in Italia: ma il gioco delle varianti tra trasposizioni e ispirazioni più o meno dirette condurrà nei fatti a un ricco corpo di – si passi il termine – apocrifi. Dove proprio la contaminazione tra topoi vedrà realizzarsi su grande schermo una sorta di fusione tra i modelli tanto diversi di Mary & Anne da un lato e di Jolanda dall’altro.

Certo, ben prima del cinema c’è il teatro: e sulle scene la prima storia di una ragazza che si traveste ‘da maschio’ e si fa pirata, con plausibile ispirazione diretta alle gesta delle Due, è probabilmente quella di Polly: An Opera, being the Second Part of the Beggar’s Opera, scritta nel 1729. A firmarla è quel John Gay che aveva appunto composto la celeberrima Beggar’s Opera, 1728: e lì già appariva la prostituta Jenny Diver, che in Polly diviene amante del pirata Morano, ma poi si innamora di un altro pirata. Quest’ultimo – ecco il colpo di scena – si rivelerà però Polly travestita: dove la somiglianza con la storia descritta da Johnson è evidente, tanto più per la dialettica polare tra la disinvolta Jenny/Anne e la pudica Polly/Mary.

Frattanto appaiono infiniti racconti di donne pirata in chiave di fiction, e anche le vite di Mary & Anne divengono oggetto di una lussureggiante produzione narrativa che arriva fino a oggi: nell’impossibilità di trattarne in questa sede, basti citare titoli come Mary Read: The Pirate Wench di Frank Shay, 1934, o il più recente Mary Read di guerra e mare di Michela Piazza, 2012[66]. Ma è col cinema che il modello può esprimere le sue potenzialità col massimo impatto sull’immaginario.

Grazie allo straordinario corpus salgariano, nel cinema italiano piratesse e partner di pirati compaiono molto presto. Un po’ di confusione regna nelle fonti tra due Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, 1920 e 1921, per la Rosa Film varata, con la benedizione dei figli di Salgari, proprio per portare sugli schermi le storie del padre: sarebbero diretti entrambi da Vitale De Stefano – il Massinissa di Cabiria – e sceneggiati da Edoardo Nulli, nell’ambito di un ciclo di cinque pellicole tratte dalla saga salgariana dei corsari. Si tratta plausibilmente dello stesso film, interpretato nel ruolo del titolo da Anita Faraboni, o secondo altri da Ketty (rectius Kitty) Watson (attrice americana, 1886-1967, talora identificata in Adele Marinelli) – in realtà le due attrici figurano entrambe nella saga, i cui film però sono tutti perduti. Nella stessa serie figura Gli ultimi filibustieri, 1921, degli stessi regista e sceneggiatore, con l’attrice nota come La Bella Argentina per la parte di Neala.

Affermatosi il sonoro, nel 1940 esce La figlia del Corsaro Verde diretto da Enrico Guazzoni per le Produzioni Manenti, sceneggiato da Alessandro De Stefani e arricchito in ruoli minori dalle caratterizzazioni di Polidor (al secolo Ferdinand Guillaume) e del noto pugile Primo Carnera. Nel film la protagonista Manuela (Doris Duranti, «selvaggia e combattiva», come definita da Osvaldo Scaccia in “Film”, 19 aprile 1941) salva dalla morte Carlos, figlio del governatore infiltrato tra i pirati e da loro scoperto: a riproporre il tema della ragazza che salva l’uomo, ma in particolare – ne vedremo gli sviluppi – l’uomo dell’altra parte (considerato che il Corsaro Verde era stato giustiziato per ordine del padre di Carlos). D’altronde e parallelamente non mancano le ragazze da salvare, come ancora Neala (l’attrice Loredana, all’anagrafe Loredana Padoan) prigioniera del cattivo governatore di Las Palmas ne Gli ultimi filibustieri di Marco Elter, 1943, sequel de Il figlio del Corsaro Rosso degli stessi anno e regista, sceneggiato a più mani (della partita è anche Pietro Germi) e prodotto dalla B. C. Film. Una quasi-corsara,  Donna Consuelo, marchesa di Velasco, appare in La vendetta del corsaro di Primo Zeglio, 1951, interpretata dall’attrice dominicana María Montez, ultimo suo film prima della tragica fine (annegata nella vasca da bagno forse a seguito di attacco cardiaco). E fin qui trame candide, stereotipi a gogò, genuino divertimento senza pretese.

THE SPANISH MAIN, Maureen O’Hara, Paul Henreid, Binnie Barnes, 1945

Ma nel frattempo, al di là dell’Oceano, il ben più corazzato cinema americano ha già portato spesso sugli schermi i pirati. È ovvio che prima o poi dovesse comparire anche il Duo Dinamico del capitano Johnson, che in effetti proprio a metà degli anni Quaranta avvia una propria storia su grande schermo – sia pure separatamente, a partire da Anne. In The Spanish Main (Nel mar dei Caraibi), 1945, diretto e prodotto a vivaci colori da Frank Borzage per RKO Radio Pictures, su soggetto di Aeneas MacKenzie e sceneggiatura di George Worthing Yates e Herman J. Mankiewicz, protagonista è l’avventuroso Laurent Van Horn (sintesi immaginaria, si direbbe, dei due storici pirati Nicholas van Hoorn e Laurens de Graaf): e, dopo una prima fuga dalle carceri spagnole, lo vediamo catturare un galeone su cui viaggia la contessa Francisca (Maureen O’Hara), destinata a sposare il pessimo viceré di Cartagena. Tra pirata e prigioniera nasce qualcosa, ma la piratessa Anne Bonny (Binnie Barnes), prima amante di Van Horn, è pronta a tutto per spedire a Cartagena la rivale: in seguito anzi ai suoi maneggi i pirati sono catturati dal viceré, e Francisca rischia la vita per liberarli. Anne si riscatta finendo ferita mentre protegge le spalle a Van Horn, e benedice la coppia prima di morire; gli altri si salvano e riprendono l’allegra vita di predatori. In questa libera rilettura in technicolor Anne appare non solo come la classica, tragica dark lady hollywoodiana, pronta in nome della passione agli atti più disperati, ma pure una crossdresser un po’ spigolosa e maschile, in giacca rossa e cappello floscio, destinata all’ovvia sconfitta nel paragone con la bellissima avversaria – come lo spettatore già sospetta dal primo duro confronto tra le due donne alla locanda. Non manca la dialettica nevrotica di scontro (Anne che tradisce Van Horn, consegnandolo al patibolo) e salvazione del partner di turno.

THE SPANISH MAIN, Paul Henreid, Binnie Barnes, Maureen O’Hara, Martha Bamattre, 1945

Se il film di Borzage può segnare idealmente l’inizio dell’età d’oro delle Due Toste nel cinema, la vocazione tragica dell’Anne di Hollywood trova conferma in una pellicola di poco successiva. Anne of the Indies (La regina dei pirati), 1951, del grande Jacques Tourneur su sceneggiatura di Arthur Caesar, Philip Dunne ed Herbert Sass, prodotto da George Jessel e distribuito dalla 20th Century Fox, ha per protagonista il temerario capitano Anne Providence (Jean Peters, futura moglie di Howard Hughes – invece della prima interprete destinata al ruolo, Susan Hayward) ma in qualche modo è ispirato proprio alla vita di Anne Bonny. O meglio: alla base c’è una short story apparsa nel 1946 sul “Saturday Evening Post”, Queen Anne Of The Indies (il titolo resterà tra quelli proposti per il film) a firma del citato Sass, che in seguito viene interpellato per trarne un trattamento cinematografico. Lo scrittore si mette all’opera e nel ’48 presenta una versione riadattata della vera storia di Anne Bonny. Poi il tutto sparisce nei meandri degli studios, Sass resta tagliato fuori e, quando il film esce, il risultato è talmente diverso che se non ci fosse il credit al nome dello scrittore non si coglierebbero proprio i collegamenti. È comunque plausibile che il cognome Providence attribuito alla protagonista costituisca un richiamo all’omonima isola delle Bahamas citata da Johnson.

Se The Spanish Main era una godibile avventura con morte finale della dark lady, qui la storia si inabissa nel dramma vero e proprio. Catturando una nave inglese, la capitana Anne Providence trova nella stiva un prigioniero, Pierre François LaRochelle (Louis Jourdan), già comandante di una nave corsara francese. Dopo un iniziale arruolamento quale navigatore, però, il tipo mostra atteggiamenti ambigui che innescano un rapporto complesso con Anne. Sottoposto alla frusta, rivela infine di trovarsi sulle tracce del tesoro di Morgan e si accorda per dividerlo con la capitana – che tuttavia, in maniera abnorme e con l’ingenuità di chi non ha mai amato in precedenza, è molto più attratta da lui che dall’oro, e in apparenza ricambiata. Invano il collega Barbanera, che di Anne è stato il mentore[67], la mette in guardia e finisce offeso e allontanato (viene il sospetto che questa sia la fonte per la complessa dialettica tra Barbanera e la figlia Angelica nel quarto Pirati dei Caraibi); ma poi le prove che Pierre è un infiltrato degli inglesi vengono alla luce. La sua idea sarebbe stata di consegnare Anne ai connazionali per farsi restituire la propria nave, con cui praticava la pirateria; ma ha taciuto anche di essere sposato, e che sua moglie Molly (Debra Paget) lo attende a Port Royal. Anne sfugge così all’agguato delle navi britanniche con la propria Sheba Queen (la «Regina di Saba», femme fatale per eccellenza), e furiosa rapisce Molly: dopo aver pensato di venderla come schiava a Maracaibo, decide infine di legarla alla prua della nave per impedire agli avversari di colpire. Catturato nuovamente Pierre (che ora fa il corsaro per conto di un lord), Anne lo abbandona con Molly senza viveri né acqua su un’isola deserta, restando all’àncora in attesa del loro decesso: ma poi, tormentata dal rimorso, fa inviare ai due quanto necessario per salvarsi e tornare in Giamaica. L’arrivo dell’offeso e vendicativo Barbanera fa precipitare la situazione: per salvare Pierre dal pirata che lo odia, invece di allontanarsi Anne sceglie di combattere contro il simil-padre, e alla fine verrà uccisa da una cannonata. Una gelida, anonima e burocratica mano cancella in ultimo il nome della capitana, «affondata vicino alle Bahamas».

In modo molto più profondo che in The Spanish Main, la ‘mascolinità’ di Anne (in questo caso fisicamente graziosa) si manifesta nell’approccio alla vita – predazione, durezza, ignoranza dei sentimenti – appreso da Barbanera, e in cui è rimasta intrappolata. Scoprendosi dunque incapace, di fronte al primo innamoramento, di manifestare in modo libero i propri sentimenti: con la frustrazione deflagrante di scoprirsi tradita e l’innesco di una situazione disperata che la conduce al ripudio della figura paterna e alla morte. Come ha rilevato José María Latorre, in questa pellicola

 

la sessualità è la molla stessa della vicenda: Anna […] scopre quasi nello stesso momento sensualità, amore, inganni, gelosia, vendetta, perdono e morte. Il film segna inoltre un punto e a capo nell’ambito del film d’avventura: l’acida malinconia del tono, l’opacità nel trattamento dei personaggi, la tragica conclusione, il pessimismo, la mediocrità del principale interprete maschile, l’antipatia che, benché vittima delle circostanze, suscita il personaggio femminile, il risveglio della sensualità di Anna e i rapporti che intrattiene con gli uomini che si prendono cura di lei rendono La regina dei pirati un’opera singolare[68].

Si noti la presenza in questo film di un vestito da donna trattenuto nella quota di bottino di Pierre, e che per la prima volta attira l’attenzione di Anne; in seguito lei lo proverà, spingendo lui a scioglierle per la prima volta i capelli – e il tutto finisce in un bacio. La dialettica simbolica tra l’abito da donna e la tenuta in camicia da uomo correrà avanti idealmente per tutta la storia su schermo delle piratesse.

Ma lo sappiamo, nel cinema popolare l’archetipo tende a farsi stereotipo, e negli anni Cinquanta il fortunatissimo fenomeno pop della rilettura farsesca dei generi nella saga di Abbott e Costello – Gianni e Pinotto, nella traduzione italiana – interessa anche il cappa e spada di pirati. Come i due comici ricalibrano per esempio in chiave commedia il genere horror – con solo lievi ritocchi, ampliando il ruolo dei caratteristi di tradizione shakespeariana e rispettando i mattatori che diventano però maschere –, attraverso la propria versione delle “macedonie all monsters” alla Erle C. Kenton (Abbott and Costello Meet Frankenstein, 1948), così fanno anche con il film di pirati: e la Anne Bonny un po’ rigida e virile presentata in The Spanish Main sembra influire direttamente, virata in chiave solo più fascinosa, sulla Anne Benney di Kidd il pirata (Abbott and Costello Meet Captain Kidd) una commedia del 1952 diretta da Charles Lamont su sceneggiatura di Howard Dimsdale e John Grant. L’interprete di Anne – qui contrapporta al furfantesco Kidd del grande Charles Laughton, tra mappe del tesoro confuse con biglietti galanti – è in effetti ora Hillary Brooke, ospite fissa in quegli anni del The Abbott and Costello Show, e che qui i nostri sostengono contro il vilain. Come nella scampagnata horror di cui sopra, i comprimari archetipici o piuttosto stereotipici dei due protagonisti sono comunque rispettati: e proprio il varo di questa puntata la dice lunga su quanto a inizio anni Cinquanta il film di pirati rappresenti un genere consolidato.

In fondo le storie di pirati sono avvertite come un epos americano, non è strano i pirati piacciano: e solo un anno più tardi una nuova capitana pirata appare in Against All Flags (Contro tutte le bandiere), 1952, diretto da George Sherman e prodotto da Howard Christie con distribuzione Universal. In questa produzione dai colori vivacissimi e dagli altrettanto vivaci fondali dipinti, la nostra Anne non c’è: ma il fatto che la scintillante piratessa Prudence ‘Spitfire’ (nella versione italiana «Schizzafuoco») Stevens sia interpretata da quella stessa Maureen O’Hara che al termine di The Spanish Main si allontanava sul mare con l’amato pirata Van Horn, finisce con lo stabilire una sorta di nesso – come se la contessa Francisca avesse cambiato identità e seguito la strada della defunta Anne. Tanto più che la storia è firmata da Joseph Hoffman e Aeneas MacKenzie, quest’ultimo già soggettista di The Spanish Main: nei fatti è Hoffman a riscrivere l’originaria sceneggiatura di MacKenzie, ma è evidente che in queste avventure gli stessi temi tornano di continuo.

Così anche qui c’è un infiltrato tra i pirati – l’ufficiale britannico Brian Hawke, interpretato da un Errol Flynn meno agile di un tempo e in deriva alcolica – e come nell’italianissimo La figlia del Corsaro Verde si tratta dell’eroe, diversamente da quanto narrato in Anne of the Indies, dove appariva figura equivoca; anche qui a sospettare di lui è un pirata ‘storico’ – in Anne of the Indies era Barbanera, qui è il Roc Brasiliano di Anthony Quinn; e se in Anne of the Indies Barbanera ricopriva un ruolo di mentore e quasi padre, qui l’anomalia di una presenza femminile tra i pirati è giustificata tout court con una successione di Spitfire al padre, capitano e proprietario di una nave. Come in The Spanish Main anche in questo caso troviamo una bella e aristocratica prigioniera che si innamora del (falso) pirata, la figlia dell’imperatore Moghul Patma (Alice Kelley), suscitando la gelosia di Spitfire che se ne è pure invaghita; anche qui l’inganno dell’infiltrato viene scoperto, ed è la piratessa a salvargli la vita (in questo caso da una strana morte in pasto ai granchi: Spitfire mima di pugnalare Hawke per allievargli le sofferenze, e invece taglia le corde). Se poi in Anne of the Indies era la protagonista a far legare Molly sulla linea di fuoco della nave, qui Roc usa similmente come scudo la corrispondente figura femminile fragile, Padma, per sfuggire dalla baia assediata; e come in The Spanish Main, un duello finale tra eroe e villain sarà risolutivo. La piratessa si vergogna comicamente del proprio nome di battesimo Prudence; quanto al soprannome ‘Schizzafuoco’, Hawke ne chiede ragione al barbiere/boia del luogo, che risponde: «Ah, lo scoprirete da solo se provate a metterle una mano addosso»: un avviso che può ben ricordare la disavventura del «giovane» che, attesta Johnson, «aveva cercato di giacersi» con Anne contro la sua volontà. Più avanti scopriremo che, molestata, Spitfire ha già ucciso in duello alla pistola un uomo; e il tema dei baci che offre solo quando ne ha voglia conferma il modello. Inevitabilmente, in un contesto che non esalta il femminismo, Hawke riuscirà ad ammansirla.

Certo la dinamica spadaccina Spitfire, pur nei panni sportivi che richiamano certe colleghe dei cappa-e-spada (solo di rado indossa un abito lungo da dama, e deve farsi spiegare da Hawke cosa siano i finti nei), è figura molto diversa dalle due Anne dei film precedenti: qui la logica è quella morbida del classico film d’avventura. La sua prima apparizione la vede per esempio scegliere dei fiori da una venditrice di colore come una qualunque signora americana della buona società. Si apprende poi che suo padre (ex-bracconiere in fuga con la figlia bambina, a evocare di sfuggita un passato picaresco) era divenuto capitano della costa come esperto di fortificazioni, ma senza darsi a un’effettiva pirateria: prendeva solo una parte del bottino, e ora anche la figlia si comporta nello stesso modo – ad addolcire insomma il bozzetto della capitana. E il fatto che anzi Spitfire mediti di andarsene da quella tana di bruti stempera il disincanto verso la pirateria dai toni disperati di Anne of the Indies a un più semplice e tranquillizzante cambio di vita. Come poi accade, col lieto fine e il lungo bacio col protagonista.

Ma è intrigante la collocazione della base pirata in Madagascar, nei luoghi di quella Libertatia (o Libertalia) fondata come colonia nel tardo XVIII secolo, secondo il solito Johnson, dal capitano provenzale James Misson. Se i pirati in Madagascar c’erano davvero, prevale oggi l’interpretazione per cui Misson e Libertatia sarebbero invenzioni del Nostro: ma appunto il richiamo alla fonte-Johnson costituisce un’ulteriore connection tra Spitfire Stevens e le nostre due amiche.

 

[66] Ma anche (senza pretese di esaustività) i romanzi Anne Bonny, Pirate Queen: The True Saga of a Fabulous Female Buccaneer di Douglas Brown, 1962 (con strillo «She Could Fight Like The Devil and Love Like An Angel»); Mistress of the Seas di John Carlova, 1964; Anne Bonny di Chloe Gartner, 1977; Lobas de mar di Zoé Valdés, 2003; The Only Life That Mattered: The Short and Merry Lives of Anne Bonny, Mary Read, and Calico Jack Rackam di James L. Nelson, 2004; A Pirata. A história aventurosa de Mary Read, pirata das Caraíbas di Luísa Costa Gomes, 2006; Alain Surget, Mary Tempête. Le destin d’une femme pirate, 2007; Mary Read: Sailor, Soldier, Pirate di Cherie Pugh, 2008; Heart of a Pirate: A Novel of Anne Bonny di Pamela Johnson, 2009; The Legendary Adventures of the Pirate Queens: A Serio-Comic Novel of Anne Bonny & Mary Read di James Grant Goldin, 2012.

[67] Si noti che il Barbanera storico, che aveva – pare – moglie e figlio a Londra più una dozzina di altre spose in giro, mostrava verso l’altro sesso un atteggiamento profondamente patologico. Se era sua abitudine costringere le mogli, dopo essersene soddisfatto, ad accoppiarsi coi suoi amici, si dimostrava anche più tremendo con le prigioniere: «notoriamente strangolava le donne catturate e ne gettava i corpi in mare. […] A bordo, le donne non erano né necessarie né desiderate»: così Burg, Pirati e sodomia, cit., p. 161 – anche se in effetti questo è un caso limite. Per inciso, Barbanera era stato mentore di vita piratesca di uno Stede Bonnet dal cognome dunque simile al Bonn(e)y di Anne: un’ispirazione per gli sceneggiatori?

[68] José María Latorre, Avventura in cento film, Recco (Ge), Le Mani, 1999, pp. 179-180.

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