dolore – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Armi letali / 3: A cercar la bella morte https://www.carmillaonline.com/2022/08/03/armi-letali-3-a-cercar-la-bella-morte/ Wed, 03 Aug 2022 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73219 di Sandro Moiso

Dedicato a tutti i giovani che hanno meravigliosamente animato il festival Alta Felicità a Venaus dal 29 al 31 luglio.

«La resa per noi è inaccettabile, non avremmo grandi possibilità di sopravvivere se venissimo catturati. I nemici vogliono distruggere gli ucraini, per noi è chiarissimo. Noi siamo consapevoli che potremmo morire in qualsiasi momento, stiamo provando a vivere con onore. I nostri contatti con il mondo esterno potrebbero essere sempre gli ultimi. Siamo accerchiati, non possiamo andare via, in nessuna direzione. Abbiamo rinunciato alle priorità della difesa personale. Non sprecate i nostri sforzi perché stiamo difendendo [...]]]> di Sandro Moiso

Dedicato a tutti i giovani che hanno meravigliosamente animato il festival Alta Felicità a Venaus dal 29 al 31 luglio.

«La resa per noi è inaccettabile, non avremmo grandi possibilità di sopravvivere se venissimo catturati. I nemici vogliono distruggere gli ucraini, per noi è chiarissimo. Noi siamo consapevoli che potremmo morire in qualsiasi momento, stiamo provando a vivere con onore. I nostri contatti con il mondo esterno potrebbero essere sempre gli ultimi. Siamo accerchiati, non possiamo andare via, in nessuna direzione. Abbiamo rinunciato alle priorità della difesa personale. Non sprecate i nostri sforzi perché stiamo difendendo il mondo libero a un prezzo molto alto». (capitano Svyatoslav Kalina Palamar, vice comandante del battaglione Azov).

«Scappare è da codardi. Non possiamo fermarci e trattare, il nostro obiettivo è fermare la minaccia russa: stiamo lottando non solo per l’Ucraina ma per il mondo libero… La debole reazione del mondo è uno dei motivi per cui siamo ancora qui. L’Ucraina è lo scudo dell’Europa, lo è stata negli ultimi due secoli. Abbiamo lottato contro le invasioni nei tempi passati, adesso è un’altra storia. Lottiamo da soli da quasi due mesi e mezzo, abbiamo ancora acqua, munizioni e armi. I soldati mangiano una volta al giorno, ma continueremo a lottare». (Denis ‘Radis’ Prokopenko, comandante del battaglione Azov)

“I nostri militari in un certo senso stanno ripetendo quello che ha fatto Gesù Cristo, sacrificando la propria vita per il prossimo, per i figli, per la propria gente e difendendo la loro terra dall’aggressore. Per questo consacro le loro armi, perché le usino per riprendersi la nostra terra benedetta da Dio”. (Mykola Medynskyy, cappellano militare ucraino membro del partito Pravyj Sektor)

La saga di Azovstal è terminata ormai da tempo. Il sacrificio in stile Götterdämmerung (crepuscolo degli dei) auspicato in un primo tempo da Zelensky e dal suo governo non c’è stato (forse anche per le proteste dei famigliari dei combattenti là asserragliati) e i russi sono stati abbastanza saggi da non trucidarne i difensori sotto gli occhi di tutto il mondo. Eppure occorre ancora fare i conti con un tipo di comunicazione eroico/sacrificale che accompagna le guerre e la loro gestione propagandistica fin dalla notte dei tempi1.

Che si tratti di Enrico Toti, il soldato italiano della prima carneficina mondiale la cui immagine mentre, già colpito a morte, lanciava le stampelle verso il nemico dopo esser tornato a combattere pur con una sola gamba ha accompagnava i libri di testo scolastici fino gli anni Sessanta oppure dei trecento spartani caduti alle Termopili mentre impedivano il passaggio delle truppe persiane, tutto ha fatto sì che la logica del sacrificio supremo, variamente interpretato anche dalla Jihad islamica recente, abbia continuato ad accompagnare scelte politiche e militari destinate a dar vita ad autentici bagni di sangue, giustificandone le conseguenze proprio attraverso la “bella morte”.

“Bella morte” inevitabilmente destinata a costituire l’atto di nascita di nuovi eroi, di cui, troppo spesso come per i santi del cattolicesimo più impressionistico, il fatto ammirevole è quello di aver subito e sopportato il martirio. Eccoli lì, allora, i martiri/eroi/santi belli e pronti all’uso. In qualsiasi salsa: religiosa, conservatrice o, purtroppo, anche rivoluzionaria o pretesa tale. E non importa che, come nel caso del bersagliere con la stampella, si tratti quasi sempre di fake storiche, se non di bufale assolute.

Il sapore del sangue, l’attrazione fatale per l’abisso della morte, l’esaltazione del sacrificio della vita e del corpo in nome di una più “alta idealità” e di una volontà di autodistruzione catartico che non rivela altro che una autentica pulsione di morte che ben si adatta al fascismo più trucido e a tutto ciò che, nei fatti e non solo nelle parole, nega la vita nella sua essenza.

Un linguaggio funereo e un immaginario tetro, spesso sovranista, degno soltanto del peggior Romanticismo, che, però, affascina proprio coloro che tutto ciò dovrebbero combattere, in nome di una vita “altra” e non di una morte “eroica”.
Allora sarà bene dire che il martirologio di carattere religioso e conservatore, peggio ancora se “rivoluzionario”, non appartiene a chi scrive.

Questo perché al concetto di martirio è indissolubilmente legato quello di dolore e di sconfitta. E non può esserci dubbio che quello di sconfitta sia sempre rinviabile a quello di errore. Errore di calcolo, di prospettiva, di valutazione ma, comunque, errore. Motivo per cui non si può continuare a credere, fideisticamente e religiosamente, che la salvezza o la rivoluzione saranno il frutto di una serie di innumerevoli, dolorosi e ripetuti errori. Dagli incalcolabili danni collaterali e dalle conseguenze tutt’altro che necessarie.

Le rivoluzioni e le lotte vincenti non le realizzano gli “eroi” o i martiri idealizzati: le fanno gli uomini e le donne reali.
Fatti sì di carne e di sangue, ma che, alla fine, non possono soltanto accontentarsi di soffrire molto, di assaporare il dolore della sconfitta, delle ferite e della morte.
Cosa che non porterà mai da nessuna parte, perché si può morire, si può combattere, si può soffrire per una causa; si può essere costretti ad esercitare la violenza ancora per la stessa causa, ma non celebriamolo inopinatamente.
La promessa, insita nella stessa, non consiste in tutto ciò.

La ragione ci impone, da Epicuro a Marx passando per il materialismo illuministico, di perseguire la felicità e la liberazione della specie umana, mentre le sofferenze e le violenze non possono costituire altro che incidenti di percorso determinati dalle casualità storiche in cui ci si ritrova a dover lottare. Incidenti che l’umanità futura non celebrerà, ma rimuoverà, insieme al ricordo della preistoria in cui è ancora attualmente immersa; esattamente come la psiche tende a rimuovere i traumi dell’infanzia.

A meno che non si voglia a tutti i costi accettare il filisteismo borghese. O, peggio, la logica del sacrificio tout court. Che è anche quella che più si adatta alle memorie e alle necessità del nazionalismo e dei costruttori di nazioni. O, ancora, a quelle dei fanatismi politici e religiosi di ogni epoca.

Dalla jihad, ai “martiri” di Piazza Indipendenza a Kiev, fino agli “eroi” del battaglione Azov esaltati da Zelensky e dai media occidentali. Zelensky che fin dai primi giorni di guerra gridò al mondo, in uno dei suoi innumerevoli interventi video: «Onore ai martiri della Patria, morte ai traditori!». Traditori che, inutile dirlo, risultano essere soprattutto coloro che rifiutano di farsi macellare in nome dello Stato borghese. Sia che si tratti di civile che di militari.

Perché il filisteismo é sempre uguale a sé stesso.
Piange sul latte versato, si cosparge il capo di cenere; grida all’offesa, contro l’inciviltà, contro la mancanza di regole, contro il tradimento. E, intanto, li coltiva. Coscientemente. Spudoratamente. Vilmente. Opportunisticamente.

Così a volte, anche negli ambienti antagonisti, si “ammirano” le sofferenze altrui o le lotte disperate, frutto di ricette “antiche” ma sbagliate, sperando che quegli esempi o quelle stesse parole usate in altri contesti possano essere di supporto alla propria causa. Ma è un’idea sbagliata: restano soltanto sofferenze e lotte disperate. Quasi sempre inutili.

Lenin, piaccia o meno, su una cosa aveva mille volte ragione: l’insurrezione è un’arte.
La lotta vincente è un’arte. La Rivoluzione è un’arte.
E non si inventa né, tanto meno, si improvvisa.
Si improvvisa, coscientemente, su uno spartito conosciuto o del quale, almeno, si sanno leggere le note. E sul quale occorre aver a lungo studiato.
Tutto il resto è illusione, dolore, sofferenza e perdita di tempo e di speranza. Che, in seguito, portano, invariabilmente, gli sconfitti a sostenere che la rivoluzione è un’illusione, un errore, un’utopia (magari soltanto giovanile).

Un altro leader, anch’egli preteso “rivoluzionario”, affermò invece che “la Rivoluzione non è un pranzo di gala“. E così facendo fece accomodare centinaia di milioni di cinesi ad un ben misero banchetto. Gli mancava, per così dire, l’idea della Festa.
Che non avrebbe mai permesso alla Cina “popolare” di diventare la prima potenza economica mondiale.
Mentre invece la Rivoluzione, per essere tale, dovrebbe essere anche una festa.

Non condivide la povertà, ma la ricchezza. Non solo materiale.
Non solo il lavoro, ma anche il riposo. Il sacrosanto diritto all’ozio del “nostro” Paul Lafargue.
La Festa ha poco a che spartire con il martirio, il sacrificio e gli eroi, ma il martirio e il sacrificio hanno molto a che spartire con i regimi, le religioni, i nazionalismi e la loro supina accettazione.
Sacrificatevi per la Patria, per l’Onore, per la Vera Fede, per la Causa oppure per il Grande Partito. L’hanno fatto i vostri Padri. L’hanno fatto i Martiri. L’hanno fatto gli eroi. Lo farete anche voi.

Si fanno i sacrifici oggi come sono stati fatti ieri. La vita e la lotta sono fatte di sacrifici.
E’ sempre lo stesso refrain.
Il trionfo della morale cristiana. Anzi delle religioni rivelate. Dall’Antico Testamento al Corano.
Ma così si perde il senso della Festa rivoluzionaria e delle lotte sociali. Che, alla faccia di De Coubertin, devono essere vincenti. Perché, davvero, non basta solo e sempre partecipare.

Si partecipa per vincere e non solo per far presenza o farsi un selfie vicino a una lapide che commemora un morto, un eccidio, un bagno di sangue e di dolore.
Lo “spirito olimpico” non appartiene ai rivoluzionari, così come non dovrebbero appartenere loro i pellegrinaggi del rimorso e dei reliquiari. Magari ai masochisti della politica, ma non a chi aspira ad una nuova vita e a un diverso futuro.

Soltanto ai primi potrà apparire “bello” il sangue versato; belle le vite perdute; bella anche la sconfitta!
Dai moti mazziniani a Shangai nel 1927 si potrebbe elencare una serie infinita di insurrezioni e tentativi rivoluzionari falliti.
Falliti perché fuori tempo rispetto allo spartito del loro momento storico e destinati alla sconfitta fin dal momento della loro ideazione. Autentici tritacarne in cui hanno perso la vita migliaia di giovani rivoluzionari e di lavoratori, da Pisacane a Sapri fino al Che nelle foreste boliviane.

Così invece di apprendere una qualche lezione da quelle sconfitte, in caso di vittoria, si preferirà esercitare la vendetta, dello Stato o del Partito, come moneta di scambio per ripagare il dolore subito in precedenza e la felicità non ancora mai raggiunta.
Sui nemici oppure anche anche su rivoluzionari colpevoli di aver espresso qualche dubbio sull’efficacia delle decisioni prese dai grandi timonieri della storia.
In questa concezione, tutto entrerà, o dovrebbe entrare, nel medagliere futuro.
Della Rivoluzione fallita (comunque), della Nazione rafforzata o del Gulag travestito da Società migliore.

Ma non chiamatela “memoria” perché, in realtà si tratta di rappresentazioni molto prossime alle idee fasciste sulla società, la nazione, il sacrificio e il lavoro che, in apparenza si vorrebbero combattere.
Tutte idee che, in fin dei conti, permettono ai principali contendenti del disgraziato conflitto in corso di rinfacciarsi a vicenda le stesse colpe.
Tutti fascisti e tutti anti-fascisti.
Tutti nazisti e tutti anti-nazisti.
Pur che il sangue scorra…che bello spettacolo da teatro del grand guignol, mentre il capitale ancora una volta sogghigna.

Meglio, allora, non solo i giovani che disertano su entrambi i fronti della guerra in corso, ma anche quelli che cercano di sfuggire alla stessa abbandonandosi all’eros e all’alcol nei locali di Kiev, dove la polizia irrompe distribuendo cartoline per l’arruolamento forzato. In maniera paritaria, sia ai ragazzi che alle ragazze, mentre c’è chi vende per 1600 euro falsi documenti di un’ università polacca per restare alla larga dalle trincee.

«Attenti agli uomini in nero, scrivono indulgenze al capolinea di Rogaskaya». «Al campo sportivo di fronte al Gorky Park i moschettieri invitano al gran ballo», avvertono i messaggi su Telegram in una chat di Kharkiv. All’inizio, per il fronte sono partiti i volontari; ma ora le croci in battaglia sono tante, la musica è cambiata e gli uomini in divisa vanno in giro a reclutare passanti troppo impegnati a spassarsela per vantare un buon motivo per non combattere. Ogni città ha la sua chat, in rete fioriscono gli avvistamenti, ora e luogo per non essere acchiappati. Non c’è regola, non c’è obbligo di arruolarsi; ma se ricevi la “cartolina” devi partire per il fronte. Li braccano alle fermate della metro, in palestra, nei club. Passi la notte a divertirti? Beccato, vai in guerra! Fai scandalo facendo sesso in pubblico? Via, al fronte2.

Chi ama la vita, auspica la sopravvivenza della specie, pur con tutti i suoi enormi difetti, e detesta la guerra non avrà dubbi sulla sostanza, per quanto pre-politica, di questa forma di rifiuto collettivo del culto della Patria, del Dovere e della Morte.
Sarebbero dunque questi i “traditori” filo-russi e filo-putiniani che Zelensky si vanta di perseguitare, reprimere ed eliminare nelle sue quotidiane cronache propagandistiche cui viene dato tanto risalto dai media occidentali? Sono forse loro i sabotatori della guerra di “liberazione”?

N. B.
Il titolo del presente articolo è preso a prestito da quello del romanzo memorialistico di Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, pubblicato da Marsilio Editore, Venezia 1995.


  1. Compresa l’infinita serie di reportage che la “democratica” Repubblica, orfana di Scalfari, dedica ancora ai combattenti del battaglione Azov, con titoli roboanti e “accattivanti”: Carlo Bonini, Daniele Raineri, Laura Pertici, La guerra di Azov. Sulla linea del fronte con il reggimento nazionalista ucraino diventato simbolo del conflitto e di cui l’Occidente ha paura (qui)  

  2. Paolo Brera, Le notti proibite dei giovani di Kiev. “Con musica ed eros scordiamo la guerra”, «La Repubblica», 25 luglio 2022  

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I Put a Spell On You: Blues nero, lacrime bianche https://www.carmillaonline.com/2022/07/13/i-put-a-spell-on-you-blues-nero-lacrime-bianche/ Wed, 13 Jul 2022 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72480 di Sandro Moiso

Hari Kunzru, Lacrime bianche, Il Saggiatore, Milano 2018, pp. 332, 22,0 euro

Believe I buy a graveyard of my own Believe I buy a graveyard of my own Put my enemies all down in the ground (Charlie Shaw)

Argomento complesso il Blues, musica che si trova sulla linea di confine della civiltà africana: là dove ciò che rimane di residualmente africano trapassa nell’americano. Il Blues è l’indicibile di una società che, in apparenza, si vuole felice, ad ogni costo. Ma “avere i Blues” significa essere tristi, non per qualcosa [...]]]> di Sandro Moiso

Hari Kunzru, Lacrime bianche, Il Saggiatore, Milano 2018, pp. 332, 22,0 euro

Believe I buy a graveyard of my own
Believe I buy a graveyard of my own
Put my enemies all down in the ground

(Charlie Shaw)

Argomento complesso il Blues, musica che si trova sulla linea di confine della civiltà africana: là dove ciò che rimane di residualmente africano trapassa nell’americano.
Il Blues è l’indicibile di una società che, in apparenza, si vuole felice, ad ogni costo.
Ma “avere i Blues” significa essere tristi, non per qualcosa di specifico ma per un malessere più generale. La causa può essere il lavoro (il “monday” o “morning” blues), la malattia (spesso più dell’anima che del corpo), il pensiero (più che la paura) della morte come irrimediabile destino di ognuno e la susseguente paura di essere dimenticati (“See that my grave is kept clean”), l’amore tradito oppure molesto oppure, ancora, mancato o troppo vanamente desiderato.

Ha poco a che vedere con il ritmo o il tempo, che pur è quasi sempre riconoscibile, ma a cui è troppo spesso e sbrigativamente ridotto. Come afferma Philip Tagg, in uno scritto apparso alla fine degli anni Ottanta, ridurlo ad una espressione “tipicamente” afro-americana significa limitarlo all’interno di un ordine razziale dato1. Anche se è evidente che gli stilemi e i ritmi del blues si adattavano, e si adattano ancora, per mezzo del riarrangiamento, ad ogni interprete che cerchi di fare sua o di creare una nuova variante di ogni sua espressione. Aprendo così la via al Jazz, alle sue variazioni e improvvisazioni su un tema dato, e al rock.

Secondo Janheinz Jahn, autore di Muntu La civiltà africana moderna2, l’interprete di blues non canta a partire da se stesso ma per dare voce alla comunità, per questo motivo quelli che usualmente siamo abituati a chiamare bluesmen furono invece spesso dei “songster”, musicisti girovaghi, non sempre e soltanto afro-americani, che iniziarono ad apparire nel tardo XIX secolo nel Sud degli Stati Uniti.

La tradizione dei songster precede e spesso coesiste con l’avvento del blues. Era iniziata subito dopo la fine della schiavitù e della Ricostruzione successiva alla guerra civile negli Stati Uniti, quando i musicisti afro-americani iniziarono a girovagare suonando per guadagnarsi da vivere. Musicisti bianchi e “neri” condividevano lo stesso repertorio, definendosi più come songster piuttosto che musicisti blues.

In genere eseguivano un’ampia varietà di folk song, ballate, brani ballabili, reel e minstrel song. Inizialmente, erano accompagnati da altri musicisti che non cantavano, che spesso suonavano il banjo e il violino. Più tardi, quando la chitarra divenne largamente popolare, i songster spesso iniziarono ad accompagnarsi con la stessa, motivo per cui molti chitarristi e cantanti, soprattutto blues, iniziarono a svolgere il compito di accompagnamento e solista con lo stesso strumento.

I songster ebbero una notevole influenza nello sviluppo del blues, che iniziò a svilupparsi in forme maggiormente definite a cavallo dei sue secoli. In tal modo ci fu anche un’evoluzione nello stile delle canzoni eseguite. I songster spesso cantavano canzoni composte da altri o ballate tradizionali, spesso riguardanti eroi e caratteri leggendari. I blues singers, per contrasto, tendevano ad inventare le proprie liriche (o riciclare quelle di altri autori/esecutori) e a sviluppare dei propri pezzi e un proprio stile chitarristico (o, talvolta, pianistico), cantando le esperienze e le emozioni direttamente vissute nel corso della propria vita.

Molte delle prime incisioni di ciò che adesso è riferibile come blues furono portate a termine registrando dei songster che avevano a disposizione un repertorio più vasto, che spesso andava dai successi popolari del momento all'”autentico” country blues.
E’ sempre più evidente per gli studiosi che la maggior parte dei più tipici artisti blues, inclusi Robert Johnson e Muddy Waters, eseguissero in pubblico una grande varietà di musica, ma finissero poi col registrare soltanto quella porzione del loro materiale che i produttori (bianchi) ritenevano originale o innovativo.

Non a caso il blues finì con l’integrare nel suo canone anche i field holler e le work song con cui gli schiavi e i condannati ai lavori forzati, oppure semplicemente braccianti sottopagati, ritmavano la propria attività di raccolta del cotone o altro nei campi, di spaccapietre oppure, ancora, di costruzione di opere pubbliche. In cui spesso, però, a dare il ritmo di fondo vero era lo schioccare della Black Betty, ricordata in tante canzoni e brani jazz: la frusta a disposizione dei guardiani di quegli stessi lavoratori.

Per altri aspetti il blues potrebbe essere definito come quella musica, quel canto che sfugge alla norma, dettata da Henry Krehbiel3 nel 1897: «Ciò che è indegno, ciò che è brutto e doloroso non è un soggetto adatto alla musica». Una formula che negava qualsiasi espressione artistica popolare legata alla vita reale e che istituiva non soltanto il canone della musica adatta al mondo e alle illusioni della borghesia, ma anche della futura pop music.

Ma il termine blues è riscontrabile anche in tanti titoli di canzoni appartenenti alla musica proletaria bianca americana che in seguito avrebbe dato vita alla prima country music, con autori ed esecutori quali Jimmie Rodgers e la Carter Family, degli anni ’20 e ’30. Musica, magari da ballo, ma nata tra braccianti ed operai, piccoli proprietari terrieri ed ex-schiavi che arrivò, per mezzo proprio del successivo rock’n’roll, anche tra i giovani adolescenti bianchi della middle class e del baby boom successivo alla seconda guerra mondiale.

Stevie Van Zandt, a lungo chitarrista e amico di Bruce Springsteen, per quanto riguarda l’inizio della loro collaborazione artistica sul finire degli anni Sessanta, scrive nella sua autobiografia:

Passavamo il tempo a scavare in profondità nelle radici del Blues. In quanto substrato della musica rock, il blues era presente in tutto quello che facevamo. Lo avevamo scoperto grazie ai Rolling Stones, […] Nell’appartamento tra Cookman e Kingsley, partimmo a ritroso dalle cover dei bianchi per tornare agli artisti neri pionieri del genere.
Ascoltavamo senza sosta Little Walter, Fred McDowell, Sonny Boy Williamson, Robert Johnson, Howlin’ Wolf, Son House, Elmore James e Muddy Waters4.

Il blues parla della condizione umana5 .

E in questo rimane e rimarrà l’autentica “musica del diavolo”, come è stata definita quasi fin dai suoi esordi, temuta dai perbenisti, bianchi o neri e di qualsiasi altro colore e classe sociale. Ed è per tutti questi motivi, e molti altri ancora, che può rivelarsi estremamente interessante ed avvincente la lettura del romanzo di Hari Kunzru Lacrime bianche, apparso in lingua originale nel 2017.

Kunzru è uno scrittore e giornalista britannico di origini indiane e il suo romanzo ruota intorno alla disperata ricerca del “suono originario” e dell’”autentico blues” (mito tipicamente bianco e relegato perlopiù all’ambito del collezionismo discografico). All’inseguimento di un suono e di un musicista fantasma che, indirettamente, nell’ambito di una trama che si dipana tra il presente e un lontano passato, rivela al lettore più attento anche il mistero della maledizione della morte a ventisette anni che ha se gnato la vita di tanti celebri musicisti.

Kurt Cobain (Aberdeen, 20 febbraio 1967 – Seattle, 5 aprile 1994), Jim Morrison (Melbourne, 8 dicembre 1943 – Parigi, 3 luglio 1971), Brian Jones (Cheltenham, 28 febbraio 1942 – Hartfield, 3 luglio 1969), Amy Winehouse (Londra, 14 settembre 1983 – Londra, 23 luglio 2011) , Janis Joplin (Port Arthur, 19 gennaio 1943 – Los Angeles, 4 ottobre 1970) e Jimi Hendrix (Seattle, 27 novembre 1942 – Londra, 18 settembre 1970) non sono nemmeno nominati nel romanzo, ma i loro fantasmi aleggiano attorno alla figura di un giovane bluesman che muore alla stessa età in uno dei terribili campi di lavoro forzato istituiti dal sistema penitenziario del Texas negli stessi anni in cui, Robert Johnson (Hazlehurst, 8 maggio 1911 – Greenwood, 16 agosto 1938), dopo aver inciso un pugno di registrazioni (poco più di venti) che avrebbero segnato indelebilmente la storia del blues e del rock bianco, moriva alla medesima età.

Il romanzo è una lunga cavalcata nella magia che circonda il blues e nell’oscurità che l’accompagna. Tra le sue pagine si può cogliere lo sguardo oppure la rabbia vendicativa di un fantasma appartenente a uno dei tanti bluesmen e songster neri, morti prima ancora che l’industria discografica potesse significare scalata sociale e benessere per chi incideva i dischi di ceralacca e a 78 giri, in un primo tempo, oppure in vinile e a 45 giri successivamente, di cui Charlie Shaw, lo spettro che agita le pagine del romanzo di Kunzru, non è altro che l’incarnazione letteraria.

Ma questa presenza/assenza di centinaia e forse migliaia di cantastorie “blues” è forse ciò che più ha affascinato sia i collezionisti che i cantanti e musicisti bianchi che, a distanza di decenni, ne hanno seguito le orme. Un incantesimo che si è protratto nel tempo passando di generazione in generazione. Tra tutti quegli interpreti che, pur non essendo dediti soltanto alla riproposizione della musica nera delle “origini”, sono finiti con l’essere posseduti dal demone oppure cavalcati da uno degli infiniti dei del blues. Dei o orisha che provenivano dal profondo della psiche umana e dal profondo della culla dell’umanità: l’Africa, da cui iniziò centinaia di migliaia di anni or sono la grande avventura della specie umana sul pianeta.

Se in qualche modo il blues avrebbe finito col rivelarsi come l’autentico fardello per l’uomo e la donna bianchi, soprattutto se giovani e sensibili, è dal continente africano che tutto ha avuto inizio. A partire da una tratta degli schiavi che ha preceduto l’arrivo e le conquiste dell’uomo bianco e della sua civiltà. Regni locali, spesso molto ricchi e potenti, e arabi avevano già contribuito a spogliare delle risorse umane più giovani e migliori l’interno del continente.

Le vie dei mercanti di schiavi seguivano varie direzioni sia dall’interno ai regni costieri del continente, sia in direzione del Sahara, dell’Oceano Atlantico o di quello Indiano.
Certamente l’arrivo dei bianchi, portoghesi prima e tutti gli altri dopo, incrementò enormemente tale traffico di carne umana. Per la prima volta non soltanto per farne servitori, valletti, prostitute o favorite di ricchi signori, ma, soprattutto, per trasformarli in lavoratori nelle grandi piantagioni, principalmente dell’America meridionale e caraibica prima e settentrionale in seguito. Si calcola, infatti, che tra il 1500 e il 1800 siano stati più di 23 milioni gli africani ridotti in schiavitù e deportati. Di questi 23.318.000 africani, prevalentemente giovani, sani e robusti, 17.418.000 furono deportati attraverso l’Atlantico6.

Questo spostamento forzato e il trattamento riservato agli schiavi, sia durante il viaggio per terra e/o per mare che una volta giunti a destinazione, fu indubbiamente fonte di grande dolore, violenza, imbarbarimento dei costumi e disperato bisogno di fuga e libertà. Ricordo che si sedimentò nella memoria collettiva profonda e che fu successivamente registrato, seppur indirettamente, nella musica che poi avrebbe preso il nome di blues. Ma che ricadde, come una sorta di vendetta, anche tra quelle schiere di giovani bianchi della middle class americana che tutto aveva fatto per tener lontano da sé la contaminazione del sangue, senza però poter evitare quella culturale.

Questo è il dramma che tinge di sangue e di dolore anche le pagine del romanzo di Kunzru, in cui alcuni giovani bianchi, di cui almeno uno di agiata famiglia, inseguono il sogno del suono originario definitivo, cadendo tra le mani di chi, dopo aver subito torti infiniti, non vuol far altro che vendicarsi, magari impadronendosi della personalità di uno di loro.

Forse perché la magia ha un vettore: il suono.
Che sia prodotto da uno strumento oppure una canzone o, ancora, soltanto da un rumore o da una parola e dalla voce. In fin dei conti per i filosofi antichi era la parola a creare il o dar senso al mondo, quindi la voce e il suono sono alla base di gran parte del mondo, non solo mediatico, che ci circonda. Così come le formule dei riti magici devono essere recitate per ottenere l’effetto desiderato.

Guglielmo Marconi, l’inventore della radio, credeva che le onde sonore non si spegnessero mai del tutto, che persistessero, sempre più fievoli, coperte dal giornaliero frastuono del mondo. Marconi pensava che, se solo fosse riuscito a inventare un microfono sufficientemente raffinato, sarebbe riuscito a sentire il suono dei tempi antichi. Il discorso della montagna, i passi dei soldati romani che marciavano lungo la via Appia7

Se Marconi aveva ragione e certi fenomeni persistono attraverso il tempo, allora ai confini della percezione vengono continuamene raccontati dei segreti. Ogni segreto continua ad essere svelato8.

Segreto o incantesimo che sia, I Put a Spell On You (Ho messo un incantesimo su di te) cantava Screamin’Jay Hawkins nel suo più grande successo inciso nel 1956 e poi ripreso da un infinito numero di esecutori rock e blues, era ed è rivelato da un suono che lo sviluppo della registrazione e riproduzione fonografica, prima, e digitale, poi, avrebbe contribuito a diffondere nel mondo.

Speech has become, as it were, immortal (La parola, il discorso è diventato immortale). Queste furono le parole di Thomas Alva Edison quando presentò alla stampa, nel 1877, una sua nuova invenzione: il fonografo. Ma da allora non solo le parole, ma tutti i tipi di musica, sound e rumore, sono divenuti immortali. L’inventore rese riproducibile tutto ciò che si può incidere: sulle rive dello Swanee River, tanto per fare un esempio, il fonografo di Edison immortalò non solo l’omonimo blues, ma i neri che lo cantavano.

Fu la Victor Talking Machine Company, divenuta i seguito la più conosciuta RCA Victor, a registrare per la prima volta, nell’autunno del 1902, un gruppo vocale “nero”, il Virginia’s Dinwiddie Quartet. Il gruppo incise cinque canzoni gospel e un successo “pop” dell’epoca: Down At The Old Camp Ground.

Fu così la registrazione fonografica a liberare la memoria di un popolo e a “racchiuderla” per sempre nei solchi di un disco di ceralacca, adattandola, anche al gusto degli ascoltatori “bianchi”. Fu così che iniziarono a comparire gruppi Vaudeville dalla faccia tinta di nero (come quella di Al Jolson, nato come Asa Yoelson in Russia in una famiglia ebraica, nel film Il cantante di jazz del 1927) per proporre la “black music” senza offendere l’audience propriamente bianca.

Fu solo dopo il successo di vendite del secondo disco di Mamie Smith, Crazy Blues, nell’autunno del 1920, che le maggiori etichette discografiche iniziarono ad aprire le porte agli esecutori afro-americani. Fu ancora così che i temi cari a songster e bluesmen neri iniziarono ad entrare nel mercato dei race records, dischi principalmente di carattere Blues ma non solo, destinati al pubblico afroamericano che iniziava a costituire una più che valida fetta di mercato. Nel 1921 nacque infatti la prima etichetta discografica di proprietà afro-americana, la Black Swan, dedita ad incidere la più ampia gamma di musica nera senza limitarsi alle sole forme del blues. Ma le radici del blues, come si è già detto, sono nere, affondano nell’Africa, nelle sue culture e nei suoi dei importati (vudù).

Un autentico pantheon di forze che richiama quello delle religioni politeistiche meglio conosciute, attribuendo ad ogni caratteristica del comportamento umano una divinità specifica. Forze che, in maniera molto più vicina alla realtà delle religioni monoteistiche rigidamente dedite a dividere il bene dal male o a promettere premi o castighi, incarnano potenze che agitano l’essere umano nel suo profondo: il desiderio, la sessualità, la violenza, il riso e la gioia, il pianto e il dolore, la fatica del lavoro e la ricerca della libertà.

Nel pantheon Vodoun ci sono centinaia di orisha o loa (spiriti), a seconda della tradizione e della localizzazione geografica. Orisha che potevano essere richiamati dal suono di quei tamburi che , ben presto, i padroni protestanti si affrettarono a togliere ai loro schiavi.
Per impedire loro di evocare Erzulie o Ezili, divinità femminile della bellezza, della sensualità e delle grazie femminili. Oppure Baron Samedì o Baron Samedi (anche Baron Cimetière, Baron La Croix, Baron Krimminel), un potente Loa che, come spirito dei morti, ha molta influenza sul mondo vivente e che custodisce i cimiteri e controlla i crocevia tra la terra e i morti, che condivide con Papa Legba. È noto per essere corrotto, osceno e dissoluto. Inoltre egli è il Loa della resurrezione, in quanto è il solo barone che può accettare un individuo nel regno dei morti.

Ogun (noto anche come Ogoun, Ogou o in altre varianti) è, invece, semidio della guerra, del fuoco, del ferro, della caccia, dell’agricoltura. Tale divinità non è considerata malvagia, ma può rivelarsi severa e spietata, e questa sua natura, che riflette solo alcuni degli aspetti della guerra, non gli impedisce di assistere i suoi protetti a cui però, in passato, ha chiesto sacrifici umani. Mentre Papa Legba è il guardiano del crocevia. È il proprietario di tutti i percorsi, le strade e le porte per l’altro mondo. Un po’ imbroglione, possiede la strada per la tragedia, ma anche per il successo.

Tutti spiriti che necessitano di un “cavallo” umano che ne trasporti e trasmetta l’essenza. Non a caso si narrava che il bravo musicista blues, per esser tale, dovesse vendere la propria anima al demonio a mezzanotte, ad un incrocio. Come si diceva del già citato Robert Johnson uno dei più famosi esecutori di blues degli anni ’30.

Autentici demoni per l’immaginario cristiano, che arrivarono con i riti trasportati attraverso il Mar dei Caraibi sia in Louisiana che sulle coste del Texas che si affacciano sul Golfo del Messico.
Magari in quella cittadina di Port Arthur in cui era nata Janis Joplin, praticamente al confine con la Louisiana e sede, all’epoca, delle più grandi raffinerie di petrolio statunitensi ed oggi semi-abbandonata, come tante cittadine della Rust Belt. Città natale, in cui Janis, che era stata prima odiata, derisa, isolata e criticata per il suo anticonformismo nei comportamenti e nel modo di cantare, è diventata l’unica icona rivendicabile e rivendibile turisticamente dalla gente del luogo.

Anche James Douglas Morrison era nato non lontano dal Golfo del Messico, vicino a Cape Canaveral, figlio di un ufficiale di marina che sarebbe diventato ammiraglio durante la guerra in Vietnam. Non avrebbe più visto né lui né la madre dopo aver abbandonato la famiglia per cercare fortuna a Los Angeles. Fu poeta, studiò regia, amò gli scrittori europei più innovativi. Scrisse: «Tutti i bambini sono impazziti aspettando le piogge estive». Divenne un’icona del rock senza averlo mai veramente amato, preferendogli invece sempre il jazz e il blues.

Kurt Cobain, fu tra gli innovatori del punk trasformandolo in quel movimento musicale, originatosi a Seattle, che fu definito “grunge”. Insoddisfatto, disperato, insofferente dello stesso successo che lo circondava a che aveva ottenuto con i dischi e i concerti con il suo gruppo, finì come Heminqway, con un fucile in bocca. Ma la sua versione di In the Pines di Leadbelly dimostra che anche il punk e il grunge non sono stati altro che un’altra forma di blues.

Proprio quel Leadbelly, scoperto in carcere da Alan e John Lomax dove scontava una condanna per omicidio, che si rivelò essere uno dei maggiori conoscitori del repertorio dei songster e dei bluesmen della sua epoca e di quelle precedenti.

Il primo giorno nel campo di lavoro forzato della contea texana di Harrison, Huddie Ledbetter (meglio noto come Leadbelly) […] fu rinchiuso in una cella che misurava due per uno. Il letto era un mucchio di paglia marcia, circondato da feci puzzolenti e attorniato da mosche grosse quanto un’unghia. A metà mattina la temperatura sfiorava i 40°, eppure alla fine della giornata fu assai contento di tornare in quel tugurio.
Dal 1902 il numero di galeotti era di gran lunga superiore alla capienza dei campi di lavoro forzato del Texas: il sovraffollamento era un problema terribile. La soluzione era semplice e fruttuosa per lo stato: il carcere dava in affitto i detenuti per i vari progetti di lavori pubblici. Incatenati insieme in lunga fila, i forzati andavano a prosciugare paludi, a lavorare nelle cave e a costruire strade tra boschi ed acquitrini. Sotto sorveglianza armata, uomini, donne e persino bambini sgobbavano anche sedici ore di fila. Venivano incatenati insieme fino a trecento forzati, che dormivano di notte nei fossi. La catena era bloccata a intervalli regolari da grosse palle di ferro pesanti una decina di chili 9 […] In base alla legge, anche un reato banale bastava a spedire per mesi un uomo in quei campi di lavoro. Se non disponevi di mezzi di sostentamento o avevi anche solo giocato a carte sui un treno texano ti beccavi una sentenza di sei mesi di lavoro duro nella rovente piana del Brazos. Le chain gang erano quasi tutte formate da neri. […] nelle città c’era un costante memento della giustizia del Texas: le dita dei cadaveri dei detenuti linciati messe in mostra nelle vetrine dei negozi. […] Quando un uomo crollava per un colpo di calore nell’afoso Brazos, spesso veniva sepolto vivo mentre il lavoro continuava e si stendevano binari e strade[…] Appena smuovevi il terriccio venivano allo scoperto i teschi e gli oggetti duri contro cozzavano i badili erano spesso ossa umane10

Se il blues ci costringe, però, a un viaggio a ritroso nel tempo, chi meglio di Amy Winehouse potrebbe rappresentarne una delle ultime e im/pure interpreti? Come affermò chi l’aveva conosciuta direttamente, prima ancora del suo fulminante esordio: «A soli diciassette anni, Amy aveva la voce di un’anima antica, carica di emozione e lontanissima dallo spirito del tempo […] sembrava che la sua voce arrivasse direttamente dagli anni Cinquanta»11.

Dentro al suo primo disco «ci sono le tracce di tutta la musica che Amy aveva ascoltato crescendo. La sua voce si portava dietro il peso di secoli di icone jazz (e blues) […] Se Etta James fosse cresciuta ascoltando Thelonius Monk e avesse cantato le pagine del diario di un’adolescente di Londra, avrebbe potuto tirare fuori qualcosa di simile a Frank»12. Oppure il successivo Back To Black: eccessivo, sboccato, triste, autentico e romantico allo stesso tempo. Come ebbe a dire la stessa cantante: «Ogni situazione negativa è una canzone blues che aspetta di uscire»13. Quindi chi meglio di lei avrebbe potuto vivere sulla propria pelle, nella propria vita e riprodurre nelle proprie canzoni il rifiuto del recupero dalla tossicità e dall’alcolismo (Rehab) oppure la dipendenza sessuale e l’erotismo, per nulla mascherato, che sta alla base di ogni amore disperato e autodistruttivo (Back To Black) o ancora la ricerca esplicita di una notte di sesso (Fuck Me Pump)?

La voce di Billie Holiday, roca e alcolica, nel corpo di una ragazza martoriata da dipendenze di cui non era in grado di liberarsi (ma di cui i media erano affamati e alla costante ricerca) e disturbi alimentari gravi che l’accompagnarono fino ai suoi ultimi giorni. Come la cantante ebbe a dire: «Voglio essere ricordata come attrice e cantante, e per essere stata semplicemente me stessa».

Già, l’esser ricordati, oltre la morte. Un desiderio ricorrente tra i musicisti blues, di cui è testimone il brano See That My Grave Is Kept Clean, inciso da Blind Lemon Jefferson nel 1928 e poi ripreso da un’infinità di altri interpreti, dai Dream Syndacate a Bob Dylan o dagli Hot Tuna fino a Lou Reed. ”Guardate che la mia tomba sia tenuta pulita”, gesto antico, che si ripete ancora qui da noi nel giorno dei morti.

Ma, per far sì che ciò avvenga, occorre averla una tomba e da qui l’ossessione del fantasma protagonista del romanzo di Kunzru, Charlie Shaw. In fin dei conti i tanti musicisti neri non registrati su disco oppure dimenticati non sono altro che morti senza tomba, Così come capitò pure al selvaggio inventore del jazz, o jass, a New Orleans, a cavallo tra XIX e XX secolo: Buddy Bolden.

Quando ascolti un vecchio disco non puoi illuderti in nessun modo di essere presente alla performance. La musica attraversa il grigio gocciolare del ronzio statico, un suono simile alla pioggia. Non puoi dimenticare quanto tu sia lontano. In ogni momento senti il suon di quella distanza temporale. Ma qual è il legame tra l’ascoltatore e il musicista? Ha importanza che uno sia vivo e l’altro sia morto? E chi è vivo e chi è morto?
[…] Le cose viventi sono quelle che resistono all’entropia. Possiedono un limite di un certo tipo, una membrana o una pelle; un metabolismo in grado di reagire al mondo. E creare copie. Tramandare qualcosa. Era tutto ciò che Charlie Shaw desiderava, proiettarsi in avanti supplire all’urgenza vitale14.

“Sul tuo giradischi hai fatto risuonare la tratta atlantica, il più nero fra i suoni. Volevi la sofferenza che mai hai provato, l’ascendente che credevi ne sarebbe derivato”15 Così, se il fantasma vero protagonista del romanzo di Kunzru ha visto la sua morte arrivare per un destino atroce che ha privato il mondo della sua memoria, un altrettanto crudele e maledetto destino ha anche colpito tanti giovani interpreti bianchi morti, come lui, a 27 anni.

Forse perché si son fatti carico di un’impresa troppo grande e, alla fine, impossibile: quella di fondere culture e stili di vita che, in un mondo ancora troppo vecchio e troppo bianco, avrebbero finito col travolgerli, proprio attraverso il travaglio creato dall’appartenere a due mondi, senza in realtà esser più parte di quello di provenienza, ma anche senza la possibilità di vivere del tutto in quello effimero che si agitava ancora soltanto nei loro pensieri e nel loro disordinato stile di vita.

Giovani bruciati e cavalcati da forze e dei più grandi di loro e dagli ambienti da cui provenivano. Stritolati tra i comandamenti del severo Dio dei Puritani e le esigenze del corpo degli dei africani, tra l’essere rappresentanti dei moti istintivi di ribellione delle giovani generazioni e le esigenze del mercato, tra il proprio IO profondo e l’omologazione del mondo perbenista adulto. Alfieri, talvolta inconsapevoli, della ricerca di un cambiamento culturale e sociale che attende ancora di venire.

Se amate il blues e se avete amato il pugno di giovani angeli caduti di cui si è qui parlato, in questa ennesima lunga estate calda prendetevi la briga di leggere questo libro e poi, magari, di rileggerlo ancora. Non ve ne pentirete.

N.B.
Il testo costituisce una parziale trascrizione e un adattamento della conferenza tenuta dall’autore, il 9 aprile 2022, in occasione della rassegna “Pagine sonore, note randagie”, organizzata in collaborazione con Franco Ghigini, l’Associazione culturale Liber.Arti, l’Assessorato alla Cultura del Comune e la Biblioteca comunale di Paderno (BS).


  1. Philip Tagg, Lettera aperta sulla “musica nera”, “afroamericana” ed “europea”, «Musica/Realtà» n. 29, Agosto 1989, pp. 53-79  

  2. Janheinz Jahn, Muntu. La civiltà africana moderna, Einaudi, Torino 1961  

  3. Henry Edward Krehbiel (10 marzo 1854 – 20 marzo 1923) è stato un critico musicale e musicologo statunitense che è stato redattore musicale per il «New York Tribune» per più di quarant’anni. Fece parte della prima generazione di critici americani a fondare una scuola di critica americana. Krehbiel credeva che il ruolo della critica fosse in gran parte quello di sostenere la musica che elevava lo spirito umano e l’intelletto, e che la critica dovesse servire non solo come mezzo per fare il gusto, ma anche come modalità per educare il pubblico. Il suo libro How to Listen to Music (in stampa dal 1896 al 1924) è stato ampiamente utilizzato come guida didattica dal pubblico musicale negli Stati Uniti durante gli ultimi anni del 19 ° secolo e i primi decenni del 20 ° secolo.  

  4. Stevie Van Zandt, Memoir. La mia odissea tra rock e passioni non corrisposte, Il Castello, Cornaredo (MI) 2021, p. 57  

  5. Stevie Van Zandt, op. cit., p.263  

  6. Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa. Cinque secoli di storia africana attraverso le trasformazioni della schiavitù, Bompiani, Milano 2019  

  7. Hari Kunzru, Lacrime bianche, il Saggiatore, Milano 2018, p. 63  

  8. Hari Kunzru, op. cit., p.102  

  9. Ball and Chain ricordate? Scritta da Willie Mae Big Mama Thornton e cantata con incredibile intensità da Janis Joplin nel suo disco più famoso con i Big Brother: Cheap Thrills – N. d. R.  

  10. Edmond C. Addeo, Richard M. Garvin, Leadbelly. Il grande romanzo di un re del blues, Shake Edizioni, Milano. pp. 107-109  

  11. Kate Solomon, Amy Winehouse. Una vita per la musica, 24 Ore Cultura, Milano 2021, p. 28  

  12. K. Solomon, op. cit., pp. 31-32  

  13. Ivi, p.105  

  14. Kunzru, op. cit., p.329  

  15. ivi, pag. 330  

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Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici https://www.carmillaonline.com/2021/10/17/estetiche-inquiete-joy-division-e-dintorni-contesto-e-radici/ Sun, 17 Oct 2021 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68686 di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più [...]]]> di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più spietato edificando un modello teso a rappresentarsi immodificabile, come Margaret Thatcher non manca di scandire ad ogni occasione: “There is no alternative”.

L’Inghilterra plasmata dalle politiche thatcheriane dei primi anni Ottanta è un Paese afflitto dalla disoccupazione e dalla disgregazione sociale che si abbattono sulla working class tradizionale, dall’individualismo, dall’odio, dal sessismo e dalla violenza che non sempre riescono a essere celati dietro allo scintillio delle prime avvisaglie di gentrificazione dei quartieri, agli status simbol esibiti da rampanti uomini e donne intenti a sgomitare con ogni mezzo necessario per conquistarsi “il successo”.

Le trasformazioni epocali inaugurate in apertura di quel decennio sono inevitabilmente accompagnate da una generale messa in discussione di identità che sembravano granitiche con cui, del tutto impreparati, si sono trovati a fare i conti individui sempre più atomizzati. Lo scrittore David Peace ha saputo far affiorare le macerie tra le immagini patinate di quel periodo tratteggiando nel ciclo di romanzi Red Riding Quartet il contesto in cui si danno alcuni crimini efferati tra miniere abbandonate, fabbriche chiuse o automatizzate, città in rovina e violente di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, oltre che individui e comunità dall’identità frantumata.

Gli anni Ottanta, in un modo o nell’altro, hanno plasmato l’immaginario contemporaneo tanto da fungere da serbatoio da cui si continua ad attingere, più o meno nostalgicamente, recuperando segni e testi culturali assecondando inclinazioni edonistiche o esistenziali. A questo secondo versante fa riferimento il volume curato da Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division (Rogas, 2021) che, analizzando in un percorso trasversale a più voci l’opera del gruppo di Salford, Greater Manchester, ricorrendo a un’ottica interdisciplinare, ricostruisce l’universo Joy Division indagato sia nel contesto in cui è nato che nel lascito da cui l’attualità continua ad attingere più o meno rispettando l’esperienza originaria. [A tale libro sarà dedicato un secondo scritto nei prossimi giorni su Carmilla]

Alfonso Amendola e Novella Troianiello muovono la loro indagine a partire dalla convinzione che un genere musicale non sia esclusivamente il prodotto di un determinato gruppo sociale ma che esso stesso contribuisca a generare delle identità sociali che concorrono a plasmare i confini e a mutare le forme culturali nel corso del tempo.

Se il punk può essere visto come una sorta di risposta rabbiosa e nichilista all’incertezza sociale e politica del periodo in cui esplode espressa dai rimasugli di comunità in disarmo soprattutto in ambito londinese, il post-punk si presenta come un fenomeno proprio di alcune città del Nord dell’Inghilterra caratterizzate dalla cupezza urbanistico-architettonica ereditata dagli anni Sessanta.

Città industriali in declino come Manchester, Liverpool e Sheffield che hanno conosciuto la violenza della rivoluzione industriale sembrano ormai capaci di offrire ai figli della working class e della piccola borghesia soltanto il senso di alienazione e di inquietudine della grigia periferia lontana dal punk della Capitale presto trasformatosi in patinato fenomeno di consumo. Nelle città industriali del Nord nasce dunque una

generazione post-punk che al nichilismo dell’annientamento del futuro e al fascino della moda irriverente [del punk londinese] rispondevano con l’inquietudine e l’incertezza del presente e con il racconto dell’apatia della periferia. Allo stesso modo dei Fall, anche i Joy Division, seppur con diversi riferimenti dichiarati, dipingevano attraverso la musica e la lirica un paesaggio industriale periferico che portava con sé solo immagini di fallimento, gelo, perdita del controllo, smarrimento (p. 32).

Se già il punk, operando una sorta di opera di bricolage, aveva saputo attingere da diversi stili e sottoculture britanniche del dopoguerra, il post-punk, sostengono Amendola e Troianiello, ha ulteriormente ampliato i confini allargandosi all’ambito europeo attingendo, ad esempio, dai suoni metallici dei tedeschi Kraftwerk e da esperienze alle prese con sonorità sintetizzate.

In una contesto urbano sempre più caratterizzato dal frantumarsi delle comunità sono spesso i mass media a proporre/costruire nuovi ambiti identitari.

In questo modo è possibile intendere l’immagine delle culture giovanili figlie della working class protagoniste del movimento sottoculturale del post-punk (così com’è stato per la corrente punk) come l’immagine coesa di una cultura della resistenza. Pertanto se il dolore, l’introspezione, il disagio post-industriale e l’assenza di bellezza così come la sua ricerca, l’uso di droghe, la disoccupazione e l’inesorabile declino di una nazione potente diventavano le colonne portanti del discorso sottoculturale del post-punk, l’estetica, i luoghi di consumo della musica e i luoghi di creazione di nuovi network dove esercitare pratiche condivise di ascolto e condivisione secondo rituali consolidati, rappresentavano il linguaggio necessario, coerente e coeso di un movimento che, partendo da un desiderio di costruzione alternativa al rock classico, ha finito per dar vita ad una nuova ondata di produzioni mainstream degli anni Ottanta (p. 30).

La scena discografica post-punk di Manchester si contraddistingue anche per un’eleganza e pulizia formale – sconosciute all’ambiente musicale londinese dell’epoca – che richiama palesemente le estetiche di alcune avanguardie europee primonovecentesche. Se a Manchester, al passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta, gruppi come Joy Division, A Certain Ratio, Durutti Column, The Fall, cresciuti attorno alla Factory Records, si mostrano più inclini a sonorità cupe, a Liverpool, altra città in declino alle prese con la disoccupazione, band che gravitano attorno all’Eric’s Club, come Echo and the Bunnymen, ricavano dall’angoscia, dalla solitudine e dal dolore atmosfere decisamente meno fosche.

Un caso un po’ diverso è rappresentato da Sheffield, uno dei centri nevralgici della rivoluzione industriale: nonostante nell’immediato gli effetti del thatcherismo si rivelino meno devastanti dal punto di vista occupazionale rispetto alle alte città del Nord, anche questa realtà non manca di pagare il suo tributo in termini culturali. Se nel cuore della lavorazione dell’acciaio e dell’orgoglio operaio il punk rimane un fenomeno sostanzialmente di superficie tra i figli della working class, maggior interesse viene invece da questi riservato all’universo delle sonorità sintetizzate. Il fenomeno post-punk di Sheffield ha nell’esperienza del laboratorio creativo Meatwhistle, da cui provengono gruppi come Music Vomit, un riferimento importante sebbene non l’unico, visto che anche per altre vie nascono band destinate alla notorietà (es. Cabaret Voltaire).

Dal racconto della periferia post-industriale al centro della cultura globale condivisa dai grandi pubblici, dai focal places, luoghi di costruzione di relazioni e rapporti, il post-punk nella sua veste eversiva eppure reificata perché inserita nei processi produttivi e distributivi, è un forte esempio di identità culturale che si muove continuamente dai bordi del racconto sovversivo verso il centro del consenso comune, creando nuove metafore, racconti e atmosfere (pp. 35-36).

Nel volume Daniele De Luca approfondisce il rapporto tra i Joy Division e l’area di Machester in cui crescono; una realtà urbana all’epoca in balia della disoccupazione e dal tessuto sociale lacerato in cui figli della classe operaia sembrano trovare per un istante nel punk, arrivato dall’odiata Capitale, un modo per rialzare la testa e dar voce alla rabbia accumulata in corpo.

Ma il punk era stata l’improvvisa scintilla per accendere un fuoco ancor più duraturo. Dopo la pubblicazione in puro stile do-it-yourself, nel gennaio 1977, di Spiral Scratch da parte dei Buzzcocks (con la produzione di Martin Hannett, il creatore indiscusso del suono dei Joy Division), la scena mancuniana stava per partorire qualcosa di nuovo. Nel 1978, il punk si stava trasformando nel post-punk: le idee scaturite dal punk venivano usate per creare un modo diverso di fare musica. Manchester diventerà leader della nuova scena. Il miracolo del riscatto era iniziato. I Magazine, i Warsaw (diventati ben presto Joy Division), i Fall, i A Certain Ratio inaugurarono la strada lastricata di sottile e prezioso alabastro della new wave (p. 43).

De Luca insiste su come il degrado urbano e lo sfilacciamento sociale di Manchester facciano parte della quotidianità dei Joy Division e di come questi ultimi derivino da un proficuo incontro tra ambiti sociali, luoghi e formazione culturale diversi da cui hanno saputo originare un sound capace di coniugare insicurezze, smarrimenti, energia repressa e, soprattutto, la sensazione della perdita che, insieme al senso di solitudine, pare davvero essere una delle caratteristiche che stanno alla base del gruppo e più in generale del post-punk nelle città dell’Inghilterra settentrionale.

Eugenio Capozzi pone l’accento su come l’esperienza post-punk nasca sull’onda delle grandi differenze che caratterizzano la generazione dei ventenni di fine anni Settanta da quella degli anni Sessanta. Se quest’ultima può dirsi caratterizzata da un’aspirazione a un «nuovo comunitarismo senza repressione, gerarchie, obblighi», la generazione del decennio successivo si contraddistingue per una rabbiosa e distruttiva assenza di progettualità attraversata da una visione del mondo decisamente soggettiva, quando non individualista.

Insomma, la controcultura/cultura hippie prima, il no future del punk dopo. La differenza tra l’atteggiamento assunto dalle punte più inquiete delle due “sub-generazioni” è quella tra utopia spericolata e disillusione; tra la fede misticheggiante in una sorta di ritorno all’innocenza neo-rousseauiano e la presa d’atto di una frammentazione “tribale” delle società occidentali su base “postmaterialista”, del dominio di una “cultura del narcisismo”. […] A partire dal punto di vista periferico della sua Manchester operaia, Ian Curtis appartiene in pieno alla seconda “subgenerazione” […] assimila, dunque, la rabbia nichilista del punk, ma nutrendola di un pessimismo filosofico dalle radici profonde, imperniato su una meditazione intorno al disorientamento dell’individuo rispetto a sistemi sociali, economici, culturali, istituzionali mossi da forze estranee, incomprensibili, crudeli (p. 47).

Se l’esordio dei Joy Division – con l’EP An ideal for living (1978) – sembra derivare da una necessità di estrinsecare una rivolta esistenziale ed etica attraversata da amarezza e disillusione – e quest’ultima rappresenta un’altra delle parole chiave dell’esperienza del gruppo –, con il primo album – Unknown pleasures (1979) – a emergere è soprattutto la solitudine dell’individuo e il senso di incomunicabilità che si manifestano in particolare attraverso «il rimpianto per una condizione ideale di armonia sentita come irrimediabilmente perduta e la domanda di affetto, solidarietà, comprensione» (pp. 48-49). Il senso di radicale distacco dal mondo diviene evidente, così come una certa indifferenza nei confronti della morte dal momento che ogni rapporto affettivo appare ormai come un semplice lontano ricordo. Ian Curtis, sostiene Capozzi, sembra per certi versi avviarsi ad abbandonare ogni impulso teso alla liberazione per trasformarsi in un “giovane vecchio”, intraprendendo un percorso personale che lo vede passare da una “rivoluzione senza utopia” a un “soggettivismo estremo” evitando di percorrere altre strade, all’epoca battute dai più, indirizzate invece verso derive edonistiche.

Nella sua improvvisa maturazione, o senescenza, si riflette in maniera deformata ma nel complesso fedele l’effimera fiammata della ribellione punk, la rapidissima involuzione dei baby boomers “maturi” dei medi anni Cinquanta da persone-massa della morente golden age, colpita dalla grande crisi economica degli anni Settanta, a ribelli iper-soggettivisti, privi di una piattaforma ideologica, fino a “soggetti smarriti” di una dinamica storica per loro ancora illeggibile ed incomprensibile: l’embrionale trasformazione dell’Occidente dagli Stati nazionali, dalla guerra fredda e dall’economia “mista” allo stato “liquido” della globalizzazione, la cui nascita sarebbe stata individuata almeno un decennio dopo (p. 50)

Il successivo album – Closer (1980) –, pubblicato dopo la morte di Curtis, appare a tutti gli effetti la resa definitiva di fronte alla sofferenza esistenziale dopo quella che può essere vista come l’ultima flebile e disperata richiesta di aiuto rivolta all’esterno espressa da Unknown pleasures. Quasi una “rinuncia per sfinimento”. Sarebbe però limitativo, suggerisce ancora Capozzi, limitare tutto alla sfera dei rapporti individuali; i testi di Closer evidenziano

la lancinante mancanza di una dimensione comunitaria. Una mancanza che si era già affacciata come nostalgia della gioventù e della “normalità” in Unknown pleasures, e qui si ripropone come una condanna, a cui Curtis fantastica ancora a momenti di poter sfuggire, ma senza crederci più [Non a caso] nel brano conclusivo, Decades, la rassegnazione all’estinzione viene raffigurata non come uno scacco individuale, ma collettivo, e addirittura generazionale […] Quella generazione dipinta spesso come fortunata, superficiale, votata al divertimento e al piacere, insofferente a ogni costrizione. E che invece, nella visione profetica costruita da Curtis sul ritmo di una sorta di reggae ibernato tra i ghiacci, è composta da individui precocemente invecchiati, curvi sotto un peso insopportabile, che nella loro breve vita hanno accumulato tutta la stanchezza e la disillusione di generazioni e generazioni precedenti […] Ha un significato storico inestimabile il fatto che l’ultima parola artistica di Curtis prima dell’atto finale di congedo, l’ultimo suo contatto con il mondo, sia un «noi». In Decades come in Love will tears us apart. Anche la fine dell’amore non è più per lui a questo punto un’esperienza puramente individuale, ma riguarda tutti coloro che condividono con lui l’aspirazione a ritrovarsi in una comunità ormai svanita (pp. 52 e 55).


Decades

Here are the young men, the weight on their shoulders,
Here are the young men, well where have they been?
We knocked on the doors of Hell’s darker chamber,
Pushed to the limit, we dragged ourselves in,
Watched from the wings as the scenes were replaying,
We saw ourselves now as we never had seen.
Portrayal of the trauma and degeneration,
The sorrows we suffered and never were free.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Weary inside, now our heart’s lost forever,
Can’t replace the fear, or the thrill of the chase,
Each ritual showed up the door for our wanderings,
Open then shut, then slammed in our face.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?


This video combines the 1980 studio version of this song with images from a live performance at the BBC Something Else Show in September 1979


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

 

 

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Linee di fuga. Le ferite del sé e il cambiar pelle necessario https://www.carmillaonline.com/2018/01/21/linee-fuga-le-ferite-del-cambiar-pelle-necessario/ Sat, 20 Jan 2018 23:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42513 di Gioacchino Toni

Nel suo recente libro Sociologia del rischio (2017), come abbiamo visto [su Carmilla], David Le Breton, docente di Sociologia e Antropologia presso l’Università di Strasburgo, si è concentrato sul ruolo del rischio e della paura nella vita degli individui in una contemporaneità caratterizzata dall’insicurezza sociale. Secondo lo studioso sarebbe la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio, soprattutto giovanili, che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. Sarebbe proprio la sensazione d’impotenza provata di fronte a un ambiente circostante vissuto come immodificabile [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel suo recente libro Sociologia del rischio (2017), come abbiamo visto [su Carmilla], David Le Breton, docente di Sociologia e Antropologia presso l’Università di Strasburgo, si è concentrato sul ruolo del rischio e della paura nella vita degli individui in una contemporaneità caratterizzata dall’insicurezza sociale. Secondo lo studioso sarebbe la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio, soprattutto giovanili, che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. Sarebbe proprio la sensazione d’impotenza provata di fronte a un ambiente circostante vissuto come immodificabile a determinare il ricorso a pratiche pericolose per l’incolumità personale.

Se ad essere indagato dal recente volume è il rischio deliberatamente scelto come via di fuga da un contesto vissuto dall’individuo come ostile, è però da tempo che lo studioso analizza le modalità con cui gli esseri umani tentano di rispondere al malessere che li affligge. Incisioni, scorticature, scarificazioni, bruciature, escoriazioni, lacerazioni…, le lesioni corporali autoinflitte da uomini e, soprattutto, donne sono al centro di La Peau et la Trace. Sur les blessures de soi, saggio uscito in Francia nel 2003, poi tradotto e pubblicato in italiano nel 2005 da Meltemi, dunque riproposto dal medesimo editore nel 2016. La pelle e la traccia. Le ferite del sé rappresenta un importante studio condotto da David Le Breton sulle lesioni corporali autoinflitte deliberatamente dagli individui, principalmente in età adolescenziale, nel contesto della società contemporanea occidentale.

Secondo lo studioso l’epidermide è diventata la superficie d’iscrizione del malessere di tanti individui che modificano il proprio corpo spesso perché non riescono ad incidere sull’ambiente circostante. Tali ferite corporali non sarebbero un indice di follia, ma una forma di lotta, per quanto particolare, contro il male di vivere contemporaneo. L’alterazione del corpo sembrerebbe rispondere a un bisogno di ridefinizione di sé in una situazione dolorosa: un tentativo di andare oltre il socialmente consentito per provare qualcosa di forte nel corso di una vita normale percepita come inadeguata e insufficiente.

Aggredendosi e/o facendosi sanguinare, l’individuo infrange la sacralità sociale del corpo dando vita a un gioco simbolico con la morte e, come accade per i comportamenti a rischio, pur su un altro piano, le ferite inflitte al corpo si rivelano un mezzo estremo di lotta contro la sofferenza, oltre che di ri-costruzione identitaria. Ne La pelle e la traccia Le Breton non intende analizzare pratiche derivanti da una volontà dissimulata di morire, ma al contrario da una volontà di vivere.

È ovvio che si tratta di un percorso ambivalente – la ricerca di sé conduce lungo strade tortuose. Per partorire il sé, a volte, è necessario rischiare di perdersi – non per scelta, ma per necessità interiore: la sofferenza o la mancanza di essere erodono il rapporto con l’esistenza, separandola da noi. Nei comportamenti analizzati in questo libro si gioca d’astuzia con la morte o il dolore, per riuscire a produrre un senso di cui fare uso personalmente – e ri-mettersi al mondo […] Quando l’esistenza non si presenta più sotto gli auspici del senso e del valore, l’individuo dispone ancora di un’ultima risorsa: sottrarre spazi poco frequentati al rischio di perire. Gettandosi contro il mondo, lacerandosi o bruciandosi la pelle, egli cerca in realtà una garanzia per se stesso – mette alla prova la sua esistenza, il suo valore personale. Se non ha più dinanzi a sé il percorso del senso, tracciato in modo chiaro, è necessario che si confronti col mondo mediante l’invenzione di riti intimi – quasi di contrabbando. Sacrificando una piccola parte di sé nel dolore, nel sangue, l’individuo si sforza di salvare l’essenziale; infliggendosi un dolore controllato, lotta contro una sofferenza infinitamente più intensa (pp. 9-10).

Nella sezione intitolata “L’incisione nella carne: tracce e dolori per esistere”, l’autore ragiona anche sui motivi che determinano un ricorso maggiore alle lesioni corporali autoinflitte da parte femminile e tende a ricondurre ciò a una maggiore interiorizzazione della sofferenza da parte delle donne rispetto agli uomini che invece tendono a tradurla in aggressività rivolta contro l’esterno. Se la donna assume su di sé lo sconforto, l’uomo, invece, sembrerebbe più incline a proiettarsi contro il mondo in ossequio all’obbligo di condotte “virili” a cui è stato educato. Interiorizzando la propria disperazione, la donna sarebbe indotta

a mettere in luce più spesso una fragilità che va di pari passo coi criteri di seduzione che le vengono imposti. Che si pieghi dinanzi al dolore, è nell’ordine naturale delle cose. Ma rivolgendo la sua sofferenza – cioè la sofferenza che è nella vita – contro la propria pelle, la donna rifiuta anche il modello della seduzione – un modello che la soffoca e fa del suo aspetto il principale criterio di valutazione di ciò che è, laddove l’uomo viene di preferenza giudicato in base alle azioni che compie. Per queste ragioni, la donna afferma di essere sempre “a fior di pelle”; e a volte, quando ne ha abbastanza, cancella la pelle con gesti carichi di rabbia (pp. 32-33).

Non è pertanto un caso che artiste come Gina Pane e Orlan nell’attentare al proprio corpo suscitino maggiore fastidio e resistenza sociale rispetto ad artisti uomini. «Queste artiste, del resto, si fanno interpreti di un’analisi politica del proprio corpo e dei pesanti vincoli sociali che le tengono rinchiuse nella loro condizione: possibile che una donna, di cui si dice che deve essere fragile, dolce, latrice di vita ecc., sia in grado di far scorrere il proprio stesso sangue o di “rovinare” il proprio corpo?» (p. 33).

In generale l’attentato nei confronti del proprio corpo avviene in solitudine e risponde frequentemente all’insufficienza del vivere. «Esistere non basta più: bisogna sentirsi esistere. Per porre fine allo sgretolamento di sé e all’inconsistenza dell’immagine del corpo, ci vuole un sovraccarico di sensazioni […] Quando si perde ogni contatto con l’ambiente circostante, quando ci si sente insignificanti, non c’è davvero più altra via di scelta: esisto perché mi sento, e il dolore lo attesta» (p. 57). Certo, il significato della lesione corporale è molteplice; il gesto può derivare anche da un’intenzione espiatoria o di purificazione.

Nel libro, oltre che al contesto adolescenziale, viene prestata particolare attenzione anche alle ferite corporali intenzionali praticate dagli individui durante lo stato di reclusione – “Lesioni corporali deliberatamente inflitte in situazione carceraria” – e nell’ambito artistico – “Intaccare se stessi: dalla body art alle performance”.

La sezione finale del volume – “La parte del fuoco: un’antropologia dei limiti” – è invece dedicata all’incisione come forma di lotta contro la sofferenza e, in generale, alle ferite autoinflitte all’interno di un’epoca segnata dalla negazione sociale della morte, epoca in cui il morire e la morte hanno smesso di far parte dell’ordine simbolico. «Oggi la morte è vista come un non-luogo, l’antitesi di un’esistenza divenuta positività pura, in grado di fissare, di eternare il tempo – mentre la morte è un processo insostenibile di dissipazione e decadimento» p. 154). Riconquistando il controllo sul proprio corpo attraverso azioni su di esso, l’individuo sollecita

un’istanza metafisica che possa fargli ritrovare la legittimità di esistere, ma affrontando necessariamente il rischio di perdersi: si tratta di fabbricare l’identità con il dolore o la morte, riprendendosi l’iniziativa sotto forma di una sfida o di un passaggio all’atto […] Poiché la società ha fallito nel suo compito di orientamento simbolico, il soggetto interroga un’istanza al di là di essa: il suo è un ignoto rito oracolare, un rito intimo che offre risposte radicali alle domande sul valore dell’esistenza. Ma consultare l’oracolo ha il suo prezzo. Fabbricando il sacro a uso personale, suscitando una forma di trascendenza attraverso il dolore o il rischio di morte l’individuo cerca in realtà di ridefinire se stesso. Il sacrificio di una parte di sé lo strappa al quotidiano, e in particolare alla routine della sua sofferenza; all’improvviso il soggetto è proiettato altrove, su un altro scenario esistenziale che tuttavia lui stesso ha reso possibile giocando la parte del fuoco. In questo caso il sacrificio non è uno scambio interessato con gli dei, perché ignora ciò che vuole ottenere; si impone all’individuo e al suo corpo che tenta di difendersene, ma è anche una forza che agisce – perché restaura un senso di identità ormai a pezzi. La sua espressione è un dolore liberamente accolto: è la traccia sulla pelle ma voluta, traccia che riassume in sé una sofferenza più vasta consentendo all’individuo di circoscriverla e superarla. L’incisione è insomma una risposta inconscia ma potente al senso di caos che minaccia di trascinar via ogni cosa. Attraverso la ferita, l’individuo paga in anticipo il prezzo del suo sollievo. Questa temibile formula del sacrificio ha in sé un paradosso: si origina e termina nell’individuo, destinatario ultimo della ricerca il cui fine è dare nuovo slancio all’esistenza. Ma si tratta di un processo che non è cosciente di sé […] Attentando al proprio corpo, l’individuo offre la parte per il tutto senza davvero sapere a chi si sta rivolgendo, e anzi addirittura ignorando il fine ultimo del suo gesto. Privandosi di una parte di sé, ponendo anche solo per un attimo l’accento sul dolore ma poi riprendendo in mano il controllo – e dunque cessando di essere in balia della corrente senza fine del male di vivere – chi sacrifica è in grado di ricevere in cambio il sollievo o quantomeno un momento di tregua – se non addirittura, chissà, un’epoca di totale remissione della sua disperazione (pp. 151-152).


Linee di fuga: serie completa

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Linee di fuga. Pratiche di rischio e ridefinizione dell’esistenza https://www.carmillaonline.com/2018/01/09/linee-di-fuga-pratiche-di-rischio-e-ridefinizione-dellesistenza/ Mon, 08 Jan 2018 23:02:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42340 di Gioacchino Toni

il rischio […] è il prezzo che ogni uomo paga ad ogni istante per riscattare la propria libertà […] Cercare di non correre rischi […] sgnifica condannarsi a non cambiare le cose, anche se non sono ideali (David Le Breton)

Uscito in Francia nel 2012, è da poco stato tradotto in italiano il volume Sociologia del rischio (Mimesis, 2017) di David Le Breton, opera in cui il docente di Sociologia e Antropologia presso la Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Strasburgo, oltre ad analizzare le principali tipologie di insicurezza sociale che caratterizzano l’attualità, si sofferma sul ruolo giocato [...]]]> di Gioacchino Toni

il rischio […] è il prezzo che ogni uomo paga ad ogni istante per riscattare la propria libertà […] Cercare di non correre rischi […] sgnifica condannarsi a non cambiare le cose, anche se non sono ideali (David Le Breton)

Uscito in Francia nel 2012, è da poco stato tradotto in italiano il volume Sociologia del rischio (Mimesis, 2017) di David Le Breton, opera in cui il docente di Sociologia e Antropologia presso la Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Strasburgo, oltre ad analizzare le principali tipologie di insicurezza sociale che caratterizzano l’attualità, si sofferma sul ruolo giocato dal rischio e dalla paura nella vita degli individui, soprattutto giovani, nella contemporaneità.

«Il rischio è una rappresentazione sociale, prende dunque forme mutevoli da una società e da un periodo storico all’altro, secondo le categorie sociali, e anche oltre, poiché le apprensioni delle donne differiscono da quelle degli uomini, quelle dei più giovani da quelle degli anziani, ecc.» (p. 37). Nella società contemporanea sembrano convivere una preoccupazione politica di riduzione dei rischi (incidenti, malattie e catastrofi di ogni tipo) e una ricerca individuale di sensazioni forti. Solitamente il rischio è vissuto come una minaccia all’equilibrio, un’alterità che sfugge al controllo ma, a volte, è proprio per infrangere quell’equilibrio percepito come routine, che gli individui si assumono deliberatamente dei rischi al fine di ridefinire l’esistenza.

L’ossessione per la sicurezza che permea la società contemporanea finisce spesso con il soffocare la possibilità per l’individuo di realizzazione e di esplorazione dell’ignoto. «La richiesta di sicurezza si traduce con la volontà di un controllo sempre maggiore delle tecnologie, dell’alimentazione, della salute, dell’ambiente, del trasporto, addirittura della civiltà, ecc. Il rischio ormai non è più una fatalità, ma un fatto di responsabilità e diviene una posta in gioco politica, etica, sociale, oggetto di numerose polemiche intorno alla sua identificazione e quindi ai mezzi per prevenirlo» (p. 16).

Oltre a un uso del rischio come strumento di controllo e di preservazione dell’esistente, nella società contemporanea è individuabile anche una ricerca del rischio da parte di individui che, secondo Le Breton, al contrario, intendono infrangere quello che percepiscono come mortifero stato delle cose. Il sociologo legge nei comportamenti a rischio delle giovani generazioni «un gioco simbolico o reale con la morte, una messa in gioco di se stessi, non per morire, tutt’altro, ma con la possibilità non indifferente di perdere la vita o di conoscere l’alterazione delle capacità simboliche dell’individuo […] Essi sono indice […] di una voglia di vivere insufficiente. Sono un ultimo sussulto per estirparsi da una sofferenza, mettersi al mondo, partorire se stessi nella sofferenza per accedere infine a un significato di sé e riprendere la propria vita in mano» (pp. 17-18).

A partire dalla fine degli anni Settanta si sono diffuse in Occidente pratiche sportive estreme votate a «una ricerca d’intensità d’essere» minacciata da una vita eccessivamente regolata da quel rappel à l’ordre seguito ad un decennio di diffusa pratica del desiderio. «Il gioco simbolico con la morte è quindi piuttosto motivato da un eccesso di integrazione, è una maniera radicale di fuggire la routine». Tanto tra i più giovani, quanto tra coloro che praticano sport estremi, «si tratta d’interrogare simbolicamente la morte per sapere se vivere vale la pena. Lo scontro con il mondo ha lo scopo di costruire del senso per avere finalmente al gusto di vivere o per mantenerlo» (p. 18). Siamo pertanto di fronte, sostiene Le Breton, alla volontà di abbandonare i punti di riferimento abituali per intraprendere un’esperienza sconosciuta rischiosa e, nei casi in cui il rischio venga deliberatamente cercato o accettato, questo si rivela una risorsa identitaria.

«La risposta alla relativa precarietà dell’esistenza consiste proprio in quest’attaccamento a un mondo il cui godimento è limitato. Ha valore solo quello che può andare perduto e la vita non è mai acquisita una volta per tutte come un’entità chiusa e garantita di per sé» (p. 30). Il vero pericolo nella vita, suggerisce lo studioso, deriverebbe piuttosto dal non mettersi in gioco, dall’accettare la routine senza mai tentare d’inventare né nel rapporto col mondo, né nella relazione con gli altri esseri umani. «L’individualismo contemporaneo riflette il fatto che il soggetto si definisce attraverso i propri riferimenti. Questi non è più sorretto da regole collettive esterne ma costretto a trovare in se stesso le risorse di senso per restare attore della propria esistenza […] L’individualizzazione del senso aumenta il margine di manovra dell’individuo all’interno del tessuto sociale, gli lascia la scelta delle proprie decisioni e dei propri valori […] slega in parte l’individuo dalle antiche forme di solidarietà, dai percorsi un tempo ben definiti che rafforzavano le appartenenze di classe, d’età, di genere» (pp. 32-33).

Nei contesti popolari caratterizzati da disoccupazione e precarietà economica, l’esistenza tende a tradursi in un senso di insicurezza che impedisce ai soggetti di proiettarsi positivamente nel futuro. La deregolamentazione dell’attività lavorativa «porta i dipendenti a una relazione individualizzata con il proprio lavoro, a una rivalità tra di loro, a un’incertezza sulla durata del contratto nell’impresa, a una flessibilità difficile da vivere… La scomparsa del lavoro e della società salariale quale centro di gravità dell’esistenza individuale e famigliare spezza ogni legame con uno spazio privilegiato e alimenta l’occupazione precaria. […] Il liberalismo economico frantuma le antiche forme di solidarietà e prevedibilità, instaurando una concorrenza generalizzata, porta a un contesto di divisione sociale, di dispersione del simbolico che tiene raramente in conto l’altro» (pp. 32-34).

Se liberamente scelto, il rischio può anche essere un modo per riprendere il controllo di un’esistenza in balia dell’incertezza o della monotonia; nella condotta rischiosa può essere intensificato o ritrovato il gusto di vivere. Spesso gli studi sulla società del rischio analizzano quest’ultimo solo collegandolo negativamente ai pericoli, come se si trattasse esclusivamente di una minaccia a cui si deve fuggire. Raramente viene preso in considerazione il fatto che il rischio può essere anche «un piacere che si trasforma in modo di vivere» (p. 96). Non a caso Le Breton dedica qualche passaggio al celebre romanzo di James G. Ballard, Crash (1973), tradotto cinematograficamente dall’omonimo film del 1996 di David Cronemberg, ricordando come «l’incidente, che sia spettacolare o diluito nella banalità dei giorni, come la morte sulle strade, [sia] una delle vie maestre dell’immaginario sociale contemporaneo» (p. 52).

Nel corso degli anni Ottanta si diffondono tra i rappresentanti delle classi medie e privilegiate occidentali attività fisiche e sportive votate al rischio; la sicurezza economica di cui dispongono costoro «induce, come contrappeso, alla ricerca di un’intensità dell’essere che manca loro nella vita quotidiana. Sono, inoltre, soprattutto gli uomini che si dedicano a queste pratiche volte a sviluppare la capacità di resistenza, di accettazione del dolore o della ferita, la volontà di essere all’altezza, il gusto del rischio, il controllo della paura, ecc., valori tradizionalmente associati alla “virilità” […] Giocare con il rischio è la strada maestra per rompere le routine e “ritrovare le proprie sensazioni”» (p. 97).

L’avventura rischiosa a cui ci si sottopone, sostiene Le Breton,

è una sospensione radicale dei vincoli dell’identità e delle routine della vita quotidiana e professionale […] dove l’individuo non deve più nulla agli altri nel suo avanzare […] La moltiplicazione delle attività fisiche e sportive ad alto rischio va di pari passo con una società dove, per un numero crescente dei nostri contemporanei, vivere non è più sufficiente. Bisogna provare il fatto di esistere e mettersi alla prova da soli per decidere che valore dare alla propria vita […] La nuova avventura è una forma contemporanea di spettacolo sportivo che valorizza l’individuo in un impegno fisico di lunga durata dove il rischio di morire non è trascurabile, se non addirittura al centro del progetto. Negli anni Ottanta, questa nuova avventura si è imposta come un giacimento fertile e significativo della mitologia occidentale […] Il gioco con il rischio moltiplica le sue sensazioni e il sentimento di scappare dalla sua vecchia condizione, di rimettersi pienamente al mondo. Questo mettersi in pericolo può arrivare fino all’ordalia, alla ricerca di sensazioni forti […] Il dolore che si prova è una sorta di sostegno dell’esistenza, una garanzia per vivere dopo aver sormontato un’avversità creata ex-novo (pp. 98-100).

Ed è proprio nello «scontro fisico col mondo» che l’individuo cercherebbe i propri riferimenti tentando di mantenere il controllo su un’esistenza che sembra altrimenti sfuggirgli. «I limiti prendono allora il posto dei limiti di senso che non riescono più a instaurarsi. Attraverso la frontalità della sua relazione col mondo, l’individuo moderno cerca deliberatamente degli ostacoli; mettendosi alla prova, si dà l’opportunità di trovare i riferimenti di cui ha bisogno per produrre la propria identità personale» (p. 101).

Numerose attività fisiche e sportive delle giovani generazioni sono altrettanti modi di sentirsi vivi attraverso l’impegno fisico, la stanchezza, il dolore, la sensazione del pericolo. La pelle, il sudore, le sensazioni fisiche, il dolore muscolare sono degli agganci al mondo reale che permettono di provare la propria consistenza. Anche se i punti di partenza sono di un altro ordine, le attività fisiche e sportive di certi adolescenti non sono molto distanti dai comportamenti a rischio per il gusto che li caratterizza di andare sempre più lontano, una passione dell’eccesso. Ma esse sono socialmente valorizzate, non soltanto dalle giovani generazioni che vi trovano un terreno di emulazione e di comunicazione, ma anche dall’insieme della società che vi vede un’affermazione ludica della gioventù. I valori come il coraggio, la resistenza, la vitalità, ecc., vengono celebrati e abbondantemente utilizzati nelle campagne pubblicitarie o di marketing. In una società della competizione, della performance, le giovani generazioni sono inclini a dedicarsi con foga alle attività fisiche e sportive dette “ad alto rischio” dove il gioco con il limite è un elemento fondamentale. Queste generazioni vi trovano una forma incontestabile di narcisismo, alimentando la convinzione di essere al di sopra della massa, virtuose, e di far parte degli eletti […] Il rischio è per le giovani generazioni anche una risorsa per costituirsi come soggetti. La negazione della morte, del pericolo, la preoccupazione costante per la sicurezza fanno della messa in pericolo di sé l’ultima possibilità di appropriarsi di una relazione personale con la propria esistenza in un mondo nel quale il giovane non si sente riconosciuto (pp. 101-102).

Insomma, l’espressione “comportamenti a rischio” finisce con il riunire una serie di pratiche che mettono, simbolicamente o realmente, in pericolo la vita e risultano  accomunate dall’esposizione deliberata dell’individuo al rischio di procurarsi dolore o morte, al fine di alterare il proprio futuro. «I comportamenti a rischio mettono in pericolo le potenzialità del giovane, minacciano le sue possibilità d’integrazione sociale, e spesso riescono, come nel vagabondaggio, nello “sballo” o nell’adesione a una setta, a spezzare i vincoli dell’identità in una volontà di scomparsa da se stessi […] L’agire è un tentativo psichicamente economico di sfuggire all’impotenza, alla difficoltà di pensarsi, anche se può essere carico di conseguenze» (p. 103).

Mentre nelle ragazze, solitamente, i comportamenti a rischio assumono forme discrete e silenziose (come i disturbi alimentari, le pratiche di autolesionismo e i tentativi di suicidio), nei ragazzi si traducono più facilmente in esposizioni di sé, e a volte di altri, magari sotto lo sguardo dei propri simili, in episodi di violenza, di delinquenza e di abuso di droghe. «I comportamenti a rischio riguardano giovani di tutte le fasce sociali, anche se ogni condizione sociale vi lascia il proprio segno. Un giovane di ceto popolare che non si sente bene con se stesso sarà più incline alla piccola delinquenza o alle dimostrazioni di virilità sulla strada o con le ragazze, mentre un giovane di un ceto più abbiente avrà, per esempio, più facile accesso alle droghe» (p. 104).

Secondo Le Breton è la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio giovanili che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. «I comportamenti a rischio sono riti intimi di contrabbando che mirano a fabbricare un senso per poter continuare a vivere […] Il sentimento di essere di fronte a un muro invalicabile, un presente che non finisce mai. La sofferenza traduce il sentimento di essere privi di qualunque avvenire, di non poter costruirsi come soggetto. Se non è nutrita di progetti, la temporalità dell’adolescente si schianta contro un presente eterno che rende insuperabile la situazione dolorosa. Si declina giorno per giorno. Non ha la fluidità che permette di passare ad altro» (p. 105). I comportamenti a rischio sarebbero, dunque, una ricerca, per quanto brancolante e dolorosa, di una via di fuga da un mondo ostile su cui non si riesce a intervenire.


Linee di fuga: serie completa

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