Donad Trump – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Which side are you on? https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/which-side-are-you-on/ Tue, 23 Jul 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83563 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County Che lì non ci sono neutrali O sei iscritto al sindacato Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo? Oh, ditemi come fate Sarete pidocchiosi crumiri O vi comporterete da uomini? Da che parte state? Da che parte state? (“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County
Che lì non ci sono neutrali
O sei iscritto al sindacato
Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair
Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo?
Oh, ditemi come fate
Sarete pidocchiosi crumiri
O vi comporterete da uomini?
Da che parte state?
Da che parte state?

(“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura e della cultura nordamericana. Conoscenza che, fin dagli anni Settanta, si è sempre accompagnata ad un impegno militante fortemente intriso di marxismo e al tentativo, quasi sempre riuscito, di ricollegare la lettura marxiana della realtà alla capacità di penetrare a fondo in quella che, per i seguaci più ortodossi del filosofo di Treviri, è sempre stata relegata a semplice sovrastruttura dell’attuale modo di produzione.

A dimostrarlo fu proprio l’opera prima, se così si può definire un saggio articolato nella sua prima edizione in due volumi, La cultura underground, pubblicata per la prima volta nel 1972 da Laterza e poi ripresa e rivista ancora successivamente dalla stessa casa editrice (1973 e 1980) e, nel 2009, da Odoya. Opera che, in Italia, fu forse la prima a politicizzare seriamente i differenti aspetti delle culture alternative sorte nell’ambito dei movimenti giovanili e di protesta statunitensi, a partire dalla musica fino al teatro e alla letteratura.

D’altra parte proprio la letteratura nordamericana ha costituito per Mario Maffi il vero e proprio campo di indagine di una vita professionale che si è svolta all’Università statale di Milano dove ha insegnato Cultura e letteratura anglo-americana dal 1975 al 2011. Motivo per cui, tra il gran numero di articoli, prefazioni e libri pubblicati dallo stesso, spesso anche all’estero, vanno certamente ricordati la Storia della letteratura americana pubblicata, insieme a Guido Fink, Franco Minganti e Bianca Tarozzi, da Sansoni editore nel 1991; Mississippi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell’America (Rizzoli 2004 e il Saggiatore 2009); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, con Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari (il Saggiatore 2021) oltre alle le varie indagini condotte sulla città di New York e i suoi quartieri differentemente caratterizzati sia dal punto di vista etnico che sociale.

Il motivo di questo interesse per gli Stati Uniti e le loro “culture”, spesso sovrapposte e conflittuali tra di loro alla faccia del tanto declamato melting pot, è stato ben spiegato dall’autore medesimo nell’introduzione ad Americana:

Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente, rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di questa storia, società, cultura, è passata attraversole parole pronunciate – come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo dell’«America»1.

L’attuale saggio pubblicato dalle edizioni Shake in realtà costituisce la riedizione di una delle sue opere più importanti, La giungla e il grattacielo (Laterza 1981 e Odoya 2013), che, oltre a una revisione completa del testo con lo spostamento di un capitolo e l’aggiornamento della bibliografia, contiene due ampi capitoli aggiuntivi e uno breve finale che non comparivano né nell’edizione del 1981 né in quella del 2013. E un nuovo titolo tratto da una canzone di lotta che Florence Reece (1900-1986), attivista e moglie di un minatore e organizzatore sindacale, compose nella primavera del 1931, nel corso di un lungo e aspro sciopero nelle miniere di carbone della Harlan County (Kentucky) passato alla storia come “The Harlan County War”, durante il quale lo Stato (nella persona dello sceriffo J. H. Blair) e il padronato ricorsero a ogni mezzo, legale e illegale, per piegare la lotta dei lavoratori: Which Side Are You On? Da che parte state, appunto.

Uno degli autentici inni del proletariato americano ripreso non soltanto durante le lotte, ma anche da interpreti quali Pete Seeger, Billy Bragg, Nathalie Merchant e Ani Di Franco, solo per citarne alcuni. Come spiega lo stesso autore per motivarne l’impiego come nuovo titolo della ricerca:

mi e sembrato infatti che l’ormai celebre verso di Florence Reece fosse ancora più appropriato a un libro che tratta del modo in cui, a fronte di un acuto e incessante conflitto sociale dispiegatosi negli Stati Uniti nei decenni tra la fine della Guerra civile (1865) e il 1920, un congruo numero di scrittori e scrittrici presero posizione da una parte o dall’altra: chi a favore delle lotte proletarie e chi contro, chi con titubanza e chi con decisione, e chi in difesa del sempre risorgente “Sogno Americano”; e lo fecero con un corpus sorprendente di opere, di importanza non secondaria per la scena letteraria statunitense, oltre che per l’evoluzione dei singoli autori e delle singole autrici2.

Oggi, mentre Trump è tornato a sventolare dalla convention repubblicana di Milwaukee, il “sogno americano”, diventa indispensabile ripercorrere il cammino culturale, letterario e soprattutto di lotte, spesso sanguinose e irriducibili, che hanno portato il proletariato americano, soprattutto “bianco”, a diventare parte integrante ma non ancora del tutto integrata di quel sogno. Servito spesso più ad escludere che ad integrare, lungo le linee implacabili del “colore” e della separazione etnica e razziale. E il bel libro di Maffi, riprendendo il discorso fin dalle origini, è un validissimo strumento per comprendere l’evoluzione della presenza del proletariato nella letteratura e nell’immaginario americano.

Ecco allora passare sotto i nostri occhi le opere di scrittori come Stephen Crane, con le sue ragzze di strada e di officina; di Jack London, con i suoi proletari irriducibili e spesso, troppo, un po’ razzisti; di Theodore Dreiser e le sue ricostruzioni della Grande Mela della finanza e dello sfruttamento; di Upton Sinclair con le sue storie della “giungla” dei macelli e delle officine di Chicago; di Sherwood Andersone e dei suoi proletari bianchi del Sud; di John Reed e del suo apprendistato rivoluzionario, poi coronato dall’esperienza della rivoluzione messicana e dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di quella bolscevica. Senza dimenticare sia i muckracker, ovvero i giornalisti e gli scrittori che scavavano nel fango e nella melma degli scandali dell’arricchimento e dello sfruttamento, due facce della stessa medaglia venduta con il sogno, antesignani del giornalismo di inchiesta moderno; sia le dime novel, ovvero i romanzetti popolari a puntate, precursori dell’editoria e della letteratura di massa con tutti i loro miti ed eroi, destinati allo svago ma spesso riflettenti le opinioni di coloro che ne erano i principali lettori e consumatori.

Nelle pagine di Da che parte state è come se il lettore assistesse alla formazione della classe operaia americana all’interno della letteratura statunitense che, anche se inizialmente inesistente come avrebbero lamentato Eleanor Marx ed Edward Aveling nel 1891 in un loro studio sul movimento operaio nordamericano, avrebbe finito invece col costituire lo humus da cui, a partire dagli anni Trenta, si sarebbe poi sviluppata gran parte della migliore letteratura statunitense con autori come John Dos Passos, John Steinbeck, Erskine Caldwell e avrebbe allungato in qualche modo la sua ombra fino alle pagine sui poveri bianchi del Sud che avrebbero caratterizzato le opere di William Faulkner e altri. Magari fino a quella Hillbilly Elegy che è stata l’opera con cui molti americani hanno incontrato per la prima volta l’attuale candidato repubblicano alla vicepresidenza: J. D. Vance.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di«asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la pvertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentano la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture famigliari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate. […] E’ stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità3.

Pagine ben lontane, per il loro intrinseco populismo, da quelle delle lotte affrontate a cavallo tra i due secoli e riportate nei testi utilizzati da Maffi; così come queste ultime sono lontane da quelle di Harvey Swados (On the Line, 1957 in Italia Alla catena, Feltrinelli) oppure di Hubert Selby Jr. (Last Exit Brooklyn, 1964, in Italia Ultima fermata Brooklyn, ancora per Feltrinelli) in cui alla sconfitta di classe si accompagna la dolorosa e definitiva presa di coscienza dell’irrealizzabilità del sogno americano.

Ma per non inseguire un discorso che ci porterebbe troppo lontano nella riflessione, torniamo al testo di Maffi e, in particolare, a una delle due nuove parti aggiunte all’edizione attuale: quella intitolata Donne al lavoro e in lotta. Estremamente attuale e ricca di spunti di riflessione, sia sui problemi legati alla classe che a quelli di genere. Soprattutto in un Occidente che sembra, soprattutto con il fenomeno Me Too, averli radicalmente e definitivamente separati.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo

il conflitto sociale, gli scioperi, lo scontro di classe alimentato dalle ricorrenti crisi economiche di un capitalismo in travolgente e caotica ascesa, conoscono punte acutissime: addirittura di quasi guerra civile, come avviene a più riprese nelle regioni minerarie dell’Ovest. Queste lotte finiscono per coinvolgere intere comunità ruotanti intorno alle fabbriche, alle miniere, ai posti (e avamposti) di lavoro: toccano tutti e tutte, mobilitano interi gruppi familiari, uomini, donne, bambini, anziani, con l’immediata e istintiva solidarietà che si sprigiona da questi eventi. Gli esempi sono numerosissimi: dall’attività clandestina dei Molly Maguires nei pozzi di carbone della Pennsylvania allo sciopero generale e alla Comune di St. Louis del 1877, dalla mobilitazione per le otto ore di lavoro culminata nei “fatti di Haymarket” a Chicago nel 1886 alle autentiche battaglie che negli anni novanta videro protagonisti per l’appunto i minatori dell’Ovest, gli operai delle acciaierie di Homestead in Pennsylvania nel 1892 e quelli della fabbrica di carrozze ferroviarie Pullman di Chicago e poi dell’intera rete ferroviaria nel 1894, la mobilitazione delle camiciaie di New York nel 1909-1910, fino ai grandi scioperi nelle fabbriche tessili di Lawrence nel Massachusetts nel 1912 e nelle seterie di Paterson nel New Jersey nel 1913… gli episodi fra i più importanti, anche dal punto di vista del coinvolgimento in essi di intere comunità e di conseguenza del ruolo decisivo che vi svolsero le donne proletarie4.

Ma, nonostante tutto ciò:

L’ancora scarsa sindacalizzazione femminile, dovuta anche alle posizioni corporative e conservatrici assunte dal maggiore sindacato, l’American Federation of Labor, rese ben più drammatica la condizione proletaria in generale, e quella delle donne proletarie in primis: e sarà solo con la nascita degli Industrial Workers of the World nel 1905, con il loro programma di mobilitazione e organizzazione delle fasce più sfruttate e marginali della manodopera americana, che la situazione comincerà a mutare, aprendosi a una diffusa presenza femminile nella mobilitazione e negli organismi di lotta dei primi due decenni del nuovo secolo5.

Questo non impedirà, però, il formarsi di una letteratura, sospesa tra saggistica e narrativa, che, pur non abbandonando talvolta le strutture della mentalità piccolo borghese di chi contribuiva a crearla, iniziava a porre le donne, soprattutto quelle giovani e immigrate, spesso di origine ebraica, al centro di vicende drammatiche che le vedevano protagoniste dei grandi scontri di classe allora in atto.

L’intento di denuncia compreso in molte delle opere elencate e riassunte da Maffi rivela anche come il realismo dell’epoca, molto vicino al naturalismo di cui Émile Zola era all’epoca maestro in Francia, contribuisse a dar vita a trame in cui elementi romantici e descrizioni ad effetto delle condizioni di vita delle classi meno abbienti finivano col sopravanzare la portata politica del messaggio contenuto in quegli stessi romanzi e novelle, troppo spesso ancora intrisi di una certa moralità borghese.

Ma tale presenza nelle lotte insieme all’attivismo politico e sindacale femminile costituiva una delle grandi novità per il movimento operaio del nascente XX secolo così come, all’altro capo del mondo, le giovani operaie di San Pietroburgo avrebbero dimostrato dando inizio, con il loro sciopero spontaneo del febbraio 1917, a quella che sarebbe poi diventata la Rivoluzione russa.

Una storia oggi rimossa, spesso dallo stesso movimento femminista borghese, timoroso di scoprire come liberazione della donna e della sessualità e lotta di classe siano inscindibilmente legate, come anche gli anni Sessanta e Settante, sia in America che in Europa e nel corso delle lotte di liberazione nazionale, avrebbero ancor dimostrato.

Così la sollevazione delle 30.000 operaie nel Lower East Side di New York avrebbe superato nella realtà le premesse contenute fino ad allora nella letteratura femminile di stampo proletario.

Nel rigido inverno del 1909-10, le operaie addette alla confezione di camicie (per lo più giovanissime immigrate di recente) bloccarono per quattordici settimane uno dei settori chiave nell’industria dell’abbigliamento che, in quegli anni, stava radicalmente trasformandosi per rispondere a un mercato di massa in espansione: il ready-made. Fu uno sciopero agguerrito, fatto di duri picchetti, di ripetuti scontri con la polizia, di raffiche di arresti (seicentocinquantatre) e di pesanti condanne da parte di una magistratura invariabilmente schierata dalla parte del padronato e dello Stato (nell’emettere una sentenza, il famigerato giudice Olmstead ebbe a dichiarare: “Siete scese in sciopero contro Dio e contro la Natura, la cui legge intoccabile è che l’essere umano si procaccia il cibo con il sudore della fronte. Siete scese in sciopero contro Dio”).
Le camiciaie di New York seppero dunque dare vita a un sindacato fino a quel momento osteggiato, e la loro lotta si accompagnò a una grande mobilitazione nel Lower East Side, da cui in massima parte provenivano – preludio ai conflitti degli anni seguenti che videro scendere in piazza piu di 100.000 lavoratori e lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento. E la trasformazione dello sciopero di settore in sciopero generale è espressa in maniera appassionata dall’intervento in yiddish della ventitreenne Clara Lemlich all’assemblea del 22 novembre 1909. Dopo avere assistito a due ore di inutili discorsi da parte dei rappresentanti sindacali, la ragazza prese la parola e proclamò: “Sono un’operaia. Una di quelle che sono scese in sciopero contro condizioni intollerabili. Sono stanca di stare a sentire interventi che parlano in termini generali. Noi siamo qui per decidere se scioperare o meno. Propongo una mozione perché venga dichiarato lo sciopero generale – adesso!”.
La sala esplose in un uragano di applausi, seguito a gran voce dal giuramento modellato sul tradizionale giuramento ebraico di fedeltà alla causa: “Se dovessi mai tradire ciò per cui mi batto, che la mia mano possa avvizzire sul braccio che ora levo”. La quasi totalità delle 30.000 operaie scese in lotta nei giorni immediatamente successivi, appoggiata da altri settori del mondo del lavoro newyorkese6.

La vicenda sarebbe stata narrata in poco meno di cento pagine, in The Diary of a Shirtwaist Striker. A Story of the Shirtwaist Makers’ Strike in New York (pubblicato nel 1910 dalla Co-operative Press di New York) sotto forma di un “diario” (dedicato alle “eroine senza nome” di quella lotta clamorosa), che si immagina scritto tra il 23 novembre 1909 e il 23 gennaio 1910 da Mary, un’operaia americana. La vera autrice del “diario” fu, invece, Theresa Serber (1874-1949), nata nei dintorni di Kiev in una famiglia russo-ebrea che giunse negli Stati Uniti nel 1891, andando a vivere e lavorare nel Lower East Side. Dopo aver trovato impiego come mantellaia, Theresa da subito iniziò a occuparsi delle condizioni di vita e lavoro nel settore e per tutta la vita si occupò della condizione femminile e dell’educazione delle donne immigrate, schierandosi contro l’orientamento del femminismo piccolo-borghese; mentre nel 1917, prese apertamente posizione contro l’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

Per sole ragioni di spazio occorre, purtroppo, chiudere qui la recensione di un testo che meriterebbe ancora ben altre riflessioni e annotazioni, con la speranza di essere comunque riuscito nell’intento di stimolare l’interesse delle lettrici e dei lettori nei suoi confronti e in quelli del suo autore e delle sue ricerche sulla lotta di classe e la cultura americana


  1. M. Maffi, Introduzione a M. Maffi, C. Scarpino, C. Schiavini e S.M. Zangari, Americana, il Saggiatore, Milano 2021, p. 14.  

  2. M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, p. 8.  

  3. J. D Vance, Elegia americana, Garzanti 2020  

  4. M. Maffi, op.cit., p. 230.  

  5. Ibidem, p. 231.  

  6. Ivi, pp. 243-244.  

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Il nuovo disordine mondiale / 20: Guerra santa (subito?) https://www.carmillaonline.com/2023/01/11/il-nuovo-disordine-mondiale-20-guerra-santa-subito/ Wed, 11 Jan 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75603 di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili [...]]]> di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili uccisi e brutalizzati, cercano di convincere un’opinione pubblica sempre più stanca e distratta della necessità di “partecipare” alla guerra con l’invio di armi all’esercito di Zelensky ormai “avviato alla vittoria”, l’analisi dei fatti a livello internazionale suggerisce che la vittoria ucraino-occidentale sia ben lontana e che, anzi, questa sia fortemente inficiata da un ampliamento delle aree di conflitto che non fa altro che giustificare il titolo di questa serie di articoli, iniziata su «Carmilla online» esattamente il 25 febbraio 2022.

Da Taiwan alle isole Curili, dall’Artide all’Antartide passando per parti significative dell’Africa Sub-sahariana, il Mar Cinese meridionale e il quadrante dell’Indo-Pacifico, sono tantissimi i punti di frizione in cui le maggiori potenze e i loro alleati locali potrebbero accendere la scintilla di un conflitto devastante che più che in una terza guerra mondiale “a pezzi”1, probabilmente già in atto, potrebbe rapidamente trasformarsi in una guerra totale su larghissima scala. A conferma di ciò occorre sottolineare che in ogni area di frizione e possibile confronto militare si addensano tutti i fattori possibili di competizione: dalla concorrenza economica al controllo delle risorse (sia naturale che tecnologiche, come nel caso della produzione di microchip a Taiwan) fino a quelli riconducibili alle esigenze di carattere strettamente militare e geo-politico. Tutte situazioni in cui i possibili antagonisti sono numerosi e talvolta alleati o nemici sul luogo mentre invece possono avere posizioni rovesciate in altre situazioni di disequilibrio.

A tutto ciò vanno ad aggiungersi le mai sopite contraddizioni intereuropee intorno al ruolo di chi deve comandare in Europa (Francia? Germania? Gran Bretagna? Stati Uniti?)2, quelle interne agli Stati Uniti3 e, last but not least, le differenti posizioni in sede di Alleanza atlantica e Unione Europea rispetto all’invio di armamenti e aiuti all’Ucraina di Zelensky e le posizioni da tenere nei confronti delle sanzioni riguardanti gas, petrolio e commercio con la Russia.

Le folle di cui parla DeLillo nel suo Rumore bianco sono quelle che si riunivano nelle adunate del Terzo Reich, soprattutto in quelle in cui a parlare fosse il Fürher: «Accorrevano folle a sentirlo parlare, folle in preda a carica erotica, le masse che un tempo aveva definito la sua unica sposa […] Quelle folle accorrevano per fare da scudo alla propria morte. Farsi folla significa tener lontana la morte. Uscire dalla folla significa rischiare la morte individuale, affrontare la morte solitaria. Quelle folle accorrevano soprattutto per questa ragione. Erano lì proprio per essere folla»4.

In piazza San Pietro il Papa emerito non poteva più parlare, ma altri lo hanno fatto per lui e lo faranno ancora. Annunciando una nuova stagione di guerra. Non più solo al di fuori della Chiesa, ma anche al suo interno. Non solo per motivi teologici o di forma (la messa in latino), ma ben più sostanziali, concreti e terreni. In un momento in cui, nonostante la strombazzata unità di intenti e di stili di vita, l’Occidente non trova un attrattore degno di questo nome, tanto meno fatale, per riunire nuovamente insieme grandi folle inneggianti alla Patria e alla Nazione, come sarebbe in realtà necessario per proseguire con successo nella guerra dei mondi che è già iniziata.

«Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce […] Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere»5. Oggi le cattedrali del consumo, i social network, la Rete, i media riescono a ricreare solo in parte tale tipo di assembramento unitario. Vale per coloro che convocano su Facebook o TiKTok e WhatsApp manifestazioni e flash mob cui di solito non partecipa nessuno o pochissimi oppure si trasformano in assalti spettacolari ma privi di risultato alle istituzioni del potere, ma anche per le grandi reti di vendita di dati e merci che iniziano a dover licenziare i dipendenti a migliaia o decine di migliaia. Manca il collante comune, il minimo comune denominatore che la tanto decantata società aperta si è persa da qualche parte per strada.

Ammesso che tale idea di società, formulata prima da Henri Bergson nel 1932 e successivamente sviluppata da Karl Popper, sia realmente esistita in qualche momento della storia compresa tra la fine del secondo conflitto mondiale e il tempo attuale, certo ha fatto sì che nel definire le politiche sociali e globali degli ultimi settant’anni, al di là di ciò che è stato ed è ancora dettato dalle esigenze immediate del capitale, all’interno delle società occidentali e del loro modo di produzione dominante a regnare sia stata più la termodinamica del non equilibrio che i principi della meccanica classica. Che necessita di forze, poli e campi tali da poter definire con certezza esperimenti sia nell’ambito delle discipline naturali che sociali (e politiche).

La celebre massima di Margaret Tatcher, la società non esiste esistono solo gli individui, si è sostanziata nella realtà attuale, ma il risultato “politico” è stato che, mentre un tempo le grandi folle si radunavano per perdere la propria individualità in nome di un’identità comune, semplicemente, oggi le “masse” hanno perso qualsiasi tipo di identità, sia individuale che comune. Senza nemmeno trasformarsi in quelle moltitudini costituenti che han fatto gran parlare di sé fino a qualche anno or sono e senza alcun costrutto materiale. Se non l’esser fondato sulla costante e instancabile ricerca di un “nuovo soggetto” che ha sempre caratterizzato certe teorizzazioni dell’operaismo italiano (di derivazione più gramsciana che marxiana).

Per dirla in altro modo: la progressiva vittoria del capitale sulle barriere opposte prima dalle comunità e dalle classi poi degli stati nazionali e dei nazionalismi ha permesso che la sfera di valori in cui milioni, o meglio miliardi di persone nel mondo globalizzato, fin dagli albori dello sviluppo del capitalismo industriale, si muovono sia di fatto andata riducendosi a sole due triadi. Quella dell'”investi, produci/vendi e ricava profitto” (magistralmente riassunta dalla formula marxiana D – M – D1) valida per i funzionari del capitale e quella rappresentata da “lavora-produci, consuma e crepa” sussunta in pieno da ciò che rimane della classe lavoratrice o aspirante ad esser tale.

Al di fuori di ciò, potenzialmente, non dovrebbero sussistere altri valori morali, politici, di classe, nazionali od altri che possano mettere i bastoni tra le ruote alla progressiva espansione del capitale e delle sue regole elementari. Fatto che, soprattutto in Occidente, con il trionfo della società dei consumi dalla fine del secondo conflitto imperialistico in poi e con l’avvento del “secolo americano” a seguito di quello, ha avuto come conseguenza il progressivo superamento mercantile dei confini e delle istituzioni parlamentari nazionali a vantaggio del predominio del capitale finanziario. Dando di fatto vita a comunità d fatto reggentisi unicamente sulle leggi dello sviluppo e dell’interesse capitalistico.

Come chi scrive ha già avuto modo di sottolineare nella prefazione al testo, di Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, (Il Galeone Editore, Roma 2022), citando Jacques Camatte6:

In realtà fu già intuizione di Marx il fatto che il capitale tende a farsi comunità, poiché un modo di produzione non è altro che una forma di vita e riproduzione comunitaria basata su determinate regole. In questo caso basate ormai da più di due secoli su quelle della valorizzazione e accumulazione capitalistica. Attraverso il movimento della società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità dell’uomo il quale non è più altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa (carcasse) del tempo» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 48). Così il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra il movimento della società e il movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio perché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità7.

Non solo:

(Il capitale) si è impadronito dello Stato, comunità alienata degli uomini o, se si vuole, tentativo di conciliazione degli antagonismi, al punto che può apparire come la negazione del potere (Macht) di una classe dal momento che non ne ha nemmeno più bisogno per assicurare il proprio dominio (Herrschaft); anche la classe dominante viene dominata. Ormai il capitale ha bisogno solo di schiavi8.

Ecco allora che la classe al potere inizia a saggiare sulla propria pelle il fatto che, secondo Marx (nel III libro del Capitale), «il vero limite al capitale è il capitale stesso». Limite non soltanto più produttivo, come si intendeva principalmente nelle pagine incompiute del Moro di Treviri, ma anche politico ovvero di gestione dello Stato e della società divisa in classi.

Una società frammentata ma, allo steso tempo, organizzata intorno alla fascinazione delle merci e suddivisa in infiniti rivoli “identitari” che vanno dall’appartenenza alle tifoserie sportive alle identità di sesso e genere dei singoli come di quelle etniche e razziali, talvolta sovraniste (ma basterebbero i risultati elettorali ottenuti in Italia da Italexit o dalle parallele liste “di sinistra” o di estrema destra a far comprendere l’inessenzialità delle stesse per un discorso socialmente più coesivo) fino a quelle definite da singole sette religiose, politiche o mercantili (leggi follower di pubblicità di merci e “artisti” o presunti tali di ogni settore dell’intrattenimento commerciale). Un enorme supermercato di merci scintillanti e idee opache in cui, come si diceva all’inizio, a predominare è ancora la necessità di riproduzione del capitale e di estrazione di plusvalore estorto dal lavoro coatto, ma travestita da scelte e gusti “personali”.

In cui anche i rappresentanti politici e di governo son finiti col rassegnarsi ad essere null’altro che prodotti commerciali, possibilmente ben confezionati, da vendere agli elettori. Promoter e spin doctor son diventati così, insieme agli algoritmi che interagiscono nei e con i social, i veri “comitati elettorali” delle competizioni politiche travestite farsescamente da elezioni. Tendenza che ha almeno una data e un luogo di origine: il 1960 e naturalmente gli Stati Uniti, quando ebbe inizio la campagna elettorale che avrebbe portato alla Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy e la consorte Jacqueline (poi Onassis). Giocata in gran parte sulla giovane età del candidato e la bellezza della coppia. Oltre che su uno slogan da cui Trump ha poi ancora rubato l’ispirazione per il suo Make America Great Again: A time for greatness.

In quel contesto e a quell’epoca, la logica dello star system hollywoodiano sostituiva la logica politica con la promozione di un desiderio dal sapore vagamente erotico, ancor più che liberal. Cui, in fin dei conti, hanno dovuto pur qualcosa l’elezione di Bill Clinton, Barak Obama e anche il successo di certi “giovani” politici italiani o altri/e ancora.
Ma tale, oscena, macchina del controllo, che ha funzionato nel cancellare ogni reale identità di classe tra la maggior parte dei lavoratori dipendenti, ed per esaltare il consumo di ogni genere di merce, materiale o immateriale che sia, in realtà diventa anche un ostacolo nell’ambito delle mobilitazioni nazionali e nazionaliste necessarie in caso di guerra. Nessun partito o idea, sia di Destra che della Sinistra liberal-democratica, ha attualmente la forza per mobilitare, in Occidente, grandi masse in funzione bellica: sia dal punto di vista ideologico che militare.

Ce lo ricorda, ad esempio, lo storico Niall Ferguson in un saggio pubblicato su “Bloomberg”:

La guerra è tornata. Anche la guerra mondiale potrebbe tornare? Se è così, influenzerà tutte le nostre vite. Nella seconda era tra le due guerre (1991-2019), abbiamo perso di vista il ruolo della guerra nell’economia globale. Poiché le guerre di quel tempo erano piccole (Bosnia, Afghanistan, Iraq), abbiamo dimenticato che la guerra è il motore preferito della storia dell’inflazione, dei default del debito – persino delle carestie. Questo perché la guerra su larga scala è simultaneamente distruttiva della capacità produttiva, perturbante del commercio e destabilizzante delle politiche fiscali e monetarie. […] Il problema con le guerre prolungate è che gli Stati Uniti e gli europei tendono a stancarsi di loro ben prima che lo faccia il nemico9.

Non si elencheranno qui nuovamente tutti gli elementi di difficoltà nel “vincere” questa guerra che l’Occidente sta incontrando sul piano economico ancor prima che militare, ma certo la scarsa partecipazione emotiva dell’opinione pubblica occidentale ai fatti ucraini costituisce pur sempre motivo di interesse (o di relativo imbarazzo), nonostante la propaganda continua e costante dedicata al tentativo di catturarne l’attenzione (e la passione). Ma è a questo punto che è tornata in gioco la pedina ”Chiesa cattolica”.

Proprio a partire dalla morte del ex-Panzerkardinal Ratzinger si è sviluppata una battaglia, per ora, senza esclusione di colpi, che sembra vertere, più che sulle questioni dottrinarie, su come la dirigenza della più importante componente della cristianità occidentale, ovvero la Chiesa cattolica facente capo a Roma, dovrebbe comportarsi nei confronti di una guerra e dei futuri confronti militari e politici destinati a mettere in crisi, secondo la vulgata mediatica corrente, quelli che sono considerati i sacri valori della libertà e della democrazia occidentale (oltre che il predominio economico dell’ultima qui citata).

Indipendentemente dai risultati dell’incontro “privato” tra la premier italiana e papa Francesco, l’equidistanza ”pacifista” di Bergoglio non sembra più sufficiente ai fautori della “guerra per la libertà”, motivo per cui viene richiesto e suggerito al soglio pontificio di cambiare registro e trasformare l’attuale programma pastorale in un più marcato accompagnamento del gregge al macello. Che tale intento si sia maggiormente manifestato su organi di stampa di destra non colpisce, ma certo gli omaggi tributati al Papa emerito nei giorni delle sue esequie anche dai media considerati liberal o di sinistra potrebbe far pensare ad un riposizionamento degli stessi in chiave sempre più bellicista (se mai ce ne fosse ancora bisogno).

Il quotidiano della Conferenza episcopale italiana ha cercato in ogni modo di mediare e ammorbidire le differenze tra la visione di papa Ratzinger e di papa Bergoglio su varie questioni, non soltanto inerenti alla guerra senza abbandonare il percorso fin qui seguito da papa Francesco:

Nella guerra d’Europa, e per il nuovo (dis)ordine mondiale, che si combatte da più di dieci mesi in terra d’Ucraina il giorno che per gli ortodossi è la vigilia di Natale e per il resto della cristianità l’Epifania è stato un giorno pessimo, triste e feroce persino più di altri di questa carneficina – parola di papa Francesco – folle e sacrilega. Perché quando si trasforma una pur fragile occasione di tregua, comunque sia balenata, da chiunque sia stata offerta, in un nuovo terreno di battaglia – a suon di dichiarazioni sferzanti, di atti ostili e di ordigni letali scaraventati contro le vite degli altri – il giudizio deve essere netto. Così come dev’essere netto il rifiuto della logica politica e bellica e la morale distorta che impediscono di frenare il massacro10.

Appena il giorno prima, però, un quotidiano ritenuto “laico” e liberal-democratico come «Domani» aveva pubblicato una lettera di aperto sostegno all’arcivescovo di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, del 7 marzo 2022, scritta da Ratzinger: «Un messaggio di forte vicinanza all’arcivescovo ucraino che di sicuro mostra una certa distanza dalle posizioni di Francesco che, dall’inizio del conflitto, ha sempre invocato la pace ma cercando sempre di mantenersi equidistante rispetto alle parti in causa»11.

Nulla da stupirsi, quindi, se un giornale di destra, nello stesso giorno, scrive nel suo editoriale:

…poi accade che muore un Papa, nel caso emerito, il mondo si commuove e a Roma va in scena un funerale che è un gigantesco omaggio alle radici cristiane della stessa sciagurata Europa di cui sopra. E allora, al netto delle polemiche tra papi regnanti e non […] ti viene il dubbio che l’Europa non sia quella cosa là ma quella cosa lì, e lo sia anche per un laico convinto come me e immagino come molti di noi. Ma allora, se è quella cosa lì vista in Piazza San Pietro non possiamo chiamarci fuori pena perdere non solo un ruolo ma pure una identità. Ebbene sì, spiace dirlo ma noi siamo europei fino al midollo e lo siamo perché siamo figli di una storia cristiana, la quale no è esattamente ciò che oggi per lo più ci raccontano. Lo disse anche Ratzinger: «Non deve nascere l’impressione che la fede si esaurisca in una specie di moralismo politico, la Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo». Inutile e complicato rivangare una storia millenaria ma in estrema sintesi senza il cristianesimo oggi non ci sarebbe l’Europa12.

Al di là del triplo salto mortale messo in atto dal direttore del quotidiano per giustificare un ritorno all’Europa da parte di forze di Destra, soprattutto Lega salviniana e Fratelli d’Italia, che sulla critica della stessa e delle sue istituzioni hanno fondato le proprie ipotesi politiche e le proprie campagne elettorali, e trasformare l’identitarismo razzista e populista in una forma di identitarismo cristiano-medievale, quello che è possibile qui individuare è il disperato bisogno di ridurre qualsiasi tendenza pacifista, fosse anche del papa, a qualcosa che non è più utilizzabile ai fini della salvaguardia degli interessi dell’Occidente e soprattutto della parti più frammentate di quest’ultimo: l’Europa e l’Italia.

Tutte le linee di demarcazione (nazionali, politiche, sociali) sono saltate, così, senza disturbare l’inconsistente raccolta di pettegolezzi e gossip rappresentata dal libro, di 336 pagine, di Georg Gänswein, il segretario personale di Benedetto XVI, falco dichiarato e arcinemico di papa Bergoglio13, varrebbe la pena di sottolineare che ciò che non vale per certa destra italiana ed europea vale, però, per quella americana.

Si è detto all’inizio che l’elezione alla quindicesima votazione di McCarthy a portavoce del congresso degli Stati Uniti è stat una dimostrazione dell’influenza che Trump e la parte più “conservatrice “ del Partito Repubblicano avrebbe ancora sullo stesso e sulla vita politica e sociale americana, ma occorre qui sottolineare che uno dei punti di attrito più forte tra i trumpiani e il governo di Biden e l’”altro” partito repubblicano è stato quello rappresentato dall’invio degli armamenti a Kiev e della spesa necessaria per tale programma.

Infatti, tra le richieste di Trump e della sua fazione che Mc Carthy avrebbe dovuto accettare per giunere ad un accordo che ne permettesse l’elezione vi è stata quella della promessa di un «taglio alle spese per la difesa da 75 miliardi di dollari promesso da McCarthy proprio nel giorno in cui il presidente americano Joe Biden ha annunciato un nuovo ingente pacchetto di armi da 3 miliardi di dollari all’Ucraina»14.

Pochi media mainstream hanno, poi, ricordato che la visita al Senato degli Stati Uniti di Zelensky, avvenuta a fine dicembre 2022, sia stata una delle meno acclamate e proficue poiché, immediatamente dopo il suo discorso, la votazione sull’appoggio degli USA al governo ucraino ha visto 29 senatori repubblicani (più della metà di quelli in carica per il GOP) votare contro. Rivelando così che il vero argomento del contendere tra democratici e repubblicani oltranzisti è su ben altro che non i diritti riguardanti donne e minoranze di ogni genere.

In fine, occorre ricordare che anche sul fronte ucraino le forze in campo, da una parte e dall’altra, dopo aver inutilmente sbandierato su entrambi i fronti la frusta parola d’ordine dell’”antinazismo”, son dovute ricorrere alla religione come ultima ratio dello scontro con risultati che, soprattutto in Ucraina dove la secessione dalla chiesa ortodossa di Mosca si è avuta a seguito della repressione dei preti e dei monasteri non ancora apertamente schierati con il governo Zelensky, sembrano essere ulteriormente divisivi sul piano politico e sociale.

Nell’epoca della mediatizzazione e dematerializzazione del sacro, le religioni si riprendono la scena. Scendono in campo verrebbe da dire. La Chiesa Cattolica esce provata dalla fine dello”stato d’eccezione”, tra un “Pontefice dimesso” 600 anni dopo la rinuncia di Gregorio XII e un “Pontefice regnante” che c elo ha avuto al fianco per quasi 10 anni. La Chiesa Ortodossa esce dilaniata dalla guerra, e combatte a sua volta su due fronti contrapposti, tra sacerdoti ucraini cui è revocata la cittadinnza perché troppo vicini al nemico e i pope moscoviti che benedicono i soldati ch ecadranno al fronte15.

Sarà così anche da noi? Tornerà la Chiesa cattolica e romana alla sua antica funzione, ben prima del Jihad islamista, di promozione della “guerra santa” contro eretici e infedeli? Riuscirà il brand del Cristo crocifisso a sostituire quelli dei “gruppi” di ogni risma che popolano i social e delle fashion influencer che si esprimono su ogni aspetto del viver (o non viver in caso di guerra) quotidiano? O rimarrà soltanto un’ipotesi da proporre in alternativa allo scarso fascino esercitato dal binomio Patria e Nazione di cui si è parlato più sopra? E la sinistra antagonista continuerà ancora a rincorrere in rete obiettivi più dettati dagli algoritmi che da effettive lotte reali?

Oppure, nell’ipotesi peggiore, siamo solamente tornati indietro, ad un medioevo mercantile in cui tutti i nodi saranno sciolti soltanto dopo lunghe guerre “di religione” come quelle che anticiparono di trecento anni la Rivoluzione francese16? Tre secoli di interminabili guerre civili e non, destinate a determinare il nuovo assetto politico, sociale ed economico europeo e, successivamente, planetario? Questi sono alcuni dei temi su cui sarà necessario confrontarsi nell’immediato futuro, per non rischiare di predicare nel deserto usando formule dottrinarie che nessuno può più comprendere. In nome di pratiche identitarie e politiche morte da tempo immemore, proprio come il dio crocifisso dei cristiani.


  1. Come l’ha definita Luca Sebastiani sul numero 37 di «Scenari» del 30 dicembre 2022: L. Sebastiani, E’ l’Africa la culla della “guerra mondiale a pezzi”, pp. 12-13  

  2. Cfr. qui

  3. Dove l’elezione soltanto alla quindicesima votazione dello speaker repubblicano al Congresso ha dimostrato ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la persistente influenza di Donald Trump sul partito repubblicano e il suo elettorato.  

  4. D. DeLillo, Rumore bianco, Einaudi 2022, pp. 90-91  

  5. Ivi  

  6. S. Moiso, Un capitalismo totale? Prefazione a G. Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone Editore, Roma 2022, pp. 18-19  

  7. Jacques Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo libri, Bari 1976, p. 213  

  8. J. Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, op.cit., pp. 213-214, ora in S. Moiso, op. cit., p. 24  

  9. N. Ferguson, All Is Not Quiet on the Eastern Front, «Bloomberg» 1 gennaio 2023, qui  

  10. M. Tarquinio, Più ragioni per resistere, «Avvenire» 7 gennaio 2023  

  11. Ratzinger e la lettera di sostegno all’Ucraina, «Domani» 6 gennaio 2023  

  12. A. Sallusti, La nostra Europa è in San Pietro, «Libero» 6gennaio 2023  

  13. Cfr. F. Capozza, Padre Georg rivela gli scontri nella Chiesa, «Libero» 9 gennaio 2023  

  14. Cfr. qui  

  15. M. Giannini, L’atlante occidentale e la cristianità dopo Ratzinger, «La Stampa» 8 gennaio 2023  

  16. Cfr. qui  

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Il battito profondo dell’epoca https://www.carmillaonline.com/2020/02/10/il-battito-profondo-dellepoca/ Mon, 10 Feb 2020 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57599 di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo? Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista [...]]]> di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo?
Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista a chiunque, salvo poi scendere a patti con le peggiori figure del tempo, salvo agire dispositivi legali degni di una zelante camicia bruna. Eppure all’alba di questi tesi anni Venti è d’obbligo una riflessione seria e fuori da schemi stantii, non solo su quali siano le forme del fascismo contemporaneo, ma anche sulle traiettorie che esso disegna nella grande politica grazie all’azione di personaggi politici che, evidentemente, deviano dal solito registro a cui è abituata l’assise delle democrazie rappresentative. Un’assise che oggi, come non mai, rivela tutta la sua ipocrisia e fragilità.

L’analisi che Rasmussen, docente di Arte e studi culturali presso l’Università di Copenaghen e autore anche di Hegel after Occupy (2018), fa del fenomeno Trump cade allora nel momento opportuno, fornendo un’agile quanto complessa prospettiva sul nemico di oggi, quello che sta generando le nuove forme dello Stato e della politica.
Attorno al grottesco presidente degli Stati Uniti, si condensano alcuni dei nodi che si possono cogliere, mutatis mutandis, in tutti gli esponenti e i movimenti del cosiddetto sovranismo contemporaneo di ogni latitudine.
Trump non è Mussolini, né Hitler, non è un fascista classico con la divisa che saluta marzialmente le truppe armate del suo partito, eppure è un fascista; un protofascista, o un fascista Pop, se vogliamo. Le forme e i contesti sono cambiati radicalmente dagli ultimi anni Venti, ma alcuni elementi cardine permangono nella loro invariabile sostanza.

Anzitutto siamo davanti alla contestazione della contestazione, ovvero la messa in forma di quel bisogno securitario che innerva la vita della classe media in decadimento e che, incapace di vedere il suo carnefice nel capitalismo, che stesso l’ha generata, si rivolge rabbiosamente verso chi quel capitalismo lo ha attaccato, ad esempio con l’imponente ondata di proteste del biennio 2010-2011: i contestatori dell’ordine, al pari delle minoranze, dei devianti, sono la minaccia da cui difendersi, i nemici della Nazione, esattamente come lo sono le banche e i politici corrotti. È una visione paradossale e contraddittoria questa della middle class al collasso, preda di una crisi della presenza che solo un grande taumaturgo è in grado di curare. Ed è qui che emerge, dal fondo delle narrazioni democratiche, l’uomo forte, il salvatore, il riparatore dei torti.

Così si è presentato Trump al popolo: come il vincente, l’uomo di successo in grado di fare soldi a palate e tenere in riga dipendenti e famiglia, l’inviato della provvidenza giunto a fare pulizia dentro casa, giunto da fuori delle stanze dell’enstablishment e quindi pulito, non ancora corrotto dalle meschinità di palazzo.
Tra le macerie della crisi e gli appelli alla calma e all’interesse generale, che poi non fa mai bene a nessuno, si è piazzato al centro del palcoscenico, gambe larghe e petto in fuori, per dire che lui non è il presidente di tutti, che è il presidente solo degli americani buoni, lavoratori, onesti (e bianchi, etero e cristiani ovviamente) e andassero a quel paese i neri, i messicani, gli arabi, le lesbiche, i comunisti! Poche parole chiare, in mezzo a fiumi di delirio, che disegnano una linea invalicabile tra sé e l’altro, l’invariabile nemico, quello da abbattere per ritornare ai fasti d’un tempo. Per rendere l’America great again. Come lo era negli anni ‘50, con le fabbriche in città, gli operai disciplinati, le mogli ubbidienti, i comunisti spezzati e i neri bastonati nelle loro catapecchie. Con la macchina pulita, il mutuo della casa, la TV in salotto, le cimici dell’FBI nel telefono e le guerre sporche in Sud America.

È stato rimesso in gioco l’immaginario rassicurante di una società che o è andata perduta del tutto o, più probabilmente, non è mai esistita se non nelle soap opera. E attorno a quel rassicurante e depresso focolare domestico si è ricostruito il mito fondativo di una società ideale, di un popolo eletto, si sono mobilitate le pulsioni affettive, irrazionali (se proprio vogliamo definire irrazionale la voglia di un cantuccio caldo e comodo) e le si sono elevate a programma politico. Trump, ma non solo lui, ha compreso che un sogno forte è un’arma ben più potente di qualsiasi pacato e complesso programma elettorale.

Attorno al sogno, al mito, ha saputo ricreare la sua comunità nazionale, la cosiddetta comunità di destino, quella che trascende la popolazione anagraficamente data ed i territori stabiliti di diritto. Una comunità che si pone sul piano epico e metastorico: non gli Stati Uniti delle istituzioni, ma l’America dei grandi racconti, la terra del latte e del miele, la potenza che incute terrore ai suoi nemici; non gli statunitensi stretti nella morsa della crisi sistemica, ma gli americani delle réclame della Coca Cola, i Padri Pellegrini, John Wayne e Humphrey Bogart.
Terra, Popolo, Nazione, Comunità, Destino, questi sono gli ingredienti della ricetta di Trump, quella per essere grandi, per dominare il mondo, per schiacciare i nemici. E non servono tanti a argomenti razionali a confutare o sostenere il piano; d’altronde è talmente evidente! Talmente forte! Chi, se non un nemico malvagio e perverso, può essere contro la Nazione e il suo destino di tornare essere grande?

Non c’è dubbio, siamo di fronte ad una operazione politica di primissimo ordine, gli elementi chiave del fascismo poi ci sono tutti: l’uomo forte, la comunità (il trittico terra/popolo/nazione), il nemico da abbattere e l’antico ordine da restaurare. Eppure c’è un problema: abituati, come si è, a pensare il fascismo nelle sue forme solenni, storiche ed inquietanti, si perde la misura della sostanza e si finisce per guardare con una miope e ottusa sufficienza soltanto alle forme di questo nuovo fascismo in salsa pop.

Perché anziché sgorgare dalle caserme, dalla guerra, dai proclami solenni, questo nuovo fascismo è giustamente figlio del suo tempo, sgorga dalla realtà che lo circonda (come potrebbe essere altrimenti, d’altronde?) e assume le forme della televisione trash, dei talk show imbarazzanti, dei tweet, dei post fb, dei meme e della merda delirante, contraddittoria e no sense che ci inonda dagli schermi a ogni ora del giorno e della notte. È molto più facile e al passo coi tempi blaterare in continuazione sui social network piuttosto che arringare una folla inquadrata, dire che gli arabi sono ladri violenti e vengono da “paesi di merda” è più attuale che parlare del complotto giudaico. Eppure il senso ultimo rimane lo stesso, gli effetti i medesimi.

That’s the show now! E che vi aspettavate voi, i plotoni di SS che fanno il passo dell’oca in centro città? Un’idea un po’ poco originale, diciamocelo.
Sia quel che sia, ma ciò che è certo è che Trump (o qualunque altro sovranista al suo posto, ricordiamolo) con la sua ricetta di etnonazionalismo xenofobo, securitarismo violento, protezionismo economico e deregulation ha trovato la sua soluzione alla crisi. Le formule ci sono, la narrazione pure, i simboli e i registri funzionano e vengono urlati a piena voce in un teatro che ha perso qualsiasi altra attrattiva, dove le voci degli altri attori sono fioche, sbiadite e noiose repliche di uno spettacolo già fallito.

Questo è il volto della nuova politica, l’unica che appare vincente d’altronde, cosa vogliamo fare per abbattere questo nemico allora? Chiamare alla difesa della democrazia? Diffondere la cultura della tolleranza? Cantare inni per la pace o firmare petizioni on-line per approvare misure contro l’odio?1 Ottimo. Tanto quanto spararsi nelle ginocchia prima di competere alla maratona di New York.
Svegliamoci da quest’illusione della democrazia buona minacciata dal fascista cattivo!
È questa democrazia che produce i suoi mostri. O, per caso, questi sovranisti vincono le elezioni a forza di colpi di stato?

La democrazia rappresentativa, i suoi registri, le sue funzioni, di fronte all’incedere del mercato onnipotente, si fanno sempre più obsoleti, serve un Leviatano adesso, un sovrano che sappia tenere ordine col pugno di ferro nel guanto di velluto. La cultura della tolleranza e dei diritti umani non è stata, per due decenni, l’ipocrita scusa della socialdemocrazia per legittimare quella globalizzazione mortifera di cui oggi vediamo gli effetti? Non è possibile prendere un vecchio e liso canovaccio e pensare di utilizzarlo come bandiera solo perché il nemico ne usa uno diametralmente opposto. E si può chiedere allo Stato di approntare dispositivi verso il nostro nemico pretendendo che essi non colpiscano, di riflesso, pure noi? Se proprio si vuole demandare il conflitto, allora ci si ricordi della lezione del vecchio Hobbes: a parità di diritto vince la forza.

Tagliamo la questione senza ulteriori tentennamenti. Fascismo e democrazia non sono che forme politiche, contingenti e mutevoli, volte al medesimo scopo: la conservazione dell’esistente, la garanzia del soggetto dominante di continuare il suo processo di accumulazione, sfruttamento e dominio senza tanti intoppi. Il contrario di fascismo non è democrazia, ma Rivoluzione.
E se c’è da imparare qualcosa, oltre che le forme del nemico ovviamente, è che se si vuole vincere non basta l’analisi fine, il calcolo millesimale delle possibilità della fase e certo non serve la grande piazza, né la grande alleanza. È l’universo simbolico che dobbiamo interrogare, dobbiamo scomodare il mito affinché ci assista nel produrre la narrazione soggettivante che crea il popolo, quello degli oppressi sul piede di guerra, che taglia il mondo in due tra chi è amico e chi no. Non possiamo limitarci alla pura estetica del conflitto ma nemmeno accontentarci di una fredda scienza che parla solo agli addetti ai lavori e che, per di più, spesso nemmeno conosciamo. È nei simboli e nel linguaggio che un grande progetto può fiorire, replicarsi e generare la forza comune che permette di muovere l’assalto.
Offrire un mondo a chi ha perso ogni certezza, costruire soggettività dove ora vi è il deserto. Elaborare un piano e trovare le forme più deflagranti con cui farlo salire sul palco della storia. Questo è il battito profondo dell’epoca, per chi sa ascoltare.


  1. Magari attraverso la proposta, degna della peggior censura totalitaria, di un’identità digitale obbligatoria per chi frequenta social e web e relativo provvedimento di espulsione (DASPO) “per chi non rispetta le regole della convivenza civile in rete” come proposto dal leader della nuova maggioranza silenziosa Mattia Sartori. https://www.repubblica.it/politica/2020/01/18/news/sardine_daspo_social_polemiche-246080730/?ref=search  

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Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi https://www.carmillaonline.com/2019/04/11/crisi-globale-e-geopolitica-dei-neopopulismi/ Wed, 10 Apr 2019 22:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51888 Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, 25,00 euro

Il testo di Raffaele Sciortino appena pubblicato dall’editore Asterios, dedicato alle conseguenze politiche, economiche, sociali e geopolitiche che negli ultimi dieci anni sono derivate dal riesplodere della crisi economica generalizzata seguita alla cosiddetta crisi dei mutui subprime sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti nel 2008, è veramente denso di informazioni e ricco di spunti di riflessione.

L’autore, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è un ricercatore indipendente che oltre ad aver pubblicato numerosi saggi e articoli, sia cartacei che on line, [...]]]> Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, 25,00 euro

Il testo di Raffaele Sciortino appena pubblicato dall’editore Asterios, dedicato alle conseguenze politiche, economiche, sociali e geopolitiche che negli ultimi dieci anni sono derivate dal riesplodere della crisi economica generalizzata seguita alla cosiddetta crisi dei mutui subprime sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti nel 2008, è veramente denso di informazioni e ricco di spunti di riflessione.

L’autore, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è un ricercatore indipendente che oltre ad aver pubblicato numerosi saggi e articoli, sia cartacei che on line, ha pubblicato precedentemente due testi per lo stesso editore oltre ad aver curato per le edizioni Colibrì, insieme ad Emiliana Armano, un testo di Loren Goldner sul lungo ’68, Revolution in our lifetime, recensito poco tempo fa proprio su Carmilla (qui)1.

Nel corso delle 300 e più pagine che compongono il testo l’autore non si accontenta di esaminare le cause della nuova Grande crisi e le sue conseguenze sull’ordine geopolitico, economico e finanziario internazionale ma anche, e forse soprattutto, gli smottamenti che essa ha suscitato all’interno del sistema socio-politico e di classe che, soprattutto in Occidente, si era andato apparentemente stabilizzando nel corso della seconda metà del ‘900. Oltre a ciò il testo si rivela estremamente stimolante nelle sue riflessioni sull’ascesa della Cina come potenza egemone e delle conseguenze che ciò ha comportato per le politiche commerciali e militari per gli Stati Uniti da Obama a Trump.

Anche in questo caso, però, l’autore non si accontenta di uno sguardo macroeconomico e geopolitico sui fatti trattati, ma collega questi allo sviluppo della lotta di classe sia nel paese asiatico che nel declinante occidente. Occidente in cui la rinascita dei populismi può portare con sé sia un semplice ritorno al nazionalismo di stampo fascista (sovranismo), sia ad imprevedibili ed inaspettati sviluppi per una futura affermazione di una società basata sulla comunità umana e sulla negazione dello sfruttamento generalizzato della specie, dell’ambiente e delle sue risorse a vantaggio di pochi singoli o di una singola classe.

Proprio per questo motivo abbiamo scelto di riportare qui alcuni estratti particolarmente interessanti tratti dalle conclusioni dell’autore (pp. 302-305). [S.M.]

Interviene qui il secondo grande fattore, la spinta dei neopopulismi come forma attuale della lotta di classe in Occidente. Se per il proletariato cinese e, a seguire, per quella parte delle masse espropriate del Sud del mondo costrette a migrare, la prospettiva pare ancora potersi porre nei termini di un miglioramento sociale pur in cambio di duri sacrifici – nell’Occidente in profonda crisi la questione va già oltre. Qui il declassamento e il depauperamento, seppur ancora relativi più che assoluti, alludono a un domani precarissimo in cui l’ascesa sociale è finita né è in vista un nuovo compromesso sociale. E’ la confusa percezione di ciò che sta oggi diventando esperienza di massa. E’ anche il segno della crisi definitiva – per molti difficile da accettare – del movimento operaio e della sinistra, dell’ipotesi di un compromesso riformista via via trasformatosi nella cetomedizzazione dell’operaio. […] Ciò spazza via ogni prospettiva di progresso, linfa vitale di ogni sinistra possibile. Rientrano in questo quadro lo scollamento vertiginoso delle masse ripetto alle cosiddette élite, la sfiducia montante veso ogni ceto politico, la diffidenza crescente verso il tradimento delle classi ricche che, sempre più isolate in mondi dorati, lasciano andare alla deriva il resto. Per ragioni evidenti, e discusse in questo lavoro, tutto ciò non può darsi all’immediato con la ripresa di una qualche prospettiva anticapitalista, ma deve attingere a confuse, contraddittorie, spurie idee e pratiche democratiche – solo, di un democraticismo plebeo tendente al sanculottismo, terrore di ogni liberale degno di questo nome – con le quali cercare di porre rimedio, con una rabbia sorda e spesso disperata, a quella che è oramai una vera e propria disconnessione tra la riproduzione sistemica capitalistica basata sul capitale fittizio e la riproduzione sociale e di una natura sempre più devastate. La mobilitazione dei gilets jaunes – per richiamare quella che si è rivelata finora in Occidente la più combattiva e significativa mobilitazione dalle caratteristiche neopopuliste – è eloquente al riguardo.

La complicazione è che non siamo alla ricomposizione di un nuovo soggetto sociale unitario e trainante, o ai primi confusi segnali di una ricomposizione a venire. Siano alla s/composizione definitiva del soggetto proletario già frantumato dai processi di ristrutturazione capitalistica seguiti al lungo Sessantotto, e atomizzato dalla successiva globalizzazione finanziaria. L’ambivalenza caratteristica dei neopopulismi dal basso sta così nel loro essere espressione d’istanze di classe, ma di una classe iperproletaria liquida, sciolta nella completa subordinazione al rapporto di capitale, di cui pure sente il peso sempre maggiore. L’umanità che rimane – comunque la si voglia definire – deve in qualche modo reagire, non può più vivere come prima, e in alcuni, ancora isolati, casi di mobilitazione che vanno oltre l’urna elettorale, inizia a non voler più vivere come prima. La direzione che assumono queste spinte è per un verso molto al di sotto di quanto abbiamo conosciuto in passato come antagonismo di classe. Potremmo anche tranquillamente dire: infinitamente al di sotto. Ma proprio perché, con un passaggio al limite, è il terreno stesso del confronto che si è dislocato in avanti: non più classe contro classe, già espressione del rapporto contraddittorio e però inscindibile tra capitale e lavoro per soluzioni di compromesso sul terreno comune dello sviluppo, ma in nuce ricerca a tentoni di soluzioni comuni per una comunità senza classi da costituire di fronte al disastro che avanza. Il terreno della contrapposizione è dunque potenzialmente molto più avanzato, più vicino ai nodi profondi della riproduzione di una società sottratta ai meccanismi della competizione e dell’isolamento atomizzante. […]

La dialettica reazione-progresso in Occidente si è definitivamente rotta, come quella ad essa sottesa lotte proletarie-sviluppo capitalistico.
Non siamo di fronte a spinte e tendenze contingenti. Di qui bisogna passare, piaccia o non piaccia. Cittadinismo e sovranismo sono le due matrici, per lo più intrecciate tra di loro, confluite finora nelle variegate spinte neopopuliste. Oggi si può avanzare l’ipotesi che un primo tempo di questa dinamica sta volgendo alla conclusione: da un alto la mobilitazione prevalentemente elettorale ha dato quello che poteva dare e formare nuovi, stabili blocchi sociali si rivela oltremodo difficile; dall’altro, la reazione dei poteri forti globalisti porta los contro sul terreno più duro, mentre la crisi va avanti e con essa le tensioni geopolitiche dentro l’Occidente e tra esso e il resto del mondo. Ci aspetta allora con ogni probabilità un secondo tempo, più declinato verso un nazionalismo più crudo con basi sociali anche proletarie, indice di un inasprimento sia dello scontro sociale interno ai paesi occidentali sia di quello esterno tra gli interessi divergenti dei diversi Stati. I segnali ci sono tutti. Del resto, si dimentica spesso e volentieri che la deriva nazionalista è sempre stata un rischio, e più che solo un rischio, interno allo stesso movimento operaio. Financo nelle forme democratiche del compromesso sociale salariale e welfaristico che, fino a prova contraria, hanno nazionalizzato le masse lavoratrici in un modo più stabile di quanto non avessero conseguito i fascismi. Oggi, siamo però in una fase diversissima: non è in gioco l’integrazione delle masse ma, causa la crisi della globalizzazione, la disintegrazione del tessuto sociale che le ha fin qui tenute avvinte al mercato relativamente regolato dei paesi imperialisti. Il punto è che questa deriva si pone, attenzione, sulla medesima direttrice della ripresa possibile di una più forte mobilitazione sociale, di una massificazione del disagio e della ricerca di vie d’uscita, dagli esiti apertissimi, con varchi che si apriranno anche per soluzioni oggi impensabili.

Siamo, cioè, in una situazione che, a voler scomodare paragoni storici, ricorda un po’ più la Prima Guerra Mondiale -tra conflitti inter-imperialistici, nazionalizzazione del proletariato e però anche possibilità rivoluzionarie – che non la Seconda, chiusa fin dall’inizio a ogni possibile ribaltamento dell’ordine capitalistico nonostante fosse il prodotto di una sua profondissima crisi.
Le forme concrete, politiche e geopolitiche, che questo processo assumerà sono tutte da vedere.


  1. R. Sciortino, Obama nella crisi globale (Asterios 2010) e Eurocrisi, Eurobond e lotta sul debito (Asterios 2011)  

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Una guerra civile ancora invisibile https://www.carmillaonline.com/2019/04/04/una-guerra-civile-apparentemente-invisibile/ Wed, 03 Apr 2019 22:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51498 di Sandro Moiso

Marco Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino 2019, pp. 224, 14,00 euro

Nell’attuale buriana di riflessioni, più ideologiche che seriamente politiche, foriere più di confusione che di chiarezza, la riunificazione e la rielaborazione in un unico volume di tre saggi di Marco Revelli già precedentemente apparsi in libreria appare davvero come cosa utile e necessaria. Si tratta infatti di Populismo 2.0 (Einaudi 2017), Finale di partito (Einaudi 2016) e Poveri noi (Einaudi 2010) e fin dai titoli si comprende come siano tutti indirizzati a comprendere [...]]]> di Sandro Moiso

Marco Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino 2019, pp. 224, 14,00 euro

Nell’attuale buriana di riflessioni, più ideologiche che seriamente politiche, foriere più di confusione che di chiarezza, la riunificazione e la rielaborazione in un unico volume di tre saggi di Marco Revelli già precedentemente apparsi in libreria appare davvero come cosa utile e necessaria. Si tratta infatti di Populismo 2.0 (Einaudi 2017), Finale di partito (Einaudi 2016) e Poveri noi (Einaudi 2010) e fin dai titoli si comprende come siano tutti indirizzati a comprendere la rinascita del fenomeno populista e la crisi dei partiti politici così come si sono caratterizzati nel corso del ‘900 (in particolare di quelli di ‘”sinistra”) nel corso dell’ultimo decennio. Guarda caso quello determinato, socialmente e politicamente, dalla più grave crisi economica successiva a quella del 1929 e sicuramente non inferiore alla prima sia in termini qualitativi che quantitativi (miliardi di dollari e di euro perduti, disoccupazione, riduzione degli apparati produttivi e fallimenti bancari e aziendali).

Revelli, docente di Scienze della Politica presso l’Università del Piemonte orientale, costituisce una delle poche voci superstiti e menti ancora lucide dell’esperienza torinese di Lotta Continua e la parte migliore di quell’ormai lontana stagione politica si riflette nell’attenzione con cui l’attuale insorgenza di movimenti anomali e potenzialmente fascisti viene esaminata non a partire da principi assoluti e universali, ma dalle reali cause economiche e sociali che li hanno determinati. Così come, ad esempio, quel gruppo politico, scomparso a Rimini nel 1976, aveva cercato già di fare nei confronti del malessere del Meridione d’Italia a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, da quello indirettamente manifestato dal sottoproletariato napoletano fino ai fatti di Reggio Calabria e ai boia chi molla che ne avevano preso in mano le redini.

Oggi come allora, infatti, non si tratta soltanto di storcere il naso davanti alle espressioni politiche e ai comportamenti delle plebi in rivolta, nascondendosi sostanzialmente dietro ad uno sventolio di bandiere rosso-pallide e a dichiarazioni e parole d’ordine di carattere generale come quelle espresse da Nicola Zingaretti subito dopo la sua elezione a nuovo segretario del PD, secondo il quale le tre parole chiave per l’azione della sinistra, oltre a quella della realizzazione del TAV Torino-Lione, dovranno essere “scienza, società e giustizia”, lasciando invece cadere qualsiasi proposta riguardante l’istituzione di un salario minimo, ritenuta una trappola (forse per gli imprenditori) dal fratello, caratterizzato soltanto da un indice di gradimento decisamente inferiore, del commissario Montalbano.

Si tratta piuttosto, ed è proprio quello che Revelli fa nei suoi saggi, di comprendere come l’attuale rinascita del populismo derivi dall’affanno e dalle difficoltà economiche in cui è venuta a trovarsi una significativa parte dell’ex-classe media (comprensiva di larghi settori di classe operaia garantita) e dalle mancate risposte che i partiti della tradizione novecentesca non hanno saputo dare alle domande di sicurezza (soprattutto economica e lavorativa) e di prospettive che da tale settore sociale sono pervenute in maniera sempre più urgente e ultimativa.

Risposte che nemmeno una parte consistente della “sinistra” sedicente antagonista ha saputo dare, trovando forse più facile affiancare le parole d’ordine e i principi generali espressi da quella istituzionale. Facendo magari anche finta che un problema come quello dell’accoglienza dei migranti possa essere affrontato seriamente insieme a chi non solo ha collaborato alla realizzazione dei campi di concentramento in Libia, ma ha anche ampiamente utilizzato la manovalanza a bassissimo costo venutasi a determinare a seguito delle migrazioni ai fini dei profitti delle proprie aziende e cooperative. Magari nel settore della distribuzione della pubblicità in buca o altri settori a bassissimo o nullo investimento.

Una sinistra che accontentandosi di sottolineare l’evidente funzione di propaganda elettorale svolta sia da “quota 100” che dal reddito di cittadinanza, non si chiede mai, ma proprio mai, perché siano questi due provvedimenti a suscitare maggiormente le ire e le contrarietà della Commissione europea, dell’Ocse e di Confindustria. Evitando così di parlare di come questi provvedimenti possano raggiungere il loro obiettivo politico proprio in grazia del bassissimo livello dei salari e delle scarse garanzie sociali e lavorative che caratterizzano ormai la seconda economia manifatturiera d’Europa.1

Bassi salari e scarse garanzie a favore dei lavoratori che costituiscono la vera attrattiva per l’investimento estero in Italia, altro che infrastrutture e legalità, costantemente sventolate come necessità (si pensi al Tav) soltanto per permettere alla classe imprenditoriale più scalcagnata d’Europa di accedere in maniera quasi gratuita ai finanziamenti europei. Basti come esempio la fretta espressa da Confindustria e gran parte dell’arco parlamentare di giungere ad una prima decisione sui bandi di Telt, non tanto per realizzare davvero l’opera inutile e costosa, ma soltanto per iniziare ad accedere senza riduzioni di sorta agli 813 milioni di finanziamenti europei in scadenza.

Esempio che fa il paio con la richiesta di aumento della turnazione che la Fiat-FCA ha avanzato nei confronti degli operai dello stabilimento di Pomigliano, pur continuando a lasciare a casa, naturalmente a spese dello Stato, dell’INPS e degli operai stessi, quelli precedentemente messi in cassa integrazione. Stato, INPS, buste paga ridotte e finanziamenti europei usati davvero come bancomat per le imprese italiane, ancora una volta senza che alcun demagogo di sinistra abbia qualcosa da ridire o argomenti su cui ironizzare.

Ora il testo di Revelli si libra un po’ più in alto rispetto a tali scontate riflessioni e allo stesso tempo si addentra più in profondità nel malessere, spesso agitato da una rabbia sorda, che sta alla base di un cambiamento di segno politico, quello avvenuto con il diffondersi delle simpatie nei confronti dei partiti populisti e sovranisti, che non appartiene al solito ricambio elettorale, ma che sarà destinato a segnare una non breve stagione politica, sia in Italia che in Europa.

Proprio su questo aspetto, e non sui singoli personaggi o partiti, punta il dito e dirige l’attenzione del lettore il testo di Revelli. Sia quando affronta l’analisi sociologica e territoriale del voto pro o contro la Brexit, sia quando nella prima parte della terza sezione, quella tratta da Poveri Noi, ed intitolata significativamente La terza chiave. La guerra non vista, prende spunto proprio dalla crisi dei mutui subprime del 2008 per giungere alla situazione italiana attuale e al successo di Donald Trump o, almeno, alle ragioni del suo elettorato nelle ultime presidenziali americane.
Un elettorato che si è sentito definire con disprezzo deplorable, plebeo, dalla candidata democratica Hillary Clinton e che già si era sentito respinto tra i white trash dalla crisi economica e finanziaria.

“Noi tutti ci siamo misurati con la crisi, con quella che meccanicamente chiamavamo la crisi economica. Ma ho l’impressione che non si abbia bene l’idea della dimensione del terremoto sociale prodotto dalla recessione in Occidente dal 2007 al 2014-15, a cominciare dall’epicentro dal quale è partita, dagli Stati Uniti, con l’esplosione dei mutui subprime. Quella tempesta quasi perfetta ha prodotto uno spostamento sociale paragonabile a una guerra.”2

Prosegue poi Revelli:

“Si calcola che negli anni di picco della crisi, dal 2007 al 2012, quasi un adulto americano su venti abbia perso la casa a causa dell’incapacità di pagare i mutui. Ciò equivale a più di dieci milioni di persone. In prevalenza capifamiglia, o monogenitori con figli. Dieci milioni di famiglie vuol dire una trentina di milioni di persone che hanno perso il loro bene comune più prezioso a causa di una dissennata ( e nella sostanza criminale) politica sui mutui e le compravendite messa in campo da istituzioni finanziarie, banche e agenti immobiliari senza scrupoli. A questi numeri, già drammatici, vanno aggiunti poi tutti quelli che – non proprietari, ma affittuari – sono stati buttati fuori per morosità, perché il salario non era sufficiente a pagare l’affitto o perché la perdita del lavoro li aveva privati del reddito. […] Ancora nel 2016 si sono registrate negli Stati Uniti 2.300.000 intimazioni di sfratto. Una tragedia sociale che ha generato una mutazione demografica senza precedenti; dovuta a una migrazione di proporzioni bibliche […] Un esodo più massiccio di quello avvenuto durante il Dust Bowl: la catastrofica crisi agraria che colpì gli Stati Uniti e il Canada tra il 1931 e il 1939 a causa di violente tempeste di sabbia,3 e che provocò lo spostamento dalle Grandi Pianure di 2 milioni e mezzo di contadini.”4

Questo esodo massiccio, simile a quello causato da una guerra ufficialmente mai dichiarata, ha avuto aspetti militari e sociali le cui vittime non erano assolutamente preparate ad affrontare. Né a livello pratico né a livello di possibile immaginario.
Il primo aspetto ha visto infatti nascere intorno al “fenomeno degli sfratti un vero e proprio sistema con squadre di sceriffi il cui lavoro a tempo pieno è quello di eseguire gli ordini di sfratto e di pignoramento, con aziende di traslochi specializzati i cui equipaggi lavorano tutto il giorno, ogni giorno della settimana, con centinaia di società di data mining che vendono rapporti sugli inquilini.”5

Il secondo prende avvio dagli istanti immediatamente seguenti l’esecuzione dello sfratto quando tutti gli averi degli sfrattati “sono abbandonati sul marciapiede dai facchini o caricati su un camion e portati in un deposito a pagamento, fino alla ricerca di una nuova abitazione in un quartiere più lontano, più degradato, più insicuro.”6

L’esodo degli sfrattati genera quindi:

“Un movimento non lineare (a raggiera), frattale (a macchie di leopardo), centrifugo (dai centri alle periferie). Ma soprattutto selettivo, al punto da invertire la tendenza verso l’integrazione registrata nel corso dei precedenti decenni. Gli espropri delle case per mancato pagamento delle rate dei mutui hanno infatti riguardato soprattutto la classe media bianca e le frazioni di altre etnie desiderose di ascesa, spingendo le famiglie colpite verso quartieri più periferici e degradati, aggravandone il senso di abbandono e accentuandone la conflittualità orizzontale con gli altri poveri”7

Una proletarizzazione violenta e rapidissima che, come è facile immaginare, ha portato sfiducia e timore anche tra coloro che pur appartenendo allo stesso strato sociale non sono ancora stati toccati dal problema ma che lo hanno visto delinearsi improvvisamente come possibilità sul limitare del proprio orizzonte. Un mutamento profondo della faccia triste dell’America che si va a sommare all’evaporazione della centralità del settore manifatturiero nei paesi a capitalismo maturo.

“Non si tratta solo dei disoccupati. Si tratta anche di uomini e donne che, pur avendo un lavoro – pur essendo tra i «fortunati» -, tuttavia sono e restano in condizioni di povertà. Sono poveri che lavorano.”8 Così negli Stati Uniti “gli americani censiti come poverissimi, in quanto titolari di un reddito di oltre la metà inferiore alla soglia di povertà federale, sono 21 milioni, mentre quelli semplicemente poveri perché fanno fatica a far fronte ai bisogni più elementari raggiungono adirittura i 105 milioni, circa un terzo della popolazione.”9

Si tratta di coloro che spendono più del 70% (la categoria di poveri oggi in maggiore espansione) del loro salario per pagare una affitto che, prima o poi, non riusciranno più a pagare; di mamme sole, soprattutto nere, con bambini che hanno maggiori difficoltà a trovare un lavoro compatibile con i loro impegno di madri; in altri casi di operai bianchi dequalificati, ex-manovalanza delle aree siderurgiche e minerarie della rust belt e che sono quelli che peggio sopportano il proprio impoverimento perché abituati a considerarsi come la spina dorsale del paese.
Settori sociali ai quali i miti dei diritti universali, dal femminismo alla Me Too al generico antirazzismo, non possono dare risposta e che, troppo spesso, servono soltanto ad aumentare il loro senso di distanza ed isolamento, con tutta la rabbia, la frustrazione e le paure che tutto ciò comporta.

A conferma e aggiornamento dei dati fin qui riportati basti ricordare come proprio in queste ultime settimane la Fed abbia riscontrato, con “stupore”, che almeno 7 milioni di americani, in gran parte under 30, hanno smesso di pagare anche le rate contratte per l’acquisto dell’auto, nuova o usata che questa sia.(qui)

Ma se è sempre giusto parlare della crisi politica, sociale ed economica a partire dal centro dell’economia Occidentale perché come avrebbe detto Marx “il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato il suo avvenire”, occorre adesso, in chiusura, confrontare i dati fin qui esposti con quelli italiani.
E anche in questo caso il libro di Revelli si rivela utile e ricco di informazioni. Anche in grazia del fatto che l’autore si è occupato del problema della povertà come presidente della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale (Cies).

Nel 2006 era già possibile rilevare che

“a fronte di un tasso di povertà relativa di per sé preoccupante (7.537.000 persone, il 12,9% dell’intera popolazione), la percentuale di famiglie povere con capofamiglia occupato (breadwinner) era in modo anomalo elevato (quasi un quarto dell’insieme). La situazione non era migliore se a lavorare erano due membri […] Nei due anni successivi s’incominciò a utilizzare anche l’indicatore di «povertà assoluta» da cui risultò che nel 2008 le persone in tale condizione erano 2.893.000 (pari al 4,9% della popolazione) […] dati che non sono ancora nulla, rispetto a quanto registra l’Istat per il periodo più recente: nel 2017 le persone in condizione di povertà assoluta sono arrivate alla cifra record di 5.058.000. l’8,4% della popolazione, quasi il doppio rispetto a dieci anni prima e giungono a sfiorare il 12% tra le famiglie operaie (dove il tasso di povertà relativa è addirittura del 19,5%) […] Anche in Italia questo processo non è stato solo una forma di erosione del reddito, è stato anche un processo di lacerazione dell’autostima, di cancellazione dell’identità collettiva e dell’identità individuale, è stato un processo di rottura dei sistemi di relazione e dei legami sociali. La folla che ha lasciato dietro di sé questa crisi è una folla solitaria: un’enorme massa di individui che si sentono abbandonati. […] E potremmo aggiungere, traditi. Ingannati. Defraudati. Da tutti.” 10

Un’autentica folla di profughi interni, in Italia come negli Stati Uniti, composta dalle vittime di una guerra civile dichiarata dalla finanza e dall’imprenditoria contro i lavoratori e i poveri. Una guerra civile il cui scopo era, e rimane, quello di accumulare sempre più ricchezza ad un polo soltanto della società, sempre più ristretto. Un problema di ricerca di identità, collettiva e personale, di pratiche di lotta e rivendicazione, di opposizione ai governi dell’esistente e di organizzazione sul territorio cui non basterà, e non basta già più, rispondere con frasi fatte o, peggio ancora di scherno e superiorità, pena il contribuire a trasformare questa massa di diseredati autentici nell’autentica massa di manovra di un sovranismo sempre più autoritario, fascista, razzista e guerrafondaio.


  1. Soltanto per fare un esempio: in Francia, subito dopo le prime manifestazioni dei gilets jaunes il governo ha portato il salario minimo a più di 1200 euro netti, mentre qui da noi gli aventi diritto al reddito di cittadinanza potranno rifiutare ogni impiego con una paga proposta inferiore agli 858 euro mensili.  

  2. M. Revelli, La politica senza politica, Einaudi 2019, p. 177  

  3. Un autentico disastro ambientale causato dall’impoverimento del terreno agricolo a seguito del suo ipersfruttamento, soprattutto in Oklahoma – NdR  

  4. M. Revelli, op.cit., pp. 177-179  

  5. Ibidem, p.178  

  6. Ibid., p. 178 

  7. Ibid., p. 179  

  8. ibid., p. 180  

  9. ibid., . 181  

  10. ibid., pp. 182-183  

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L’America del nostro scontento. Parecchia rabbia. Molta confusione. Poca felicità https://www.carmillaonline.com/2017/07/07/39123/ Thu, 06 Jul 2017 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39123 di Gioacchino Toni

Roberto Festa, L’America del nostro scontento, Elèuthera, Milano, 2017, 181 pp., € 15,00

«l’America che ha creato Trump non è poi troppo diversa da quella che ha prodotto Obama […] Make America Great Again non è uno slogan molto diverso da Yes We Can: entrambi ugualmente illusori e carichi di aspettative che nessuna realtà traballante potrà mai soddisfare» (Roberto Festa, pp. 8-10)

Roberto Festa, nel suo ultimo libro, L’America del nostro scontento (2017), racconta le diverse reazioni, incontrate attraversando gli Stati Uniti, alla vittoria elettorale di Donad Trump a ridosso [...]]]> di Gioacchino Toni

Roberto Festa, L’America del nostro scontento, Elèuthera, Milano, 2017, 181 pp., € 15,00

«l’America che ha creato Trump non è poi troppo diversa da quella che ha prodotto Obama […] Make America Great Again non è uno slogan molto diverso da Yes We Can: entrambi ugualmente illusori e carichi di aspettative che nessuna realtà traballante potrà mai soddisfare» (Roberto Festa, pp. 8-10)

Roberto Festa, nel suo ultimo libro, L’America del nostro scontento (2017), racconta le diverse reazioni, incontrate attraversando gli Stati Uniti, alla vittoria elettorale di Donad Trump a ridosso del suo insediamento. A tali testimonianze l’autore aggiunge, nella seconda parte del volume, la narrazione di alcune storie di luoghi simbolo della vita americana. Il volume si chiude con il racconto di una settimana passata a New York nell’estate del 2016, quando in città «si parlava molto di matrimoni omosessuali e di adozioni e sulle pagine domenicali del “New York Times” i gay si facevano fotografare vestiti di bianco sui prati fioriti; nei bar e nelle saune e sulle spiagge di Fire Island il vero oggetto di discussione era però una pillola, il Truvada, che permette di non avere più paura dell’AIDS e di tornare a fare sesso come negli anni Sessanta» (p. 12). Queste pagine finali sono state scritte prima del ciclone Trump e a rileggerle ora, sottolinea Festa, «sembrano una straordinaria fuga in avanti ma anche una sorta di gran ballo nella prima classe del Titanic» (p. 12).

Il declino dell’impero americano, la crisi della classe media e la disgregazione della vecchia working class hanno prodotto politiche identitarie che sembrano essersi pian piano sostituite al conflitto tra capitale e lavoro.

Trump ha vinto esaltando paure e voglia di riscatto dell’America bianca, soprattutto di una parte di quei maschi bianchi stufi di essere chiamati razzisti, stupidi e volgari. I democratici hanno fatto pressappoco lo stesso parlando a donne, neri, ispanici, omosessuali; e la mia impressione è che comunque si discuta molto di identità quando le identità sono incerte e a rischio. Si parla di identità nei momenti in cui le identità non corrispondono più alla vita, ai rapporti di forza, di produzione, quando le nostre idee non trovano più forme collettive di rappresentanza, quando i nostri strumenti di interpretazione si assottigliano, le nostre tasche si svuotano, quando il futuro si fa più opaco. Si parla molto di identità quando non sappiamo più bene chi siamo e questa è una delle cose più palpabili nell’America degli ultimi anni. (p. 9)

Donald Trump e Barack Obama sono espressione di un paese spaccato in mille frammenti perlopiù incomunicanti e tra di loro ostili: città e campagne, costa e interno, Nord e Sud, maschi bianchi e maschi neri, uomini e donne… «divisioni, rabbia, insicurezza, paura, voglia di fuga sono il terreno di coltura dell’America di questi anni» (p. 10) ed è tutto questo che Festa ha inteso indagare, evitando di farsi coinvolgere dalla cronaca più immediata, nella vita profonda delle persone incontrate lungo l’America.

Molte di queste identità che frammentano gli Stati Uniti si sono sviluppate proprio sulla ricerca/costruzione di un nemico. La politica americana può essere vista come causa e/o conseguenza di questo bisogno di nemico ed è su tale necessità che i politici costruiscono le loro fortune elettorali. «Gli steccati sono anche la premessa che nutre la fede nel leader e la politica come pensiero magico: se l’altro è il nemico privo di senso e credibilità, la propria parte e il proprio leader diventano le uniche fonti di legittimità e salvezza» (p. 10).

Dai racconti di Festa emerge l’immagine di un Paese costituito da una miriade di gruppi incomunicanti, ciascuno dotato del proprio nemico giurato e, sovente, del proprio leader carismatico nei confronti del quale gli adepti nutrono una fede granitica. La politica, finanziata dai grandi potentati economici, deve inevitabilmente fare i conti con tali blocchi identitari perché questi portano in dote pacchetti di voti importanti ed in cambio il politico di turno deve sposarne la causa e condividerne i nemici.

La prima parte del libro, come detto, narra di personaggi incontrati da Festa alla vigilia dell’insediamento di Trump; tra questi Rus Thompson viene presentato come l’immagine della rabbia americana. Si tratta di un sessantenne del Massachusetts, ex militare, che dopo aver lavorato come cuoco e muratore ora è proprietario di una piccola azienda di betoniere. Thomposon odia quelli che definisce i vecchi pezzi di merda del Partito repubblicano, odia la Camera di commercio, il Tribunale, l’Ufficio delle tasse, la Cina, gli illegali, l’inoperosa e parassita intelligence, la CIA e l’FBI ostili a Trump, i democratici che hanno spostato così a sinistra l’America, Barack Obama «che ha rotto le scatole con la storia della razza» (p. 20). Odia, inoltre, Hollywood per il suo criticare quello stesso capitalismo che la tiene in vita, odia «chi pensa che tutti debbano andare al college ed ha scordato che farsi una casa con le proprie mani è la cosa più bella del mondo» (p. 20), odia il socialismo e si dice certo che l’America sia davvero sull’orlo di una guerra civile e che questa potrebbe scoppiare da un momento all’altro e non importa se a sparare per primo sarà un veterano sofferente di stress post-traumatico o i federali che lo tengono d’occhio. L’iniziazione politica di Thompson è opera di Carl Paladino, capo del Tea Party di Grand Island, balzato alle cronache per aver espresso come desideri per il nuovo anno la convivenza con un gorilla di Michelle Obama nella savana africana e l’accoppiamento di Barack Obama con un bovino infetto del morbo della mucca pazza.

La seconda parte del volume è occupata da storie di alcune località emblematiche della vita americana. Tra queste colpiscono particolarmente le vicende della città di Wichita, in Kansas, feudo del fanatismo antiabortista. Nell’estate del 1991 la cittadina è stata letteralmente invasa da migliaia di militanti antiabortisti coordinati da Operation Rescue di Randall Terry con l’obiettivo di prendere in ostaggio le cliniche praticanti aborti.

Per sei settimane a Wichita ogni grano dei rosari recitati fu un appello alla liberazione dal male e l’urlo con cui i cristiani d’America si scrollavano di dosso gli anni Sessanta e i movimenti di liberazione e la secolarizzazione e il progresso e i miti di scelta e ragione. Tre anni dopo Bill Clinton approvava il Freedom of Acces to Clinic Entrance Act, la legge che rendeva un reato picchetti e minacce davanti alle cliniche. L’estate della misericordia aveva però mostrato che un movimento potente ribolliva nel cuore dell’America (p. 119).

Gli altri episodi eclatanti accaduti a Wichita riguardano il dottor George Tiller, medico di una clinica praticante aborti tardivi. Nel 1986 il medico rischia una prima volta la vita a causa di una bomba lanciata contro la sua clinica ed una seconda volta, pochi mesi dopo, quando una donna gli spara cinque colpi alle braccia. Nel 2009 i proiettili esplosi da Scott Roeder, cristiano rinato, gli sono fatali.

Il clima che si respira a Wichita è descritto dal libro attraverso alcune conversazioni con la dottoressa Mila Means, che ha aperto una clinica in cui si praticano aborti dopo l’uccisione di Tiller, e con alcuni militanti antiabortisti. Le pressioni esercitate sulla dottoressa sono facilmente immaginabili ed il clima di tensione che si vive in città può essere riassunto da un episodio: quando Festa e la dottoressa raggiungono il fidanzato della donna al ristorante per cenare insieme, lo trovano seduto al tavolo armato di un fucile. «È pieno di pazzi qua attorno» (p. 116).

Tra i militanti antiabortisti con cui l’autore ha modo di colloquiare si hanno personaggi come Troy Newman, presidente di Operation Rescue, che ama celebrare i successi della sua organizzazione nella lotta per la chiusura delle cliniche abortive attraverso bandierine collocate su una cartina degli Stati uniti alle spalle della sua scrivania. «Nel 1991, quando iniziai la mia battaglia, c’erano negli Stati uniti 2200 cliniche abortive. Oggi ce ne sono 274. Molte le abbiamo fatte chiudere noi. Questa è la nostra definizione di successo. Cliniche che chiudono» (p. 123).
Cheryl Sullenger, della medesima organizzazione, si definisce «Una guerriera. Guerriera di libertà» (p. 120) e ama ricordare come la Bibbia imponga ai fedeli di liberare chi, condotto dal massacro, non è in grado di difendersi.
Mark Geitzen, anch’egli appartenente ad Operation Rescue, gestore di un servizio di incontri per single cristiani, gira il Kansas con un camion su cui sono dipinti feti sanguinanti e piccoli corpi su monete da un dollaro con scritto “Abortion is an Obama Nation”. Geitzen racconta continuamente il numero di donne che ha convinto a non entrare in clinica e si dice impegnato al progetto Heartbeat legislation volto a vietare l’aborto quando avvertibile il battito del cuore del feto.
Festa incontra anche Jennifer McCoy, un vero e proprio mito del fronte antiabortista. La donna, nata in Michigan, con un passato nei marines in Kuwait durante la prima guerra del Golfo, è madre di dieci figli con l’undicesimo in arrivo e passa le giornate accampata, insieme ai bambini, davanti alle cliniche che praticano aborti piantando croci e protestando. Nel suo racconto, che ad un’indagine a posteriori da parte di Festa si rivela in parte artefatto, McCoy racconta anche di essere stata messa incinta all’età di dodici anni dal suo insegnante di catechismo e di essere stata condotta con l’inganno, dalla madre in combutta con il catechista, a sottoporsi ad un intervento abortivo in una clinica. Da quel momento la donna matura il suo odio nei confronti delle cliniche abortiste.

Dalla lettura del libro di Festa emerge un’America in cui convivono, confliggendo, identità e mondi separati, con preoccupanti ritorni ad un passato che sembrava rimosso una volta per tutte. Un’America che dovrebbe essere meglio indagata da quanti scrivono editoriali comandati dalle scadenze pensando di conoscere davvero il paese solo per aver trascorso qualche settimana in un hotel di New York durante le campagne elettorali o per essere cresciuti divorando programmi televisivi a stelle e strisce. L’America raccontata da Festa? «Parecchia rabbia. Molta confusione. Poca felicità» (p.12).

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