donatella di pietrantonio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E’ dura la vita: due opere esemplari https://www.carmillaonline.com/2018/08/29/e-dura-la-vita-due-opere-esemplari/ Tue, 28 Aug 2018 22:06:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48389 di Mauro Baldrati

Sotto la pelle del lupo, di Samu Fuentes, 2018

Su questo film spagnolo alcuni giudizi sono contrapposti: originale; interessante; schifoso. In effetti non è un film facile. I dialoghi, per esempio, sono quasi del tutto assenti. A parte qualche breve intermezzo parlato, indispensabile per il proseguimento della visione, è un film muto. E alcune scene sono brutali, da anello di congiunzione tra l’ominide e il neanderthal.

Quando il cacciatore Martinon decide di scendere in paese per comprare una moglie, per cercare di aprire la sua gabbia di solitudine totale, [...]]]> di Mauro Baldrati

Sotto la pelle del lupo, di Samu Fuentes, 2018

Su questo film spagnolo alcuni giudizi sono contrapposti: originale; interessante; schifoso.
In effetti non è un film facile. I dialoghi, per esempio, sono quasi del tutto assenti. A parte qualche breve intermezzo parlato, indispensabile per il proseguimento della visione, è un film muto. E alcune scene sono brutali, da anello di congiunzione tra l’ominide e il neanderthal.

Quando il cacciatore Martinon decide di scendere in paese per comprare una moglie, per cercare di aprire la sua gabbia di solitudine totale, assistiamo ai loro rapporti: lei sembra subire inerte mentre lui grugnisce e fa i suoi comodi. “Ma siamo proprio così? E’ questa la nostra natura?” viene da chiedersi, con una lama di angoscia.

In realtà Martinon non è cattivo. Quando lei si ammala – per la verità è già ammalata quando la compra, addirittura gravida – lui cerca di curarla, le sta vicino, la riscalda. Poi, quando muore, scava una buca e la seppellisce. Niente funerale, niente denuncia, niente medico. Il tempo sembra fermo, nella capanna di sassi di Martinon. Potrebbe essere nel medioevo, o un trapper della frontiera americana. Gli unici segnali che lo inquadrano in un determinato segmento temporale sono il suo fucile, un modello della seconda guerra mondiale, e la luce elettrica in paese, dove vive il padre della ragazza.

A lui un arrabbiato Martinon chiederà la restituzione dei soldi e delle pelli di lupo, perché la figlia è morta quando era ancora in garanzia. Poiché l’uomo non può onorare il debito gli propone la sorella più giovane. Martinon la valuta e accetta. Insieme partono per il lungo viaggio di rientro alla capanna, inerpicandosi per sentieri di montagna, negli scenari spettacolari delle Asturie, tra cascate, foreste, crepacci.

Inizia così il loro ménage familiare, sempre lo stesso: la conciatura delle pelli, la coltivazione degli ortaggi, le riparazioni, sempre in un silenzio rotto solo dal vento, dal canto degli uccelli, dai rumori della masticazione di Martinon quando mangia voracemente, e i grugniti degli accoppiamenti bestialoidi.

Poi Martinon esce per la caccia al lupo, per le pelli pregiate, anche per più giorni di seguito. Non sappiamo se sia un bracconiere, o se sia tutto regolare nel tempo fermo. Intanto lei lo aspetta nella capanna, senza luce né acqua corrente. Seguiamo i suoi stati d’animo attraverso i primissimi piani, gli sguardi nel vuoto, qualche piantino, quando si ferma un attimo dal lavoro e si rende conto di che razza di destino le è stato riservato.

In questo film duro, persino ostile, il mondo esterno – la cosiddetta civiltà – non esiste. Tutto è ridotto ai minimi termini, gli oggetti, il cibo, la legna per l’inverno. Regna un che di primordiale, la sopravvivenza ad ogni costo, la solitudine, la fatica, l’inutilità delle parole, dei sentimenti, tutto ciò che non è pura materia.

Poi la vita umana si differenzia da quella animale per le implicazioni, le variabili, i guai; così, quando la ragazza cerca ad ogni costo una via d’uscita, perché non riesce a rassegnarsi, il film si avvia verso un finale difficile, l’unico possibile, forse. Non ci si aspetti un semi-lieto fine, né un dramma. Finisce perché in natura tutto finisce, come vuole il caso, come impone la legge della materia. Proprio come quando il sole sparisce dietro le nubi e potrebbe esplodere un temporale furioso, ma potrebbe anche alzarsi il vento che spazza via le nubi e, come sentenzia l’I Ching: “Nessuna pioggia sulle nostre contrade occidentali”.

L’Arminuta, di Donatella Di Pietrantonio, Einaudi, Torino 2017

Un’altra opera tocca – soprattutto nella prima parte – queste corde dure, taglienti: la riduzione ai minimi termini della vita, il cibo, il fuoco, i vestiti, un tetto per proteggersi dalle intemperie. Tutto il resto non conta. I sentimenti, i progetti, non sono nemmeno “noia”, semplicemente non hanno spazio, non esistono. E ancora una volta a dover subire l’impatto con questo mondo ostile, estraneo, è una ragazza.

Questo libro ha vinto il Premio Campiello 2017. Ora, noi che viviamo e agiamo in un rizoma di genere e di opposizione siamo sempre un po’ straniti di fronte a queste celebrazioni. Un perfetto anarco-comunista non si preoccupa delle opinioni altrui, né delle dinamiche del mainstream.

Però ci sorge il dubbio che la Bellezza non chieda il permesso di manifestarsi, in quale luogo e in quale tempo. E nemmeno in quale autore. D’altra parte non lo dice anche Salieri in Amadeus? Si rivolge a Dio, gli chiede: “Perché? Io ti ho sempre servito con devozione, ho composto le mie musiche per onorarti, e tu hai donato il genio a quello là!” Va da sé che Bellezza non è il bello stile, la bella forma, ma la forza dell’espressione, la precisione dell’operazione a togliere: tutto ciò che non è indispensabile va eliminato. Resta il nucleo del little bang che genera il libro, il film, la musica.

E’ il caso di questo libro, che non esitiamo a definire perfetto. Esagerato? Ma come definire la maestria con la quale l’autrice riesce a gestire i personaggi, la storia, e la scrittura? Non una sbavatura, e soprattutto non un grammo di zavorra, che appesantisce tanti romanzi pubblicati nel nostro tempo. Noi dialoghi mette in cantiere una ricerca sul dialetto – non il dialettismo – che contamina la lingua maggiore, tanto che sembra di udire i suoni, le cadenze del parlato dei personaggi di un entroterra aspro, spietato.

E’ una famiglia numerosa, sottoproletaria, quella dove l’Arminuta (la Ritornata) si ritrova scaraventata all’improvviso. La madre, la sua vera madre, perché la donna che l’ha cresciuta era in realtà la zia, ha sulle spalle tutto il carico dell’economia familiare, con l’unico obiettivo quello di mettere insieme il cibo per la cena – qualunque cibo, compresi gli avanzi dei negozi e del fornaio. A volte va bene, a volte no, e qualcuno rischia di rimanere a pancia vuota.

Pelare patate, passare lo straccio sul pavimento, bollire i pomodori da sugo regalati da una vicina, spennare un “polletto” arrivato da chissà dove, che dovrà bastare per tutti; solo questo riempie la vita.

Ma attenzione: niente verismo, né neoralismo. Le pagine hanno dei silenzi, dei codici segreti tra le righe della scrittura parca, essenziale. La ragazza tredicenne si ritrova in questo mondo chiuso, feroce, abbandonata da quella che riteneva la sua famiglia. Nessuna spiegazione, solo un trasferimento improvviso, come uno schiaffo. Le raccontano che questa famiglia l’ha richiesta, ma lei non ci crede; si sente rifiutata, si sente un peso, una bocca in più da sfamare. Resiste, cerca di sopravvivere, senza abbandonarsi alla disperazione, anche se non sempre riesce a mangiare perché tutti sono svelti a impossessarsi degli scarsi bocconi; anche se deve sopportare gli scherzi di un fratello pestifero; anche se è costretta a dormire in un letto singolo coricata su un fianco mentre la sorella, che soffre di incontinenza post-infantile, inzuppa il materasso.

Intanto il tempo passa, la ragazzina continua a cercare la madre naturale, che l’amava, la nutriva, e sembra sparita nel nulla. La cerca per chiedere, per rinfacciare forse: perché mi hai abbandonata? Perché ti nascondi?

La ragazzina tredicenne, che sopporta tutto in silenzio, con dignità, proprio come la moglie comprata da Martinon; la ragazzina che combatte con lo studio, diventando una studentessa modello, la sua unica ancora di salvezza: come può non evocare Jane Eyre?

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Bella mia https://www.carmillaonline.com/2014/05/22/bella-mia/ Wed, 21 May 2014 22:44:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14800 di Marilù Oliva

bellaDonatella Di Pietrantonio, Bella mia, Elliot Edizioni, Roma, 2014, pp. 191, € 17,50.

Il titolo Bella mia non è riferito a Caterina, la protagonista del romanzo, e nemmeno alla sua gemella morta. È un’invocazione affettuosa intonata a L’Aquila, cantata in una filastrocca popolare che rievoca la nostalgia di chi la ricorda da lontano. E lontana è ormai la città, agli occhi dei suoi cittadini, dopo il 6 aprile 2009. Le macerie si amplificano a simbolo interiore di distruzione, lo sgomento allenta i vincoli e dissipa le aspettative. Le C.A.S.E., ovvero il complesso di nuovi alloggi prefabbricati in [...]]]> di Marilù Oliva

bellaDonatella Di Pietrantonio, Bella mia, Elliot Edizioni, Roma, 2014, pp. 191, € 17,50.

Il titolo Bella mia non è riferito a Caterina, la protagonista del romanzo, e nemmeno alla sua gemella morta. È un’invocazione affettuosa intonata a L’Aquila, cantata in una filastrocca popolare che rievoca la nostalgia di chi la ricorda da lontano. E lontana è ormai la città, agli occhi dei suoi cittadini, dopo il 6 aprile 2009. Le macerie si amplificano a simbolo interiore di distruzione, lo sgomento allenta i vincoli e dissipa le aspettative. Le C.A.S.E., ovvero il complesso di nuovi alloggi prefabbricati in cui le famiglie sentono moltiplicarsi il senso di precarietà, diventano scenario minimo di un romanzo che si arricchisce di più ampi sfondi: quello del fantasma di una città sventrata e, soprattutto, quelli interiori di vite in via di ricostruzione, alla ricerca di un equilibrio che si rintraccia solo dopo aver camminato sul dolore. Il dolore non è solo il lutto, in questo caso quello della gemella che Caterina ha perso durante la fatidica notte del terremoto: è morta e ha lasciato in eredità suo figlio Marco. Il dolore è anche la ricomposizione, l’incastro tra quelli che rimangono e che, a volte, non sanno quali misure prendere con l’esistenza. Anche perché i ricordi premono, delle volte costringono a fughe forzate, come nel brano che vi proponiamo qui sotto (pp.38-40): è la notte di quello che sarebbe stato il compleanno delle gemelle e Caterina può superarla solo in solitudine.
Donatella Di Pietrantonio, tra i dodici finalisti dell’edizione 2014 del Premio Strega, è nata e ha trascorso l’infanzia ad Arsita, un paesino della provincia di Teramo. Oggi vive a Penne. Esercita la professione di dentista pediatrico e il suo primo romanzo, Mia madre è un fiume, è uscito per Elliot tre anni fa.  [ Marilù Oliva]

«L’uomo alla reception mi registra senza neanche uno sguardo e sono contenta di non doverlo ricambiare. Salgo nella stanza.

La notte trascorre, in qualche modo. Le tende pesanti odorano di polvere e fumo stagionato quando le tiro al massimo per escludere il sole dell’alba, un coltello doloroso nelle pupille ancora dilatate. Siedo sul letto sfatto, verso il comodino. Alla luce stretta della lampada preparo il bicchiere di cognac versato dalla bottiglia che mi sono portata dietro da sola, le dieci compresse di Tavor in fila sul ripiano di legno finto. Avverto l’amaro della prima sulla lingua, il sorso di liquore brucia la mucosa da tanto astemia, ne butto giù un’altra, sorso di cognac e un’altra un’altra un’altra, sempre seguita dal sorso che non vuota mai il bicchiere infinitamente capace. O forse l’ho riempito una o due volte. Sento tutti i centimetri di lunghezza dell’esofago incendiato, la rivolta nello stomaco digiuno. Resisto. Reprimo i conati con una fredda sequenza di deglutizioni.

Schiaccio l’interruttore e mi avvolgo nelle coperte, di nuovo gemella dormo in questo grande utero scuro la mia morte provvisoria. Il risveglio cade in un’ora imprecisa della sera. Non so dove vomito. Dopo sprofondo in una seconda filata di ore, più breve. Alla fine accendo l’abat-jour e vomito ancora un po’ di acido cloridrico sul pavimento tra il letto e il tappeto. La testa è un alveare impazzito e pulsante, ricomincia piano a percepire il corpo, la debolezza. Bevo acqua dal rubinetto del lavabo, in bagno. Evito con cura lo specchio e resto a lungo sotto la doccia, attenta alle garze della mano infortunata. Poi asciugo una pelle estranea e sorda, un deserto di cellule dove il sangue tarda ad affluire, i nervi stentano a riattivarsi. Durante il giorno del sonno, l’organismo si è ridotto a un grumo battente centrale, un piccolo nucleo di vita condensata, e da lì riparte adesso l’onda del calore conservato, verso la superficie pallida e spenta. I tessuti si dispongono a ricevere nutrimento, i cicli riprendono. Non mi oppongo.

Apro le tende. Il tempo che ho voluto perdere è già ieri. In uno ieri più vecchio ho aiutato mia madre a lavarla, vestirla. All’inizio c’era qualcun altro con noi nello stanzone gelido, una figura indistinta sullo sfondo, sul bianco della parete, di sicuro una donna, non so chi. Poi deve essere uscita, ci ha lasciate sole quando ha capito che avevamo trovato la forza, sul momento, per quello che andava fatto.

Non avremmo permesso a nessuno di occuparsi del nudo di Olivia, dei suoi orifizi indifesi, del torace schiacciato. Lei ci contrastava passiva, con una rigidità minerale. Una polvere a grana grossa le copriva soprattutto le mani e il viso intatto, come una cipria pesante per un carnevale atroce.

I capelli non si potevano lavare, li abbiamo solo scossi per liberarli di quello sporco secco e friabile. Alla fine era bella, l’abbiamo guardata e baciata, io uno sulla fronte e sua madre tanti, ai piedi, alle mani, alle guance e alla testa, accarezzandola. Solo allora l’ha bagnata di lacrime, non prima, mentre la preparava. Le ha parlato, a lungo, con parole che non ricordo. Olivia era pronta all’incontro con Marco. Anche di quello non ricordo niente, o devo essermi allontanata. All’ultimo minuto le ho tagliato una ciocca, dalla nuca, altrimenti non me lo avrebbe perdonato, e l’ho presa per me. L’ho conservata in una scatolina di carta fiorita, ogni tanto la apro per vedere se almeno questo ricciolo può restare uguale nel tempo che lo separa da lei. Per adesso l’unico cambiamento percettibile è che i capelli appaiono un po’ più aridi, opachi, a passarli tra pollice e indice si sente subito la differenza. Non sono attaccati alla vita».

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